ISRAELE COMMETTEREBBE UN ERRORE GEOSTRATEGICO IRREVERSIBILE ARMANDO KIEV
L’ex presidente russo e attuale vicepresidente del Consiglio di Sicurezza Dmitry Medvedev ha appena messo in guardia Israele dall’inviare armi a Kiev, dopo che il ministro degli Affari della Diaspora dello Stato ebraico, Nachman Shai, ha chiesto al suo Paese di attraversare finalmente il Rubicone in risposta alla notizia del Washington Post (WaPo) secondo cui l’Iran si starebbe preparando a fornire a Mosca missili balistici. Egli ha affermato che una tale mossa “distruggerebbe tutte le relazioni interstatali tra le nostre nazioni”, il che è certamente vero e sarebbe quindi un errore geostrategico irreversibile che Tel Aviv non può permettersi.
Solo alla fine del mese scorso Zelensky ha finto di scandalizzarsi per il rifiuto di Israele di inviare i suoi sistemi di difesa aerea, i cui calcoli ho spiegato a lungo qui. Quel pezzo cita anche alcuni miei precedenti lavori dell’inizio di quest’anno sugli intrecci delle relazioni russo-israeliane, che i lettori potrebbero apprezzare per una conoscenza di base fondamentale. In breve, Tel Aviv si è saggiamente resa conto che il superamento della linea rossa di Mosca nella guerra per procura della NATO guidata dagli Stati Uniti contro la potenza mondiale appena restaurata attraverso l’Ucraina potrebbe indurre il Cremlino a dare carta bianca all’Iran in Siria per attaccare Israele per procura.
Fino a questo momento, la Russia ha contenuto l’Iran con mezzi indiretti, influenzando il suo alleato siriano a scoraggiare tali attacchi e “facilitando passivamente” le centinaia di attacchi di Israele contro l’IRGC e Hezbollah ogni volta che questi hanno iniziato a immagazzinare armi nella Repubblica araba proprio per questo scenario (indipendentemente dal fatto che ciò fosse tacitamente approvato da Damasco). In precedenza, gli Stati Uniti hanno cercato di provocare una spaccatura russo-israeliana sulle attività controverse dell’Agenzia ebraica in quella Grande Potenza eurasiatica, le cui conseguenze ho spiegato qui nel caso in cui fossero riuscite.
Questa intuizione rimane rilevante alla luce delle ultime tensioni nelle loro relazioni, legate all’appello del ministro Shai al suo Paese di armare Kiev in risposta all’ultimo rapporto del WaPo. Il possibile invio di missili balistici iraniani nella zona di conflitto potrebbe in realtà essere solo un finto pretesto infowar per qualcosa che il governo di coalizione, sempre più impopolare, potrebbe aver pianificato di fare già da un po’ di tempo, in concomitanza con le tese elezioni legislative del 1° novembre, che potrebbero riportare Benjamin (“Bibi”) Netanyahu al potere in caso di sconfitta, come alcuni iniziano a prevedere.
Questo scenario di “sorpresa d’ottobre” potrebbe comportare un’escalation manipolata delle ostilità per procura israelo-iraniane in Siria, allo scopo di presentare i candidati in carica come “forti in materia di sicurezza nazionale”, la cui percezione, artificialmente costruita, avrebbe lo scopo di “allontanare” da Bibi una parte della sua base, al fine di garantire che la coalizione mantenga il potere. Questa sequenza di eventi potrebbe essere avviata dall’invio di armi a Kiev da parte di Israele, che potrebbe spingere la Russia a lasciare che l’Iran faccia quello che vuole contro Israele attraverso la Siria, creando così il pretesto per una grande campagna di bombardamenti israeliani in quel Paese.
Questo sarebbe estremamente pericoloso di per sé per la stabilità regionale, soprattutto perché l’Iran potrebbe prevedibilmente chiedere ai suoi alleati della Resistenza in Libano di unirsi direttamente alla mischia, portando così a un conflitto molto più ampio. La prerogativa di decidere se questo accadrà o meno è solo di Israele, che potrebbe aver calcolato erroneamente di poter contenere l’escalation che le autorità della sua coalizione potrebbero benissimo mettere in moto nel prossimo futuro per motivi di interesse politico interno a scapito degli interessi di sicurezza nazionale del Paese.
Per quanto riguarda questi ultimi, essi riguardano semplicemente il mantenimento della cosiddetta “pace fredda” tra Israele e l’Iran (compresi gli alleati della resistenza locale della Repubblica islamica come Hezbollah) il più a lungo possibile, fino a quando Tel Aviv non riuscirà a riconquistare il vantaggio militare sempre più perso nei confronti del suo rivale. Questa osservazione si basa sull’ultimo accordo appena concluso da Israele con il Libano sul territorio marittimo conteso, che testimonia il desiderio di Tel Aviv di preservare lo status quo, almeno per ora. Detto questo, è immaginabile che i cosiddetti “integralisti” possano avanzare le loro argomentazioni sul perché Israele dovrebbe “scuotere” la regione.
La rottura degli Stati Uniti con i leader sauditi ed emiratini del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) in merito agli ultimi tagli alla produzione dell’OPEC+, che hanno concordato di coordinare con la Russia, insieme ai sospetti sulle intenzioni strategico-militari a lungo termine dell’amministrazione Biden rispetto al suo continuo desiderio di negoziare un nuovo accordo nucleare con l’Iran, potrebbe creare la percezione convincente che la “finestra di opportunità” di Israele per riguadagnare il suo vantaggio sulla Repubblica Islamica si stia rapidamente esaurendo. Questa mentalità potrebbe portare alcuni dei suoi decisori a flirtare disperatamente con scenari molto pericolosi.
Obiettivamente, sarebbe un errore geostrategico irreversibile per Israele mettere in moto lo scenario analizzato in cui si creano le condizioni per creare il falso pretesto su cui giustificare un’escalation della sua guerra per procura con l’Iran in Siria. Non c’è alcuna garanzia che le dinamiche risultanti possano essere controllate, e la loro prevedibile spirale fuori controllo potrebbe persino portare gli Stati Uniti ad appendere Israele al chiodo a causa dei calcoli politici interni dei Democratici al governo in vista delle elezioni di metà novembre, temendo giustamente che un’altra guerra straniera possa mettere l’opinione pubblica ulteriormente contro di loro.
Per il momento, nonostante le immense pressioni occidentali e i pericolosi calcoli politici interni di alcuni membri della coalizione al governo, gli interessi di sicurezza nazionale di Israele sono indiscutibilmente meglio serviti dal mantenimento dello status quo strategico-militare regionale nei confronti dell’Iran per un futuro indefinito. Interrompere unilateralmente questo status a causa delle pressioni statunitensi e di considerazioni elettorali a breve termine sarebbe un errore geostrategico irreversibile che, nel peggiore dei casi, potrebbe persino mettere a repentaglio l’esistenza dello Stato ebraico, motivo per cui deve essere evitato ad ogni costo.
Pubblicato in partnership su One World
Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini
La sottile linea rossa: dopo Kabul la NATO non può permettersi di perdere anche Kiev
di Pepe Escobar
Fonte: Come Don Chisciotte
Cominciamo con il Pipelineistan. Quasi sette anni fa, avevo mostrato come la Siria fosse l’ultima guerra del Pipelineistan.
Damasco aveva rifiutato il progetto – americano – di un gasdotto Qatar-Turchia, a vantaggio di Iran-Iraq-Siria (per il quale era stato firmato un memorandum d’intesa).
Ne era seguita una feroce e concertata campagna “Assad deve andarsene”: la guerra per procura come strada per il cambio di regime. La situazione era peggiorata esponenzialmente con la strumentalizzazione dell’ISIS – un altro capitolo della guerra del terrore (corsivo mio). La Russia aveva bloccato l’ISIS, impedendo così un cambio di regime a Damasco. Il gasdotto favorito dall’Impero del Caos aveva morso la polvere.
Ora l’Impero si è finalmente vendicato, facendo esplodere i gasdotti esistenti – Nord Stream (NS) e Nord Steam 2 (NS2) – che trasportavano o stavano per trasportare il gas russo ad un importante concorrente economico dell’Impero: l’UE.
Ormai sappiamo tutti che la condotta B di NS2 non è stata bombardata, né perforata, ed è pronta a partire. Riparare le altre tre linee danneggiate non sarebbe un problema: una questione di due mesi, secondo gli ingegneri navali. L’acciaio dei Nord Stream è più spesso di quello delle navi moderne. Gazprom si è offerta di ripararle, a patto che gli Europei si comportino da adulti e accettino severe condizioni di sicurezza.
Sappiamo tutti che questo non accadrà. Nulla di tutto ciò viene discusso dai media della NATO. Ciò significa che il Piano A dei soliti sospetti rimane in vigore: creare una voluta carenza di gas naturale che porti alla deindustrializzazione dell’Europa, il tutto come parte del Grande Reset, ribattezzato “La Grande Narrazione.”
Nel frattempo, il Muppet Show dell’UE sta discutendo il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia. La Svezia si rifiuta di condividere con la Russia i risultati della losca “indagine” intra-NATO su chi ha fatto esplodere i Nord Stream.
Alla Settimana dell’energia russa, il Presidente Putin ha riassunto i fatti.
L’Europa incolpa la Russia per l’affidabilità delle sue forniture energetiche, anche se riceveva l’intero volume acquistato in base a contratti fissi.
Gli “orchestratori degli attacchi terroristici del Nord Stream sono coloro che ne traggono profitto.”
La riparazione delle condotte del Nord Stream “avrebbe senso solo nel caso in cui ne fossero garantiti il funzionamento e la sicurezza.”
L’acquisto di gas sul mercato spot causerà una perdita di 300 miliardi di euro per l’Europa.
L’aumento dei prezzi dell’energia non è dovuto all’Operazione Militare Speciale (OMS), ma alle politiche dell’Occidente.
Tuttavia, lo spettacolo dei Dead Can Dance deve continuare. Mentre l’UE si vieta da sola di acquistare energia dalla Russia, l’eurocrazia di Bruxelles aumenta il suo debito con il casinò finanziario. I padroni imperiali ridono a crepapelle per questa forma di collettivismo, mentre continuano a trarre profitto utilizzando i mercati finanziari per saccheggiare e depredare intere nazioni.
Il che ci porta al punto cruciale: gli psicopatici straussiani/neo-conservatori che controllano la politica estera di Washington potrebbero – e la parola chiave è “potrebbero” – smettere di armare Kiev e avviare negoziati con Mosca solo dopo che i loro principali concorrenti industriali in Europa saranno falliti.
Ma anche questo non sarebbe sufficiente, perché uno dei principali mandati “invisibili” della NATO è quello di capitalizzare, con qualsiasi mezzo, le risorse alimentari della steppa pontico-caspica: stiamo parlando di 1 milione di km2 di produzione alimentare, dalla Bulgaria fino alla Russia.
Judo a Kharkov
La SMO si è rapidamente trasformata in una CTO (Counter-Terrorist Operation) “soft”, anche senza un annuncio ufficiale. L’approccio senza fronzoli del nuovo comandante generale con piena carta bianca dal Cremlino, il generale Surovikin, alias “Armageddon,” parla da sé.
Non c’è assolutamente nulla che indichi una sconfitta russa lungo gli oltre 1.000 km del fronte. La ritirata da Kharkov potrebbe essere stata un colpo da maestro: la prima fase di una mossa di judo che, ammantata di legalità, si è sviluppata in pieno dopo il bombardamento terroristico di Krymskiy Most – il ponte di Crimea.
Guardiamo alla ritirata da Kharkov come ad una trappola – come ad una finta dimostrazione di “debolezza” da parte di Mosca. Questo ha portato le forze di Kiev – in realtà i loro referenti della NATO – a gongolare per la “fuga” della Russia, ad abbandonare ogni cautela e a darsi da fare, avviando persino una spirale di terrore, dall’assassinio di Darya Dugina al tentativo di distruzione del Krymskiy Most.
In termini di opinione pubblica del Sud globale, è già stato stabilito che il Daily Morning Missile Show del generale Armageddon è una risposta legale (corsivo mio) ad uno Stato terrorista. Putin potrebbe aver sacrificato (solo per un po’) un pezzo della scacchiera – Kharkov: dopo tutto, il mandato dell’OMU non è quello di non perdere terreno, ma di smilitarizzare l’Ucraina.
Mosca ha persino vinto dopo Kharkov: tutto l’equipaggiamento militare ucraino accumulato nell’area è stato lanciato in continue offensive, con l’unico risultato di impegnare l’esercito russo in un tiro al bersaglio senza sosta.
E poi c’è il vero colpo di scena: Kharkov ha messo in moto una serie di mosse che hanno permesso a Putin di dare scacco matto, attraverso una CTO “soft”, ma pesante di missili, riducendo l’Occidente collettivo ad un branco di polli senza testa.
Parallelamente, i soliti sospetti continuano a girare senza sosta la loro nuova “narrativa” nucleare. Il Ministro degli Esteri Lavrov è stato costretto a ripetere ad nauseam che, secondo la dottrina nucleare russa, un attacco nucleare può avvenire solo in risposta ad un’offensiva “che metta in pericolo l’intera esistenza della Federazione Russa.”
L’obiettivo degli psicopatici assassini di Washington – nei loro sogni erotici – è quello di indurre Mosca ad usare le armi nucleari tattiche sul campo di battaglia. Questo è stato un altro fattore che aveva spinto ad affrettare i tempi dell’attacco terroristico al ponte di Crimea, dopo che i piani dell’intelligence britannica erano stati elaborati da mesi. Tutto ciò si è risolto in un nulla di fatto.
La macchina isterica della propaganda straussiana/neoconservatrice sta freneticamente, preventivamente, attaccando Putin: è “messo all’angolo,” sta “perdendo,” sta “diventando disperato” e quindi lancerà un’offensiva nucleare.
Non c’è da stupirsi che l’orologio del giorno del giudizio, creato dal Bulletin of the Atomic Scientists nel 1947, sia ora posizionato a soli 100 secondi dalla mezzanotte. Proprio “alle porte dell’Apocalisse.”
Ecco dove ci sta portando un gruppo di psicopatici americani.
La vita alle porte dell’Apocalisse
Mentre l’Impero del Caos, della Menzogna e del Saccheggio è pietrificato dal sorprendente doppio fallimento di un massiccio attacco economico/militare, Mosca si sta sistematicamente preparando per la prossima offensiva militare. Allo stato attuale, è chiaro che l’asse anglo-americano non negozierà. Non ci ha mai provato negli ultimi 8 anni e non ha intenzione di cambiare rotta adesso, nemmeno incitato da un coro angelico che va da Elon Musk a Papa Francesco.
Invece di fare come Tamerlano e accumulare una piramide di teschi ucraini, Putin ha invocato eoni di pazienza taoista per evitare soluzioni militari. Il Terrore sul ponte di Crimea potrebbe aver cambiato le carte in tavola. Ma i guanti di velluto non sono stati tolti del tutto: La routine aerea quotidiana del generale Armageddon può ancora essere vista come un avvertimento – relativamente educato. Anche nel suo ultimo, storico discorso, che conteneva un duro atto d’accusa contro l’Occidente, Putin ha chiarito di essere sempre aperto ai negoziati.
Tuttavia, Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno bene perché gli Americani non possono negoziare. L’Ucraina sarà anche solo una pedina del loro gioco, ma è pur sempre uno dei nodi geopolitici chiave dell’Eurasia: chi la controlla, gode di una maggiore profondità strategica.
I Russi sanno bene che i soliti sospetti sono ossessionati dall’idea di mandare all’aria il complesso processo di integrazione dell’Eurasia, a partire dalla BRI cinese. Non c’è da stupirsi che importanti istanze di potere a Pechino siano “a disagio” con la guerra. Perché questo è molto negativo per gli affari tra la Cina e l’Europa attraverso diversi corridoi trans-eurasiatici.
Putin e il Consiglio di Sicurezza russo sanno anche che la NATO ha abbandonato l’Afghanistan – un fallimento assolutamente miserabile – per puntare tutto sull’Ucraina. Quindi, perdere sia Kabul che Kiev sarebbe il colpo mortale definitivo: ciò significherebbe lasciare il XXI secolo eurasiatico tutto a favore del partenariato strategico Russia-Cina-Iran.
I sabotaggi – dai Nord Streams al Krymskiy Most – fanno capire il gioco della disperazione. Gli arsenali della NATO sono praticamente vuoti. Ciò che resta è una guerra del terrore: la sirianizzazione, anzi l’ISIS-izzazione del campo di battaglia. Gestita da una NATO cerebralmente morta, combattuta sul terreno da un’orda di carne da cannone con in più mercenari provenienti da almeno 34 nazioni.
Mosca potrebbe quindi essere costretta ad andare fino in fondo – come ha rivelato il sempre freddo Dmitry Medvedev: ora si tratta di eliminare un regime terroristico, smantellare totalmente il suo apparato politico-sicurezza e poi facilitare l’emergere di un’entità diversa. E se la NATO continuerà a bloccarla, lo scontro diretto sarà inevitabile.
La sottile linea rossa della NATO è che non può permettersi di perdere sia Kabul che Kiev. Eppure ci sono voluti due attentati terroristici – in Pipelineistan e in Crimea – per imprimere una linea rossa molto più netta e bruciante: la Russia non permetterà all’Impero di controllare l’Ucraina, costi quel che costi. Questo è intrinsecamente legato al futuro del Partenariato della Grande Eurasia. Benvenuti nella vita alle porte dell’Apocalisse.
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: https://strategic-culture.org/news/2022/10/12/the-thin-red-line-nato-cant-afford-to-lose-kabul-and-kiev/
Scelto e tradotto da Markus per www.comedonchisciotte.org
Russia e Occidente al bivio, tra virtù e decadenza
QUINTA COLONNA
L’EDITORIALE
di Matteo Castagna per Informazione Cattolica del 3/10/2022
RUSSIA E OCCIDENTE: SI STANNO SCONTRANDO SUL PIANO NATURALE E SOPRANNATURALE DUE MONDI E CONCEZIONI DELLA VITA E DELLA CIVILTÀ PROFONDAMENTE DIVERSI. ENTRAMBE HANNO PERÒ IN COMUNE IL DESIDERIO SMODATO DI POTERE E DI DENARO…
“Non vediamo al momento nessuna minaccia imminente sull’uso di armi nucleari da parte di Mosca ma continuiamo a monitorare la situazione in modo molto serio“. Sono le parole di Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale americana, nel corso di una conferenza stampa tenutasi il 30 settembre alla Casa Bianca. Intanto, Mosca ha posto il veto alla risoluzione “ostile” al consiglio di sicurezza dell’ONU.
La Cina, il Gabon, il Brasile e l’India si sono astenuti nella votazione per il riconoscimento di Donetsk, Luhansk, Kerson, Zaporizhzhia che, tramite referendum popolare, hanno deciso di tornare Russia ed abbandonare l’Ucraina. Dieci i voti a favore del rifiuto. Allo stesso tempo, USA e NATO frenano sull’ingresso immediato di Kiev nell’Alleanza atlantica, proseguendo con una politica cerchiobottista. Medvedev: “Zelensky vuole entrare rapidamente a far parte della Nato”.
Grande idea. Sta solo chiedendo all’Alleanza di accelerare l’inizio di una terza guerra mondiale”. Infine, il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin festeggia nella Piazza Rossa, assieme ai leader delle quattro regioni annesse, parlando di “giornata storica”. La risposta della Russia al tentativo USA di utilizzare l’Ucraina come base per laboratori biochimici e per piazzare lanciarazzi a 700 km dal Cremlino, avanzando verso est, è stata scongiurata da Mosca, che si riprende i territori, storicamente suoi.
Al di là delle parole di circostanza e degli allarmismi della propaganda, Putin pare aver già vinto la prima battaglia, respingendo il nemico e annettendo i territori occupati dall’Ucraina. Ora, la posta in gioco è tutta economica ed energetica. Laddove non arriverà la politica, arriverà la guerra. Sul piano naturale e soprannaturale si stanno scontrando due mondi, due concezioni della vita e della civiltà profondamente diversi, che hanno, però, in comune il desiderio di potere e di denaro. Se l’Occidente liberale, decadente e secolarizzato, ha ucciso Dio per abbracciare il materialismo più abietto, la Russia autarchica, sacrale e identitaria, ha mantenuto vivi i principi tradizionali dell’Oriente ortodosso, che, sul piano morale, erano identici a quelli della Civitas Christiana europea, erede della grande civiltà greco-romana. L’impressione, però, che la venialità riferita alla ricchezza ed al primato economico aleggi abbastanza concretamente anche nella steppa ex sovietica, si osserva nell’atteggiamento verso le risorse di cui, forse, la Federazione Russa vorrebbe ottenere, in qualunque modo, il monopolio.
Ma una società non sarà mai multipolare se qualcuno pretende esclusive sul mondo. Vale per gli americani, ma anche per Putin. La prudenza del colosso cinese e dei Paesi emergenti (BRICS) può essere letta anche in quest’ottica, perché essi hanno ingenti affari sia con l’Occidente liberale che con l’Eurasia, e probabilmente, intendono avere garanzie chiare e nette nel mantenimento dell’indipendenza economica concorrenziale.
In realtà, l’aderenza intima, libera e affettiva, di tutta una vita alle norme tradizionali, faceva sì che essa acquistasse un significato superiore: attraverso l’obbedienza e la fedeltà, attraverso l’azione conforme ai principi e ai suoi limiti, una forza invisibile le dava forma e la disponeva sulla stessa direzione di quell’asse soprannaturale, che negli altri – nei pochi al vertice – viveva allo stato di verità, di realizzazione, di luce.
Così si formava un organismo stabile ed animato, costantemente orientato verso il sopramondo, santificato in potenza e in atto secondo i suoi gradi gerarchici, in tutti i domini del pensare, del sentire, dell’agire, del lottare. In tale clima viveva il mondo della Tradizione, prima di essere travolta dalla Sovversione liberale e comunista. “Questi popoli [europei] pensavano santamente, agivano santamente, amavano santamente, odiavano santamente, si uccidevano santamente – essi avevano scolpito un tempio unico in una foresta di templi, attraverso cui il torrente delle acque scrosciava, e questo tempio era il letto del fiume, la verità tradizionale, la sillaba nel cuore del mondo“. Così si esprimeva sulla nostra civiltà classico-cristiana Guido De Giorgio (1890-1957) nel saggio Ritorno allo spirito tradizionale, pubblicato sulla rivista La Torre (n. 2/1930).
Il filosofo Julius Evola (1898-1974), a tal proposito, scrisse citando il conte Arthur De Gobineau (1816-1882) che l’Europa feudale mostrava l’assenza di una organizzazione unica, un deciso pluralismo, nessuna economia o legislazione unitaria, condizioni di sempre risorgenti antagonismi – eppure una unità spirituale, la vita di un’unica tradizione costituivano la causa prima della sua longevità. Evola, nel suo Rivolta contro il mondo moderno scriveva, già nel 1934: “specie la tradizione estremo-orientale ha messo ben in rilievo l’idea che la morale e la legge in genere sorgono là dove la “virtù” e la “Via” non sono più conosciute: perduta la Via, resta la virtù; perduta la virtù resta l’etica; perduta l’etica resta il diritto; perduto il diritto resta il costume. Il costume è solo l’esteriorità dell’etica e segna il principio della decadenza“.
Continua, quasi profeticamente, Evola: “sopravviene l’individualismo, il caos, l’anarchia, l’hybris umanistica, la degenerazione, in tutti i domini. La diga è infranta. Resti pur l’apparenza di una grandezza antica – basta un minimo urto per far crollare uno Stato o un Impero. Ciò che può prenderne il posto avrà la sua inversione… il Leviathan onnipotente, un sistema collettivo meccanizzato e totalitario“.
Probabilmente è per questo che l’Unione europea al soldo di Soros e degli Stati Uniti di Biden e delle sue lobby di potere volte al transumanesimo hanno già perso. I popoli liberi possono ancora svegliarsi dal torpore provocato dal benessere, dai tecnocrati e dal pensiero unico, ripartendo dallo Spirito, recuperando la sana dottrina cattolica cattolica di sempre, vivendo con virtù e seguendo l’esempio di quel Cristo che è la Via, ma anche la Verità e la Vita.
La globalizzazione targata Usa è un ricordo
di Claudio Risé
Fonte: Claudio Risé
Non è più a Washington, con succursale Bruxelles, il centro decisionale planetario: il nuovo mondo è multipolare in cui avanzano l’Oriente e gran parte dell’Africa, dove si concentra il grosso della popolazione. L’Occidente e i suoi propagandisti ne prendano atto.
Più che atlantismo, quello dei supereditoriali dei superquotidiani è testardo attaccamento a un passato remoto scambiato per presente-futuro. E più che ideali democratici ciò che si intravede dietro i peraltro vaghissimi programmi sono sogni imperialisti neppure troppo nascosti. Anche qui (come nell’imperialismo vero) esposti con un gusto avventuroso/fiabesco, che fa sorridere trovare nelle prosa dei numerosi editorialisti/professori. I quali sono quasi tutti emeriti per via dell’anagrafe (che come ricordava Arbasino non perdona), e quindi si fatica a vedere così eccitati e appassionati per questo sfoderare di (costosissime) armi e vaticini di vittorie. A me che sono ancora più vecchio di molti di loro fanno venire in mente l’indimenticabile manifesto: “Ascoltatemi! Votate Italia e non Fronte popolare” gridato da uno scapigliato signore in giacca e camicia, naturalmente stazzonate, che correva fuori da un paesaggio in fiamme, in fondo al quale si intravedeva… cosa? Il Cremlino, naturalmente (e certo con più ragioni di oggi). Del resto anch’io che avevo 10 anni, non avrei voluto che vincesse il Fronte Popolare. Però mia sorella (che ne aveva 8 più di me) e lanciava i volantini dalla finestra mi dava già fastidio: a esagerare si sporca in terra e non serve a niente.
Adesso poi non c’è più nemmeno il Fronte popolare, e Stalin è morto da tempo. Putin no, forse anche perché i vaticini della sua morte imminente, sfoderati in continuazione dagli esperti americani e dell’UE allungano la vita, come è noto a tutti tranne che ai menagramo prezzolati, che vivono confezionandoli. Comunque Putin è in tutt’altre faccende affaccendato; ha ben altro cui pensare che appassionarsi all’oziosa fantasia di sloggiare Mattarella, il nonno inamovibile.
Soprattutto, però, non esiste più nulla di ciò di cui i pensosi opinion makers della carta e altri media parlano, alla ricerca di brividi. L’universo culturale della crème atlantica è in ritardo sulla realtà di oltre 70 anni: del mondo delle loro fantasie non c’è più nulla, tranne loro stessi, con i loro sogni un po’ infantili. Lo stesso Draghi non ha mai vissuto il mondo dei Fronti popolari: nel 1948, l’anno che li mise fuori gioco, aveva solo un anno. Per i saggi amici della guerra russo-ucraino-americana il mondo è una favola bella che finirà bene, e si vede da come ne parlano: i buoni contro i cattivi sicuramente vinceranno, come appunto nelle favole; come se le cose rimanessero quelle del racconto che li ha impressionati da piccoli, e non fossero in continuo cambiamento. Se però non ti tieni ai fatti di oggi, e rimani agli stereotipi del secolo precedente, rischi di prendere cantonate letteralmente micidiali, nel senso che portano più morti che vita.
Nell’orrore del quadro complessivo, viene anche un po’ da ridere a vedere tanto accanimento e pagine investite nel calcolare dove si annidi il tumore che ucciderà presto lo “Zar”, come viene fantasiosamente definito Putin, uno degli uomini più incolori, lontano in tutto da quei pittoreschi Imperatori. Oppure a seguire le previsioni della Presidente d’Europa Ursula von Leyden sull’altrettanto imminente crollo del rublo, e fallimento della Russia. Dichiarazioni finora seguite da rafforzamenti del rublo, e brillante bilancia dei pagamenti. Mentre poi i professori russofobi insistono con descrizioni della medioevale Russia, maschilista e arretrata, la banchiera russa Elvina Nabiullina, pur non sempre in accordo con Putin, è l’unico banchiere centrale che in piena guerra e sanzioni sia riuscita a rallentare l’inflazione, battendo sia l’europea Lagarde che l’americano Jerome Powell, capo delle Federal Reserve.
Il fatto è che i nostri insigni commentatori, nel solco del forse già insigne ma oggi in evidenti difficoltà Mario Draghi, non si sono accorti che il mondo, da tempo, non è più solo quello dei due continenti Europa e Stati Uniti e loro appendici meridionali, divisi dall’oceano Atlantico. Il mondo “globalizzato” a trazione americana, con la Cina in rincorsa, ma il cui centro decisionale è stabilmente negli Stati Uniti con succursale a Bruxelles, è ormai un fatto soprattutto burocratico. Quella globalizzazione è finita da tempo. Al suo posto c’è un mondo multipolare (di cui i nostri saggi commentatori non parlano mai) dove al polo occidentale più o meno atlantico si è stabilmente affiancato quello orientale con al suo interno subcontinenti decisivi come la Russia, la Cina, l’India, il sud est asiatico, buona parte dell’Africa tutti con le loro culture, modi di vita, valori, risorse e povertà.
La gran parte della popolazione mondiale abita in questo Oriente, che non ha votato all’ONU le sanzioni alla Russia. È qui che nasce buona parte delle idee e intuizioni più produttive del mondo di oggi, legate a tradizioni mai morte e nutrite da culture, anche religiose, che l’Oriente ha continuato a rispettare, a differenza dell’Occidente razionalista e iconoclasta. I nostri professori, più o meno tardivi figli di un Illuminismo avido e oggi estenuato sanno poco di questo polo e della trasformazione in atto nel mondo; per questo si permettono di trattare la Russia come un paese di incivili attardati e il suo capo come un esotico criminale. Il capo russo però, amato e odiato che sia, è uno dei protagonisti di questo mondo. Mentre la loro visione è tristemente provinciale, irrespirabile: anche per questo Macron ha perso la sua maggioranza, malgrado l’Ecole d’Administration in cui si è formato. La società non è solo amministrazione: è anche cultura e fede.
San Giuseppe nella liturgia
Segnalazione del Centro Studi Federici
Feste e riconoscimenti liturgici, di padre Tarcisio Stramare (1928-2020), degli Oblati di San Giuseppe d’Asti.
In Oriente
Dobbiamo ancora incominciare dall’Oriente. Il tenore liturgico dell’apocrifa “Storia di Giuseppe il Falegname” e la sua diffusione, dimostrata dalle varie traduzioni, ci inducono ad ammettere un culto molto antico, che risale alla Chiesa giudeo-cristiana, dalla quale si è diffuso nelle zone di influenza di detta “Storia”, con la istituzione di una festa presso i Copti monofisiti egiziani, che di fatto commemorano la morte (Transito) del Santo precisamente al 26 Abîb (= 20 luglio, equivalente oggi, nel calendario gregoriano iniziato nel 1582, al 2 agosto). La “Storia” contiene tratti che indicano la sincera stima dei suoi propagatori verso il Santo.
Nel Sinassario Mediceo della Chiesa copta di Alessandria, scritto verso il 1425, al giorno 26 del mese di Abîb si legge: “Requies (= morte) sancti senis iusti Josephi fabri lignarii, Deiparae Virginis Mariae sponsi, qui pater Christi vocari promeruit”. I calendari che menzionano la festa di san Giuseppe in Oriente sono del secolo X, compilati nel monastero palestinese di San Saba. Di tale epoca è appunto il Menologio di Basilio II, considerato come il primo testimonio certo del culto di san Giuseppe in Oriente. Esso fissa la commemorazione di san Giuseppe nello stesso giorno di Natale (i re Magi e San Giuseppe, sposo e protettore della Santa Vergine) e il ricordo della fuga in Egitto il giorno seguente. Altri Sinassari collocano al 26 dicembre una festa di Maria e di Giuseppe suo sposo; essi celebrano, inoltre, nella domenica precedente il Natale, la festa degli antenati di Gesù, “da Abramo a Giuseppe, sposo della Beatissima Madre di Dio” e nella domenica posta nell’ottava di Natale la festa di san Giuseppe assieme al re Davide e a Giacomo il Minore.
Nella poesia religiosa bizantina è illustre il siciliano san Giuseppe l’Innografo († 883), il cui nome è legato al Canone delle lodi di quest’ultima festa (PG 105, 1273-4).
I libri liturgici dei Siri alludono a san Giuseppe a partire dal secolo XIII (Add. mss.14698, conservato al British Museum).
Come appare dall’insieme, non si tratta sempre di feste esclusive di san Giuseppe; esse, tuttavia, si collocano tutte nella prossimità del Natale con l’intento di includerlo nel mistero al quale egli intimamente appartiene.
Anche gli Ucraini cattolici, volendo introdurre una nuova festa di san Giuseppe in ossequio all’enciclica “Quamquam pluries” di Leone XIII, scelsero il giorno dopo Natale, onorando così san Giuseppe in “Sinassi” con la S.ma Theotócos. (…)
In Occidente
I documenti occidentali sono anteriori di almeno un secolo a quelli orientali. Il culto di san Giuseppe è attestato per la prima volta nel manoscritto Rh 30, 3 (sec. VIII), conservato nella Biblioteca cantonale di Zurigo: “XIII kal. Aprilis Joseph sponsus Mariae”. La commemorazione di san Giuseppe al 20 marzo, che incontriamo nel Calendario-martirologio di questo codice, è la più antica menzione esplicita del Santo vicina al 19 marzo; esso proviene (1862) dalla abbazia benedettina di Rheinau, antica cittadina del Canton Zurigo, ma se ne ignora il luogo primitivo di origine, da ricercarsi nella Francia settentrionale o nel Belgio, e il posto esatto nella tradizione martirologica.
Nei martirologi e calendari che vanno dal secolo IX (Fulda [Vat. Lat. 3809], Oengus, Reichenau) in poi (sec. X ovvero IX: (Irlanda) Tallaght, Reichenau, San Gallo, Fulda, Ratisbona – oggi a Verona, Biblioteca Capitolare, cod. 87 -, Messale di Robert de Jumièges; sec. XI: Winchester, Sherborne, Evesham, Wescester, Stavelot; sec. XII: Werden, Abbadia di Sta Maria e San Werburgh, martirologio metrico di O. Gorman, ecc.), la menzione di san Giuseppe compare al 19 marzo: “In Bethleem, sancti Ioseph” con la seguente apposizione: “nutritoris Domini”; permane, tuttavia, una certa confusione di date tra il 19 e il 20 marzo (per esempio, nei martirologi di San Remigio di Reims e di San Massimino di Treviri, dove si legge: Antiochia S. Ioseph Sponsi S. Mariae). (…).
G. Lefebvre riferisce che nella liturgia gallicana la festa di san Giuseppe si celebrava il 3 gennaio (Liturgia, a cura di R. Aigrain, Paris 1947, p. 637); l’Ordine di Cluny la celebrava il giovedì della terza settimana di Avvento (Breviarum Cluniacense, 1686 e 1779). A questo punto, poiché la missione eccezionale di san Giuseppe si trova meglio inquadrata nel periodo natalizio, come nelle liturgie più antiche, piuttosto che nella Quaresima, dove incontra ostacoli e subisce spostamenti, si affaccia la domanda circa l’opportunità o no di conservare ancora la data attuale, probabilmente solo casuale.
La prima menzione del nome di san Giuseppe si trova in un Messale del sec. XII (Biblioteca Vaticana, n. 4770); è collocato in uno schema di Litanie, da cantare durante la funzione del Sabato Santo, tra il nome di Simeone e quello dei SS. Innocenti.
Il primo Ufficio canonico completo, con note musicali, in onore di san Giuseppe, è del secolo XIII e proviene ancora da una abbazia benedettina, San Lorenzo, di Liegi; si ricorre, per la prima volta, al suo “patrocinium”. Nel monastero austriaco di San Floriano un messale della fine del secolo XIV elenca una messa votiva al padre nutrizio del Signore.
Nel secolo XIII il culto privato del Santo è attestato dal mistico Hermann di Steinfeld (+1241), monaco premonstratense, che ricevette il nome di Giuseppe in una visione della Madonna; è stato attestato, inoltre, da Margherita da Cortona († 1297) e da santa Gertrude († 1302).
Alla presenza dei Francescani, Domenicani e Carmelitani ad Agrigento è dovuta l’accettazione colà di un ufficio in onore di san Giuseppe, del secolo XIV, conservato nell’Archivio Capitolare del Duomo: “Officium Sanctissimi Joseph nutricii et patris adoptivi Domini nostri Jesu Christi”; esso dipende dalla Legenda aurea di Giacomo da Varazze († 1298). Si tratta, fino al presente per l’Italia, della più antica testimonianza liturgica sul culto di san Giuseppe. Questo ufficio contiene una chiara allusione alla santificazione di san Giuseppe, chiamato sanctorum sanctus; nell’antifona del Magnificat si legge: “O proles almifica / de Bethleem electa, / gemma nimis ardua / ab omni labe erepta”.
Il culto di san Giuseppe nell’Ordine Carmelitano era già introdotto nella seconda metà del secolo XV, come è comprovato da due breviari (Bruxelles 1480; Venezia 1490), che contengono un ufficio proprio di san Giuseppe. Appartiene al loro Ordine un ufficio del 1434 circa.
All’inizio del 1400 il nome di san Giuseppe viene elencato tra i santi del 19 marzo al primo posto.
La festa di San Giuseppe
L’abbazia benedettina di Winchester rivendica l’onore di essere stata la prima a celebrare la festa di san Giuseppe verso il 1030.
I Servi di Maria, come risulta dagli Atti del Capitolo tenuto a Orvieto nel 1324, furono i primi a celebrare solennemente la festa di san Giuseppe.
I francescani adottarono la festa nel Capitolo generale di Assisi nel 1399, usando come testo liturgico della Messa il “Commune Confessorum”. Tuttavia, Franc. Florentinus testimonierebbe una festa di san Giuseppe in vigore nell’Ordine fin dal secolo XIII (Vetustius occidentalis Ecclesiae Martyrologium D. Hieronymo tributum, Lucca 1668).
Gregorio XI (1371-78), avendo eretto la cappella in onore di san Giuseppe nella chiesa di Sant’Agricola ad Avignone, vi avrebbe stabilito anche la festa del 19 marzo.
A Milano la festa di san Giuseppe fu stabilita nel 1467 e si celebrava il 20 marzo, giorno dell’ascesa al potere di Galeazzo Maria Sforza; dal 1509 fu fissata al 19 marzo; san Carlo Borromeo (card. e arciv. dal 1560 al 1584) la trasferì al 12 dicembre, giorno adottato anche dalla diocesi di Sens (Missale Senon., 1715); nel 1897 ritornò al 19 marzo.
Il francescano Sisto IV concesse nel 1480 ai Frati Minori di celebrare con rito doppio maggiore la festa del 19 marzo, già presente nel calendario dei messali (1472) e dei breviari (1476) romani da loro usati.
Diffusasi la festa nelle diocesi e negli Ordini religiosi, Pio V la inserì con rito doppio nella riforma del breviario (1568) e el messale (1570).
La festa fu istituita dai Domenicani nel Capitolo generale del 1508; fu elevata a più alto grado e fissata al 19 marzo nel 1513.
L’8 maggio 1621 Gregorio XV rese obbligatoria per tutta la Chiesa la festa di san Giuseppe; tale decreto, tuttavia, non trovò esecuzione ovunque e Urbano VIII il 13 settembre 1642 rinnovò l’ordine con la bolla “Universa per orbem”.
Su richiesta di Luigi XIV, l’assemblea del clero di Francia, nel 1661, istituisce la festa di san Giuseppe come festa di precetto.
Clemente X (6 dicembre 1670) elevò la festa al rito doppio di seconda classe, introducendo nel breviario (1671) i tre inni in onore di san Giuseppe (Te, Ioseph, celebrent – Caelitum, Ioseph, decus – Iste, quem laeti); autore di questi inni sarebbe il cistercense fogliante card. Giovanni Bona († 1674); altri indicano Johannes von der Empfängnis (+1700). Clemente XI il 4 febbraio 1714 concesse a san Giuseppe per il 19 marzo messa e ufficio propri. Pio IX l’8 dicembre 1870 eleva la festa del 19 marzo a rito doppio di prima classe.
Pio X (24 luglio 1911) conferma, designando la festa col titolo: Commemoratio Sollemnis S Joseph, Sponsi B.M.V., Confessoris, ma il 28 ottobre 1913 essa ritorna al rito doppio di seconda classe.
Benedetto XV il 12 dicembre 1917 la eleva nuovamente al rito doppio di prima classe.
Il Codice di Diritto Canonico (1917) la include tra le feste di precetto per tutta la Chiesa (can. 1247; cf. CJC 1983, can. 1246).
La festa del Patrocinio
Il Diario Romano di Gaspare Pontani segnala una festa di san Giuseppe il 13 maggio 1478, che allora corrispondeva alla quarta domenica dopo Pasqua, nella piazza di San Celso, al centro del rione Ponte Sant’Angelo.
Ad Avignone, dal 1500 la Confraternita degli agonizzanti celebrava, la terza domenica dopo Pasqua, la festa del Patrocinio si san Giuseppe, presto diffusa in tutta la città con solenne processione.
Pio IX il 10 settembre 1847 estese alla Chiesa intera l’ufficio proprio e la messa del Patrocinio di San Giuseppe, fissando la festa alla terza domenica dopo Pasqua con il rito doppio di seconda classe.
Tale festa era già stata ottenuta da molti Ordini: i Carmelitani nel 1680, gli Agostiniani nel 1700, i Mercedari Scalzi nel 1702, i Caracciolini nel 1723, i Domenicani, i Barnabiti e i Servi di Maria nel 1725, i Frati Minori Conventuali nel 1727, i Camilliani nel 1728, i Minimi nel 1729, gli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona nel 1730, tutto l’Ordine dei Frati Minori e i Teatini nel 1733, tutto il Terz’Ordine di San Francesco e tutto l’Ordine dei Canonici Regolari del SS. Salvatore Lateranense nel 1735, gli Scolopi nel 1736.
Tra le diocesi che ottennero la concessione ricordiamo, in ordine di tempo, quella di Messico (1703), di Puebla de los Angeles (1704), la prelatura nullius di Altamura (Bari, 1713), Palermo (1719), La Plata (Argentina), Lipari, Messina e Catania (1721), Siracusa (1723), Monreale e Malaga (1725), Cartagena (1726), Cadice, Pavia e Siviglia (1727), Badajoz, Santiago di Cuba, Bari, Orihuela e Brescia (1728), Michoacan e Mazara del Vallo (1729), Lima e Malta (1731), Avellino e Frigento (1732), Vittorio Veneto (1733), Piacenza, San Severino, Freising, Ratisbona, Ascoli Satriano, Colonia, Münster, Paderborn, Hildesheim, Telese e Salerno (1734), Napoli, Orvieto e Narni (1735), Asti (1741), Acqui (1785); il clero secolare e i religiosi di Roma l’ottennero nel 1809.
Se consideriamo i territori, l’Etruria l’ottenne nel 1723; le Puglie, il regno di Valenza, gli stati e i domíni del re di Spagna nel 1729; la repubblica di Venezia nel 1730; il ducato di Modena nel 1733; il regno di Polonia e province nel 1735; lo stato del principe dell’Umbria nel 1736; lo stato di Urbino nel 1743; il regno e domíni del Portogallo nel 1744; i domíni del Palatinato nel 1753; il principato di Colonia nel 1783.
Il 28 ottobre 1913 Pio X stabilì che la festa del Patrocinio, divenuta dal 24 luglio la “Solennità di San Giuseppe, sposo della B.V. Maria, Confessore e Patrono della Chiesa universale”, con rito doppio di prima classe o ottava, fosse celebrata nel terzo mercoledì dopo Pasqua. (…)
https://movimentogiuseppino.wordpress.com/vi-san-giuseppe-nella-liturgia/
Fonte: https://www.centrostudifederici.org/san-giuseppe-nella-liturgia/
Marx è andato a vivere a New York
di Marcello Veneziani
La Verità ha riproposto uno stralcio dal libro-antologia di Karl Marx Contro la Russia, che le edizioni de Il Borghese pubblicarono per primi negli anni settanta. Ma c’è un’integrazione essenziale, e attualissima, da fare: in queste pagine emerge il Marx filo-americano, persuaso che il suo pensiero radicale potesse meglio attecchire in una società nuova, moderna, priva di storia, radici e tradizione come gli Stati Uniti. Non a caso questi scritti furono pubblicati tra il 1858 e il 1861, sul New York Tribune, poi raccolti dalla figlia Eleanor con il titolo The eastern question; articoli antirussi, filoamericani, occidentalisti, che auspicavano l’avvento del mercato libero globale e del pensiero radicale. Per la rivoluzione comunista Marx non pensava alla Russia zarista ma all’America descritta da Tocqueville, che era poi l’espansione “giovanile“ dell’Inghilterra, da Marx non a caso eletta a sua residenza, rispetto alla natia Treviri, in Germania.
Marx è il filosofo che più ha inciso nella storia del ‘900 attraverso la tragedia mondiale del Comunismo. Poi tramontò nel fallimento del comunismo, precipitò con l’impero sovietico, sopravvisse ibrido nella Cina mao-capitalista. Ma fu davvero archiviato? Da anni sostengo la tesi opposta che esposi in Imperdonabili.
Il marxismo separato dal comunismo è lo spirito dominante dell’Occidente. Scrive Marx nel Manifesto: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti”. E’ la prefigurazione della nostra epoca volatile e mondialista. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione, la natura e i suoi limiti. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno subito il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e a cui si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato. Non scardinò il sistema capitalistico ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale, dal vecchio liberalismo al nuovo spirito radical. Marx definisce il comunismo: “è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E’ lo spirito radical del nostro tempo, cancel e correct.
Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo “è la liberazione di ogni singolo individuo” dai limiti e dai legami locali e nazionali, famigliari, religiosi, economici. Non le comunità ma gli individui. Il giovane Marx onora un solo santo e martire nel suo calendario: Prometeo, liberatore dell’umanità. Padre dell’Occidente faustiano e irreligioso, proteso verso la volontà di potenza.
Il giovane Marx auspica nei Manoscritti economico-filosofici l’avvento dell’ateismo pratico. E nella Critica della filosofia del diritto di Hegel scrive: “La religione è il sospiro della creatura oppressa…essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire poterne esigere la felicità reale”. Liberandoci da Dio e dalla religione per Marx ci liberemo dall’alienazione e conquisteremo la felicità terrena. La società di oggi, atea ma depressa, irreligiosa ma alienata, smentisce la promessa marxiana di liberazione. L’utopia di una società “libertina”, dove ciascuno svolge la sua attività quando “ne ha voglia”, che abolisce ogni fedeltà e introduce “una comunanza delle donne ufficiale e franca”, fa di Marx un precursore della società permissiva. Il principio ugualitario perde la sua carica profetica e si realizza in negativo come uniformità e negazione dei meriti, delle capacità e delle differenze.
La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione standard genera uguaglianza e livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia sostenuto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo pratico marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha inverato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame naturale e da ogni ordine tradizionale ha realizzato l’individualismo libertino di Marx, liberato dai vincoli famigliari e nuziali. E come Marx voleva, ha realizzato il primato dell’azione sul pensiero. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal, geneticamente modificabile.
L’ultima frontiera del marxismo si ritrova nelle porte aperte agli immigrati, dove un nuovo proletariato, sradicato dai paesi d’origine, sostituisce le popolazioni d’occidente, a sua volta sradicate. La lotta di classe cede alla lotta antisessista, antinazionalista e antirazzista. La difesa egualitaria dei proletari cede alla tutela prioritaria delle minoranze dei “diversi”.
Il marxismo vive sotto falso nome ma si muove a suo agio nella società global made in Usa; un marxismo al ketch-up, transgenico. Marx con passaporto americano sembra strizzare l’occhio ai dem di Biden. Noi ci attardiamo da anni a celebrare il suo funerale; ma è un caso di morte apparente.
La Verità (21 aprile 2022)
Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/marx-e-andato-a-vivere-a-new-york/
San Francesco fondatore delle prime Missioni Cattoliche in Oriente
Segnalazione del Centro Studi Federici
Non fu uno scontro di civiltà
QUINTA COLONNA
di Marcello Veneziani
Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/non-fu-uno-scontro-di-civilta-2/
No, non fu uno scontro di civiltà quello che esplose l’11 settembre di vent’anni fa. Non si scontrarono la civiltà islamica e la civiltà cristiana. Fu piuttosto l’attacco barbarico dei fanatici islamisti a un occidente nichilista, ormai separato dalla sua civiltà e dai suoi principi. Scontro d’inciviltà, ritorno di barbarie.
I fanatici che attaccarono il cuore dell’Occidente ‒ non della Cristianità, altrimenti avrebbero colpito altri obbiettivi simbolici ‒ non venivano dall’Islam tradizionale ma si erano formati e istruiti in Occidente e aderivano a una versione ideologica di islamismo. Bin Laden e la sua famiglia ne erano il prototipo. Islamisti di ritorno, come si dice analfabeti di ritorno.
I fanatici radicalizzano l’Islam, lo usano come arma, come droga e come bandiera, applicando alla lettera alcune “sure” feroci del Corano. Il nichilismo occidentale, invece, è la degenerazione della libertà e la deriva della modernità, la libertà come rifiuto del destino, della natura, dei limiti e del sacro e la vita elevata a scopo di se stessa.
È sbagliato, anzi indegno, evocare lo scontro di civiltà per indicare la vendetta dei fanatici accecati dall’odio e dall’ideologia contro il predominio planetario degli Stati Uniti e dei loro alleati o “servi”. Prima di quel feroce attacco c’era stata la guerra del Golfo, e altre invasioni, ingerenze, incursioni, sanzioni che avevano acceso gli animi del fanatismo islamico e avevano risvegliato la Jihad: ma non fu Guerra santa, fu piuttosto rappresaglia e rivendicazione delirante di dominio contro la dominazione americana. La controprova è che nessuna guerra tra i popoli o stati islamici e popoli o stati occidentali poi scoppiò; ma restarono terrorismo e tensione, conflitti locali e insurrezioni, occupazioni e attentati, rappresaglie e bombardamenti. E lo scontro aperto l’11 settembre non unì l’Islam in un solo corpo, ma lo lasciò diviso tra sunniti e sciiti, tra iraniani e sauditi, e una miriade di fazioni ostili tra loro. Non ha mai preso corpo nemmeno un asse tra i paesi leader di area, la Turchia, l’Iran e l’Egitto. Né i paesi islamici si unirono nell’isolare e condannare i terroristi.
Semmai l’11 settembre generò più compattezza difensiva nell’Occidente, perché l’orrore del terrorismo, la paura e l’insicurezza diffusi in Europa come negli Usa li spinsero a sentirsi accomunati come potenziale bersaglio dell’odio islamista. Continua a leggere
Putin: “Il cristianesimo è la radice dell’identità russa”
Peccato che si tratti di Ortodossia ovvero della Chiesa scismatica ed eretica ortodossa. Però il significato politico dell’affermazione è importante perché Putin lega al cristianesimo la radice dell’identità russa. Lo facessero anche in Italia…ovviamente non coi conciliari…(n.d.r.)
Segnalazione di G.B.
Il presidente della Russia indica la «cristianizzazione» come matrice identitaria del Paese, della sua forza e del suo protagonismo storico. Critiche e allarmi dai circoli che in passato sostenevano con slancio le «battaglie culturali» per riaffermare le radici dell’Occidente
di Gianni Valente per La Stampa
Domenica scorsa, nelle chiese della Russia, dell’Ucraina e di altri Paesi un tempo compresi nell’impero russo, tanti cristiani hanno celebrato la festa per i 1130 anni dal battesimo del principe Vladimir il Grande nelle acque del fiume Dnepr, rinnovando anch’essi le proprie promesse battesimali. Anche il presidente russo Vladimir Putin ha approfittato dell’anniversario di quell’evento storico – celebrato come l’inizio della conversione al cristianesimo degli slavi orientali – per ripetere con forza che proprio l a “cristianizzazione” del Gran Principe dell’antica Rus’ di Kiev e dei suoi sudditi rappresenta anche l’atto fondativo della «statualità russa», e la radice perenne che nutre l’identità del popolo russo e la sua missione storica nel mondo.
Putin – che dell’antico monarca battezzato a Cherson nel 988 porta anche il nome – ha riaffermato il legame a suo giudizio viscerale tra cristianesimo e identità russa intervenendo alla cerimonia svoltasi domenica a Mosca, alla presenza del patriarca Kirill, presso il monumento dedicato al principe Vladimir. Il discorso presidenziale, calibrato in ogni parola, ha riproposto ai massimi livelli la «cristianizzazione» come matrice identitaria della Russia, della sua forza e del suo protagonismo storico. Continua a leggere