Il messaggio dell’Onu indirizzato al G7 su Gaza

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Il segretario generale aggiunto dell’ONU per gli affari umanitari, Martin Griffithsha denunciato che la difficile situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, dove le ostilità tra l’aggressione di Israele contro l’enclave assediata dura da otto mesi.

Nella dichiarazione, indirizzata ai paesi del G7, Griffiths ha avvertito che nell’enclave palestinese ” si prevede che metà della popolazione – più di un milione di persone – dovrà affrontare la morte e la fame entro la metà di luglio”. Il funzionario dell’organizzazione internazionale ha ribadito che il conflitto a Gaza, come in altri focolai di tensione nel mondo, “è fuori controllo” e “sta spingendo milioni di persone sull’orlo della fame”.

Inoltre, Griffiths ha indicato che ” gli intensi combattimenti, le restrizioni inaccettabili e gli scarsi finanziamenti impediscono agli operatori umanitari di fornire cibo, acqua, sementi, assistenza sanitaria e altri aiuti salvavita su una scala vicina a quella necessaria per prevenire la fame di massa”.

“La situazione deve cambiare, non possiamo permetterci di perdere un solo minuto “, ha proseguito, esortando i paesi del G7 a “contribuire immediatamente con la loro considerevole influenza politica e risorse finanziarie” per garantire che gli aiuti umanitari possano raggiungere coloro che ne hanno bisogno nonostante i combattimenti. “Il mondo deve smettere di alimentare le macchine da guerra che stanno affamando i civili a Gaza e in Sudan”, ha concluso.

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A GAZA LA SITUAZIONE UMANITARIA E’ FUORI CONTROLLO. LA PULIZIA ETNICA DECISA

C’E’ UNA ONG, GAZZELLA ONLUS, CHE NON SI ARRENDE A QUESTE BARBARIE E OGNI GIORNO, EROICAMENTE, PORTA BENI DI PRIMA NECESSITA’ ALLA POPOLAZIONE STREMATA

L’ANTIDIPLOMATICO E LAD EDIZIONI, INSIEME A Q EDIZIONI, E’ IMPEGNATA ALLA RACCOLTA FONDI PER LA POPOLAZIONE DI GAZA
ACQUISTANDO IL LIBRO “IL RACCONTO DI SUAAD – PRIGIONIERA PALESTINESE” DAL NOSTRO SITO CONTRIBUIRETE ATTIVAMENTE ALL’INVIO DI AIUTI ALLA POPOLAZIONE DI GAZA

Fonte: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_messaggio_dellonu_indirizzato_al_g7_su_gaza/45289_55249/

Il Calvario di un accordo per fermare la carneficina a Gaza

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di Matteo Castagna per Stilum Curiae di Marco Tosatti: www.marcotosatti.com

The New York Times ha pubblicato un’analisi a firma di Steven Erlanger, capo corrispondente diplomatico in Europa, con sede a Berlino, che merita l’attenzione del mondo.
il titolo è: “Ottenere un cessate il fuoco a Gaza è stato difficile. Realizzarne uno sarà più difficile”. La proposta sostenuta dal presidente Biden  mira a fermare la guerra, almeno per ora. Ma Israele rifiuta un cessate il fuoco permanente, e Hamas ha le sue ragioni per essere riluttante.

Anche se Hamas e il governo israeliano sembrano avvicinarsi sempre di più ad un accordo per il cessate il fuoco, gli analisti sono profondamente scettici sul fatto che le parti riusciranno mai ad attuare un accordo che vada oltre una tregua temporanea.

In questione c’è un accordo in tre fasi, proposto da Israele e sostenuto dagli Stati Uniti e da alcuni paesi arabi, che, se pienamente realizzato, potrebbe portare al ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza, al ritorno di tutti gli ostaggi rimanenti catturati nell’ottobre 2019 e ad un piano di ricostruzione del territorio.

Ma arrivare a quel traguardo è impossibile se le parti non sono disposte nemmeno a iniziare la corsa o a concordare dove dovrebbe finire. Fondamentalmente, la disputa non riguarda solo quanto dovrebbe durare un cessate il fuoco a Gaza o quando dovrebbe essere attuato, ma se Israele potrà mai accettare una tregua a lungo termine, finché Hamas manterrà un controllo significativo.

Affinché Israele possa accettare fin dall’inizio le richieste di Hamas per un cessate il fuoco permanente, deve riconoscere che Hamas non sarà distrutto e giocherà un ruolo nel futuro del territorio, condizioni che il governo israeliano non può sopportare. D’altro canto, Hamas afferma che non prenderà in considerazione un cessate il fuoco temporaneo senza le garanzie di un cessate il fuoco permanente che ne assicuri effettivamente la sopravvivenza, anche a costo di innumerevoli vite palestinesi, per timore che Israele ricominci la guerra una volta restituiti i suoi ostaggi.

 

Eppure, dopo otto mesi di guerra dura, ci sono segnali per cui le parti potrebbero avvicinarsi alla prima fase proposta: un cessate il fuoco condizionale di sei settimane. Sebbene questo passo sia difficilmente garantito, arrivare alla seconda fase del piano, che prevede la cessazione permanente delle ostilità e il completo ritiro delle truppe israeliane da Gaza, secondo gli analisti, è ancora più improbabile.

“È sbagliato considerare questa proposta come qualcosa di più di un palliativo”, ha affermato Natan Sachs, direttore del Center for Middle East Policy presso la Brookings Institution“La cosa più importante è che questo piano non risponde alla domanda fondamentale su chi governerà Gaza dopo il conflitto. Questo è un piano di cessate il fuoco, non un piano del giorno dopo”.

Hamas ha affermato che non prenderà in considerazione un cessate il fuoco temporaneo senza le garanzie di un cessate il fuoco permanente che ne assicuri effettivamente la sopravvivenza, anche a costo di un maggior numero di vite palestinesi.
I leader di Hamas e il governo israeliano, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu stanno valutando cosa significherà l’accordo, non solo per il futuro della guerra, ma per il loro stesso futuro politico. Per ottenere il consenso dei partner scettici sulla prima fase del piano, Netanyahu è particolarmente incentivato a mantenere vaghi i suoi impegni per le ultime fasi.

In ogni campo ci sono figure influenti disposte a prolungare la guerra. 
Alcuni all’interno di Hamas sostengono che il gruppo, dominato da coloro che sono ancora a Gaza, come il leader locale Yahya Sinwar, non dovrebbe accettare alcun accordo che non crei immediatamente un cessate il fuoco permanente. In Israele, la semplice menzione della fine della guerra e del ritiro completo delle truppe ha portato gli alleati di estrema destra di Netanyahu a minacciare di far cadere il suo governo.

 
Martedì, in una conferenza stampa, Osama Hamdan, portavoce di Hamas, ha detto che il gruppo non approverebbe un accordo che non inizi con la promessa di un cessate il fuoco permanente e includa disposizioni per il ritiro totale delle truppe israeliane e un “serio e vero affare” per scambiare gli ostaggi rimanenti con un numero molto maggiore di prigionieri palestinesi detenuti in Israele.

Shlomo Brom, generale di brigata in pensione e ricercatore senior presso l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, ha affermato che “chiaramente per tutti questa proposta è principalmente politica”.
“La prima fase è positiva per Netanyahu, perché alcuni ostaggi verranno liberati”, ha detto Brom. “Ma non arriverà mai alla seconda fase. Come prima, troverà qualcosa di sbagliato in ciò che fa Hamas, cosa che non sarà difficile da trovare”.


Il rilascio degli ostaggi è una priorità assoluta, ma non è chiaro se il proseguimento della guerra aumenti la pressione su Hamas affinché raggiunga un accordo per la loro libertà o metta gli ostaggi ancora vivi in ulteriore pericolo.

Netanyahu spera, dicono gli analisti, che Hamas non accetti affatto la proposta, togliendolo così dai guai. Mentre le ostilità con Hezbollah si inaspriscono nel nord, egli suggerisce ai suoi alleati che, anche se dovesse accettare la proposta di Gaza, i negoziati sulla seconda fase potrebbero andare avanti indefinitamente.
Il presidente Biden, che la scorsa settimana ha presentato il piano alla Casa Bianca, ha le sue considerazioni politiche nel far sì che le parti raggiungano un accordo, il prima possibile. Vuole chiaramente la fine della guerra di Gaza ben prima delle elezioni presidenziali di novembre, ha detto Aaron David Miller, un esperto di Medio Oriente presso il Carnegie Endowment, aggiungendo: “L’unico partito che ha davvero fretta è Biden”.


Netanyahu ha fatto del suo meglio per confondere tutti riguardo alle sue intenzioni, negando che il suo obiettivo di smantellare Hamas sia cambiato e rifiutandosi di sostenere la fine permanente dei combattimenti, che domenica ha definito “un fallimento”.
 

Biden ha anche sottolineato che Hamas “dovrebbe accettare l’accordo”, che non ha accettato, dicendo soltanto che vede la proposta “in modo positivo”.

Nella prima fase, entrambe le parti rispetteranno un cessate il fuoco di sei settimane. Israele si ritirerebbe dai principali centri abitati di Gaza e un certo numero di ostaggi verrebbero rilasciati, tra cui donne, anziani e feriti. Gli ostaggi verrebbero scambiati con centinaia di prigionieri e detenuti palestinesi, i cui nomi devono ancora essere negoziati. Gli aiuti inizierebbero ad affluire a Gaza, arrivando a circa 600 camion al giorno. Ai civili palestinesi sfollati sarà consentito di ritornare alle loro case nel nord di Gaza.

 

Durante la prima fase, Israele e Hamas continuerebbero a negoziare per raggiungere la seconda fase: il cessate il fuoco permanente, il ritiro di tutte le truppe israeliane da Gaza e la liberazione di tutti gli ostaggi viventi rimasti. Se i colloqui dureranno più di sei settimane, la prima fase della tregua continuerà fino a quando non si raggiungerà un accordo, ha detto Biden. Se mai lo faranno.

I funzionari israeliani, da Netanyahu in giù, hanno insistito sul fatto che Israele debba mantenere il controllo della sicurezza su Gaza in futuro, rendendo altamente improbabile che accettino di ritirare completamente le truppe israeliane dalla zona cuscinetto che hanno costruito all’interno di Gaza. E anche se lo facessero, Israele insiste sulla possibilità di entrare e uscire da Gaza ogni volta che lo ritenga necessario per combattere Hamas o altri combattenti rimasti o ristabiliti, come fa ora in Cisgiordania.

 

Come ha detto, senza mezzi termini, un ex alto ufficiale dell’intelligence: “Non esiste una buona soluzione qui e tutti lo sanno”.

I tempi potrebbero funzionare anche per un accordo sulla prima fase, perché Israele vuole completare il controllo militare su Rafah, nella parte più meridionale di Gaza, e sul confine egiziano. Si prevede che i combattimenti, che Israele ha intrapreso con meno truppe, meno bombardamenti e più attenzione ai civili, dopo la pressione americana, dureranno altre due o tre settimane, suggeriscono i funzionari israeliani, più o meno il tempo necessario per negoziare la prima fase del cessate il fuoco.

Con le forze di Hamas effettivamente smantellate come unità organizzate, e combattendo quasi esclusivamente come piccole bande, Israele può dichiarare finita la grande guerra a Gaza, dicono gli analisti, continuando a combattere Hamas e altri combattenti dove emergono o sono ancora concentrati, aprendo la strada a un cessate il fuoco temporaneo.

“Israele ha fatto molto, con Hamas drammaticamente degradato”, ha detto Sachs. Ma Israele non ha messo in atto nulla per governare Gaza, quando l’esercito si ritirerà.

Brom concorda sul fatto che l’esercito israeliano ha compiuto progressi reali. “La mia interpretazione”, ha detto, “è che le capacità militari e terroristiche di Hamas sono terribilmente indebolite”. È sempre difficile dichiarare la vittoria in un conflitto così asimmetrico, ha detto. “Abbiamo vinto contro lo Stato islamico? Esiste e funziona ancora”, ma molto diminuito.

Nonostante le continue sollecitazioni americane, dicono gli analisti, Netanyahu si è rifiutato di decidere chi o cosa governerà Gaza, se non Hamas.

“Dovrebbe trattarsi di una strategia politica e militare integrata, ma manca completamente l’aspetto politico”, ha affermato Brom. “Possiamo impedire ad Hamas di governare Gaza, ma chi li sostituirà? Questo è il tallone d’Achille dell’intera operazione”.

Stranezze del 7/10: “soffiata” alla Borsa e filmati di sicurezza spariti

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Segnalazione del Centro Studi Federici
“Significative vendite allo scoperto prima del 7/10 di decine di società quotate nella Borsa di Tel Aviv”. Spariti i filmati dalle telecamere di sicurezza al confine con Gaza. L’AI “fabbrica obiettivi” e calcola gli effetti collaterali (!)
“Uno studio condotto da ricercatori della New York University e della Columbia University sostiene che i trader hanno ottenuto informazioni sull’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre, prima che avvenisse, e hanno realizzato operazioni short sulle borse degli Stati Uniti e d’Israele nella prospettiva che i prezzi delle azioni crollassero dopo l’attacco”. Così il sito Globes.. In pratica alcuni operatori americani e israeliani hanno scommesso sul fatto che il prezzo di alcuni titoli sarebbe crollato dopo il 7 ottobre, cosa avvenuta.
 
Nella Finanza si sapeva…
“I ricercatori affermano di aver identificato significative vendite allo scoperto prima dell’attacco di decine di società quotate nella Borsa di Tel Aviv. Dallo studio emerge che tra il 14 settembre e il 5 ottobre sono state realizzate acquisizioni short pari a 4,43 milioni di azioni della Banca Leumi”.
“Dopo l’attacco di Hamas, gli stessi hanno goduto di profitti pari a 3,2 miliardi di shekel. I ricercatori scrivono di non aver notato un aumento cumulativo di acquisizioni short su azioni di società israeliane scambiate sulle borse statunitensi, ma hanno identificato un forte e insolito aumento nella negoziazione di opzioni su tali azioni con date di scadenza poco dopo il 7 ottobre”. Possibile, peraltro, che lo studio abbia rivelato solo la punta dell’iceberg nell’insondabile mare magnum della grande finanza.
Nulla di nuovo sotto il sole: anche in costanza dell’attacco dell’11 settembre si erano registrate operazioni anomale in Borsa, che avevano permesso a tanti di lucrare su quanto poi sarebbe avvenuto. Quando la speculazione fu rivelata George W. Bush promise solennemente che gli Stati Uniti avrebbero aperto un’inchiesta, ma non se ne è fatto nulla. Troppi gli interessi in gioco e troppo potenti gli speculatori, che evidentemente sapevano in anticipo quanto sarebbe avvenuto. Dovrebbe meravigliare, ma neanche troppo…
Il mistero di quanto avvenuto quell’11 settembre, come quello che avvolge l’attacco del 7 ottobre, è destinato a restare tale. Per quanto riguarda quest’ultimo, restano le opposte narrazioni pubbliche: l’attacco proditorio denunciato da Israele e la grande operazione della resistenza dall’altra. Mentre, a quanto pare, ad alto livello tanti sapevano e hanno lasciato fare, anche nella Sicurezza israeliana.
La sparizione delle registrazioni video e audio
Ai questi misteri dolorosi si aggiunge la sparizione dei filmati dalle telecamere di sicurezza poste da Israele al confine con Gaza.
Il sito israeliano Walla ha riferito che “una mano invisibile” ha cancellato tutto quanto era rimasto impresso nella “rete militare denominata Zee Tube”. A scoprirlo un funzionario di alto livello dello Stato Maggiore incaricato di investigare sul caso che, giunto sul luogo del delitto, è il caso di dirlo, ha trovato tutto cancellato.
“Funzionari della Divisione di Gaza – prosegue Walla – hanno affermato che c’è stata anche una ‘cancellazione’ delle registrazioni delle comunicazioni del 7 ottobre”. Le registrazioni potrebbero esser state trasferite altrove o cancellate, non si sa. Due le spiegazioni: la prima, più piana, è che si voglia nascondere la palese inefficienza della Sicurezza di quel giorno; la seconda è che si voglia celare altro e più inconfessabile (o forse un mix di ambedue).
A pensar male si fa peccato, ma a volte si indovina. Ha colpito non poco la reazione durissima della Difesa israeliana alla rivelazione di Haaretz sull’elicottero militare che, nell’intento di colpire i miliziani di Hamas, avrebbe sparato contro i civili convenuti al rave.
Rivelazione che aveva rilanciato le domande poste da Max Blumenthal sulla reazione dell’esercito israeliano all’attacco, che sarebbe stata confusa e non selettiva sui bersagli, tanto da aumentare le vittime civili (la rivelazione di Haaretz, va puntualizzato, è stata poi negata dalle autorità).
La variabile Netanyahu
Al di là del particolare, resta la nuova fiammata della guerra di Gaza dopo la fine della tregua. I negoziati in Qatar, proseguiti nonostante la ripresa del conflitto, sono ormai collassati. Hamas e Tel Aviv si rimpallano e responsabilità.
Secondo Alastair Croocke gli Stati Uniti puntavano a una tregua prolungata che fosse prodromica a un cessate il fuoco permanente, perché con il passar del tempo sarebbe stato può arduo riaprire le ostilità.
Ma le autorità israeliane volevano a tutti i costi la guerra, forti anche di un consenso del 90% dei loro cittadini sulla necessità di eliminare Hamas. Dissensi anche sulla durata della guerra, con Blinken che avrebbe dato a Netanyahu alcune settimane per chiuderla, mentre il premier israeliano ribadiva la sua volontà di proseguire per mesi.
Sempre Crooke spiega che Netanyahu sta tentando – anzi sarebbe riuscito – di rimodellare la narrazione della guerra: non più una risposta all’attacco, ma una lotta esistenziale che porti a compimento la lotta di liberazione di Israele, una “Seconda guerra d’indipendenza”, che riprendeva quella del ’48.
Narrazione che, peraltro, unisce le aspirazioni alla Grande Israele del messianismo ebraico con il nazionalismo di certo sionismo laico. Prospettiva massimalista, dunque, che ben si attaglia a una guerra prolungata che dovrebbe permettere la sopravvivenza politica di Netanyahu (che però oggi è stato richiamato alla sbarra: il processo per corruzione potrebbe ripartire…).
 
Eliminare Hamas?
Ad allungare i tempi l’intento dichiarato di eliminare completamente Hamas, che, come scriveva Thomas Friedman sul New York Times del 1 dicembre, è “un obiettivo irraggiungibile”.
Non solo Netanyahu fa orecchie da mercante sull’obiettivo, ma anche sulle modalità dell’operazione. Se la Casa Bianca chiede moderazione (per evitare rotture con i Paesi arabi), la campagna nel Sud da Gaza procede con la stessa modalità alzo zero che ha contraddistinto quella a Nord.
Lo ha dichiarato apertamente il Capo di Stato Maggiore israeliano, secondo il quale la nuova campagna “non sarà meno potente” della precedente (Timesofisrael). Lo dicono anche i numeri: oltre 700 le vittime registrate alla sera di domenica, solo 24 ore dopo la ripresa dei combattimenti (al Jazeera).
La fabbrica di obiettivi
Il numero sproporzionato di vittime civili che sarebbe dovuto anche all’uso (spregiudicato) dell’intelligenza artificiale. A supportare le operazioni, un sistema AI chiamato Habsora, Vangelo (sic), che ha permesso all’Israel defence force di accelerare “significativamente le operazioni”, producendo una lista di obiettivi da colpire. Una vera e propria “fabbrica” di obiettivi (Guardian).
A rivelare il retroscena l’inchiesta di due media (+972, Magazine israelo-palestinese, e Local Call, testata in lingua ebraica) basata su informazioni provenienti dall’intelligence e dall’aeronautica israeliana, fonti palestinesi e fonti aperte.
In estrema sintesi, al sistema sono stati forniti tutti i dati raccolti dall’intelligence israeliana su Gaza, della quale essa sa tutto, compresi i componenti dei nuclei familiari di ogni singolo appartamento; e, insieme, tutte le informazioni raccolte nel tempo su Hamas: i singoli militanti, le loro case, i loro parenti, i luoghi nei quali si tengono o si sono tenute riunioni etc.
L’intelligenza artificiale fornisce quindi l’analisi dei cosiddetti danni collaterali, leggi morti civili, che verrebbero provocati da un attacco a un obiettivo, vero o presunto che sia (la casa di un militante, ad esempio è un possibile obiettivo). “Tale numero [dei danni collaterali ndr] viene calcolato ed è noto in anticipo ai servizi segreti dell’esercito, che sanno anche, poco prima dell’attacco, quanti civili verranno sicuramente uccisi”, si legge su +972.
Così riporta il sito: “Niente accade per caso”, ha detto un’altra fonte. “Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla – che cioè era un prezzo che valeva la pena pagare per colpire [un altro] bersaglio. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti ‘danni collaterali’ ci sono in ogni casa”. Ci fermiamo qui, perché crediamo che basti.
Gli aiuti dell’Occidente
Il dramma è che l’Occidente, benché a parole protesti contro l’approccio bellico di Israele – ultimo Macron, il quale ha affermato che l’obiettivo di eliminare Hamas farà durare la guerra un decennio – non fa molto per opporsi. Anzi l’America, dal 7 ottobre, ha fornito a Tel Aviv “15.000 bombe, di cui oltre 5.000 con testate da 2.000 libbre”, quelle che buttano giù interi palazzi (Wall Street Journal).
Non solo. Il sito Declassified Uk, in base a documenti top secret, ha rivelato che “le risorse per lo spionaggio della Cipro britannica sono integrate con la ‘pianificazione e le operazioni militari’ – e l’intelligence probabilmente viene passata a Israele come ausilio al bombardamento di Gaza”. Peraltro, droni britannici e statunitensi sorvolano quotidianamente Gaza, non certo per riprese panoramiche.
Questa guerra, se guerra si può chiamare la mattanza in corso, sta trascinando l’Occidente in un abisso sempre più oscuro.

Pubblica un video contro Israele: il calciatore del Nizza Youcef Atal condannato a 8 mesi di carcere

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Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/01/03/pubblica-un-video-contro-israele-il-calciatore-del-nizza-youcef-atal-condannato-a-8-mesi-di-carcere/7399904/

di F.Q.

Una multa di 45mila euro e 8 mesi di carcere (con sospensione della pena): questa la condanna del Tribunale di Nizza per Youcef Atal, calciatore della squadra locale e della Nazionale dell’Algeria. Atal è stato condannato per “provocazione all’odio a causa della religione” per aver condiviso un video sui social che invocava “una giornata nera per gli ebrei“. Il giocatore era già stato sospeso dal Nizza, che milita in Ligue 1, mentre la Federcalcio francese ha deciso di sospenderlo per 7 partite a partire dallo scorso 31 ottobre.

Atal, nell’ambito del conflitto tra Israele e Hamas, aveva rilanciato il video del predicatore palestinese Mahmoud al-Hasanat che chiedeva appunto a Dio una punizione contro Tel Aviv. Il Tribunale, oltre a condannarlo, ha stabilito che il calciatore algerino dovrà pubblicare a proprie spese la sentenza sul quotidiano Nice-Matin e su Le Monde. Non solo, la stessa sentenza dovrà essere pubblicata anche sul suo account Instagram – doveva aveva condiviso il video al centro del processo – e rimanerci per almeno un mese.

Atal gioca per il Nizza dal 2018 (è stato anche compagno di squadra di Mario Balotelli). Di ruolo terzino, conta quasi 100 presenze con la maglia dei rossoneri di Francia, ma in questa stagione l’ultima volta che è sceso in campo risale al primo ottobre. Con la Nazionale algerina invece ha vinto la Coppa d’Africa nel 2019 in Egitto.

Il conflitto israelo-palestinese mette in luce il suprematismo occidentale

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di Fabio Fioresi

Ormai è una settimana che le bombe cadono su Gaza uccidendo uomini, donne e bambini.
La propaganda sionista non fa che accusare tutti quelli che dissentono come filonazisti e genocidi, mentre sono i cari sostenitori dell’unica democrazia del medioriente che festanti predicano la trasformazione della striscia in un cimitero.
La cosa più incredibile è la quantità di razzismo, xenofobia e intolleranza che i benpensanti hanno riscoperto.
Eppure, il nostro paese ha combattuto un’occupazione, noi più di tutti dovremmo sapere cosa vuol dire non passa lo straniero, e si sa i massacri perpetrati ai civili occupanti sono comunque colpa dei colonizzatori, perché sono loro che gli hanno messi in quella situazione di pericolo.
L’islamofobia da due soldi è forse la parte più esilarante ed irritante insieme, la saccenza di pensionati della domenica che giudicano popoli che non sanno neanche trovare sulla mappa geografica, che attacca i mussulmani per gli attentati recenti a Bruxelles. Ma lo vogliamo ricordare che noi bombardiamo quei paesi un giorno sì e l’altro pure, e ci indigniamo per attacchi che in confronto ai nostri sono nulla?
Un piccolo inciso, perché quando c’è un attentato di matrice islamista ogni mussulmano deve sempre chiedere scusa? Noi italiani per ogni cosa legata alla mafia ci dobbiamo vergognare?
Contemporaneamente la libertà di parola sta venendo ulteriormente irregimentate dal regime libertario.
economicamente ma totalitario politicamente, ovvero il nostro caro Piantedosi vorrebbe mandare agenti nelle scuole per verificare se hanno dei sentimenti pro Palestina.
Più va avanti la situazione più penso che la definizione di Russia e Cina come autocrazie sia solo un esempio di lapsus freudiano.

IL NUOVO ORDINE MONDIALE E LA PREVALENZA DEL MULTIPOLARISMO

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Discorso alla 1° Conferenza globale sul multipolarismo del 29 aprile 2023

Il mondo come lo vediamo oggi è stato diviso da due assi di potenze:

L’Occidente, guidato da Stati Uniti d’America, Regno Unito, Unione Europea, Canada, Giappone, Corea del Sud e Australia. E i BRICS, che comprendono Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, oltre a Iran e Venezuela come attori regionali e diversi Paesi africani. La Cina, con la sua iniziativa “Belt and Road”, è la potenza più grande, mentre Russia e India sono i principali attori su scala geopolitica ed economica.

L’Occidente e i BRICS hanno due possibilità: o affrontare l’attuale divisione geopolitica e raggiungere un accordo sano di un sistema mondiale bipolare o affrontare la catastrofe della terza guerra mondiale.

Come gli Stati Uniti d’America sono diventati unipolari?

La prima fase degli ultimi tre decenni è stata decisiva per dare forma al mondo di oggi. In primo luogo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del blocco socialista, in secondo luogo la seconda guerra del Golfo e in terzo luogo la guerra dei Balcani, che ha portato alla frammentazione dell’ex Jugoslavia in mini-paesi dopo l’intervento della NATO guidata dagli Stati Uniti. L’Unione Europea ha infine riunito questi mini-paesi sotto il suo ombrello su ordine degli USA.

La seconda fase è iniziata dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, che ha portato all’attacco degli Stati Uniti all’Afghanistan e all’invasione dell’Iraq, poi alla “dottrina del Grande Medio Oriente” e al “Caos Creativo” (2006), alla guerra contro il Libano (2006) e alla guerra del terrore per procura contro sette Paesi arabi, che stanno ancora sopportando le sue devastanti conseguenze come Paesi falliti, sotto l’occupazione militare degli Stati Uniti/Alleati e/o sotto le sanzioni.

La terza fase è rappresentata dalla rivoluzione colorata in Ucraina e dall’ascesa di un governo nazista, nonché dai massacri commessi contro gli ucraini russi nella regione del Donbass, nell’est del Paese, a partire dal 2014.

L’egemonia statunitense in azione

Per analizzare queste fasi di aggressione ed egemonia degli Stati Uniti contro altre nazioni e Paesi sovrani dobbiamo comprendere la sua struttura e la sua natura di legittimo successore delle potenze coloniali europee che per secoli hanno costruito le loro monarchie e le loro fortune sulle risorse naturali e sulla schiavitù del Terzo Mondo e che ancora oggi lo sfruttano al massimo, lo portano alla povertà e commettono crimini di guerra contro milioni di persone in Africa, Medio Oriente, Asia e America Latina.

Gli Stati Uniti hanno creato l’attuale sistema mondiale di unilateralismo gradualmente per continuare a servire gli interessi imperiali dell’1% della classe dirigente del mondo occidentale a spese di miliardi di persone in tutto il mondo e contro l’interesse del proprio popolo, sia in Europa, sia in Nord America, sia dei popoli dei suoi alleati subordinati altrove.

La mentalità dell’egemonia coloniale occidentale degli Stati Uniti sulle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, create dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, tra cui gli stessi Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Cina, il Regno Unito e la Francia, ha violato i principi della Carta delle Nazioni Unite e ha paralizzato il suo ruolo nella risoluzione dei conflitti regionali mondiali. Al contrario, gli Stati Uniti hanno creato enormi conflitti regionali.

La domanda da porsi è, come ha eloquentemente presentato Lavrov al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite pochi giorni fa: Perché l’Occidente è sovrarappresentato nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite? Rispetto ai miliardi di persone che compongono la maggioranza globale dei Paesi africani (1,2 miliardi), dell’Asia (4,56 miliardi), dell’Europa orientale (292 milioni) o dell’America Latina (656 milioni)? Mentre il Nord America (375 milioni) e l’Europa Occidentale (198 milioni) compongono solo mezzo miliardo di persone.

Gli Stati Uniti hanno l’egemonia sull’economia globale attraverso la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, strumenti finanziari di egemonia per fare pressione e sfruttare i Paesi del Terzo Mondo. Gli Stati Uniti impongono il loro dollaro come moneta mondiale, che la Reserve Bank non sostiene nemmeno con l’oro o con altri metalli preziosi.

Gli Stati Uniti hanno oltre 850 basi militari di controllo in tutto il mondo, mentre ostacolano o minacciano la Cina e la Russia dal tentare di creare organizzazioni economiche regionali o persino di pattugliare i propri territori, come nel caso di Taiwan, intimidendo i Paesi e imponendo loro sanzioni se collaborano con le due grandi potenze.

Il braccio di egemonia militare imperiale degli Stati Uniti, la NATO, che si estende in tutto il mondo, minaccia la sicurezza globale, la pace e la prosperità dell’umanità ovunque.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, gli Stati Uniti sono stati e sono tuttora coinvolti in decine di invasioni militari, guerre, cambi di regime, destabilizzazione e assassinio di presidenti (Libia) al di fuori dei propri confini, la più atroce delle quali è la guerra terroristica per procura in corso dal 2011, durante quella che hanno falsamente chiamato “Primavera araba”, contro diversi Paesi arabi tra cui la Libia, Iraq, Siria, Yemen, Tunisi, Egitto e Libano, oltre all’Afghanistan, all’Iran e ultimamente all’Ucraina, che sta mettendo in pericolo e minacciando l’Europa con una guerra prolungata che sta influenzando enormemente l’economia mondiale e potrebbe scivolare in scenari di guerra mondiale.

Il potere imperiale degli Stati Uniti sta usando le sanzioni non solo come strumento per disciplinare il sistema politico dei Paesi disobbedienti che si battono per la loro sovranità, ma anche come modo per punire i popoli e spingerli alla povertà per esercitare pressioni sulla loro leadership politica. Ad oggi, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a 33 Paesi, tra cui il territorio di Gaza, a sud della Palestina occupata, dove oltre due milioni di persone soffrono per l’assedio e le sanzioni criminali di Israele/USA e alleati.

Cosa può essere più conveniente per gli Stati Uniti/Occidente di questo? Perché gli Stati Uniti dovrebbero pensare di rinunciare al loro controllo unipolare sul mondo? Perché mai dovrebbero consentire la possibilità di condividere tutti questi privilegi “egemonici” con altri grandi attori regionali e globali del mondo, pur conoscendone l’inevitabilità?

L’unica risposta alla dottrina statunitense dell’egemonia unipolare è imporre il sistema multipolare con tutti i mezzi possibili, attraverso la cooperazione e il rafforzamento delle relazioni con i Paesi del Terzo Mondo, le corporazioni continentali e regionali come l’organizzazione ALPA in America Latina, il CCG nella regione del Golfo Arabo, la Lega Araba, l’Unione Africana. Questa è l’unica strada per la pace, la sicurezza e la prosperità globale per tutti i continenti e le nazioni.

Cosa significa ordine mondiale multipolare per la Palestina occupata e il suo popolo?

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea continuano a ignorare tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite relative alla lotta palestinese per la liberazione e l’indipendenza, come il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione sulla terra dei loro antenati in quanto popolo indigente della Palestina occupata, la risoluzione 194 sul diritto al ritorno e decine di risoluzioni correlate che sono state riconosciute molto tempo fa, ma non sono state attivate, e così l’aggressione e l’oppressione israeliana contro il popolo palestinese continuano, così come le sue sofferenze.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea chiudono un occhio sulle violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani da parte di Israele, tra cui l’assedio continuo alla Striscia di Gaza.

assedio continuo contro la Striscia di Gaza, dove due milioni di palestinesi sono prigionieri a cielo aperto, mentre la confisca delle terre palestinesi e la costruzione di insediamenti nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, che l’Occidente considera illegali, non hanno mai votato a favore di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condanna le azioni coloniali di Israele. Questo è un peccato se ci rendiamo conto che gli Stati Uniti sono il principale paese finanziatore dell’”Israele” coloniale.

Inoltre, le azioni di soppressione coloniale israeliane stanno accelerando contro 4500 prigionieri politici palestinesi, centinaia dei quali soffrono di malattie croniche e rischiano una morte lenta a causa dell’assenza di cure mediche secondo la Convenzione di Ginevra. La politica di detenzione amministrativa, ereditata dall’epoca dell’occupazione britannica, è una punizione israeliana contro i prigionieri politici che nega loro qualsiasi processo legale. Shaikh Khader Adnan, in sciopero della fame da 87 giorni, è stato lasciato senza cure mediche adeguate e ha perso la vita come una delle ultime vittime di questa politica fascista.

Nonostante Amnesty International e Human Rights Watch abbiano denunciato che lo Stato di occupazione è in realtà e di fatto un sistema di apartheid, gli Stati Uniti bloccano ogni tentativo delle vittime palestinesi di portare il governo di occupazione davanti alla Corte penale internazionale (CPI).

In un mondo multipolare, l’unità nazionale, la cooperazione regionale e la resistenza a tutte le forme di egemonia occidentale avvicineranno noi palestinesi al raggiungimento del nostro diritto all’autodeterminazione, allo smantellamento del sistema coloniale di apartheid “israeliano” e all’istituzione di uno Stato democratico nella Palestina storica, basato su un sistema politico costituzionale che preservi l’uguaglianza, la giustizia sociale e i diritti umani per tutti sotto il ruolo delle istituzioni civili. Questo è l’unico percorso che può preservare la pace, la sicurezza e la prosperità a livello regionale e globale.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/il-nuovo-ordine-mondiale-e-la-prevalenza-del-multipolarismo

Medio Oriente

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di Salvo Ardizzone

Fonte: Italicum

Intervista a Salvo Ardizzone, autore del libro “Medio Oriente”, Arianna Editrice 2021, a cura di Luigi Tedeschi

D. 1) L’epoca dei regimi del socialismo arabo è ormai tramontata. Furono regimi autocratici che, con tutti i loro fallimenti, le loro conflittualità e le loro contraddizioni evidenti, emersero da movimenti che si dimostrarono comunque determinanti nella lotta per l’indipendenza dei popoli arabi e conferirono una identità politico – culturale ai nuovi stati sorti dalla decolonizzazione. Contribuirono inoltre alla emancipazione e alla modernizzazione di popoli già emarginati dalla storia. Al crollo dei regimi autocratici, hanno fatto seguito solo il caos politico generalizzato e conflitti – etnico religiosi senza sbocchi. Con la fine del socialismo arabo, non è scomparso un modello di riferimento, senza alcuna prospettiva di nuovi equilibri geopolitici nell’area mediorientale e nordafricana?

R. I movimenti che si intestarono il processo di decolonizzazione, Baath, nasserismo, lo stesso Fln algerino, seppero liquidare le dominazioni coloniali in quanto esse erano anacronistici fenomeni antistorici, ma nessuno di essi riuscì (né, in realtà, ci provò seriamente) a costruire sistemi politici capaci d’interpretare le aspirazioni delle popolazioni musulmane che pur, nelle fasi iniziali, tributarono a essi un forte consenso, e si evolsero tutti in regimi duri, alcuni durissimi.

Le identità politico – culturali che conferirono ai nuovi stati furono spesso distanti da quelle autenticamente espresse dai popoli che ci vivevano, insomma, sovrastrutture velleitarie; basta far cenno alla pretesa del Baath, che rinnegava i singoli stati definiti regioni, di riconoscersi in un’unica nazione araba, o i velleitari tentativi di Nasser di “unioni a freddo”, vedi la R.A.U. con la Siria (degli esperimenti estemporanei di Gheddafi è inutile parlare).

La ragione prima di questa distonia fu che le leadership di quei movimenti provenivano da ambienti intellettuali o militari che si erano formati in Occidente, imbevendosi di dottrine positiviste che, seppur filtrate da una certa elaborazione politica, finivano per suonare ostiche o irricevibili al sentire profondo delle masse. Per cui, più che autentici interpreti dei propri popoli, finivano per essere pur sempre emanazione della cultura politica occidentale. Lo stesso Nasser riscosse un consenso plebiscitario grazie a posizioni populiste, impregnate da un nazionalismo panarabo eterodosso, ma ebbe la sorte di morire prima che il completo fallimento del suo modello (che di fallimenti ne aveva già collezionati tanti) sbriciolasse l’idolo che rappresentava per le masse.

Il socialismo arabo non è dunque finito, ma ha semplicemente fallito in quanto, pur avendo dinanzi masse più che disponibili a un radicale cambiamento, metteva in campo (quando lo faceva) dottrine non in linea con i paesi presso cui si è sviluppato, con leadership avulse dal sentire delle masse (di cui non si curavano più di tanto, anzi, disprezzavano i valori profondi espressi della gente e, quando li assecondavano, lo facevano per raccogliere consenso). In definitiva, i regimi forti che ha originato avevano lo scopo primario di mantenere al potere oligarchie e, se un certo sviluppo hanno originato, è stato un modo di comprare l’appoggio di taluni ceti assai più che mirare a una crescita armonica delle società.

È poi da sottolineare che è stato l’Occidente (e/o i suoi alleati arabi) a segnare la fine di quelle esperienze, con attacchi diretti (vedi Guerre del Golfo) o indiretti (vedi varie “primavere”). Quando quei regimi sono crollati, hanno lasciato dietro di sé il nulla; il caos che ne è seguito è stato conseguenza diretta della loro natura: oligarchie che avevano occupato il potere, ponendo le società sotto una cappa. Quanto poi ai conflitti che ne sono conseguiti, non sono stati conflitti etnici, malgrado tensioni si fossero accumulate, meno che mai religiosi, ma indotti da precisi disegni di destabilizzazione che hanno fatto leva sulle linee di faglia di quelle società per sgretolarle.

A tal proposito, nel mio ultimo libro (Medio Oriente. Dall’egemonia Usa alla Resistenza Islamica) dedico diverse pagine alle Dottrine Bernard Lewis e Yinon, con le loro teorie di scomposizione dello scenario mediorientale, fatte proprie da think-tank e decisori politici statunitensi e israeliani, e alle dinamiche distruttive che sono state sviluppate.

Che poi quei regimi potessero essere un modello di riferimento personalmente non direi, erano regimi che non esito a definire iniqui; riferimento lo erano semmai per le potenze occidentali, che li hanno giostrati a seconda dei propri interessi, Usa in testa.

Quando potranno sorgere nuovi equilibri? Dall’osservazione dei fatti, è mia convinzione che nel MENA sia in corso da molto tempo uno scontro fra i vecchi assetti, che intendono mantenere il controllo sulla regione, e i nuovi, che combattono per liberarsi. In altre parole, una lotta fra oppressori e oppressi, fra il Vecchio e il Nuovo Medio Oriente che vuole emergere. È questo il filo rosso che lega e spiega gli eventi.

Alla luce di ciò, i nuovi equilibri cominciano già a intravedersi, in alcune vaste aree sono ormai delineati, ovvero dove l’antico sistema oppressivo è ormai in crisi irreversibile e combatte le ultime battaglie prima di prendere atto della sconfitta (come sta avvenendo in Iraq, Yemen e nello stesso Libano, ma anche altrove).

D. 2) L’Islam ha costituito un valore identitario di coesione e di riscatto politico – culturale per i popoli arabo – islamici. L’Islam ha rappresentato un valore spirituale universale unificante, per popoli diversi suddivisi in stati artificialmente creati in base alle spartizioni coloniali delle potenze europee dominanti nei secoli scorsi. L’Islam dovrebbe dunque essere un elemento identitario di contrapposizione al dominio imperialista dell’Occidente americano. Tuttavia, date le conflittualità interconfessionali esistenti e le nuove eresie sanguinarie islamiche diffusesi negli ultimi decenni, l’Islam è divenuto un fattore di destabilizzazione dell’area mediorientale e nordafricana. Anzi, i fanatismi diffusi hanno fornito una sovrastruttura ideologica necessaria per le guerre d’aggressione condotte dagli imperialismi vecchi e nuovi. L’Islam quindi, da valore spirituale unificante, non si è trasformato in uno strumento della “strategia del caos” e di dissoluzione degli stati?

R. Prima di risponderle, devo necessariamente ribattere ad alcune affermazioni che precedono la sua domanda: nell’Islam non ci sono sostanziali conflittualità interconfessionali e le eresie sviluppatesi negli ultimi decenni non hanno a che vedere con l’Islam più di quanto Michele Greco, con le sue improbabili citazioni dei Vangeli nei processi, ne aveva con il Cattolicesimo.

L’Islam non è un fattore destabilizzante del MENA né, tantomeno, è uno strumento della “strategia del caos”, semmai è stato vittima di una gigantesca operazione di disinformazione finalizzata alla costruzione di un “Nemico”, che giustificasse gli interventi di destabilizzazione tesi a realizzare gli interessi egemonici degli Usa e dei suoi alleati.

Andiamo con ordine: negli anni Novanta del secolo scorso, fra i think-tank “neocon” americani si affermarono le tesi elaborate anni prima da Bernard Lewis, uno studioso britannico ex collaboratore dei Servizi, e ciò in assonanza con quanto già formulato dal giornalista Odet Yinon in Israele.

Come ho già accennato, secondo tali dottrine Usa e Israele avrebbero dovuto decomporre gli stati mediorientali, facendo leva con qualsiasi mezzo sui loro punti critici, al fine di destrutturare l’area e ricomporla secondo i loro interessi o, in alternativa, determinando quel “caos creativo” (copyright by Hillary Clinton) che inibisse quelle aree a chi era giudicato un avversario (con ciò facendo espresso riferimento all’Iran e, soprattutto, alla proiezione della Rivoluzione Islamica).

Terzo pilastro del progetto era l’Arabia Saudita, giudicata essenziale per la creazione, il controllo e l’indirizzo dei gruppi che avrebbero dovuto destabilizzare la regione, replicando il ruolo interpretato con successo al tempo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Un simile progetto avrebbe dato il via a un ciclo di guerre ma, se centri di potere e complessi militari-industriali erano entusiasti di una tale prospettiva, l’opinione pubblica Usa non ne era per nulla interessata; occorreva “qualcosa” che la sintonizzasse su quel programma e giustificasse una politica d’aggressione dinanzi al mondo. In altre parole, occorreva un “Nemico” contro cui gli Usa (e i loro alleati) potessero dichiarare una guerra permanente con il consenso generale.

Il “qualcosa” accadde l’11 settembre e il “Nemico” esisteva già da anni, perché creato dalle Intelligence americana e saudita al tempo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e, da allora, mai perso di vista. Da quel momento gli Usa scesero in guerra contro il “Terrore”, ovvero contro chiunque l’Amministrazione del momento ritenesse conveniente.

La riuscita di una tale strategia è stata resa possibile da una colossale operazione di “framing” operata dal sistema mediatico americano e avallata dai media dell’intero Occidente; in “Medio Oriente” dedico più pagine a spiegare come essi si prestarono a una sistematica narrazione dei fatti distorta, lacunosa e faziosa, realizzando una gigantesca disinformazione collettiva.

Fulcro di questa operazione è stata una campagna contro l’Islam: descrivere quella religione e quella cultura nel modo più distorto, accreditando di esse l’immagine oscurantista e fanatica del wahabismo, vicino ai gruppi terroristici nati grazie alle manovre saudite e gli aiuti Usa, è servito a creare il “Nemico” e giustificare gli interventi militari.

A conclusione di quanto detto, ribadisco che il sedicente “scontro di civiltà” sia strumentale, evocato per motivare un vasto programma d’aggressione, come pure, assimilare all’Islam alle farneticazioni dei takfiri (così vengono chiamati dai veri islamici), o ritenerli parte di esso, sia una mistificazione fuorviante. Affermare dunque che siano stati i fanatismi in qualche modo presenti nell’Islam a fornire il pretesto per le guerre d’aggressione è invertire i ruoli, avallando la narrazione bugiarda del mainstream.

Allo stesso modo, insistere nella convinzione che sia in corso uno scontro interconfessionale fra sunniti e sciiti è falso, il nocciolo della questione è politico: l’Iran è la potenza guida della Rivoluzione Islamica che guida la Resistenza contro il sistema di potere che ha oppresso e opprime quella regione; le petromonarchie del Golfo e gli altri potentati locali fanno parte di quel sistema e per questo si oppongono con ogni mezzo al cambiamento. È tutto qui il discorso e il fatto che taluni stati siano a maggioranza sciita e altri sunnita non è affatto il cuore del problema.

Alla luce di quanto detto, spero sia chiaro che l’Islam non sia in alcun modo uno strumento della “strategia del caos”, ma sia stato così dipinto dall’interessata vulgata occidentale. Piuttosto, per i suoi principi correttamente intesi, è invece la fonte di un progetto di liberazione rivolto a tutti gli oppressi; sciiti, sunniti, anche cristiani, non fa differenza.

D. 3) Con la nascita della Repubblica Islamica si è affermato un nuovo sistema politico di natura identitaria islamica e antimperialista nei confronti dell’Occidente. La rivoluzione iraniana fu concepita da Khomeyni come un evento che avrebbe potuto estendersi a tutto il mondo islamico. tuttavia tale rivoluzione rimase circoscritta all’Iran. Anzi, l’Iran fu aggredito e combattuto da altri stati islamici. Si è inoltre rivelata insanabile la frattura interna all’Islam fra sciiti e sunniti, tuttora coinvolti in uno stato di guerra permanente. Quali sono le cause che hanno impedito al modello iraniano di espandersi e universalizzarsi?

R. La Rivoluzione Islamica non è rimasta affatto circoscritta all’Iran, al contrario, e la continua espansione dell’Asse della Resistenza è lì a dimostrarlo. In Libano, Iraq, Yemen, Palestina, Bahrein, e ora anche in Afghanistan e persino in Pakistan, in tante parti del mondo si sta radicando, anche in Nigeria, dove ne sentiremo parlare presto. Da questa proiezione, che minaccia sistemi di dominio e antiche egemonie, nascono le tante guerre scatenate prima per soffocarla (vedi la Guerra Imposta provocata da Saddam Hussein con l’appoggio degli stati del Golfo e dell’Occidente) e poi per frenarla (vedi i lunghi conflitti in Siria, Iraq, Yemen, Libano e Palestina).

In ormai cinquant’anni, malgrado repressioni selvagge, guerre, aggressioni d’ogni tipo, sanzioni, non è mai capitato che movimenti ispirati alla Rivoluzione Islamica siano stati sradicati, al contrario, essi si sono sempre sviluppati, accrescendo il radicamento nelle rispettive società. Ed è la Storia che lo afferma, non è un’opinione. È per questa riconosciuta capacità che la Dottrina della Resistenza è considerata un pericolo esiziale sia dalle tante monarchie assolute della regione, che in essa vedono la fine dei propri privilegi, sia dalle potenze che traggono utili (enormi) da questo stato di cose (Usa in primis).

Come ho già detto, se l’Iran è stato aggredito e combattuto da altri stati islamici, non è accaduto certo in nome della religione, ma a causa della dottrina di liberazione che da esso si proiettava; una dottrina che era una minaccia mortale per i poteri assoluti (e le ricchezze) d’un pugno di famiglie regnanti.

Per questo, lo ripeto ancora, è strumentale parlare di frattura interna all’Islam fra sunniti e sciiti, una frattura evocata per coprire lo scontro fra chi vuole mantenere un iniquo sistema di sfruttamento sulla regione e chi lotta per liberarsi da esso. E ribadisco che in questa lotta di liberazione c’è posto per tutti: sunniti, sciiti, cristiani, drusi, curdi, yazidi e ogni altra etnia o confessione, tutte largamente rappresentate nelle formazioni della Resistenza Islamica. Malgrado tutti gli sforzi di quello che in “Medio Oriente”, con un neologismo, ho chiamato per semplicità Fronte dell’oppressione, non c’è stato modo d’impedire alla Rivoluzione Islamica di espandersi.

Ancora una notazione: quando lei evoca un “modello iraniano” bisogna intendersi; è un errore pensare che la Rivoluzione Islamica sia un modello rigido e la sua applicazione uguale in ogni paese in cui si radichi; per sua costituzione essa si adatta alle condizioni culturali, storiche, sociali ed economiche di ogni popolo, per cui, dagli stessi principi, ispirati ai medesimi valori, deriveranno modelli diversi di Società della Resistenza. In poche parole, il modello iraniano non sarà replicato in Yemen, come quello libanese non lo sarà in Iraq, ma ognuno ne avrà uno proprio.

D. 4) L’area geopolitica mediorientale dal secondo dopoguerra in poi, è sempre stata un teatro di scontro tra le grandi potenze mondiali. Gli USA hanno voluto sostituirsi agli imperi coloniali europei nel dominio geopolitico dell’area. Dopo il crollo dell’URSS, l’unilateralismo americano, con il sostegno di Israele, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, ha messo in atto la “strategia del caos” con la destabilizzazione interna e l’aggressione degli “stati canaglia”. Alla strategia imperialistica americana, non hanno però fatto riscontro i successi politici programmati, in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia. La supremazia militare ed economica americana non si è tradotta in primato geopolitico globale. Gli americani non hanno quindi realizzato un dominio senza egemonia? Gli Usa non sono dunque una potenza imperialistica congenitamente incapace di divenire un impero?

R. Gli Usa sono divenuti egemoni di metà del mondo quando l’Europa si suicidò e l’URSS emerse come loro antagonista; con l’implosione del blocco sovietico gli Stati Uniti rimasero l’unica superpotenza e per qualche tempo s’illusero che la Storia fosse finita, consacrandoli egemoni del mondo. Ma, malgrado i tanti decisori politici che l’hanno creduto, rischiando di auto avverare quella strampalata teoria, la Storia non è finita affatto e lo dimostra l’emergere di un multipolarismo che è nei fatti prima ancora che nelle teorie geopolitiche, e che ha posto crescenti limitazioni al potere a Stelle e Strisce.

Tuttavia, se un dominio globale stringente è nei fatti precluso agli Usa (neanche loro hanno i mezzi e, meno che mai, le capacità per mantenerlo), ritengo necessario soffermarci sulla natura dell’egemonia americana, che pur esiste.

A mio parere quello americano è un impero, ma di natura talassocratica e ora finanziaria, assai diverso da quelli che l’hanno preceduto, solo in qualche modo simile a quello britannico dell’Era Vittoriana, ma anni luce lontano da ciò che era l’URSS e dal modo che essa aveva di esercitare il potere. Ciò che muove i centri che controllano l’enorme macchina federale (costituita da Pentagono, Dipartimento di Stato, Intelligence e Agenzie varie) è il conseguimento degli interessi di cui essi sono terminali, e la forza è solo uno, e neanche il più usato né, alla prova dei fatti, il più efficace, degli strumenti adoperati per realizzarlo.

La forza del biglietto verde, a tutt’oggi misura e strumento della stragrande maggioranza degli scambi commerciali, e il controllo delle istituzioni finanziarie mondiali (Banca Mondiale, Fondo Monetario, Club di Parigi, etc.), uniti al più forte e pervasivo sistema finanziario del globo, danno a quell’impero una leva enorme.

A ciò s’aggiunge un vantaggio troppo spesso trascurato: possedere il più grande e, piaccia o no, influente sistema di media esistente, capace di determinare il pensiero mainstream e influenzare in modo decisivo le opinioni pubbliche di tutto il mondo. È un soft-power, certo, ma enorme; basti pensare alla copertura che ha dato alle guerre imperialistiche degli Usa, alla creazione del “Nemico”, alla capacità di “vendere” la società americana, basata sulla disuguaglianza e lo sfruttamento più iniquo, come un sogno, alla demonizzazione di tutto ciò che è contrario al sistema Usa e, dunque, ai suoi interessi.

Non è un caso che il sistema statunitense sia il padre della globalizzazione, ciò che gli interessa realmente è che: i traffici marittimi funzionino coerentemente al suo tornaconto (e l’US Navy è ancora la vera padrona dei mari); il dollaro rimanga arbitro di commerci, investimenti e transazioni; il mondo intero sia costretto a sostenere il biglietto verde nei suoi momenti critici, sottoscrivendo in massa i titoli di stato americani per evitare il collasso dell’economia globale (vedi le stratosferiche emissioni di debito Usa, che hanno accollato al mondo intero i danni della crisi originata da Lehman Brothers).

Per il resto, al Deep State americano, vero depositario del potere con buona pace delle Amministrazioni che passano e che esso, al bisogno, sa ingabbiare (vedi le feroci limitazioni imposte a Trump su temi giudicati sensibili, come le relazioni con la Russia), basta che in nessun quadrante del mondo si affermi un vero egemone capace di tenergli testa in quell’area. Certo, molto ci sarebbe da dire sui punti fermi dello Stato Profondo Usa e sul come (non) riesca a ottenere i risultati che si aspetta, ma ci porterebbe troppo lontano.

Concludendo, ritengo che gli Usa siano una potenza certamente imperialista, con una netta vocazione imperiale del suo sistema resa tuttavia sempre più riluttante da una crescente fetta di opinione pubblica interna tagliata fuori dai benefici dell’impero (di qui la base del successo di Trump, riscosso fra i “forgottens” della globalizzazione).

D. 5) La causa palestinese è oggi priva di rilevanza internazionale. Dopo gli insuccessi bellici degli stati arabi contro Israele susseguitisi dal 1948 al 1973, il fallimento politico dell’OLP e il moltiplicarsi degli insediamenti israeliani nei territori occupati, la nascita di uno stato palestinese è, allo stato attuale, da considerarsi un evento assai improbabile. La causa palestinese è stata sempre strumentalizzata dagli stati arabi per loro fini politici, salvo poi espellere o addirittura massacrare i profughi palestinesi al pari d’Israele. Con i nuovi equilibri geopolitici mediorientali e il riconoscimento di Israele da parte di alcuni stati arabi, la causa palestinese è da ritenersi ormai esaurita? Mancando gli alleati di riferimento, quale futuro si prospetta per i palestinesi? L’affermazione di Hezbollah in Libano, quale influenza può esercitare sul destino politico della Palestina?

R. È una domanda che per l’ampiezza necessiterebbe di un’intervista a parte, proverò a sintetizzare anche se mi rendo conto che alcuni temi possano apparire sorprendenti alla luce del pensiero mainstream attuale, focalizzato su ciò che non è e assai distante dalla realtà dei fatti sul campo. In realtà, l’interesse della comunità internazionale per la causa palestinese non è servito a molto, il massimo che ha saputo produrre è stata la beffa degli Accordi di Oslo, ovvero la svendita della Palestina a Israele, con tutti intorno ad applaudire, e la straordinaria ipocrisia del conferimento di due Nobel per quella truffa.

Nei fatti nessuno, in Occidente come nei paesi arabi che pur davano mostra di agitare quella causa, ha preso in seria considerazione la nascita di un vero stato palestinese, era invece la finzione di uno stato-non-stato che serviva a tutti: a Israele, che dinanzi al mondo metteva la pietra tombale su una crisi fastidiosa, senza rinunciare a nessuno dei suoi programmi espansionistici; ad Arafat e la sua cerchia corrotta che, con l’ANP, si vedevano riconoscere da interessati attori esterni un ruolo e una legittimazione che avevano ormai perso fra la loro gente; ai paesi arabi, che spazzavano sotto il tappeto una causa divenuta troppo scomoda.

Tuttavia, se la via indicata da Oslo si è rivelata da subito impraticabile, perché nessuno di chi l’ha sottoscritta era interessato a uno sbocco concreto (anzi, il contrario), l’eventualità di una nascita di un vero stato palestinese, seppur non ancora alle porte, non è mai stata più probabile.

Sgombrati dal tavolo i falsi riferimenti, che mai hanno fornito appoggio vero ai palestinesi, sul campo e fra la gente la causa della Palestina è stata presa in mano da un unico soggetto, la Resistenza Islamica, a cui oggi tutte le formazioni della militanza palestinese fanno riferimento e in cui si riconoscono, sia pur con sensibilità e sfumature diverse, ma seguendo un unico coordinamento. Per chi conosce la realtà di quelle terre, si tratta di un evento straordinario, mai accaduto: oggi, un’unica sala di comando dirige tutti i gruppi della Resistenza a Gaza, nel West Bank e perfino all’interno di Israele.

Alla nuova e crescente unità dei palestinesi, corrisponde uno sfarinamento della società israeliana, sempre più spaccata fra “tribù” (definizione del presidente israeliano Reuven Livlin), componenti separate da interessi, opinioni e visioni dello stato ferocemente contrapposte, causando una lacerazione del tessuto sociale che il passare del tempo rende più radicale e avvelenata.

Laici ashkenaziti, tradizionalisti-nazionalisti sefarditi, ultraortodossi haredim e, da ultimi, gli arabi israeliani, sono inconciliabilmente divisi su tutto. La dimostrazione ultima c’è stata in occasione della crisi del maggio scorso: il successo politico dell’Operazione “Spada di Gerusalemme”, lanciata dalla Resistenza Palestinese, e lo speculare fallimento dell’Operazione “Guardiano delle Mura”, intrapresa da Tsahal, ne sono la dimostrazione (come ammesso senza mezzi termini dalla stampa israeliana).

A maggio Israele ha dovuto interrompere la sua azione militare perché non era in grado di entrare a Gaza, una striscia di appena 365 chilometri quadrati, ma, soprattutto, per l’insurrezione degli arabi israeliani che ha messo fuori controllo le città stesse di Israele e frantumato la sua coesione interna. Illuminante in tal senso è il numero 5 della rivista Limes a ciò dedicata e il lungo editoriale del suo direttore Lucio Caracciolo.

Tra l’altro, non è corretto affermare che ai palestinesi ora manchino alleati di riferimento, è più esatto dire che in passato hanno avuto accanto sciacalli che si sono ingrassati sulle loro sciagure o che, dietro al loro nome, hanno svolto i loro mercimoni (e i risultati si sono visti); oggi la Resistenza Palestinese partecipa a pieno titolo all’Asse della Resistenza, è unita come non mai, ha consapevolezza di sé e della situazione, ha archiviato i dirigenti discutibili e dispone ora di leadership credibili e di un progetto di liberazione come non ha mai avuto.

Che poi alcuni stati arabi abbiano normalizzato le relazioni con Israele non sposta affatto le equazioni geopolitiche, è solo l’emersione delle reali posizioni già esistenti, spinta e pagata in moneta sonante dall’Amministrazione Trump, venduta agli interessi israeliani dietro lauto compenso (in primis al Presidente stesso e al genero Jared Kushner).

In tutto questo, da molti anni Hezbollah ha pazientemente svolto (e svolge tutt’ora) un ruolo centrale di guida, riferimento, supporto ed esempio oltre che di forte deterrenza nei confronti di Israele, che lo considera il nemico più temibile (copyright by Stato Maggiore di Tsahal). È evidente che la deflagrazione di una crisi in Palestina, quando nel West Bank la preparazione della Resistenza ormai unita sarà giudicata sufficiente, vedrà in Hezbollah un attore primario, come lo saranno le altre formazioni dell’Asse della Resistenza dal Golan.

Questi non sono affatto vaneggiamenti o fantapolitica, questo è l’incubo più volte manifestato apertamente dalle Forze Armate israeliane, che ai più alti livelli hanno manifestato seri dubbi sulla capacità di tenuta di Israele, ripreso da una stampa inquieta. Mi rendo conto che questa sia una rappresentazione “eretica” della realtà in Palestina, ma è quella che farebbe qualsiasi analista od opinionista di media accreditati (e indipendenti) della regione, come Al-Mayadeen o Al-Manar.

 

Medio OrienteMedio Oriente – Libro

 

Sistemi democratici, dall’Estremo al Vicino Oriente

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Israele come la Cina: riconoscimento facciale per il controllo dei palestinesi
 
L’esercito con la stella di David avrebbe promosso un programma di ampia portata basato sulle nuove tecnologie. I soldati armati di smartphone hanno scattato migliaia di fotografie, avviando una vera e propria gara interna. Per Breaking the Silence sono metodi di sorveglianza “altamente invasivi” che mostrano una “digitalizzazione” dell’occupazione. 
 
Gerusalemme (AsiaNews) – Un programma di ampia portata finalizzato all’identificazione dei palestinesi in Cisgiordania, con riconoscimento facciale e uso delle nuove tecnologie sul modello applicato da tempo dalla Cina, utilizzando il pattugliamento del territorio dei soldati. Secondo quanto emerge da una inchiesta approfondita del Washington Post i militari, armati non di fucile ma di telecamere, avrebbero scattato foto degli abitanti della cittadina di Hebron, lanciando una vera competizione per raccoglierne il più possibile. 
 
Il progetto è iniziato almeno due anni fa e si basa sull’utilizzo degli smartphone con sistemi di riconoscimento facciale e una tecnologia chiamata “Blue Wolf”, con raccolta di fotografie e dati incrociati con un database già presente negli archivi di Israele. L’applicazione, spiegano gli esperti, avvisa il soldato nel caso in cui gli individui debbano essere trattenuti in base alle informazioni preliminari disponibili su di loro.
 
Durante le fasi di creazione dell’archivio fotografico digitale, i soldati hanno fotografato migliaia di palestinesi, gareggiando fra loro sul numero delle immagini scattate ogni giorno. Un militare, interpellato dal quotidiano Usa dietro anonimato, spiega che l’unità alla quale apparteneva lo scorso anno aveva il compito specifico di “scattare il maggior numero di foto possibili” utilizzando vecchi smartphone dell’esercito. Secondo gli attivisti di Breaking the Silence (Bts), ong israeliana di ex militari e riservisti che denuncia quelli che considera abusi dello Stato ebraico nei Territori occupati, l’opera di schedatura poteva contare anche su un’ampia rete di telecamere per il riconoscimento facciale. Essa operava integrando il sistema a circuito chiuso noto come Hebron Smart City che, a detta di un ex militare, appare in grado di tracciare i palestinesi anche all’interno delle loro case.
 
La rete di sorveglianza include inoltre l’applicazione “White Wolf”, usata dai funzionari della sicurezza negli insediamenti in Cisgiordania per fornire informazioni e identificare i palestinesi prima del loro ingresso nelle colonie per motivi di lavoro. “Le persone si preoccupano delle impronte digitali – ha spiegato l’ex soldato al Post – ma questo sistema [digitale] è molto più elaborato e preoccupante”.
 
Secondo gli attivisti di Bts, il nuovo sistema utilizza metodi di sorveglianza “altamente invasivi” basati sulla tecnologia di riconoscimento facciale, per essere in grado di “monitorare i movimenti dei residenti palestinesi in tempo reale”. Queste rivelazioni sono solo l’ultimo esempio della “digitalizzazione” dell’occupazione. “Mentre qui in Israele, e in tutto il mondo occidentale, vi è un acceso dibattito sul grado in cui i governi sono autorizzati a usare la tecnologia per entrare nelle nostre vite – conclude la nota – quando si tratta di palestinesi, non vi è alcuna discussione”.
 
 

Terra Santa – “Sogno sionista” e incubo cristiano

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Il governo di Tel Aviv ha annunciato con soddisfazione la crescita dell’immigrazione ebraica in Terra Santa (in prevalenza giovani) che realizza, secondo il ministro dell’immigrazione, il “sogno sionista”. Il massiccio arrivo di immigrati ebrei non si è fermato neppure con l’emergenza sanitaria, che invece ha bloccato i pellegrinaggi ai Luoghi Santi, con gravissimi danni alle famiglie cristiane palestinesi che vivono principalmente di turismo. La crescente immigrazione ebraica mette così in ulteriore minoranza i pochi cristiani locali sopravvissuti alle sopraffazioni sioniste del 1948 e del 1967.
 
Nel 2021 cresce del 31% l’immigrazione ebraica in Israele
 
Calano gli arrivi dalla Russia, in aumento da Stati Uniti, Sud Africa ed Etiopia nel quadro dell’operazione Tzur Israel. Un’immigrazione in larga maggioranza giovanile. Il flusso in entrata non si è mai fermato, nemmeno durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19. Per il ministro israeliano sono cifre “positive”.
 
Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) – Nei primi mesi del 2021 l’immigrazione ebraica in Israele è cresciuta del 31%, con un numero crescente di ingressi da Stati Uniti, Francia, Ucraina, Bielorussia, Sud Africa ed Etiopia, mentre si registra una lieve flessione dalla Russia. È quanto emerge dai dati ufficiali forniti dal ministero israeliano dell’Immigrazione e dall’Agenzia ebraica, alla vigilia della festa di domani in ricordo delle persone che hanno intrapreso il viaggio verso la “terra promessa”.
Secondo le statistiche ufficiali, anche per quest’anno il maggior numero di immigrati ebrei proviene dalla Russia (5.075), a dispetto di una diminuzione del 5% nel numero rispetto al 2020. Vi sono stati 3.104 nuovi ingressi dagli Stati Uniti, con una crescita del 41% rispetto ai primi nove mesi dell’anno passato.
 
Almeno 2.819 nuovi immigrati si sono trasferiti dalla Francia (+55%), 2.123 dall’Ucraina (+4%), 780 dalla Bielorussia (+69%), 633 dall’Argentina (+ 46%), 490 dal Regno Unito (+20%), 438 dal Brasile (+4%) e 373 dal Sudafrica (+56%). Dall’Etiopia si registrano 1.589 immigrati nel quadro dell’operazione Tzur Israel, una iniziativa voluta dal governo per favorire l’immigrazione di membri della comunità ebraica dal Paese africano. 
In base all’età, oltre la metà degli immigrati ebrei in Israele giunti nel 2021 ha meno di 35 anni, con il 23,4% di età compresa fra 0 e 17 anni; il 33,4% ha fra i 18 e i 35 anni. Il 16,3% rientra nella fascia 36-50 anni, il 13% ha fra 51 e 64 anni e il 13,9% ha più di 65 anni. Il ministero dell’Immigrazione aggiunge che 2.184 nuovi immigrati si sono trasferiti a Gerusalemme, 2.122 a Tel Aviv, 2.031 a Netanya, 1.410 ad Haifa e 744 ad Ashdod. Il titolare del dicastero Pnina Tamano-Shata parla di cifre “positive”, sottolineando il grande contributo fornito dagli immigrati ebrei alla società israeliana in un’ottica complessiva di sviluppo. 
 
In una nota scritta in inglese, ma usando i termini ebraici per riferirsi all’immigrazione e agli immigrati, il ministro ha detto: “Sono lieto di lanciare la settimana Aliyah per il 2021, dove salutiamo e accogliamo gli immigrati per il loro contributo allo Stato di Israele. Ho lavorato nel governo per garantire che l’immigrazione non si fermasse, nemmeno durante la pandemia di Covid-19, e perché l’aliyah possa essere la realizzazione del sogno sionista”. 
Lo scorso anno, durante il periodo più acuto dell’emergenza sanitaria innescata dalla pandemia di nuovo coronavirus, il dato relativo all’immigrazione ebraica in Israele è calato di circa il 40%. Il dato nel 2020 si è fermato a 21.200, rispetto ai 33.500 dell’anno precedente, con un calo complessivo del 36,7%.
 
 

Tremila bambini palestinesi uccisi da Israele dalla Seconda Intifada

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Segnalazione di Redazione Il Faro sul Mondo

di Yahya Sorbello

Il ministero dell’Informazione palestinese ha sottolineato la brutale violenza contro i bambini palestinesi da parte dell’esercito israeliano, affermando che più di tremila minori hanno perso la vita per mano delle truppe israeliane dalla Seconda Intifada.

Il ministero ha affermato in una dichiarazione che almeno 3.100 bambini palestinesi sono stati uccisi, mentre decine di migliaia hanno riportato ferite dall’inizio della Seconda Intifada, scoppiata il 28 settembre 2000 contro l’occupazione del territorio palestinese da parte del regime di Tel Aviv.

La dichiarazione riporta che 123 minori palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti da quando l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale israeliana nel dicembre 2017. Più di 17mila bambini palestinesi sono stati arrestati durante questo periodo.

Secondo le statistiche del Palestinian Prisoners Club e dell’Autorità palestinese per gli affari dei prigionieri, le forze israeliane hanno arrestato oltre 300 bambini tra l’inizio dell’anno in corso. Il numero di minori palestinesi attualmente detenuti nelle carceri israeliane è di 155.

Settemila bambini palestinesi arrestati dal 2015

Più di settemila bambini palestinesi sono stati arrestati dalle autorità israeliane dal 2015 e alcuni sono stati condannati a dieci anni di prigione o all’ergastolo, ha affermato la Palestinian Prisoners ‘Society (Ppd) in una dichiarazione rilasciata alla stampa. La società ha sottolineato che la maggior parte dei bambini detenuti proviene da Gerusalemme.

Il Pps ha invitato le istituzioni internazionali per i diritti umani, e in particolare il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), a compiere seri sforzi per proteggere i bambini palestinesi e ad obbligare le autorità israeliane a rispettare una serie di accordi sulla protezione dei bambini detenuti.

Più di settemila prigionieri palestinesi sono attualmente detenuti in circa 17 carceri israeliane, dozzine di loro stanno scontando condanne all’ergastolo.

di Yahya Sorbello

Fonte: https://ilfarosulmondo.it/tremila-bambini-palestinesi-uccisi-israele-seconda-intifada/

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