Ideologie

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di Marco Tarchi

Fonte: Diorama letterario

Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi.

Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi. Si pensava che sopravvivessero soltanto in microscopiche nicchie destinate a una lenta progressiva estinzione, dove conventicole di fanatici si intestardivano a celebrare i loro riti fuori dal tempo, a farsi coraggio a vicenda per superare il crescente isolamento, a coltivare rabbiosi e utopici sogni di rivalsa. Insomma, per le ideologie si era intonato il de profundis, in un primo momento in modo ancora circospetto, quasi sottovoce, poi con toni sempre più alti, fino a giungere – dopo la svolta avviata dal memorabile autunno 1989 – ad un coro possente alimentato dai proclami paralleli di politici ed intellettuali (specialmente da quelli che, nell’uno e nell’altro campo, più avevano creduto e fatto credere nella loro benefica insostituibilità e che adesso, con atti di pubblica contrizione più o meno sincera ed esibita, si dichiaravano pentiti e convertiti).

Nata, come tutte le mode culturali del secondo dopoguerra, negli Stati Uniti d’America con il libro del 1960 The End of Ideology, una raccolta di scritti di Daniel Bell, un sociologo che, per dare ulteriore credibilità a quanto sosteneva non esitava a definirsi «socialista in economia, liberale in politica e conservatore nella cultura», la tesi della scomparsa dei sistemi di credenze politico-sociali dall’orizzonte della contemporaneità – che lo stesso Bell avrebbe definito una dozzina di anni dopo, con innegabile acume, «postindustriale», è stata ovviamente a lungo contrastata, spesso con una malcelata irritazione, dai teorici del marxismo e delle sue varie derivazioni. Quando queste ultime hanno subìto la dura replica della storia, ha dilagato senza trovare ostacoli, banalizzandosi fino a diventare un luogo comune spacciato senza ritegno nei salotti televisivi come nelle aule o nei convegni universitari.

In questo percorso, della tesi sono andati smarriti, o sono rimasti sottotraccia, alcuni dei connotati originari fondamentali. Bell infatti aveva sostenuto che ad essere in via di esaurimento erano le vecchie “ideologie umanistiche” sviluppatesi nel corso del diciannovesimo e della prima metà del ventesimo secolo, ma che altre credenze, di raggio più limitato (parochial), ne avrebbero preso il posto. E quella sua intuizione trovava a suo avviso conferma, come sostenne nell’introduzione alla nuova edizione del 2000 della sua più nota opera, nel fiorire di conflitti ispirati a rivendicazioni di carattere etnico e/o religioso che allora si manifestavano soprattutto all’interno degli Stati dell’ex-blocco sovietico (e che, da allora in poi, si sono estesi a molte altre aree del pianeta). Una visione che aveva non poche somiglianze, se non coincidenze, con quella espressa nel troppo spesso mal (o non) letto e frainteso lavoro di Samuel Huntington su Lo scontro delle civiltà.

Se dunque non si può far carico a Bell della distorsione del suo punto di vista, o dell’attribuzione di intenzioni che il suo studio non aveva, questa colpa va attribuita a molti di coloro che sul tema da lui sollevato hanno ricamato, in buona o in mala fede, per diffondere la convinzione che ai nostri giorni i conflitti politici, sociali e culturali che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi abbiano a che fare non più con opposte visioni del mondo ma, più prosaicamente, con divergenze sul modo di risolvere razionalmente problemi di interesse pubblico o con semplici appetiti di potere di individui e/o gruppi mossi da ambizione, avidità o – perché no? – follia o altre patologie psicologiche.

Cavalcando questa lettura, gli scopi che si vogliono raggiungere sono di una duplice natura. Da un lato, si vuol far credere che, una volta lacerato il velo accecante dei “pregiudizi” ideologici, tutte le questioni rilevanti che attraversano le società odierne possano e debbano essere risolte ricorrendo ad argomenti e soluzioni “razionali”, a partire dal paradigma utilitaristico che lega la bontà di ogni azione al rapporto costi/benefici (individuali o collettivi) che la ispira. Dall’altro, si punta a fare dell’”Occidente liberale” il luogo esclusivo di elezione e applicazione di questa razionalità, e quindi a fare dei criteri di ragionamento e di comportamento a questa ispirati il modello unico ideale a cui ogni governo, ogni uomo politico, ogni intellettuale – ma, in fondo, ogni individuo – dovrebbe in qualunque frangente ispirarsi e piegarsi. Detta più sinteticamente e in altri termini, dietro questa apparente negazione del ruolo svolto dalle ideologie nella nostra epoca c’è la precisa volontà di far crescere ulteriormente giorno dopo giorno, con tutti gli strumenti del soft power, l’unica ideologia che la ruling class considera proficua ed ammissibile: l’occidentalismo.

Va detto, ad evitare fraintendimenti, che – pur poggiando su alcuni pilastri indiscutibili, che nella loro essenza derivano dalla “rivoluzione moderna” attivata dalla predicazione illuministica – questa ideologia non presenta la stessa monoliticità e fissità delle ideologie del passato recente, provviste di padri fondatori e “testi sacri”. Nelle espressioni concrete dimostra una capacità di adattamento ed evoluzione notevole, che le permette di declinarsi in forme distinte e persino in taluni casi in apparenza contrastanti, allargando la platea potenziale dei suoi destinatari. Se l’individualismo, l’universalismo, il materialismo e il cosmopolitismo sono i suoi caratteri di fondo irrinunciabili, il repertorio delle sue incarnazioni può variare lungo l’intera vasta gamma di opzioni offerta dalle varianti del liberalismo, dalle versioni più conservatrici alle più progressiste, passando per gli ibridi socialdemocratici. E soprattutto può assumere il travestimento più efficace, presentandosi come un sinonimo di democrazia e innalzando il vessillo delle libertà (formali e individuali) come paravento, pur liquidando contemporaneamente il popolo – quel demos cui la parola attribuisce il kratos – come un mito, un’entità introvabile, una mera finzione, o, peggio, un veicolo di demagogia dietro cui spunta l’ombra dell’autoritarismo. Perché non al popolo, ma all’individuo – che è l’unica entità reale riconosciuta in quest’ottica – questa ideologia attribuisce il primato.

Se si è capaci di identificarla, o meglio di smascherarla, oltrepassando la cortina fumogena delle manipolazioni dei suoi divulgatori, questa ideologia occidentalista – spesso definita, con minore precisione, pensiero unico, pensiero dominante, politicamente corretto – si mostra oggi in tutta la sua aggressività in tutti i campi della vita collettiva. Nelle versioni progressiste è alla base del forte slittamento della “sinistra” dalla difesa dei diritti sociali all’affermazione dei diritti individuali – laddove i primi erano e sono definiti da oggettive condizioni economiche condivise da cospicue frazioni della popolazione, le (un tempo) cosiddette classi subalterne, mentre i secondi si basano sulla pretesa di riconoscimento giuridico di desideri soggettivamente coltivati da minoranze (come nella maggioranza delle rivendicazioni Lgbtq+, dai matrimoni e dalle adozioni omosessuali alla possibilità arbitraria di “cambiare genere” a prescindere dalla propria configurazione cromosomica e, più in generale, biologica). Nelle versioni conservatrici determina sia la progressiva rimozione dei limiti all’espansione planetaria delle grandi concentrazioni economico-finanziarie, con tutte le connesse conseguenze sulle delocalizzazioni industriali, le strategie di dumping, la sostituzione del lavoro umano con l’impiego di macchine guidate dall’”intelligenza artificiale”, e in definitiva il trionfo della logica capitalistica e consumistica più brutale, sia l’adesione incondizionata, a volte supina ma non di rado entusiasta, al progetto di ulteriore rafforzamento dell’egemonia planetaria degli Stati Uniti d’America, che dell’ideologia occidentalista sono la culla, il fulcro e la garanzia.

È in obbedienza agli imperativi di questa ideologia che oggi assistiamo a campagne di propaganda senza precedenti – in apparenza distinte e persino remote, ma di fatto convergenti – volte a vincere ogni residua resistenza al dilagare della way of life occidentalista. Non c’è alcun bisogno di credere, come è tipico di taluni ambienti marginali ed infantilmente estremisti, ad un complotto ordito in segrete stanze per fa trionfare il Nuovo Credo dell’era globalizzata. Come in tutti i casi in cui si è assistito al dilagare di febbri ed infezioni ideologiche, è la saldatura fra presupposti empirici e suggestioni teoriche a fare da veicolo delle convinzioni indotte che via via si impongono. Quando i mezzi d’informazioni impiegano l’arma psicologica del ricatto fondato sulla commozione e sulla compassione per giustificare l’accesso indiscriminato delle masse migratorie in Europa o per fare del conflitto russo-ucraino l’emblema della lotta finale tra il Male e il Bene, oppure si sforzano di giustificare gli atti di vandalismo degli “ecologisti radicali” o degli iconoclasti attivisti della cancel culture, o le pretese di chi, in nome dell’antirazzismo o della “letta contro le discriminazioni”, mira a promuovere un razzismo di segno inverso e ad imporre un senso di colpa generalizzato a tutti coloro che hanno il “difetto” di essere nati con la pelle bianca e di sesso maschile, non ci si può stupire se i loro messaggi trovano ascolto in considerevoli settori della popolazione, specialmente fra i più giovani, che hanno ormai da tempo abbandonato la lettura e la riflessione per concedere a tv e “social” la possibilità di plasmare e deformare le loro menti.
Se questa è la situazione che ci troviamo dinanzi, è bene che quanti non intendono restare inerti a contemplarla e desiderano, invece, combatterla si rendano conto che alle suggestioni dell’ideologia non si può far fronte che con la forza di credenze alternative in grado di reggere il confronto. E che un primo passo indispensabile per ostacolare seriamente la penetrazione sempre più invadente dei dogmi occidentalisti è l’elaborazione di una visione coerente e sistematica che abbia alla sua base i principi simmetrici a quelli proclamati dagli avversari: comunitarismo e visione olistica della società, radicamento nelle identità plurali delle culture che regalano al mondo la ricchezza della sua diversità, richiamo alle tradizioni popolari, riscoperta del Sacro, giustizia sociale, accettazione dell’esistenza di un ordine naturale.

È questa la strada che abbiamo intrapreso quasi mezzo secolo fa e che abbiamo costantemente percorso malgrado gli ostacoli, le incomprensioni, i boicottaggi, le irrisioni e le diffamazioni a cui abbiamo dovuto far fronte. È il motivo per cui, fin dall’inizio, abbiamo valorizzato il contributo di riflessione che ci veniva da chi, come noi, perseguiva gli stessi obiettivi in altri paesi – Alain de Benoist in primo luogo –, senza complessi di inferiorità e senza nascondere, quando ci sembrava necessario, qualche divergenza, ma sforzandoci di promuovere un proficuo interscambio di idee. Ed è anche la ragione che ci ha portato, e ci porta, non solo a rifiutare gli inutili e controproducenti richiami a modelli del passato inadatti al confronto con la nostra epoca, ma anche i compromessi opportunistici con il pensiero dominante. Abbiamo scelto la via metapolitica, e abbandonato quella politica, perché la sapevamo più efficace e libera dalle tentazioni dell’abiura. E, ancora una volta, facciamo appello a coloro a cui giunge la nostra voce perché vogliano condividere questa nostra scelta in vista degli obiettivi comuni, scartando scorciatoie, nostalgie, ipocrisie. Solo così si potrà lanciare una sfida efficace alla sola egemonia ideologica oggi esistente, quella dell’occidentalismo liberale.

(l’editoriale di Diorama Letterario 373)

Morte di Jack Marchal

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di Alfio Krancic

Jack Marchal è morto all’età di 75 anni.

Membro del movimento Occident dal 1966, nel 1968 entra a far parte del nucleo fondatore dell’Union Defense Group (GUD) ed entra alla guida politica dell’Ordre Nouveau, per il quale dirige la stampa e plasma l’estetica.
Ha partecipato alla creazione del Fronte Nazionale nel 1972 prima di unirsi al Partito delle Forze Nuove due anni dopo. Ritornò alla FN come tanti altri della PFN, dopo il fallimento di quest’ultima nel 1984.

Fu lui a inventare il “topo nero” come emblema di un militante di destra radicale (essenzialmente “gudard”), e da esso trasse alcune avventure.
Musicista, dopo aver intrapreso alcuni esperimenti alla fine degli anni ’70, ha sostenuto l’emergere dell’”identity rock francese” negli anni ’90 (ed è stato il chitarrista del gruppo Elendil).

Fu l’animatore, insieme a Gilberto Oneto e a vari altri collaboratori, della Voce della Fogna, il mensile underground della destra radicale/antagonista negli anni ’70-’80, diretto da Marco Tarchi. Lo sostituii, per un breve periodo, non riuscendo a colmare il vuoto che aveva lasciato. Certamente non avevo la sua capacità narrativa. Ero un vignettista, uno che fotografa un momento, lui invece sapeva raccontare storie incredibile navigando magistralmente fra satira e polemica dura . Lo conobbi ad un Campo Hobbit, se non ricordo male 1979. Personaggio eclettico: disegnatore satirico padre del celebre Rat Noire, icona della destra giovanile di quegli anni, musicista, giornalista e politico. Con lui se ne va un pezzo importante della mia giovinezza e della nostra storia.

Addio Jack!

La trappola

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di Marco Tarchi

Fonte: Diorama letterario

Lo aveva detto subito dopo l’elezione: gli Stati Uniti d’America avrebbero riaffermato la guida dei loro alleati «con la potenza e con l’esempio». Il programma di Joe Biden era chiaro: chiudere la parentesi trumpiana di relativa concentrazione sullo scenario interno e riannodare le fila di quell’interventismo a vocazione egemonica che è il marchio di fabbrica degli States da un secolo a questa parte. È bastato un anno, dopo il momentaneo sbandamento sullo scenario afghano – che ormai faceva da ingombro, con le sue troppe complicazioni, alla direttrice di marcia dell’offensiva programmata –, per capire che l’inquilino della Casa Bianca, malgrado le malferme condizioni di salute su cui molto si è speculato, faceva sul serio.
Ogni occasione per lanciare sfide ai potenziali concorrenti al dominio planetario è stata colta. Come c’era da aspettarsi, il bersaglio principale dell’offensiva propagandistica è stata la temutissima Cina, accusata secondo uno spartito ormai abituale, di violazione dei diritti umani. Avendo diminuito la sua efficacia il richiamo alle vicende tibetane, non più in evidenza nelle agende dei media e delle pubbliche opinioni, è entrata in scena la persecuzione degli uiguri, a suon di rivelazioni e inchieste finite in prima pagina anche su giornali – come il quotidiano francese Libération – che avevano inaugurato le pubblicazioni all’insegna dell’elogio della Cina maoista e perseverato per decenni a prendere di mira le malefatte di quello che ancora chiamavano imperialismo americano. A latere, il dito è stato puntato anche sugli appetiti nutriti dal Dragone in merito all’isola di Taiwan, descritta come sul punto di essere fagocitata a suon di bombardamenti aerei e navali. E ovviamente ognuna di queste campagne è stata seguita e spalleggiata dalle comparse del coro occidentalista, pronti a rilanciare sul terreno delle analisi geopolitiche, economiche e persino ambientali il Leitmotiv del pericolo giallo e delle terribili insidie celate nel progetto della Via della seta. La spoliazione delle risorse di materie prime africane e latinoamericane ad opera degli emissari di Xi Jinping si è così aggiunta alla lunga lista delle malefatte del grande paese d’Oriente, già responsabile di una troppo folgorante ascesa commerciale e produttiva.
Malgrado gli sforzi profusi su questo versante da politici, “esperti” e giornalisti, l’allarme sulla minaccia cinese al “mondo libero” non ha però avuto gli effetti sperati al di fuori dei confini degli Usa. Troppo lontano, il colosso asiatico, per turbare i sonni del cittadino medio europeo. E troppo flemmatiche ed elastiche, come da lunga tradizione del paese, le repliche degli accusati per offrire pretesti ad ulteriori intemerate di Washington. Meglio, allora, andare alla ricerca di un caso più adatto ad infiammare gli spiriti degli alleati-sudditi d’Oltreoceano. La Russia faceva perfettamente alla bisogna: un leader descritto da sempre come un autocrate cinico, astuto e spietato, sospettato di avvelenare i dissidenti; un paese in crisi economica ma capace di sviluppare un apparato militare sempre più sofisticato e di riassumere un ruolo di potenza anche grazie ad una incisiva proiezione sullo scenario mediterraneo e mediorientale (caso siriano in primo luogo); una diplomazia attiva su più fronti e impegnata a tessere legami più stretti con Pechino. Ed è stato quasi automatica riportarla in primo piano nello schema di rinnovata guerra fredda che gli strateghi nordamericani hanno elaborato.
La Nato, come sempre e soprattutto come avviene dal 1989 in poi, è stata lo strumento privilegiato della manovra, con il suo costante allargamento ad Est. L’Ucraina il pretesto ideale. Non occorreva una mente fine per prevedere che la minaccia del dispiegamento dell’apparato militare occidentale sui confini russi – inevitabile conseguenza dell’inclusione di Kiev nell’alleanza atlantica – avrebbe suscitato l’immediata reazione di Mosca. E che questa sarebbe stata sfruttata, stanti i precedenti di Crimea e Donbass, per gridare alla “aggressione” preordinata dal Cremlino e istigare i sentimenti e pregiudizi antirussi diffusi sul continente europeo, specialmente sul lato orientale.
Come è noto anche a chi non ha mai messo piede in un casinò, alla roulette non conviene puntare contemporaneamente sul rosso e sul nero: la perdita è sicura. Nel gioco bellico statunitense, non è stato così. Orchestrare un’isterica campagna propagandistica sul rischio imminente (addirittura fissato in un giorno preciso: il “fatidico” 16 febbraio) di un’invasione del territorio ucraino, con il contorno di apocalittici bombardamenti, stragi di civili ed esodi di massa, avrebbe portato comunque frutti cospicui. Dando per certo (l’ha detto la Cia…) il conflitto, se l’attacco ci fosse stato, gli Usa sarebbero passati da vigili guardiani dell’ordine planetario e baluardo della democrazia contro l’espansionismo dell’orso/orco moscovita. Se non ci fosse stato, si sarebbero potuti intestare il merito di averlo preventivamente stoppato, intimidendo il nuovo Zar e suggerendogli il ritiro delle truppe dai confini ucraini grazie allo spauracchio delle “dure” sanzioni. In entrambe le ipotesi, avrebbero ulteriormente rafforzato il proprio ruolo e la propria immagine a livello planetario, dimostrandosi in grado di mettere in riga per l’ennesima volta i governi europei, costringendoli a seguire ciecamente le loro direttive. E puntando a negoziare con la Russia un congelamento delle ipotesi di adesioni di Kiev alla Nato in cambio di un rallentamento o raffreddamento degli accordi con la Cina.
La trappola, insomma, è stata ben congegnata. E, come sempre, ha messo in chiaro l’incapacità – e soprattutto la mancanza di volontà – dell’Unione europea di svincolare le proprie sorti ed i propri interessi dai desiderata del Grande Fratello d’oltreoceano. La pantomima delle “mediazioni” di Francia o Germania non nasconde questa triste realtà. Alla quale è indispensabile oppure, in un’epoca in cui altro non sembra possibile fare, quantomeno un’inflessibile resistenza interiore, continuando ad esprimere in ogni sede il rifiuto della strategia, della mentalità e della cultura occidentalista.

 

CANCEL CULTURE

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Segnalazione di Pietro Ferrari

Viviamo in un’epoca in cui trionfa la cosiddetta “cancel culture”, la cultura che ci chiede di giudicare la storia come se tutto fosse contemporaneo. Questo è divenuto un tema dominante della nostra cultura.

Ne parlano con il musicista ed autore Aurelio Porfiri, gli studiosi Marco Tarchi e Eugenio Capozzi, gli autori Pietro Ferrari, Beatrice Harrach e Vania Russo, lo psichiatra Adriano Segatori.

Il programma sarà trasmesso in live streaming su numerosi canali, tra cui il canale You Tube RITORNO A ITACA, su TWITTER e sulla fanpage in Facebook di AURELIO PORFIRI.

In particolare, ecco il Video in questione: https://www.youtube.com/watch?v=vVFRyRRpvK4&t=8s

Multirazzismo

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di Marco Tarchi 
Fonte: Diorama letterario
«Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?». Se non fosse stato citato fino all’abuso nei quasi cinquant’anni che ci separano dalla sua formulazione, l’interrogativo posto dal matematico e meteorologo Edward Lorenz si presterebbe a meraviglia per prospettare lo scenario aperto dalla morte di George Floyd. Dal movimentato arresto dell’afroamericano finito in tragedia, uno dei tanti esempi della brutalità della polizia statunitense — a sua volta riflesso di un’abitudine alla violenza che scorre nelle vene della società nordamericana ed esplode periodicamente in una sequela ininterrotta di omicidi e massacri, a volte di proporzioni clamorose —sono infatti scaturiti un gran numero di episodi che lasciano intravedere lo scoppio di un’epidemia potenzialmente non meno pericolosa di quella con cui abbiamo tuttora a che fare.
Le reazioni alla vicenda di Minneapolis, con manifestazioni spesso culminate in attacchi teppistici e sommosse, con lo sbullonamento delle statue di reali o presunti razzisti di varia epoca, da Cristoforo Colombo a Winston Churchill a… Indro Montanelli, con la propagazione al di là degli oceani della moda dell’inginocchiamento commemorativo, con i cortei moltitudinari in dispregio delle disposizioni anti-covid per rivendicare “l’onore” di delinquenti pluricondannati deceduti nel corso di azioni di polizia (come nel caso di Adama Traorè in Francia, non l’unico della serie), benché le si faccia passare nei media mainstream come un’insorgenza di spirito antidiscriminatorio ed egualitario e una rivendicazione di comportamenti civili da parte delle forze dell’ordine — obiettivi di cui pochi (e non certo noi) negherebbero la legittimità —esprimono contenuti ben più inquietanti.
In coincidenza con l’uscita su piattaforme e schermi italiani di un film di impressionante realismo qual è I miserabili del franco-maliano Ladj Ly, ambientato in una delle tante banlieues della regione parigina abitate in massiccia prevalenza da africani, sono altrettanti segni di un futuro (che si sta facendo presente) dominato dalla disgregazione delle identità nazionali che hanno forgiato l’età moderna. Sono sintomi della volontà di disconoscimento della storia comune che la formazione di quelle identità aveva tenuto a battesimo ed accompagnato nei suoi processi di sviluppo e della sua sostituzione con una memoria fittizia, disegnata ad hoc per cancellare ogni traccia di quel percorso e sovrapporle frammenti scelti, selezionati e mistificati allo scopo di costruire una giustificazione degli odierni agglomerati multi-etnici e multiculturali.
Sotto il paravento dell’aspirazione ad un mondo di eguali, traspare la realtà di città popolate da tribù, ognuna delle quali rivendica il diritto ad un’esistenza separata, ostenta i propri codici di riconoscimento per coagulare i simili e contrapporli agli altri, esige dalla popolazione autoctona dei luoghi di accoglienza l’obliterazione di qualunque simbolo che possa ricordarle l’originaria estraneità e punta all’indebolimento degli strumenti dell’autorità statale — la polizia in primo luogo, ma anche altre istituzioni amministrative, le cui sedi sono spesso oggetto di devastazioni — per garantirsi, al di fuori della legalità, spazi sempre più vasti di autogestione secondo le proprie regole. La nascita di sempre più numerose «zone di non diritto» dove la popolazione immigrata è prevalente, sparse in tutta l’Europa, era già un indicatore significativo di questa tendenza. I recenti fatti di Digione — tre giorni di scontri di estrema violenza, con uso di armi da guerra, tra bande di ceceni e di maghrebini, nati per questioni di controllo del mercato della droga ma poi estesi a faida tra gruppi etnici che non si sopportano — forniscono una prova ancor più evidente. E il fatto che la battaglia si sia conclusa con un armistizio fra le due «comunità» (che così sì sono volute definire) sancito all’interno della locale moschea ha impresso un sigillo definitivo alla extraterritorialità di questi gruppi autogestiti. Tanto più se si considera la sostanziale autoesclusione dalla vicenda delle autorità francesi, ridotte al ruolo di spettatrici del conflitto.
Quella a cui stiamo assistendo è di fatto l’espropriazione del potere dei popoli di decidere dei propri modi di vita, di ricollegarsi alla propria storia e alle tradizioni che ne sono scaturite, di vivere entro le mura psicologiche protettive di un’identità condivisa ed esclusiva. Il ricatto della compassione e della commozione verso i “derelitti”, i “dannati della terra”, la denigrazione dell’orgoglio di un’ identità a profitto di una visione che nel cosmopolitismo vede il trionfo del Bene e della Pace universale, la ideologia dell’accoglienza incondizionata, l’odio per le frontiere e l’aspirazione all’omologazione planetaria stanno partorendo, tramite l’ennesima eterogenesi dei fini, un mondo in cui gli egoismi e gli odi etnici, a lungo compressi, affiorano sempre più vigorosamente in superficie. E in cui, dietro le invocazioni alla giustizia, si fa strada il desiderio di vendetta.
Vendicare la schiavitù, il colonialismo, la subordinazione economica è la parola d’ordine che apre la strada a una catena di reazioni il cui unico veicolo è l’attivazione della guerra civile. I tumulti che hanno terrorizzato Stoccarda per un’intera notte il 21 giugno, con una simbiosi tra immigrati, militanti dell’ultrasinistra no border e delinquenti comuni, così come gli attacchi di “lupi solitari” jihadisti o suprematisti, ne sono ‘semplici abbozzi. Molti segnali lasciano presupporre che molto di più, e di peggio, seguirà. Le società multirazziali sono sempre state, in potenza, società multirazziste. Ora iniziano ad esserlo anche in atto.

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Sull’esito della tornata elettorale (di Marco Tarchi)

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di Marco Tarchi

Sull'esito della tornata elettorale

Fonte: Vanity Fair

Come commenta l’exploit del Movimento 5 Stelle (e di Lega)?

 Tutt’altro che inatteso. I sintomi della crescente disaffezione di una buona parte dell’elettorato verso l’establishmenterano evidenti da tempo. Stupisce un po’ che entrambi siano riusciti a recuperare una discreta quota (insieme, circa il 10%) di coloro che fino a un mese e mezzo fa dichiaravano di volersi astenere.

 Definirebbe tecnicamente il M5S un partito populista?

 No. Ho sempre distinto il discorso politico di Grillo – che è populista a pieni carati – e l’azione del M5S, che se ne è tendenzialmente distaccato, soprattutto dopo la morte di Gianroberto Casaleggio. Oggi nel movimento ci sono alcuni tratti della mentalità populista, ma vari altri mancano.

 Grillo ha detto che il M5S è riuscito a convogliare positivamente una rabbia repressa degli italiani che altrove (vedi Francia, Ungheria e altri) è stata raccolta dai movimenti di destra estrema. È d’accordo?

 Sì e no, perché non condivido l’etichetta di “destra estrema” attribuita al Front National, a Orbàn o alla Fpö austriaca. Sono partiti populisti. Detto questo, sì, il M5S ha intercettato in buona parte anche spinte che avrebbero potuto andare in quella direzione (cioè, da noi, alla Lega).

 Come mai il M5S ha preso comunque tanto nonostante alcuni inciampi degli ultimi mesi? Il voto nei suoi confronti è un atto di fede? Continua a leggere