L’impossibile famiglia queer

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di Marcello Veneziani

Michela Murgia aveva talento, carattere e ispida umanità. Agli antipodi dal suo modo di pensare, di vedere e di sentire, riconosco la passione civile che ci metteva nelle sue battaglie. Poi era insopportabile la sua intolleranza verso chi non la pensava come lei e che lei riduceva a fascista. Il suo ultimo libro postumo, Dare la vita (ed. Rizzoli) è un appassionato inventario della sua vita e delle sue idee. La bestia nera del suo libro è la famiglia naturale, che reputa “la cosa più fascista che esista” perché la riproduzione è “un fatto di sangue nel sangue”. In realtà la Murgia dà del fascista alla natura, al cammino dell’umanità dall’inizio a oggi e alla riproduzione di ogni specie.
Alla riproduzione secondo natura, come sempre è accaduto, lei oppone i figli per scelta reciproca, frutto di amore libero, volontà e nessun “destino genetico”.  Non si limita a rivendicare la libertà di vivere come crede, ma condanna i “genitori biologici” perché esercitano a suo dire un potere inscritto nella famiglia nucleare o tradizionale: “il potere di controllare le figlie e i figli col proprio denaro, coltivando anche inconsciamente il loro senso di dipendenza”. Quel che Murgia chiama potere, controllo e dipendenza è in realtà la legge antica e naturale della cura, della premura, dell’affetto per i propri figli, che precede ogni questione economica e ogni prevaricazione. Ed è una legge reciproca d’amore, finalizzata al bene di chi ami. Poi ci sono le eccezioni, le incomprensioni, gli abusi e le violenze; ma non possiamo condannare l’amore nella generalità delle situazioni solo perché in alcuni casi qualcuno ne abusa. Come sempre succede nell’ideologia radical si solleva l’eccezione per colpire la regola, si enfatizza il caso per criminalizzare il vivere comune e le leggi naturali e universali di sempre. E’ come se condannassimo le storie d’amore solo perché ci sono i femminicidi. Questi sono centinaia ogni anno, quelli sono migliaia, milioni negli anni.

La figura chiave per la Murgia è la Queer: “è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera e rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale”. La queerness è “una scelta radicale di transizione permanente”: oggi mi sento maschio, domani femmina, poi chissà. La realtà, la natura, il corpo si riducono a mio desiderio volubile e così i miei partner. Io sono ciò che desidero essere al momento. Pensate che si possa costruire su queste basi una società? Pensate che possa avere un futuro durevole? I desideri sono soggettivi e volubili; e come si riproduce una società del genere, se rinuncia alla biologia? La famiglia verticale, da genitori a figli non può essere sostituita dalla famiglia orizzontale dove si decide liberamente di essere madri e figli, a tempo e in geometria variabile. Si deve allora ricorrere agli uteri in affitto, alle gravidanze altrui, quelle che Murgia chiama gestazione per altre (con la e rovesciata in senso di fluidità sessuale). Ma chi fa figli in questo modo, di solito, non li desidera ma per li fa per bisogno, cioè per soldi, su commissione; dietro le unioni fondate sul desiderio ci sono maternità coatte, indesiderate, schiavizzate, di chi vende i propri figli. La Murgia riconosce che l’aborto come la gestazione per conto terzi sono “due espressioni di arbitrio assoluto sulla vita nascente”, ovvero usano il nascituro come strumento dei propri desideri. Così fallisce la famiglia elettiva fondata sul desiderio volubile.

Eppure è bella la definizione di “figli d’anima” riferita a chi è figlio/madre per scelta, senza passare dalla procreazione e senza vincoli di sangue. Ci sono sempre stati figli, padri o madri “d’anima”; si chiamavano allievi, discepoli, figliocci, adottivi o  “adelphi”. Si chiamava amicizia, affinità elettiva, rapporto tra maestro e apprendista. Bellissimi rapporti, confesso che mi mancano. Non sono rapporti sostitutivi di quello naturale tra genitori e figli ma ulteriori, integrativi, complementari. Magari a volte più pregnanti e intensi di quelli biologici. La follia è reputarli alternativi e considerare becero, primitivo, patriarcale, prevaricatore, fascista, il rapporto genitoriale e filiale secondo natura e tradizione. Abbiamo bisogno di una madre e di un padre, anche per criticarli; una famiglia ci vuole anche per andarsene via, potremmo dire parafrasando Pavese.
Al modello queer della Murgia opponiamo il modello patriarcale di una mente rivoluzionaria pensante che pure era ideologicamente contrario alla famiglia, alla sacra famiglia e alla famiglia borghese. E ben centocinquant’anni prima della Murgia.

Era un signore con la barba e la chioma bianca che fuori sognava il comunismo, le lotte operaie, la rivoluzione proletaria ma in casa era patriarca, regnante nella sua famiglia, amato e rispettato dalle figlie. Karl Marx era in tutto e per tutto “un patriarca”, come lo definì il compagno Kautskij in visita da lui, e “una figura paterna”. La famiglia ruotava intorno a lui, l’amatissima moglie, le amatissime figlie, la donna di servizio, i nipoti. Fu nonno premuroso, padre esemplare (nonostante alcuni figli illegittimi di gioventù), vedovo inconsolato, le sue figlie assecondavano i desideri del pater familias. Quando era lontano da casa, Karl sognava di avere “intorno a sé tutti i suoi cari, in particolare i nipotini”. I legami d’amore e di sangue non li rinnegava nemmeno Marx e non sostituiva i suoi affetti familiari con i “compagni” o con l’amico Engels…

(Panorama n.3)

Il pensiero di Michela Murgia, un’antropologia piegata sulla volontà soggettiva

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di Francesco Ognibene – 12/08/2023

Il pensiero di Michela Murgia, un'antropologia piegata sulla volontà soggettiva

Fonte: Avvenire

Di quali “diritti” era paladina Michela Murgia? Cosa sono le “famiglie queer”? E perché la notizia della sua morte prematura è stata celebrata dai media con l’enfasi che si dedica a un profeta inascoltato, al difensore di aspirazioni calpestate, quasi ci avesse lasciati un Gandhi scrittore?
Sia chiaro che qui non discutiamo la caratura letteraria e lo spessore intellettuale della scrittrice sarda, ma una volta ancora colpisce molto come la comunicazione sembri sganciare la persona dal personaggio, la donna e l’autrice di romanzi e saggi da ciò che ha finito per rappresentare sulla scena pubblica, specie dopo l’intervista concessa in maggio al Corriere, nella quale oltre a raccontare della sua malattia ormai giunta all’ultima tappa aveva anche parlato della sua “famiglia queer”, definizione ignota ai più ma sufficiente a crearle attorno un alone di avvocata delle cause “scomode”. Una fama che negli anni si era andata consolidando con scritti, interviste e discorsi in cui si era resa protagonista di battaglie per la schwa – la “e” capovolta che al termine di una parola indica l’indifferenza di genere –, sostenendo da tempo con la sua energia argomentativa le campagne sull’eutanasia, il diritto all’aborto e l’omogenitorialità.
Tutto questo ha fatto della Murgia l’icona di un’antropologia centrata sulla volontà personale, ispirata a una libertà di scelta insindacabile e a un’autodeterminazione assoluta, che vede nel soggetto il solo arbitro di sé stesso, senza riferimenti ad alcuna istanza oggettiva che lo precede e che condivide con tutti gli esseri umani. Su di me decido io, ognuno decida per sé. Molto in linea con l’idea oggi dominante sulla pubblica piazza, con la “ribellione” come cifra assai reclamizzata e però smentita da un effettivo allineamento al pensiero corrente. Cosa c’è in fondo di più organico alla mentalità diffusa del sentirci padroni di tutto ciò che ci riguarda, e del far pensare che ogni sistema di pensiero, ogni istituzione e legge che vi si oppone sia espressione di una cultura retrograda che crea infelicità?
Il messaggio che ora prevale nei mezzi di comunicazione è della «scrittrice dei diritti», «libera fino alla fine», «attivista a testa alta», con la sua figura eletta a simbolo della contestazione di un ordine che in realtà appare già sgretolato dal soggettivismo dominante. Un pensiero provocatorio come il suo, e ancor di più l’uso che se ne sta facendo come di una bandiera issata su campagne di opinione attorno ad aspetti nevralgici della famiglia e della vita, ci obbliga a un confronto onesto, come sarebbe piaciuto a lei. E tra i diversi punti che si rinvengono nelle sue parole dette e scritte, specie nell’ultimo periodo, forse quello che più sta incidendo sull’immaginario è proprio quello di “famiglia queer” – la prova è che ila mattina successiva alla sua morte era tra le domande più frequenti rivolte ai motori di ricerca – intesa da Michela Murgia come «una famiglia ibrida, fondata sullo ius voluntatis: perché la volontà deve contare meno del sangue?». Non più famiglia, dunque, ma contenitore a geometria variabile di affetti variamente assemblati.
Se sulla fede della scrittrice sarda nessuno può pronunciarsi, la sua visione della persona va in una direzione opposta a quella personalista e relazionale della dottrina cristiana, che non esenta la volontà da una valutazione etica. Questo sì che oggi è un pensiero “scomodo”.

La bolla

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di Andrea Zhok

Fonte: Sfero

L’argomento principale di Immanuel Kant a proposito della necessità morale di non mentire era che la menzogna non era una pratica sostenibile, mentire non era una massima universalizzabile, in quanto un mondo in cui tutti mentissero era un mondo in cui la parola, il pensiero e la legge avrebbero perduto ogni valore.
Oggi siamo piombati nel mondo prefigurato da quella riflessione kantiana.
Oggi sui grandi media, sui veicoli della visione del mondo che tutti siamo tenuti ad avere in comune, imperversano i fabifazi e le michelemurgie, le concite e i parenzi, un’intera ubertosa selva di ripetitori con variazioni-dillo-con-parole-tue di ciò che è gradito ai detentori del potere. Non bisogna pensar male e ritenere che questa sterminata accolita di ripetitori con variazioni siano volgarmente stipendiati a cottimo per ciascuna menzogna. Niente affatto. Si tratta di soggetti il cui solo talento umano consiste nell’innamorarsi perdutamente delle idee di chi può pagarle. Ma così, per caso, spontaneamente, una seconda natura.
E quanto alle libere praterie della rete, per capirne il funzionamento odierno basta dare un’occhiata ai Twitter Files che un imprevisto cambio di padrone in un social ha fatto trapelare. Catene di comando dirette che portano dalle agenzie di sicurezza americane alle operazioni di oscuramento e selezione manipolativa sui social. I grandi social sono una tonnara, dove dapprima si sono fatti entrare gratuitamente centinaia di milioni di utenti, come nel paese dei balocchi, con l’illusione di dare corpo ad una nuova forma di democrazia reale, solo per poi chiudere le reti e condurre i tonni alle scatolette di destinazione. (Con il plauso degli imbecilli terminali che “sono-privati-possono-fare-quello-che-gli pare”).
Ma a prescindere dagli intercambiabili e dimenticabili protagonisti di questa stakanovista produzione di menzogne, ciò che bisogna affrontare è il risultato sistemico, che è esattamente quello prefigurato sopra: viviamo tutti in una bolla, un mondo irreale e derealizzato, che è l’unico mondo che io e il mio vicino abbiamo davvero in comune, e che si divide tra semplicemente inaffidabile e intenzionalmente manipolato. Cosa “si” sa? Di cosa possiamo parlare in comune, su cosa possiamo accapigliarci e dibattere politicamente con gli altri cittadini, se non su questo mondo fittizio, modellato da catene di filtri a monte, che ci arriva confezionato in casa su qualche schermo?
Certo, esiste la possibilità di una lotta di minoranza che si affatica a trovare le incongruenze, a sfruttare gli occasionali errori e le imperfezioni di un sistema che, come tutti i sistemi di potere quasi onnipotenti, tende a diventare sciatto. Però la semplice verità è che questo tipo di lotta richiede energia, intelligenza, coraggio, capacità di resistere all’isolamento e alle frustrazioni, tutte qualità che sono e saranno sempre patrimonio di esigue minoranze.
Il maggior risultato di questa costruzione di un edificio costante di menzogne non è tanto la ferrea persuasione ideologica dei più, ma la caduta in discredito della realtà (di quella che viene fatta passare per tale). Tolta la minoranza dei combattenti, grosso modo la popolazione sottoposta a questa “cura Ludovico” king-size si divide in due grandi gruppi.
Da una parte ci sono i conformisti arrabbiati, i nuovi bigotti del politicamente corretto, i progressisti fobici, i benpensanti militanti che, forse perché percepiscono la fragilità del loro mondo di credenze ufficiali, vi si aggrappano in modo virulento e cercano di obliterare e screditare e azzannare chiunque vi si opponga anche marginalmente. Per rifarsi ad una vecchia categorizzazione di Umberto Eco, questi sono al tempo stesso apocalittici e integrati: sono completamente integrati nel sistema e lo sostengono con la ferocia apocalittica dei millenaristi. Sono gente che sembra aver già inserito nella propria corteccia il microchip dell’indignazione morale permanente, e che la applica rigorosamente al solo catalogo approvato dai datori di lavoro. Questi “Guardiani dell’Illusione” probabilmente avvertono ad un qualche livello che la finzione è tale, ma è proprio solo la finzione a dargli conforto, calore, intrattenimento, denaro e come per la zecca il mondo si conclude dove essa può annidarsi e succhiare sangue, così questi si attestano nella loro nicchia ecologica che gli consente di passare dalla culla alla tomba senza troppi grattacapi.
Dall’altra parte esiste una grande massa scettica, che ha capito abbastanza da non credere a ciò che passa il sistema, o a crederci con mezzo cervello, ma che non ha l’energia, o la preparazione o il coraggio per cercar di ottenere un diverso accesso alla realtà. Questi rappresentano la più grande vittoria del sistema, che facendone degli scettici disillusi senza speranza ne disinnesca ogni potenziale pericolosità. Nelle nuove generazioni questa vittoria tende ad essere totale: rinchiusi in piccoli mondi pret-a-porter, brandizzati, la parte più sveglia della gioventù riesce solo a credere fermamente che non si possa credere a niente, e in nulla (quella meno sveglia sogna unicorni fluidi ecosostenibili).
Siamo nuotando in una boccia di pesci rossi, con i vetri dipinti di colori sgargianti, in caduta libera, contando sul fatto che il pavimento non arrivi mai.
Ma la realtà non cessa di esistere per il fatto di essere rimossa. Semplicemente come sempre avvenuto nella storia, quando ci si allontana troppo e troppo a lungo da essa, farà sentire la sua voce spezzando la schiena al nostro mondo di filtri e schermi, di millenaristi a gettone, di solipsisti enervati.  Non illudiamoci però, nessuna Rivelazione, nessuna confortevole Illuminazione ci aspetta. Ci sono rare epoche in cui la verità prova a filtrare come un messaggio (la “buona novella”), ma di solito essa si fa spazio nella sua forma originaria e primitiva, come schietta catastrofe. (E peraltro anche la buona novella dovette attendere il collasso di un impero per diffondersi).

Perché il Politicamente Corretto è un “peccato mortale”

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/05/23/perche-il-politicamente-corretto-e-un-peccato-mortale/

IL “PENSIERO” DEVE ESSERE UNICO (IL LORO) FINO ALL’ASSURDO, OVVERO FINO AL PUNTO CHE DIRE LA VERITÀ È DIVENTATO UN ATTO RIVOLUZIONARIO, COME SOSTENERE CHE LE FOGLIE SONO VERDI D’ESTATE

Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (II-II, qq. 72-75) tratta delle ingiustizie che si compiono con le parole. Troppo spesso si tratta di peccati mortali che, a torto, non vengono presi particolarmente sul serio, ma possono rivelarsi molto gravi. “Ne uccide più la lingua che la spada” – afferma il detto popolare. E, si sa: vox populi, vox Dei. L’ingiuria verbale lede l’onore, la diffamazione o detrazione lede la buona fama, la mormorazione distrugge l’amicizia, e la derisione toglie il rispetto.

San Tommaso spiega che nei peccati di parola bisogna considerare soprattutto con quali disposizioni d’animo ci si esprime, ossia il fine della contumelia, che è disonorare il prossimo nella sua moralità. Se non vi è l’intenzione di disonorare la persona insultata, perché i fatti si danno per veri ed acclarati, rimane peccato l’insulto, ma non vi è contumelia.

La detrazione (q. 73, a. 1) è una maldicenza o denigrazione della fama altrui, fatta di nascosto. Essa consiste nel «mordere di nascosto la fama (ossia la “stima pubblica o notorietà”, N. Zingarelli) di una persona” come si legge nell’Ecclesiaste (X, 11): “Se il serpente morde in silenzio, non è da meno di esso chi sparla in segreto». Poi l’Angelico spiega che come ci sono due modi di danneggiare il prossimo in azioni: apertamente (p. es. la rapina o le percosse in faccia) o di nascosto (p. es. il furto o una percossa “a tradimento” ossia alle spalle); così vi sono due modi di nuocere con le parole: apertamente (la contumelia in faccia, q. 72) o di nascosto (la maldicenza o detrazione, q. 73). San Paolo: “è degno di morte [spirituale o dell’anima] non solo chi commette il peccato di [detrazione], ma anche chi approva coloro che lo commettono” (Rom., I, 32).

Dall’insegnamento di S. Tommaso si evince: 1) il dovere morale di non insultare, denigrare, calunniare o mormorare e deridere il prossimo, soprattutto se costituito in autorità. 2) di riparare il torto fatto alla sua reputazione 3) di difendere chi è denigrato, senza far finta di non vedere. Certamente davanti agli uomini è più comodo “far finta che va tuto ben”, ma davanti a Dio non ci si trova in regola, anzi si sta in peccato grave, quod est incohatio damnationis.

E’, pertanto, nostro dovere denunciare pubblicamente il politicamente corretto, innanzitutto come difesa della nostra dignità e intelligenza dalla sua volontà dolosa di costringerci ad accettare l’errore, fingendo che sia un bene comune. Scrive Mario Giordano nel suo ultimo libro, appena uscito, dal significativo titolo Tromboni (Edizioni Rizzoli): “Bisogna stare attenti alla lingua” al pari di quelli che predicano contro l’odio e insegnano a odiare. L’ipocrisia di costoro, che si annoverano in larga parte nella categoria dei cosiddetti intellettuali o giornalisti, in ultima analisi coloro che si occupano della diffusione dei messaggi su larga scala, aggrava il peccato di lingua della detrazione di coloro che la pensano diversamente, col falso doloso consapevole e remunerato. L’effetto che molti credano alle loro dicerie è conseguenza ancor peggiore, che ci fa trovare nella situazione di crisi morale, ideale, sociale in cui ci troviamo, andando sempre peggio.

“Tromboni” ricorda come odiano quelli della Commissione anti-odio, creata per fermare l’”intolleranza”, “contrastare il razzismo” e “combattere l’istigazione all’odio”. L’idea è stata partorita dal Ministro dell’Istruzione del “governo dei migliori” Patrizio Bianchi, scopiazzando dal suo illustre predecessor* [metto l’asterisco perché secondo la scrittrice Michela Murgia (da L’Espresso del giugno 2021) potrebbe essere offensivo usare la vocale maschile o femminile per indicare il titolo di una persona, che forse potrebbe non sapere se è uomo o donna] Lucia Azzolina. Nella commissione speciale entra il professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Simon Levis Sullam che, fresco di nomina, aveva diffuso sui social una foto a testa in giù dell’ultimo libro di Giorgia Meloni. Chiaro riferimento alla macelleria di Piazzale Loreto. «Quasi un invito a impiccare il testo, se non proprio l’autrice, al palo più alto dell’antifascismo militante». Ma, domanda Giordano: «si può combattere l’istigazione all’odio inneggiando a piazzale Loreto? E alludendo all’impiccagione più o meno simbolica, ma sempre a testa in giù, di un leader politico?».

L’ex Presidente della Camera Laura Boldrini, campionessa di buonismo e inginocchiatoi a senso unico, paladina di tolleranza e rispetto, ultras femminista ad oltranza, genderista e vestale di tutti i presunti diritti richiesti dai desideri di chiunque, «è finita sotto inchiesta perché avrebbe licenziato la sua colf, dopo otto anni di fedele servizio, tirando in lungo per non darle la liquidazione (3.000 euro)». Altro maestro di propaganda tollerante è Roberto Saviano, «che in diretta tv ha sentenziato candidamente: “Sì, la mia contro la Meloni è una campagna d’odio“» (M. Giordano, “Tromboni”, 2022).

Potremmo continuare all’infinito perché esempi simili ne esistono quotidianamente. Ultimi, in ordine cronologico sono coloro che hanno imbrattato le mura di un istituto tecnico di Milano con la scritta: «Tutti i fasci come Ramelli, con una chiave inglese fra i capelli». Nessun solone (o trombone) del politicamente corretto ha detto una parola. Muto Paolo Berizzi, il “Simon Wiesenthal” de La Repubblica, per la quale scrive una rubrica contro Verona e i fantasmi di un fascismo che non esiste. Muto Vauro. Muto Travaglio. Muti tutti. Perché il “pensiero” deve essere unico (il loro) fino all’assurdo, ovvero fino al punto che dire la verità è diventato un atto rivoluzionario, come sostenere che le foglie sono verdi d’estate. Noi continueremo in questa “rivoluzione Green” dell’ovvietà e dell’ordine naturale perché non vogliamo peccare di lingua contro il bene comune.

L’idiozia come reato penale

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QUINTA COLONNA

di Federico Zamboni

Fonte: Il giornale del Ribelle

L’ultima sortita è di Michela Murgia: un articolo per l’Espresso in cui, nelle parole al plurale che terminano in “i”, si sostituisce la desinenza con una pseudo vocale che va sotto il nome di schwab e che consiste in una “e” ribaltata, che si scrive così: ə. Il problema, in linea con le crociate del politically correct e delle rivendicazioni gender, starebbe nel fatto che quella “i” sarebbe prettamente maschile. Pertanto inadatta – anzi offensiva, sopraffattoria e, brrrrrr, patriarcale – quando il termine riguardi sia maschi sia femmine. Nonché, si intende, gli individui di incerta e instabile collocazione tra le due (arcaiche…) alternative. Quali appunto i cosiddetti fluid gender. O se preferite “ə cosiddettə fluid gender”.

La cosa, al pari delle innumerevoli altre sciocchezze di questi fan dell’egualitarismo fittizio, farebbe solo ridere. Se non fosse che loro insistono. E che le loro smanie si stanno diffondendo. E che c’è il fondato rischio che o prima o dopo, con la solita scusa dell’odio e della discriminazione, arrivi qualche legge che le ratifichi e le trasformi in obblighi. Con tanto di sanzioni. La replica sarebbe elementare, di per sé: a Miché, quelle “i” non sono davvero maschili. So’ neutre. Su, gentilissima lady Murgia, che se ti impegni puoi riuscire a capirlo: in italiano il neutro non è previsto esplicitamente, ma interpretarlo come tale è lasciato all’intelligenza – quando c’è – di chi legge o ascolta.

Esempiuccio: chi appartiene al personale carcerario non è che cambi sesso a seconda di come lo si definisce. Se dici “guardie” non diventano femmine all’unisono (festa grande nei bracci maschili, colmi di delinquentacci rozzi e pertanto, verosimilmente, a maggioranza etero). Se viceversa dici “secondini”, o “agenti”, non diventano, o ridiventano, tutti maschi. Ci vuole tanto, ad afferrare il concetto (con la o)? O l’idea (con la a)? Pare di sì. E una legge, forse, andrebbe fatta su questo. L’idiozia come reato penale con reclusione prolungata fino all’eventuale rinsavimento. Ma di questi tempi, ahinoi, le prigioni scoppierebbero.

La Flop Ten del 2019

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Non occorre scomodare i politici per trovare il peggio del 2019. I nuovi politici hanno distrutto tutto. Anche i proverbi. Persino “tutte le strade portano a Roma” ormai è soltanto un vecchio ricordo: se non precipiti in un viadotto, caschi in una buca della Capitale, se non cadiamo in una voragine ormai una voragine si è aperta in noi che “vediamo” la politica straparlare di ogni argomento tranne che di politica. Ormai l’abbiamo capito: in politica non ci sono traditori, ci sono solo perdenti.

Ed è così che la democrazia è più esibita che esercitata e la libertà più social che sociale. E allora ecco la Flop Ten del 2019

1. Greta Thumberg: forse non è un caso che al cinema e in libreria sia tornato Pinocchio. Greta Thumberg si aggiudica il primo posto come miglior burattino di questo anno. Vittima di un sistema di marketing comunicativo che è una associazione a delinquere di stampo immaginario. Anche un “non udente” capirebbe che i suoi discorsi sono come minimo scritti dal padre, il suo coach mentale o da un software troppo sofisticato. Greta parla parla parla, fa scendere in piazza milioni di ragazzi per protestare al venerdì, ormai gli unici ponti sicuri sono quelli delle vacanze, per poi tornare al lunedì in classe a scrivere con la penna biro di plastica, l’astuccio di plastica, lo zaino di plastica, lo smartphone di plastica. Greta invita tutti a scrivere a gesti, ad indossare un saio e a comunicare attraverso segnali di fumo. Solo allora sarà davvero il tuo “Time”.

2. Roberto Saviano. Il “Giovane Holding”, ex scrittore di successo, ex editorialista di successo, ex sceneggiatore televisivo di successo, trova spazio ormai soltanto sui social (attraverso video con i sottotitoli) o da Fabio Fazio con i suoi discorsi da Solone talmente inutili che Saviano è forse l’unico personaggio tivù a non avere avuto neanche una imitazione perché la miglior imitazione di Saviano è lui stesso.

La scorta ormai gli serve solo per fare la ruota (da pavone). Non togliamo la scorta a Saviano, ma liberiamo la scorta da Saviano. A questo punto potrebbe assumere, per i pericoli che corre (al massimo di non essere riconosciuto), anche dei figuranti o lui, sempre dalla parte dei precari, che assuma i Centurioni che fanno le foto al Colosseo. Almeno li paga e fa qualcosa di utile e magari ritrova il suo impero. Il rischio è che Saviano finisca a fare discorsi dalla finestra o nel suo attico a New York con applausi registrati di un pubblico che non c’è: così dopo aver gravato per anni e anni su noi contribuenti che paghiamo la scorta ci toccherà pagargli anche il Sistema Sanitario.

3. Chiara Ferragni. Dopo i nostri articoli di denuncia sullo sfruttamento pubblicitario del figlio Leo, è intervenuta l’Associazione Italiana Consumatori che ha denunciato la influencer. Detto, fatto. Il profilo del piccolo Leo, 2,5 milioni di follower è scomparso da Instagram e quando appare con i genitori finalmente qualche volta il viso, come vuole la legge, è pecettato.

Di destra o di sinistra, odiatori o haters, abbiamo almeno il merito di aver salvato un bambino dal pericolo di diventare uno squilibrato.

4. Michela Murgia. Ha iniziato l’anno con il suo libello Fascistometro una serie di idiozie talmente grandi che non ci entrava neanche lei. Dopo apparizioni in tivù e radio, cercando sempre lo scoop, adesso è in tour teatrale. È stato pubblicizzato su ogni giornale – nel senso di pubblicità a pagamento – ma nessuno ne ha scritto, nessuno ha fatto una foto. Non si sa nulla del suo tour teatrale. La speranza è che l’abbiano assunta per ciò che sa fare meglio: la maschera.

5. Gad Lerner. Dalle sprangate di Lotta Continua all’autolicenziamento da “la Repubblica” perché “pagato troppo poco”, da “Milano, Italia” è passato a “Lerner, Italia”. Se gli domandi dove abita risponde “Lei è un antisemita”, lo stesso se gli chiedi l’età, la squadra per cui tifa o qualsiasi argomento. Chi tocca Lerner muore di antisemitismo. Allora, caro Lerner, al posto di parlare giustamente di antisemitismo da 30 anni perché non si fa promotore di una raccolta firme per una legge che aumenti le pene per chi insulta gli ebrei? La risposta è semplice: non lo fa perché non avrebbe più nulla da dire. Quindi lei sull’antisemitismo ci campa e mi sembra che il suo campare non sia solo da “Ultima Spiaggia”

6. Zoro. Non è un caso che gli manchi una R perché tra l’interventista dei Parioli e Zorro la differenza non è poca. È il nuovo Fausto Bertinotti, ma meno simpatico e signore, che all’eleganza del cashmere è passato alle t-shirt personalizzate. Sempre con quell’altezzosità da tribuno del popolo è rinforzato da Marco Damilano, neo(n) Pancho Villa capace di passare da “Azione Cattolica” a “L’Espresso”.

Diego Bianchi “Zoro” ha sempre quell’aria di uno che si è appena svegliato (ad oggi non è scientificamente dimostrato se lo sia) e in coppia con Damilano, che si veste e parla come i Testimoni di Geova che quando eravamo piccoli ci suonavano al citofono, risulta il più spocchioso dei giornalisti. La fine del mondo non lo so, ma la sua è abbastanza facile da intuire. Diventare una macchietta alla fine stanca anche il più radical flop dei suoi telespettatori che hanno come minimo l’abbonamento alle figurine Panini e in casa ancora il Subbuteo a 50 anni.

Quando non lo vedranno neppure i parenti speriamo che si rifugi in casa, lo immaginiamo con la testa tra le mani sbattere la testa contro la scrivania di casa in ciliegio e ottone. La speranza è che comprenda che è Bianchi nel cognome come Bianchi nella vita e vada a vivere in qualche paese della Barbagia a fare il pastore o a girare l’Italia in ape-car per vendere le sue diapositive di porta in porta.

7. Ilaria Cucchi. Avrà anche ragione: sarà anche un delitto di Stato, ma quest’anno tra lei e suo marito in un anno l’ho vista più di mia sorella. Per pubblicizzare il suo libro sul “caso Cucchi” non ha mancato una trasmissione televisiva.

Una domenica l’ho vista dall’Annunziata (che meriterebbe la classifica dei “Flop Ten” ma il cognome la inserisce di diritto), poi a “Domenica In” e la sera nell’”Arena” insabbiata di giustizialismo di Giletti. E per fortuna, in questo caso, la domenica non ascolto la radio.

8. Liliana Segre. Ha tutte le ragioni del mondo ma la stanno trasformando in una circense. Non c’è trasmissione che non l’abbia invitata almeno 20 volte, non c’è città o paesino o borgo che non le abbia dato la cittadinanza onoraria, non c’è politico che non abbia una foto con lei.

Al posto di perdere tempo ad andare da Mara Venier con zoom fisso sugli occhi per aspettare una lacrima (della Venier), a girare di tv in tv, di borgo in borgo, di piazza in piazza, di giornale in giornale, non potrebbe andare nelle scuole tedesche a ricordare ai bambini, alle banche, alle grandi industrie, alla Merkek che forse non è il caso di sentirsi i padroni del mondo? Con la finanza stanno facendo più morti che qualsiasi olocausto.

9. Fabio Fazio. Lo so, lo so, lo so. È un caso clinico, eppure, in attesa di vederlo il prossimo anno su rai4 e rai5 e di farsi creare apposta Rai6 solo una domanda che da anni mi tormenta. Non la sua faziosità, ormai anche il mio cane si addormenta, ma un solo interrogativo mi assilla: perché noi, che ci trattengono il canone Rai direttamente dalla bolletta della luce, dobbiamo continuare a pagare Filippa Lagerback che da un ventennio dice solo quattro parole” “Oggi è qui con noi…” e poi il nome dell’ospite. Caro Fazio, non può far fare l’introduzione a qualche tecnico così risparmiamo?

E poi, caro Fazio, ma le decine di interviste che ha fatto sulle quote rosa, le decine di monologhi della Littizzetto sul ruolo marginale delle donne che fine fanno? Parlava più il pappagallo di “Portobello”. Eppure Filippa Lagerback (cognomen omen) ha dichiarato a “Tv Sorrisi e Canzoni” che “Il mio ruolo è piccolo, lo so, ma sono stata io la prima ad accettarlo e sono libera di avere il mio stile, i miei abiti dicono molto, si parla persino in silenzio”. Tutto chiaro? In sintesi, la paghiamo per indossare vestiti e accessori degli stilisti.

10. Noi. Noi siamo il peggio. Siamo i peggiori. Noi che crediamo ancora in una idea e non in una ideologia. Per noi che “stare vent’anni dalla parte del torto” non è uno slogan ma un modo di vivere, noi che veniamo sempre attaccati perché siamo cattivi.

Chi ce lo fa fare svegliarci tutte le mattine e denunciare quello che non funziona? Non abbiamo sempre ragione, spesso possiamo avere torto, spesso gridiamo, ma non c’è più violenza nelle parole silenziate delicate e sinistrate di chi è convinto di vivere in un nuovo fascismo? Certo, è vero. Ma non è razzismo. È il fascismo del consumismo. Perché siamo tutti uguali. Che siamo bianchi, neri, gialli, rossi, verdi o verdoni alla fine ognuno ha il suo telefonino ultimo modello, parabole sui tetti e televisori sempre più grandi così che al sangue nelle vene hanno sostituito il plasma alle pareti.

Da https://www.nicolaporro.it/la-flop-ten-del-2019/

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Scritto e segnalato da Antonio Amorosi

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