IL VATICANO IN LINEA CON SOROS. Dimissioni di Ratzinger per intrighi di Palazzo

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di Silvano Danesi

Per rimanere nella tempistica utile non si poteva aspettare la morte di Benedetto XVI e così lo si è invitato, per usare un eufemismo, alle dimissioni. Si arriva, dunque, alla rinuncia del Papa teologo… (Stando così le cose, è evidente che le dimissioni di Ratzinger abbiano favorito la “mafia di San Gallo”. Il comportamento dell’ “emerito”, a seguito delle dimissioni è stato più che accondiscendente. Se, in realtà, egli fosse d’accordo, non lo sapremo mai. Sappiamo che ha assecondato la “mafia di San Gallo” e certamente non avrebbe dovuto. [N.d.R.] )

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Da tre giorni La Verità scrive dei rapporti tra la Cei, guidata dal cardinale Matteo Maria Zuppi e l’ex noglobal Luca Casarini. Rapporti che hanno dato luogo a finanziamenti alla ong che arma la Mare Jonio, un rimorchiatore che trasporta migranti e che ora è indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’inchiesta giornalistica rivela che anche la Open Arms è stata finanziata, ma direttamente dal Papa.

L’inchiesta è stata iniziata da Panorama e ieri il direttore de La Verità, Maurizio Belpietro, dopo che Luca Casarin è stato addirittura invitato al Sinodo, si chiede come sia stato possibile inquinare così i vertici cattolici.

Forse la domanda ha una risposta nei vertici cattolici stessi, ossia in Jorge Mario Bergoglio, nella sua elezione, nelle sue esternazioni, nei suoi rapporti internazionali e nella sua posizione su clima, green e migranti.

Nell’insieme il papato di Jorge Mario Bergoglio si pone in perfetta linea con la Open Society Foundations di George Soros e con la cupola finanziario- filantropica che dirige la musica sul clima, sulla nuova religione green e sui rapporti con la Cina in chiave di controllo sociale.

I vertici cattolici non sono inquinati da Casarin, che è solo una delle tante pedine di un disegno, ma dal vertice stesso, in quanto, come scrive Sir Henry Sire, docente universitario e storico, nonché cavaliere dell’Ordine di Malta (poi espulso per aver scritto di Bergoglio) con lo pseudonimo di Marcantonio Colonna (“Il Papa dittatore”), “Bergoglio è stato eletto dalla “mafia” liberale, un gruppo di vescovi e di cardinali progressisti che per anni ha agito per centrare proprio questo obbiettivo”.

Papa dittatoreMaschera di Bergoglio

Il termine “mafia” è stato introdotto per la prima volta in un’intervista televisiva nel settembre 2015 dal Cardinal Godfried Danneels, arcivescovo emerito, ma al tempo ancora molto influente, di Bruxelles-Mechelen a proposito del Gruppo di San Gallo.

“Danneels – scrive Colonna – ha affermato di aver fatto per anni parte di questo gruppo che si era opposto a papa Benedetto XVI durante tutto il suo pontificato. Il gruppo ha lavorato, egli ha detto, per favorire la formazione di una Chiesa Cattolica ‘molto più moderna’ e per far eleggere papa l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio”.

Il gruppo “si incontrava ogni anno dal 1996” a San Gallo, in Svizzera, originariamente su invito del vescovo della città, Ivo Fürer, e dell’arcivescovo di Milano, il cardinale gesuita Carlo Maria Martini.

“Danneels – scrive Colonna – aveva rilasciato l’intervista per promuovere la sua biografia autorizzata e ha aggiunto che il gruppo San Gallo vantava vescovi e cardinali, “troppi da elencare”. Ma tutti avevano lo stesso obiettivo comune: l’attuazione di un programma “liberale/progressista” in opposizione a Papa Benedetto e all’orientamento di un moderato conservatorismo dottrinale”.

Uno degli aspetti interessanti, che mettono subito in risalto la rete italiana che collega le posizioni del Vaticano di Bergoglio con la politica italiana è Villa Nazareth a Roma.

Colonna riferisce che nel 2015, Paul Badde, scrittore tedesco ed esperto delle questioni concernenti il Vaticano, ha sostenuto di aver ricevuto informazioni attendibili “che tre giorni dopo la sepoltura del papa Giovanni Paolo II, i cardinali Martini, Lehmann e Kasper dalla Germania, Bačkis dalla Lituania, van Luyn da Paesi Bassi, Danneels da Bruxelles e Murphy O’Connor da Londra «si sono incontrati nella cosiddetta Villa Nazareth a Roma, casa del cardinale Silvestrini, il quale ormai non era più eleggibile; hanno poi discusso in segreto una tattica per evitare l’elezione di Joseph Ratzinger»”.

Silvestrini, discepolo del cardinal Casaroli, era il potere della curia romana dietro ad Andreotti ed è stato, come riferisce Colonna, anche uno dei manovratori che ha fatto si che i Gesuiti arrivassero al potere con l’elezione di Bergoglio.

Nel Collegio di Villa Nazareth vengono fatti studiare dei ragazzi che faranno successivamente cureranno gli interessi del Vaticano in giro per il mondo.

Nel Collegio Nazareth di Roma, proprietà di una fondazione guidata dal cardinale Achille Silvestrini (ora defunto) ha studiato Giuseppe Conte e del Collegio era direttore monsignor Pietro Parolin, attuale segretario di Stato del Vaticano.

In una fase delicata della politica italiana, Giuseppe Conte è stato messo all’opera. Renzi, che faceva gli esercizi spirituali tutti gli anni dai Gesuiti, ha lanciato l’idea del Governo Conte bis, il cui operato è ben conosciuto da tutti noi, anche per quanto riguarda i rapporti con il Dragone.

In questo panorama si inserisce anche l’interessante esperimento italiano che ha dato vita al Movimento Cinque Stelle.

In un articolo di Giacomo Amadori e di Gianluca Ferraris (Panorama, 3 aprile 2013) l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, fondatore della Gran loggia regolare d’Italia, restauratore in Italia degli Illuminati di Baviera e fondatore di Dignity, alla domanda dei giornalisti volta a chiedere se Gianroberto Casaleggio, autore di una profezia di “un futuro senza religioni in cui «l’uomo è Dio»” e che fa immaginare “un approccio umanistico”, sia stato un massone risponde: “Non mi risulta che Casaleggio sia massone, la sua ideologia è sicuramente più vicina a quella degli Illuminati di Baviera e all’accademia che io ho risvegliato in Italia nel 2002. Quale la differenza? I massoni vogliono migliorare il mondo così com’è, gli illuminati puntano a ripensarlo rispetto alle future condizioni; in più gli Illuminati considerano la democrazia una forma di degenerazione del potere che va superata come hanno già postulato Platone e Aristotele. Il credo contenuto nel video della Casaleggio e associati va proprio in questa direzione”. “La visione di Casaleggio in Gaia e la mia nel libro La conoscenza umana (Marsilio) – continua Di Bernardo – sono molto simili: entrambi riteniamo che nel futuro dell’umanità scompariranno le differenziazioni ideologiche, religiose e politiche. Per me a governare sarà una comunione di illuminati, presieduta dal «tiranno illuminato», per Casaleggio a condurre l’umanità sarà la rete, probabilmente controllata dal tiranno illuminato. Un concetto che, però, Casaleggio non ha ancora esplicitato”. Esplicitazione giunta di recente dal comico Giuseppe Grillo, con la sua teoria degli Elevati.

Panorama Burattinaio

Il 4 marzo 2013 Casaleggio mette in onda Gaia, un video dove si afferma che si arriverà, il 14 agosto 2054, ad un mondo governato dalla rete, con un governo mondiale chiamato Gaia eletto dai cittadini attraverso la rete. Nel 2054 non esisteranno più partiti politici, ideologie, religioni e i cittadini non avranno più carte d’identità o passaporti, ma esisteranno solo se saranno iscritti a Earthlink, un social network, mente una mega intelligenza artificiale collettiva, chiamata Braintrust, risolverà i problemi del mondo. Il primo esperimento è stato fatto sulla pelle degli Italiani e ne sopportiamo le conseguenze tragiche. Altro che intelligenza artificiale. Qui siamo in presenza di un tentativo di dittatura strisciante venduto per democrazia di massa ( https://www.youtube.com/watch?v=rx46BpHQ2mo ).

Le teorie di Gaia, frutto delle visionarietà di Gianroberto Casaleggio, esplicitate dal Comico Giuseppe Grillo, sono, secondo Giuliano Di Bernardo, molto vicine a quelle degli Illuminati di Baviera.

L’Ordine degli Illuminati fu organizzato, il primo maggio 1776 da Adamo Weishaupt sulla base di un modello gesuitico.

L’Ordine ebbe uno scopo più politico che religioso e la corrente illuministica interna alla Stretta Osservanza, alla ricerca di un progetto massonico da opporre ai Martinisti, guardò agli Illuminati con la mediazione di Knigge, che aveva come modello il Paraguay gesuitico e pensava a stati modello nelle Indie Occidentali (America).

Alain Wodroow, uno dei massimi esperti dei Gesuiti, a proposito dell’esperimento del Paraguay, afferma: “Questa esperienza di comunismo paternalista è singolare e fu esempio per gli utopisti del XX secolo. L’ammirava persino Voltaire, che fu allievo dei Gesuiti, ma li detestava”[1]

L’intreccio si fa ancor più interessante quando guardiamo alla politica estera del Vaticano di Bergoglio, con la sua deriva filo cinese e anti occidentale.

In un’intervista del giornalista americano Glenn Beck a Whitney Webb, autrice di “A Nation Under Blackmail”, una nazione sotto ricatto (disponibile grazie a Roberto Mazzoni – https://mazzoninews.com/2023/11/26/deep-state-finanzieri-spie-mafiosi-editori-e-pedofili-parte-4-mn-236-ritorno-alla-poverta/), l’intervistatore afferma: “Ho amici industriali che 30 anni fa mi dicevano: “La Cina è il nuovo modello”. E ho pensato, questo è un cattivo modello. Noi non lo vogliamo. Si limitavano a dire con leggerezza che la Cina era il nuovo modello. Ci sono voluti 10 anni, prima che iniziassi a rendermi conto che ne erano sinceramente convinti, e che avremmo portato in America l’approccio cinese”.

Whitney Webb risponde: “Certo. Questo è stato il piano per molto tempo. Abbiamo parlato prima del CinaGate. Al suo interno troviamo le origini della Silicon Valley. E molte delle persone più potenti del nostro complesso industriale militare, tra cui Lockheed Martin, vi erano coinvolte e volevano che quella tecnologia segreta andasse in Cina e minasse la nostra sicurezza nazionale. Notiamo che c’era qualcosa che stava succedendo allora e penso che lo stiamo vedendo succedere sempre di più anche adesso.

Nel 2020 ho scritto un articolo sulla National Security Commission on Artificial Intelligence, la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale. Fondamentalmente dice che, per essere competitivi nell’intelligenza artificiale e garantire l’egemonia economica e militare per gli Stati Uniti, dobbiamo andare oltre la Cina in termini di implementazione della tecnologia di sorveglianza, e dell’uso dell’intelligenza artificiale, dobbiamo abbandonare la proprietà privata delle automobili, a cui si riferiscono come sistema tradizionale. E bisogna abbandonare le visite mediche di persona, passando all’alternativa basata sull’intelligenza artificiale. Questo accadeva nel 2019, prima del Covid”.

Glenn Beck: “Due anni prima di questo, ho parlato con il presidente del consiglio di amministrazione di General Motors e mi ha detto che entro il 2030 non produrremo più auto di proprietà singola, ma flotte di veicoli di uso comune”.

Whitney Webb: “Uber offrirà noleggi solo all’interno delle città intelligenti e il passeggero non potrà controllare la destinazione. Non si potrà più viaggiare da una città all’altra. Niente più scampagnate. Non potrai più decidere dove andare, magari guidare per tre ore per vedere la tua famiglia o chiunque altro, magari i tuoi amici. È finita se queste persone vincono. E la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale era gestita da Eric Schmidt, ex capo di Google. Uno dei co-presidenti era un uomo di alto livello che lavora a stretto contatto con Schmidt e che era al Dipartimento della Difesa. E le persone che sempre più decideranno cosa potete fare appartengono alla comunità dell’intelligence, alle forze armate e alla Silicon Valley. E ritengono che falliremo se non andremo oltre il sistema di sorveglianza cinese, le sue megalopoli e il suo modello di città intelligente”.

In buona sostanza, per combattere la Cina dobbiamo essere più cinesi dei cinesi, ossia per combattere una dittatura dobbiamo essere una dittatura ancor più dittatura. Non male come prospettiva. E come la mettiamo con la deriva filo cinese del Vaticano?

Torniamo a Bergoglio e alla “mafia di San Gallo”.

Danneels era uscito di scena, ma il conclave del 2013 – scrive Colonna – “lo ha riportato al centro della politica della Chiesa, con il nuovo papa che lo ha invitato a unirsi a lui nella Loggia di San Pietro per la sua prima apparizione alla folla. Ha avuto il privilegio di intonare le preghiere della Messa inaugurale di Francesco. Più tardi il cardinale, che molti avevano considerato “in disgrazia”, è stato invitato da papa Francesco, godendo così di uno speciale favore papale, a partecipare ad entrambi i Sinodi sulla Famiglia dove ha assunto una ruolo importante. Danneels stesso ha descritto il suo ultimo conclave come “un’esperienza di risurrezione personale”.

La “squadra Bergoglio” ha dunque completato l’opera di San Gallo.

“Nonostante regole della più rigorosa segretezza – scrive sempre Colonna – , dopo il conclave del 2005 si è venuto a sapere che lo sconosciuto gesuita di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, era arrivato secondo nelle votazioni. Il gruppo di San Gallo era presente quasi al completo e aveva lavorato sodo per il suo candidato. E il suo sostegno aveva avuto il suo peso”.

L’esergo del testo “Il Papa dittatore, di Marcantonio Colonna” è una citazione di Abramo Lincoln: “Potete ingannare tutti per qualche tempo, o alcuni sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”.

Ai tempi di Peron, Bergoglio era uno dei suoi seguaci, ma il suo legame era con l’ala destra del Peronismo. “Nel 1971 – scrive Colonna – è stato nominato Maestro dei Novizi della provincia argentina e ha saputo coniugare questo incarico al sostegno della Guardia de Hierro (Guardia di Ferro), che a quel tempo era impegnata per il ritorno di Perón dall’esilio. Austen Ivereigh descrive questo coinvolgimento eufemisticamente come “sostegno spirituale” al movimento; esso era in realtà molto di più ed è rivelante degli interessi politici che dovevano distinguere Bergoglio per tutta la sua vita. Per tutte le norme, era un modo insolito per un maestro dei novizi di un ordine religioso di trascorrere il suo tempo libero”.

Resta il fatto che la Guardia de Hierro argentina si ispira all’omonimo gruppo rumeno. La Guardia di Ferro (in romeno Garda de Fier) è infatti la denominazione data da Corneliu Zelea Codreanu alla branca armata del movimento da lui fondato negli anni Trenta del XX secolo.

Dal 1965 ql 1981 il Generale dei Gesuiti è stato lo spagnolo Pedro Arrupe, il quale ha impresso alla Compagnia una svolta a sinistra, verso la teologia della liberazione.

Svolta che ha coinvolto la Università del Salvador e che ha visto contrario il peronista Bergoglio, il quale, ci dice Colonna, l’ha consegnata ad alcuni suoi compagni della Guardia di Ferro peronista.

Diventa, pertanto difficile capire come Bergoglio si sia poi orientato a sinistra, se non entrando nella logica argentina del peronismo.

Scrive in proposito Sir Henry Sire, alias Marcantonio Colonna: “Si narra la storia che Perón, nei suoi giorni di gloria, un giorno abbia proposto a un nipote di iniziarlo ai misteri della politica. Dapprima ha portato con sé il giovane quando ha ricevuto una delegazione di comunisti; dopo aver ascoltato le loro idee, ha detto loro: “Avete ragione”. Il giorno dopo ha ricevuto una delegazione di fascisti e ha risposto di nuovo alle loro argomentazioni: “Avete ragione”.

Poi ha chiesto a suo nipote cosa pensasse e il giovane ha detto: “Hai parlato con due gruppi con opinioni diametralmente opposte e hai detto ad entrambi che sei d’accordo con loro. Questo è completamente inaccettabile”. Perón ha risposto: “anche tu hai ragione”. Tale aneddoto è la spiegazione del motivo per cui nessuno può sperare di capire Papa Francesco se non comprende la tradizione della politica argentina, un fenomeno al di fuori dell’esperienza del resto del mondo; la Chiesa è stata colta di sorpresa da Francesco perché non possedeva la chiave per comprenderlo: egli è la trasposizione ecclesiastica di Juan Perón. Coloro che cercano di interpretarlo in altro modo non dispongono dell’unico criterio valido”.

Va anche considerato il rapporto di Bergoglio con il fevrerismo, al quale fu introdotto da Esther Ballestrino.

Le motivazioni che spingono il Vaticano di Francesco a cercare un rapporto con la Cina sono chiaramente non dovute alla difesa dei cristiani cinesi, ma agli interessi in altre aree del mondo: l’Africa, l’America Latina e la stessa Europa. Vi sono, inoltre, motivazioni ideologiche che coinvolgono i singoli protagonisti in campo. Bergoglio, fevrerista, peronista, propugnatore della Patria Latina, ha un rapporto difficile con gli USA e di collaborazione intensa con i regimi latino americani non collaborativi con gli States. La Curia vaticana è stata riempita di prelati latino americani in posizione di potere. Potere che condividono con il vero dominus della politica, il tedesco cardinale Reinhard Marx, sostenitore della politica filo cinese della Germania, dovuta agli interessi economici di Berlino nelle terre del Dragone.

Il grande enigma della conversione di Bergoglio alla sinistra e alla parte liberale della Chiesa, e in particolare il gruppo di San Gallo, che l’ha trasformato nel suo uomo guida, trova la giustificazione nella logica peronista. Perón, come Presidente, non ha avuto alcuna esitazione a spostarsi dalla destra all’estrema sinistra, fa notare Sir Henry Sire “se la sua smania di potere lo richiedeva”.

“Nel 2005 – scrive Sir Henry Sire -, i piani del gruppo di San Gallo sembravano infranti dall’elezione di Benedetto XVI. Si pensava che Benedetto avrebbe regnato per un periodo di dieci o addirittura quindici anni, e sarebbe stato un periodo troppo lungo per le persone interessate per poterne beneficiare. L’abdicazione del febbraio 2013 è arrivata appena in tempo per rilanciare il programma del gruppo di San Gallo. Il Cardinale Martini era morto l’anno precedente, ma Danneels e Kasper erano ancora abbastanza giovani per poter evitare l’esclusione dai conclavi papali che per i cardinali arriva all’età di ottanta anni, un limite che entrambi avrebbero raggiunto più tardi nel corso dell’anno. Specialmente Bergoglio, all’età di 76 anni, rimaneva papabile; il prolungamento del suo mandato da parte di Papa Benedetto significava che egli era ancora in carica come arcivescovo di Buenos Aires e quindi era un capo della gerarchia latino-americana”.

E qui facciamo i conti con i tempi e con la necessità di tenere un conclave in tempo utile per far votare i cardinali di San Gallo.

Per rimanere nella tempistica utile non si poteva aspettare la morte di Benedetto XVI e così lo si è invitato, per usare un eufemismo, alle dimissioni.

Si arriva, dunque, alla rinuncia del Papa teologo, inviso alla “mafia” di San Gallo.

Sir Henry Sire cita le pressanti “circostanze che l’avevano causata: la piaga continua delle finanze vaticane, che per anni aveva resistito ad ogni sforzo di essere sanata; lo scandalo “Vatileaks” del 2012, quando il maggiordomo del Papa aveva rivelato documenti segreti proprio per mostrare quanto Benedetto XVI fosse impotente nel controllare il caos intorno a lui; e infine il rapporto privato che è circolato nel dicembre 2012, il quale rivelava una tale corruzione morale nella Curia che si pensava fosse la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso nel persuadere Benedetto di non essere più in grado a far fronte a una tale situazione”.

Ora i nodi vengono al pettine e come diceva Abramo Lincoln: “Potete ingannare tutti per qualche tempo, o alcuni sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”.

Le linee seguite dal Vaticano sono sempre più leggibili e sono sempre più evidenti i legami tra la linea di Bergoglio e quella del centro finanziario e dei sedicenti filantropi (Soros in primis, in quanto finanziatore di ong che si occupano di migranti).

La vicenda Casarin inoltre disastra la politica estera vaticana, ultimamente molto delegata al cardinal Zuppi, il quale è in rapporto stretto con la Comunità di Sant’Egidio (filocinese) e colpisce nell’intimo il Pd, perché il cardinal Zuppi è in stretti rapporti con Romano Prodi e con l’ala cattolica del Partito democratico, la cui politica sui migranti è chiaramente ispirata da quella vaticana.

E così, alla domanda di Maurizio Belpietro riguardante come sia stato possibile che si siano inquinati a tal punto i vertici vaticani la risposta la troviamo nella “mafia di San Gallo e in tutto quello che è avvenuto in questi anni.

Chiaramente la Chiesa sta passando un gran brutto momento, basti pensare ai recenti siluramenti di prelati Usa invisi a Bergoglio.

L’emergenza climatica pare stazionare sulla cupola di San Pietro.

 

[1] Alan Woodrow, Una storia di potere, Newton Compton

 

Fonte: https://www.nuovogiornalenazionale.com/index.php/italia/politica/15026-il-vaticano-in-linea-con-soros.html?fbclid=IwAR2IPXRvN4_O6tGm9EBtrI7ylpOcWs6vnjZ6ROHkWfacHRkOjV9sCLZSnkE

O con noi o con Putin

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di Marcello Veneziani

Ma davvero alle prossime elezioni il candidato più forte da battere sarà Vladimir Putin? È la voce che corre su tutti i giornaloni nostrani e tra i sostenitori del Partito Dragocratico, in sigla Pd, che comprende pure molti centristi di varia provenienza. Matteo Renzi ha detto che col voto bisognerà battere l’area Putin; Enrico Letta e altri suoi potenziali alleati disegnano a loro misura la contrapposizione tra filo-occidentali e filo-putiniani e perfino un politologo serio come Angelo Panebianco in un editoriale del Corriere della sera ha ritenuto Putin il convitato di pietra delle prossime votazioni italiane. Sappiamo che in campagna elettorale si usa ogni colpo basso e ogni slogan propagandistico ad effetto pur di demonizzare l’avversario. Contro il centro-destra si passa dall’accusa di fascismo e di statalismo sovranista a quella di essere la longa manus di Putin in Italia. Ma se guardiamo alla realtà delle posizioni assunte, l’identificazione del centro-destra con l’area Putin è grottesca, infondata e smentita ampiamente dalla realtà.

Giorgia Meloni, che è la leader in pectore del partito di maggioranza nel nostro paese, ha sposato totalmente sul conflitto russo-ucraino le tesi della Nato, dei Dem di Biden e di Letta, dei conservatori britannici e atlantici e le stesse posizioni assunte da Draghi. Ed è corsa negli Stati Uniti per sottolineare la posizione filo-occidentale e filo-Nato del suo partito. L’assurda caccia ai putiniani d’Italia, con relative liste di proscrizione sui giornali, ha avuto come sponda proprio il Copasir presieduto da un esponente di Fratelli d’Italia, Adolfo Urso, che denuncia infiltrazioni putiniane nella politica nostrana.
Silvio Berlusconi ha portato Forza Italia nel Partito Popolare europeo, ed è sempre stato con le sue reti mediaset un veicolo di americanizzazione nella vita italiana; da sempre Berlusconi colloca il suo partito nell’area euro-occidentale, e si definisce liberale. Non si può confondere la sua amicizia personale con Putin e il suo ruolo di “paciere internazionale” tra la Russia putiniana e gli Stati Uniti di Bush, come una dichiarazione di putinismo. Resta solo la Lega di Salvini, che nelle sue molteplici variazioni, ha sposato in una fase politica precedente alla guerra una posizione filo-putiniana che poi si è interrotta con l’invasione dell’Ucraina.

Insomma il centro-destra è tutt’altro che identificabile con l’area Putin, a cui forse guarda con favore solo Alessandro Di Battista e un’ala minoritaria di quel che resta del Movimento 5Stelle. Diversi, semmai, sono gli umori popolari del Paese meno allineati agli Usa. Ritenere poi che schierarsi a favore della pace e del negoziato piuttosto che puntare sulle sanzioni e sull’interventismo militare, sia un’adesione al putinismo, significa ritenere putiniani tutti i pacifisti, dal Papa Bergoglio alla sinistra arcobaleno.
Si deve peraltro ammettere che il pronunciamento bellicoso dell’Italia di Draghi e dell’Europa contro la Russia finora non ha portato il minimo giovamento all’Ucraina e ha prodotto il massimo danno all’Italia e all’Europa stesse che si trovano impelagate negli effetti nefasti delle sanzioni e nei contraccolpi economici, sociali ed energetici per la posizione assunta. Ridicola, se non fosse tragica, la posizione di chi aveva minacciato a gran voce di rifiutare il gas russo e ora denuncia la Russia che annuncia restrizioni nei nostri confronti sulla fornitura del gas. Ma non era esattamente quello che volevano fare?
L’idea di non radicalizzare il conflitto con la Russia ma di cercare una trattativa, accomuna le grandi nazioni europee, come la Germania e la Francia, che hanno capito la follia e i gravi danni di appiattirsi sulla posizione americana e sulla linea di un presidente malfermo e poco lucido come Biden. Chi non vuole assumere una posizione da falco nel conflitto russo-ucraino non mira certo a favorire Putin ma è preoccupato di tutelare l’Europa, i suoi popoli, la sua economia, le sue risorse energetiche. Peraltro la linea muscolare dei falchi è estranea alla nostra tradizionale politica estera, voluta da Moro, da Andreotti, da Craxi, che ha cercato sempre la mediazione e mai il muro contro muro.

Insomma, lo schema putiniani o liberali d’Occidente non regge alla prova della realtà. E inverosimile appare il paragone di Panebianco tra il voto del 25 settembre e le elezioni del 18 aprile del 1948, quel voto-spartiacque in cui l’Italia liberal-democratica, cattolica, occidentale e filo-atlantica si schierò contro il fronte popolare filo-sovietico e comunista. Un paragone insensato in cui i bolscevichi sarebbero Berlusconi & C e i filo-occidentali sarebbero i Fratoianni & C. Si dimentica che gli eredi dello schieramento filo-sovietico di allora sono tra le fila del Partito Democratico e dei suoi alleati (si chiamavano comunisti).
Attribuire poi al presidente ungherese Orban il ruolo di cavallo di Troia di Putin in Europa è dimenticare da un verso il peso minimo del piccolo stato di Budapest nell’intera Unione Europea, e dall’altro attribuire intenzioni opposte a un leader che ha fatto dell’amor patrio, della difesa della civiltà cristiana ed europea e della memoria storica di un paese invaso dai russi sovietici la sua bandiera. (L’accusa di essere filo-Orban è la terza imputazione ai danni della Meloni, dopo il ducismo e il putinismo).
In realtà trattare con i dittatori o gli autocrati è sempre stato necessario: i democratici americani trattavano con Stalin e i regimi comunisti, perfino Nixon il repubblicano aprì alla Cina comunista di Mao dopo la sanguinosa “rivoluzione culturale “ che costò decine di milioni di morti. Si chiama realpolitik.
Ma putiniano, si sa, è la nuova versione propagandistica della surreale diceria che col centro-destra tornerà il nazifascismo.

(Panorama, n.32/2022)

Dell’umanità resterà solo il dito

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Stiamo perdendo la terra sotto i piedi. Stiamo perdendo la realtà. Al posto della vita i flussi informativi, al posto delle cose concrete i dati numerici, al posto dell’universo i Big Data, al posto della terra Google hearth, al posto del cielo il Cloud. Senza accorgercene sta avvenendo una radicale Sostituzione; non dei popoli europei con i flussi migratori, come sostiene Renaud Camus. Ma la sostituzione ben più profonda del mondo reale, il mondo delle cose e la vita pensante, i cuori e le menti, col mondo artificiale, come l’intelligenza e tutti i medium che si frappongono tra noi e il mondo. Fino alla Sostituzione dell’umano. La cosa più terribile è che non ci badiamo, non ce ne diamo pensiero. Avviene, non possiamo sottrarci. Tutto è così ineluttabile, automatico. La perdita della libertà è assoluta quando si vive la vita da automi.

Ho tra le mani un ennesimo libro di Byung-Chul HanLe non cose, pubblicato da Einaudi che descrive “come abbiamo smesso di vivere il reale”. Il filosofo tedesco-coreano denuncia una trasformazione come mai c’è stata e lancia un atto d’accusa al mondo contemporaneo, che lo situa a pieno titolo tra i conservatori apocalittici. Cosa è successo? La rivoluzione digitale ci ha reso tutti “infomani”. Non vediamo più le cose ma gli infomi. Siamo guidati dagli algoritmi, non abbiamo più autonomia di pensiero e visione della realtà. Siamo collegati ma abbiamo smesso di avere legami.

Peggior quadro della situazione non sarebbe possibile: siamo allo stadio finale dell’alienazione. Dopodiché c’è solo la scomparsa dell’umano. La mano che era il simbolo fattivo dell’umanità si fa inerte e cede al dito, come si addice a una società digitale. Dobbiamo premere tasti e non più maneggiare il mondo. Il dito apre gli accessi, avvia i percorsi prestabiliti, ci conduce in una dimensione fittizia, artificiale, irreale.

L’homo sapiens è stato sostituito dal phono sapiens. Sola valvola di sfogo il gioco, divertirsi. La storia è sostituita dallo storytelling, scompaiono i confini tra cultura e commercio, si perde ogni relazione tra cultura e comunità.

Lo scettro che ci rende all’apparenza sovrani e nella realtà schiavi di questo nuovo mondo ci è ormai familiare più di ogni altra cosa: è lo smartphone. Esso trasforma il mondo in informazione, e la realtà -potremmo aggiungere- in rappresentazione veicolata. Lo smartphone ci sorveglia, e ancor più ci sorveglierà via via che si perfezionano le tecnologie. L’infosocietà non opprime, non sopprime la libertà, anche se pone sempre più divieti e censure: ma la sfrutta, la svuota per poi riempirla dei propri input. Insomma la dirige, la plasma; così la libertà nega se stessa. Scompaiono le cose, ma scompare anche l’altro, nella relazione narcisistica e autistica con lo smartphone. L’intelligenza artificiale è priva di mondo, non ha cuore, non ha pathos, non ha concetto; è sorda e cieca.

Sul piano delle icone, il passaggio decisivo secondo Han è dalla fotografia analogica a quella digitale. La foto stampata, in carta, è una cosa, patisce il degrado e la morte, come se fosse vivente. E’ un’emanazione della persona reale, ricorda, racconta una storia, un destino. La foto digitale, invece, elimina il referente, è autoreferenziale, istantanea, avulsa dal cammino del mondo. Il selfie non è una cosa, ma una non cosa, un’info, non va conservata per ricordare. Il ritratto analogico è silente ma parla, come una natura morta: il ritratto digitale è rumoroso ma inespressivo, annuncia la fine dell’umano e non conosce morte né caducità.

Dopo la lettura di Byung Chul Han resta uno sciame di dubbi: è davvero così radicale il salto tra l’analogico e il digitale, o c’è una gradualità nel passaggio? Perché la tecnica che accompagna l’uomo da sempre solo ora scatena tutto il suo potenziale inumano? A parte gli indubbi vantaggi del digitale, quale risposta possiamo dare, oltre a constatare la perdita del mondo, della realtà e dell’umano? Abbiamo margini di reazione o di alternativa, è possibile (e auspicabile) tornare indietro, cancellare, rimuovere l’infosfera digitale? Siamo poi sicuri che sia la tecnica a cambiarci e non l’uomo stesso a servirsi della tecnica per mutarsi al punto di sopprimersi e predisporsi a un’altra dimensione postumana? E se fossimo noi incapaci di sopportare i limiti, i dolori, la caducità del nostro essere, che vogliamo sottrarci al reale, alla mortalità, al nostro essere e ai suoi limiti?

Quel che Han rileva della società digitale, Heidegger già lo notava nel suo tempo col semplice uso della macchina da scrivere, scorgendo il predominio del dito che pigia sulla mano che afferra e modifica; eppure non eravamo ancora in un’era digitale e il prodotto era una cosa reale, un foglio scritto. Il computer perfezionerà quel passaggio, ma Heidegger notava il tratto alienante della macchina da scrivere. Andando a ritroso nei millenni, Platone, narrando nel Fedro il mito di Theut, vide già nella scrittura il declino dell’umana facoltà di tenere a mente, trasmettere tramite la parola viva. La scrittura non serve a ricordare, dice Platone tramite il re egizio Thamus, ma a dimenticare, lasciando traccia solo negli scritti. Da ciò verrà fuori una falsa sapienza, conosceremo “l’apparenza, non la verità”.

Insomma, la Sostituzione viene da lontano, s’intreccia alla storia dell’uomo e della tecnica, e il digitale è solo l’ultimo stadio finora conosciuto. Come i polpi hanno un cervello nei tentacoli, anche negli umani il cervello si rifugerà nel dito? Come in una Creazione di Michelangelo a rovescio, dell’uomo alla fine resterà solo il dito?

MV, Panorama (n.14)

 

Qualcuno risalì dalle foibe

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di Marcello Veneziani

La giornata del Ricordo torna ogni anno in punta di piedi a ricordarci l’altra metà rimossa della storia, dell’orrore e della pietà. Me ne sono occupato altre volte, sottolineando le ragioni per cui ricordare le foibe e l’esodo: perché è il capitolo italiano del comunismo mondiale, perché è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio, perché descrive le sofferenze di un popolo, perché ci ricorda che gli orrori non esistono da una parte sola. E noi dobbiamo prendere sulle nostre spalle la storia universale della pietà, a partire da coloro che ci sono più vicini. Ma questo 10 febbraio vorrei raccontarvi una storia, anzi due, sull’orlo delle foibe, che ebbero però un lieto fine.

La prima è la testimonianza di un uomo, all’epoca soldato e ventenne, che gettato nelle foibe insieme ad altri, riuscì a risalire dalla foiba e rivedere la luce del mattino. Il suo nome è Graziano Udovisi e fu considerato l’ultimo testimone. Si era presentato con un amico ufficiale al comando a Pola, e trovò un maggiore italiano che era passato con i suoi commilitoni dalla parte slava. Che li ascoltò, poi chiamò alcuni jugoslavi, che li ammanettarono e li fecero prigionieri, con le mani dietro la schiena con il fil di ferro. Furono poi deportati in un campo di concentramento, a Dignano. Li facevano camminare di notte. Una volta, i prigionieri vennero messi in fila indiana, uniti da un lungo filo di ferro, che partiva dal braccio sinistro di Graziano e furono portati davanti ad una foiba, rischiarata dalla luna. Un’altra vicina era invece completamente oscura. “È la mia ora. La luna mi è di fronte, bella grande lucente. Immediatamente mi sale una preghiera alla Madonna” e ai suoi cari. I partigiani slavi spararono alla cieca nel gruppo che cadde nel crepaccio, trascinato da colui che è caduto era prima, a cui avevano legato un grande masso. Quindici, venti metri, un volo senza fine. Poi lanciano pure delle bombe a mano. Graziano invece precipita nell’acqua, cerca di liberarsi dal fil di ferro, tiene stretto al cuore il suo amico che ha salvato prendendolo per i capelli. E alla fine riesce a trovare un anfratto in cui restare quella terribile notte di luna piena e di umanità spettrale. Poi con le ore percepiscono che sono salvi, i partigiani slavi di Tito sono andati via, riescono a mettersi in salvo, faticosamente risalendo dal fondo della foiba. Di quella storia che non aveva voglia di raccontare perché doleva al suo cuore, ne raccontò prima in una testimonianza raccolta da Giulio Bedeschi nel famoso libro Fronte Italiano: c’ero anch’io. E poi in un suo libretto uscito alcuni anni fa, Foibe. L’ultimo testimone (ed. Imprimatur). È una storia dolorosa ma a lieto fine. La bellezza del mattino dopo il tunnel cieco della morte, è un filo di speranza che si accende nel pieno di una tragedia collettiva, corale, di popolo.

Anni fa raccontai la storia vera, di una ragazza istriana, Irma. Chiese d’incontrarmi la mattina per sfuggire al controllo di figli e nipoti. Ci incontrammo una mattina a Roma in piazza san Silvestro e tradiva una cordiale emozione; per farsi riconoscere stringeva un mio articolo tra le mani. Suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa, lasciandola vedova precoce con un bambino. In sua memoria, un nipote – il grande Uto Ughi – fu chiamato col suo nome. Nel ’45 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l’accusa di aver rifiutato di falsificare carte d’identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge. Quando i partigiani se la portarono via, finse allegria per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Fu chiusa in una casa insieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di frequentare alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c’entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi. La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro… In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico…Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. “Quella volta ero carina, sa?”. Mi colpisce l’espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l’accompagna. Quella volta, come se parlasse di un tempo mitico, di un’altra esistenza, o di un interminabile giorno sottratto alla furia dei giorni. E si definisce carina, non bella, con una smorfia di pudore e vanità. Quella volta ero carina, come a voler limitare la bellezza solo a un evento. Amoreggiando con lui, salvò la vita a suo padre e a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa. Mi dà una copia dell’ordine di scarcerazione, firmato con la stella a cinque punte, uno slogan e l’autografo del comandante, il suo moroso. Con l’epurazione persero tutto, la loro casa, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli slavi. Avevano costruito nel loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi. C’era ancora un albero di cachi che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall’albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. A volte si diventa ladri in casa propria per amore del tempo perduto. Il suo racconto finisce col suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi.

Non aveva nessuna grande storia da rivelare né documenti. Voleva solo raccontare la sua vita, il travaglio e l’esodo, l’albero del suo paradiso perduto. Voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la notte. Non serbava odio ma paura. È inutile piangere sul latte versato, sembrava dire davanti alla sua tazza galleggiante nel piattino; prevaleva la tenerezza e il desiderio di confidare a uno sconosciuto il sapore dei suoi vent’anni.

MV, La Verità (10 febbraio 2022)

Quella Cappa che ci opprime

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di Marcello Veneziani

Cosa resterà di questa libertà dimezzata e sorvegliata che stiamo subendo ormai da tempo in regime di pandemia? Resterà la Cappa, che ci avvolge e che ci opprime, in cui si condensano le nubi sparse dei nostri giorni fino a formare una coltre compatta: le restrizioni sanitarie, la vita sanificata e ospedalizzata, il controllo digitale totale, la tracciabilità dei nostri spostamenti, fisici e finanziari, la vita dimezzata nelle sue possibilità, viaggi, relazioni; e poi la guerra civile dei sessi, la guerra mondiale contro la natura, la cancel culture applicata alla storia, il politically correct applicato ai rapporti umani e alla società, le censure al linguaggio, il pensiero unico e prigioniero del modello uniforme…

Facendosi cronici e intrecciandosi tra loro, i diversi fattori convergono e commutano le limitazioni sanitarie in forme di sorveglianza permanente, fino a formare una cappa globale che sembra destinata a non dissiparsi. Con la Cappa stiamo passando dalla società aperta alla società coperta, dove si maschera la parola come il volto e tutto è sotto una rete protettiva. Lo argomento nel mio nuovo libro dedicato a La Cappa, in uscita da Marsilio (pp.204, 18 euro), per una critica del presente.

In che mondo viviamo? Sotto la Cappa tutto perde contorno, confine, libertà, consistenza reale, memoria e visione. I sessi sconfinano e mutano, le differenze scolorano e si uniformano, la natura è abolita, la realtà è revocata, i territori perdono le frontiere; la nuova inquisizione censura e corregge, il regime di sorveglianza globale controlla la vita tramite l’emergenza e la priorità assoluta della salute. Ma anche il passato sparisce, col gran reset della storia e i processi intentati al passato col metro del presente; tramonta ogni civiltà, a partire dalla civiltà cristiana per fari posto a un sistema globalitario; spariscono i luoghi, compresi i luoghi di lavoro, in una società delocalizzata, senza territorio. La schiavitù prosegue a domicilio, con l’home working. Perdendo il mondo, ciascuno ripiega su te stesso, in un selfie permanente; la Cappa favorisce infatti il narcisismo solitario e patologico di massa. Vivi attraverso il tuo cordone ombelicale chiamato smartphone e simili, ti fai icona di te stesso. E intanto deperiscono le proiezioni oltre la propria vita: la storia, la comunità, l’arte, il pensiero e la fede, ogni fede. La Cappa occulta la bellezza, la grandezza, il simbolo, il mito, il sacro, la realtà. Negandoci altre visuali ci nega altri mondi, altri tempi, altre luci. L’uomo, sostengo nel libro, abita cinque mondi: il presente, il passato, il futuro, il favoloso, l’eterno. Se ne perde qualcuno vive male; se vive in uno solo impazzisce. E noi viviamo totalmente succubi del presente, nel nostro orizzonte infinito presente globale.

Immersi nel presente, abbiamo perduto la facoltà di distaccarcene per vederlo nell’insieme e per capirne la direzione e il destino. Così abbiamo perso il senso del presente e non riusciamo più ad avere una visione generale della realtà. Da qui la sensazione di vivere sotto una cappa; visibilità ridotta, voci spente, suoni ovattati. Ne avverti il peso anche se non ha fattezze e non ha confini, non si può misurare, è ineffabile e avvolgente, come la cappa che avvolge gli Ipocriti nell’inferno dantesco; cappa dorata all’esterno ma plumbea e pesante sui dannati. Nel XXIII canto dell’inferno così li descrive: “Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi […] Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto”.

Ho provato a compiere un excursus ragionato benché venato dalla percezione di una profonda Mutazione, tra le follie odierne e i tabù vigenti, tentando una serrata critica per vivere il presente e non subirlo. Viviamo nel peggiore dei mondi possibili, abbiamo raggiunto il punto più basso nella storia dell’umanità? No, non il più basso, semmai il punto di non ritorno. I fattori demografici, ambientali, tecnologici rischiano di essere irreversibili, come le trasmutazioni antropologiche che stiamo inavvertitamente subendo in un corso accelerato verso il postumano e l’intelligenza artificiale.

Occorrerà ridare l’assalto al cielo, come dicevano i rivoluzionari ma stavolta non con la pretesa di scalarlo, come in una nuova torre di Babele, bensì per sgombrarlo dalla Cappa globale. L’assalto sarebbe dunque di segno opposto, per liberare il cielo e non per occuparlo. Liberare il cielo, l’atmosfera, l’aria può avere anche un’implicazione ecologica, ma non è solo una questione ambientale.

Le rivolte, le rivoluzioni sono velleitarie e impotenti e aprirebbero conflitti perdenti con i poteri. L’unico mezzo a nostra disposizione è la spada del pensiero critico, dell’intelligenza libera e ribelle, che non si accontenta del presente e della sua dominazione assoluta. Non disponiamo di altra arma, di altro potere, che la nostra facoltà di capire: l’intelligenza è la spada affilata che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante. La maiuscola Cappa, la minuscola spada…

MV, Panorama (n.5)

*Immagine: gli ipocriti con le cappe dorate nell’Inferno dantesco

L’anno del vaccino che non ci salvò

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di Marcello Veneziani

Potrei sbagliarmi perché non ho la prova inversa, ma ora si può dirlo a ragion veduta: la vaccinazione di massa è stata un mezzo fallimento. Non è servita a debellare il virus né a garantire incolumità e immunità e nemmeno a evitare ulteriori restrizioni, anche se quasi i nove decimi della popolazione si sono vaccinati. Siamo in regime d’emergenza e si minacciano ulteriori chiusure, nonostante tutti i vaccini, la cui efficacia ha durata sempre più vaga e breve. È aumentata l’incertezza, la diffidenza, la paura, perché restiamo sempre in balia delle incognite, a rischio contagi, non c’è dose o precauzione che ci blindi. Stiamo entrando nel terzo anno infestato dalla pandemia e vorrei tentare a fine anno un bilancio, senza tesi precostituite. Ho il dubbio che puntare tutto sui vaccini e i protocolli, anziché sulle cure sia stato un errore. E resta irrisolto il nesso tra vaccini e varianti.

Con tutte le diffidenze del caso, mi vaccinai perché reputai tutto sommato minori i rischi di vaccinarsi rispetto al non vaccinarsi, anche se tutt’altro che immaginari; lo feci pure per essere solidale nella sorte con gli altri. E per un motivo pratico, per evitare la segregazione sociale. Se fossi stato giovane avrei cercato di evitarlo, e se avessi dei bambini avrei cercato di risparmiarli. I dubbi, i sospetti, le notizie frammentarie ma inquietanti di reazioni o conseguenze avverse, restano tutti, così come le incongruenze, le omissioni e le contraddizioni del sistema che induce a vaccinarsi. A ciò si aggiunge il rigetto verso ogni passivo conformarsi ai diktat del Comando Centrale ripetuti dalle sue diramazioni. Non c’è stata nessuna immunità di gregge, in compenso è scattato il conformismo di gregge.

Però la posizione di chi dubita e non ritiene di avere nessuna verità in tasca è scomoda, assai difficile, perché infastidiscono pure i detentori delle verità opposte; quelli che sanno tutto, hanno capito tutto, pensano a tutti e non agli sporchi profitti né si lasciano intimidire dalle minacce. E ti compiangono perché ti sei vaccinato, come se fossi morto o malato in via di sviluppo. Rispetto le scelte opposte e mi batto contro la loro discriminazione. Ma non credo che qualcuno sia detentore per autocertificazione o autoproclamazione di una superiore sapienza o di una superiore capacità di comprendere come stanno davvero le cose, fino a conoscere i piani segreti che guidano il mondo. Ogni volta che sento qualcuno svelare con certezza la verità nascosta dietro tutto questo, ho l’impulso a dirgli: ma tu come lo sai, perché tu lo sai e gli altri no, cosa ti dà questa capacità di sapere, di capire la verità, di detenere una superiore moralità e un superiore coraggio e di tutelare il bene comune rispetto al resto dell’umanità?

Non faccio in tempo a prendere le distanze da costoro che sento dall’altra parte dichiarazioni perentorie come “Io credo nella scienza” e mi allontano pure da loro: il verbo credere non si addice alla scienza, applicare la fede alla scienza è follia, perché la scienza è ricerca, è dubbio, è verità per gradi e approssimazioni, anche per falsificazioni successive, per dirla con Popper. E la scienza anche in questo caso ha mostrato tutta la sua fallibilità, procede per tentativi, senza considerare l’eventuale malafede. La scienza, poi, non è compatta, la comunità medica e scientifica è divisa almeno in tre fasce, anche se non palesate allo stesso modo: i Convinti che quella intrapresa sia effettivamente l’unica strada giusta; i Dubbiosi che magari abbozzano in apparenza ma si aprono anche ad altre ipotesi; e gli Scettici che non condividono le certezze vaccinali anche se gran parte di loro tendono a tacere per non subire ritorsioni. Ma la comunità scientifica non è compatta.

Stiamo sperimentando, non ci sono certezze, dico ad ambedue i versanti. Non mi piace stare nel mezzo, fare l’asino di Buridano, non amo il motto in medio stat virtus: la virtù non sta nel mezzo ma nei pressi del vero, del giusto, del bene e del bello. Però non ho verità precostituite o confermate dalla realtà. E’ una sconfitta per tutti, e va riconosciuta con onestà. So di non sapere, come diceva Socrate. Non riesco a risolvere il dubbio e col passare dei giorni, dei mesi, non faccio progressi. Anzi, a me sembra che progressi non ne faccia la situazione generale, e la profilassi adottata. Non solo in Italia.

Non inseguo i complotti mondiali, non mi imbarco nella dietrologia e tantomeno credo ai piani di sterminio planetario programmato. Noto piuttosto una convergenza oggettiva d’interessi fra alcuni settori cruciali: la finanza, la sanità, l’industria farmaceutica, i colossi del web e le governance. Convergenza tra chi ha tratto giovamento dalla pandemia. Li vedo uniti nel loro comune interesse, senza bisogno di ordire complotti malefici.

Resta poi incomprensibile che la pandemia globale con tutte le restrizioni eccezionali delle libertà dei cittadini si fermi davanti a Big Pharma: perché non liberalizzare i brevetti vaccinali e far valere la priorità del bene pubblico rispetto ai profitti privati delle industrie farmaceutiche? Davanti a uno stato d’emergenza per pandemia mondiale, perché non sospendere le logiche aziendali nei settori che si occupano di salute dei cittadini e controllare la produzione di farmaci in nome del supremo interesse pubblico? Mi preoccupa, infine, che il piano sanitario e restrittivo possa essere trasferito in campo socio-politico fino a diventare il modello per un regime di sorveglianza.

Finisce piuttosto male l’anno del vaccino, che non ci liberò dal virus e ci lascia ancora contagi, varianti, emergenza e green pass per l’avvenire.

MV, Panorama (n.1)

Sempre la stessa minestra in tutte le salse

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di Marcello Veneziani

Vai al cinema e trovi la solita storia a sfondo lesbico, con un richiamo storico al Male Assoluto e un’occhiatina complice ai migranti, meglio se neri, più una tiratina di erbe ecocompatibili. Peggio ti senti se vai a teatro, dove adattano a quel presente corretto e a quel presepe ogm anche autori antichi, drammi e opere del passato, travestiti e parlanti con le solite menate di oggi. Poi ascolti la musica somministrata dai media e vedi e senti gruppi di musicanti ossessivi, di quelli che rompono i timpani e non solo, coi loro rumori e le loro grida bestiali di dannati in preda ad allucinazioni, osannati ogni giorno dai media, che lanciano il solito messaggio sui diritti gay e dintorni. Che grandi, si preoccupano dell’Umanità e dei Diritti… Vai in libreria e trovi un nugolo di libri dei più vari autori che dicono tutti la stessa cosa: basta con le identità, accogliamo il diverso, ripudiamo tutto quel che sa di tradizioni, radici, civiltà, famiglie, salviamo il pianeta in pericolo, attenti al nazi che rialza la testa, apriamoci al mondo entrando però tutti dalla stessa parte, percorrendo tutti lo stesso cammino di progresso ed emancipazione. Ridicolo questo elogio del diverso nella ripetizione dell’Uguale. Ti rifugi in chiesa e senti il Principale ripetere le password dell’epoca: accoglienza, poi la solita invettiva contro i muri e i confini, lo stesso pacchetto di precetti e condanne. La Chiesa smette di essere la Casa del Signore e diventa un gommone per trasportare migranti nell’odiato occidente.

Torni a casa nauseato e in tv il tg di Stato è il riassunto in cronaca e pedagogia di massa di quel rosario anzidetto, sbriciolato in una marea di episodi e servizi, intervistine da passeggio, anniversari e predicozzi per ammaestrarci. Non sono organi d’informazione ma fogli d’istruzione per conformarsi alle regole impartite. I talk show sono poi la messa cantata di quei pregiudizi e ogni sera si chiamano quattro esorcisti (tre più il conduttore) contro un diavolo per affermare la santa fede. Gli influencer sui social e nei video, ripassati a uncinetto coi loro tatuaggi e ridotti a tappezzeria vivente, veicolano il Non-Pensiero Unico e Conforme e fingono di farlo da spregiudicati anticonformisti, ribelli che sfidano il potere e rischiano grosso: ma la loro predica è del tutto conforme a quel minestrone, è solo un Marchettone alla medesima ideologia al potere, con ricco rimborso a piè di lista. La Monoidea coi suoi corollari passa col conforto della fede e il beneplacito delle istituzioni nei sermoni dei Massimi Rappresentanti interni e internazionali del Mondo Migliore.

Per una volta, anziché reagire, inveire o salvaguardare la tua incolumità mentale sottraendoti al tam tam, ti metti nei panni di costoro – il regista, l’attore, il cantante o il suo gruppo, l’intellettuale, lo scrittore, lo storico, la ballerina, il papa, il Presidente (uno a caso), il giornalista, il conduttore, l’influencer – e chiedi: ma non provate un po’ di vergogna e noia col vostro copia e incolla permanente? Non vi sentite un po’ macchiette e macchinette, pappagalli del mainstream, soldatini di piombo e pupazzi allineati come al calcio-balilla, ripetitori automatici dell’Unica Opinione Ammessa e Protetta? Non vi crea nessun disagio ripetere in massa sempre la stessa cosa, dire sempre le stesse otto tesi d’obbligo, fino all’ennesima dose, e fingere che siano pensate, sofferte e originali mentre sono prefabbricate, anzi premasticate e predigerite? Non vi sentite un po’ miserabili, con le vostre banalità seriali, non vi sentite delle nullità con un cervello-adesivo che non pensa ma si appiccica alle pareti del Palazzo e si uniforma al mainstream? Dov’è la vostra intelligenza, la vostra libertà, la vostra dignità, il vostro coraggio civile, nel ripetere sempre in coro quel rosario di precetti partoriti dallo Spirito del Tempo?

Agli altri invece cresce sempre di più la tentazione opposta: ma a che serve leggere, vedere un film, un’opera teatrale, ascoltare un gruppo musicale, seguire i tg, la tv e i media in generale, ascoltare un’opinione, sentire cosa dicono i Massimi Capi e Presidenti, se ci devono dire tutti le stesse cose del giorno prima, dell’anno prima; le medesime cose che ci ripetono a ogni grado e livello, con sfumature leggermente diverse, magari derivate dal timbro di voce e dall’inflessione? È un’istigazione a farsi selvatici, a ignorare tutto e tutti, a non vedere, non leggere, non sentire quello che si ricava da questo Rimbombo Infinito. Certo, con qualche fatica, cognizione e intelligenza, si può trovare anche qualcosa di diverso; basta cercare. Però gli ipermercati dell’Ovvio offrono con enorme visibilità quei prodotti uniformi con l’istigazione a conformarsi a loro. Non li ho citati per nome perché hanno smesso di essere persone e di esprimere messaggi personali; sono prototipi, moduli, si presentano come pale eoliche, tutti uguali, fissi, mossi dallo stesso vento; e citandone uno farei torto a tutti gli altri. Comunque ciascuno può facilmente risalire, dar loro un nome e una faccia. Ogni riferimento non è affatto casuale.

Si può fare qualcosa? Sì, usare il cervello e l’intelligenza critica, non farsi intimidire, non farsi isolare né addormentare; cercare alternative, denunciare le censure, portare allo scoperto i tanti che non la pensano così. Però una cosa va fatta prima di tutte: non lasciate il mondo in mano a loro, non sentitevi intrusi, non professatevi estranei, non chiamatevi fuori, perché il mondo non è loro, è anche vostro. Bucate quei palloni gonfiati.

MV, Panorama (n.48)

Drago I Re d’Italia

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Viva il Re, è tornato il Regno d’Italia. Dopo settantacinque anni ingloriosi e rissosi di repubblica, l’Italia è tornata allo splendore della Monarchia. Non c’è stato bisogno di un nuovo referendum, è bastato il suo nome, il suo ritorno in Patria, poi l’intrigo di corte del ciambellano fiorentino e l’acclamazione del Parlamento con poche defezioni ha fatto il resto.

Drago I, al secolo Mario Draghi, è ormai il nuovo sovrano d’Italia. Presidente del consiglio a tempo indeterminato, Presidente della Repubblica in pectore, Presidente dell’Europa in fieri. È venuta in Italia perfino Angela Merkel a fare le consegne a lui, prima di andarsene dopo il suo lungo regno germano-europeo.

Cani e gatti, sinistra e lega, renziani, berlusconiani e grillini si sono stretti intorno a lui. E lui è disceso tra i sudditi, si è fatto premier, ha concesso la sua augusta persona alle sorti del suo paese d’origine. È stato incoronato in Quirinale dalla Queen Mother, Mattarella, sempre più confinato nel ruolo di Regina Madre, in attesa di quiescenza.

Prima di lui eravamo passati da una fase di transizione, che potrebbe definirsi la Contea, dal suo predecessore il Conte Giuseppi II, successore di se stesso, in versione progressista, dopo il suo primo mandato da Giuseppi I in versione populista. Ma non c’è stato il tradizionale rito di passaggio della campanella, perché con Draghi abbiamo fatto un salto di grado e di status. Draghi è stato incoronato e da allora regna, come i Savoia, per grazia di Dio e volontà della nazione. Però trattandosi di un’epoca atea e apatriottica, regna per grazia dell’Europa e volontà delle fazioni.

Sua Maestà Drago Draghi ha il carisma della sovranità, è super partes, si esprime con grazia regale e stile sobrio,  è autorevole e clemente, essenziale ed elegante nella comunicazione, e tratta i partiti come baronie bizzose ma prone alla Corona.

Nessuno osa contestare il suo Regno, perfino l’opposizione lo invoca al Quirinale, implorando che lui conceda poi la grazia del voto. Acclamato come Re Covery, dal cospicuo fondo che dovrà gestire, Sua Maestà Draghi è riuscito a immunizzare un paese riottoso servendosi di un Generale di sua Fiducia, Figliuolo, come ha voluto graziosamente battezzarlo. Il vaccino susciterà  dubbi di durata ed efficacia ma di sicuro ha inoculato nel paese la fiducia nella monarchia draghiana. Ora l’Italia attende che il Sovrano dispensi ai sudditi, tramite il suddetto Recovery, i benefici necessari per risollevarsi e riprendere il cammino.

Di Draghi non oseremo dire nulla, lungi da noi l’idea di oltraggiare la Corona e vilipendere il Sovrano. Ci limitiamo perciò a esercitare la nostra critica su due aspetti riflessi che ci sembrano rilevanti.

Il primo riguarda il governo della Corona. Nonostante sia guidato dal Sovrano Eccellentissimo in persona, al di sopra di ogni critica e di ogni dubbio, quello che fu presentato come il Governo dei Migliori, in realtà è un governuzzo di cabotaggio medio, come se ne videro già tanti ai tempi delle repubbliche. A una più attenta analisi e valutazione, possiamo dire che i suoi ministri si dividono in tre fasce: Abili, Inabili e Mediocri. Gli abili, naturalmente, sono nei dicasteri più prossimi alla Corona, in particolare nei dicasteri economici. Gli inabili sono purtroppo in alcuni dicasteri chiave, come gli Interni, gli Esteri, la Salute. I restanti sono Mediocri. Ma la media dei ministeri è nella media dei precedenti, e il risultato generale è la mediocrità.

L’altro aspetto, forse più grave, riguarda l’intera politica che col Regno di Drago I è passata alla semiclandestinità, a un’ingloriosa irrilevanza e marginalità. Sarà per lo splendore regale di Drago I, ma i partiti sono oscurati, a volte oscurantisti, e si bisticciano tra loro per guadagnare briciole di visibilità, mossi da capricci infantili.

I partiti sono ormai ridotti a feudi, signorie, ducati senza giurisdizione né sovranità, ormai esautorati dal regno unito draghiano. E i loro rappresentanti al governo trovano visibilità solo se accettano un ruolo alla corte di Re Draghi: vedi il Marchese del Grillo, al secolo Di Maio, il Visconte demizzato Franceschini, il Duca della Lega Giorgetti, il Baronetto del Cavaliere, Sir Brunetta, il Camerlengo della Sinistra ospedaliera, Speranza, più altri nobili e cortigiane delle varie conventicole.

Non potendo decidere, la politica bamboleggia tra temi falsi o secondari: le leggi in materia sessuale e omosessuale, le scomuniche sul fascismo e ai no vax, le proroghe dei pass o dei tamponi, il voto ai sedicenni, i redditi di parassitanza, più vari ius, eccetto lo ius primae noctis, riservato alla Corona. Non incide più, e perciò si limita ai giochi, ai trastulli, ai vizi di corte.

Ma tutti tengono a far sapere che sono con il Re e per il Re, più realisti del Re e più draghisti del Drago. Europeisti, governisti, lealisti. Siamo entrati ormai nella dragosfera, da qualunque parte voi entriate.

C’è chi ipotizza di attribuire al Re il potere assoluto, ovvero l’assommarsi di tutti i poteri: Capo dello Stato e a interim capo del governo, e a interim Capo della Commissione europea. Senza limiti temporali, settoriali o territoriali. Un impero. Sempre sperando che lui non si annoi e non se ne vada di nuovo fuori dall’Italia. Acclamato ormai come Sovrano del Regno Unito, non resta che alzarsi in piedi e intonare God save the King. E Dio salvi gli italiani dal ridicolo servilismo, maschera antica dei cinici più infidi.

MV, Panorama (n.43)

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/drago-i-re-ditalia/

 

L’ideologia mascherata e il burka della salute

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di Marcello Veneziani

Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica.

La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. TrumpBolsonaroJohnson e da noi Salvini, BriatoreSgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli. Un atteggiamento che in sintesi potremmo definire fascio-libertario. Il superuomo nietzscheano può accettare il distanziamento sociale, e perfino auspicarlo, anche se detesta l’imposizione; ma la mascherina no, è una schiavitù umiliante, una coercizione all’uniformità.

Ma perché non cogliere pure sull’altro versante l’ideologia serpeggiante che unisce gli apologeti della mascherina, e il suo forte significato simbolico e metaforico, al di là del suo uso sanitario e della sua effettiva utilità? Per molti fautori della mascherina si tratta di qualcosa di più che una semplice profilassi; quasi un bisogno inconscio, una coperta di Linus, un istinto di gregge, il retaggio di un’ideologia. La mascherina è una livella ugualitaria e uniformatrice, la protesi della paura che accomuna la popolazione in semilibertà vigilata; la mascherina sfigura i volti e cancella le differenze in una specie di comunismo facciale, anche se esalta gli occhi e nasconde le brutture; genera isolamento pur restando in una prospettiva ospedaliero-collettivista, rende più difficile la comunicazione, evoca il bavaglio e la museruola, ha qualcosa di inevitabilmente angoscioso e orwelliano. Lo spettacolo di folle in mascherina sarà confortante per il senso civico-sanitario ma è deprimente, ha qualcosa di umanità addomesticata e impaurita, ridotta a silenzio e servitù dal terrore della malattia e dal relativo terrorismo sanitario. Continua a leggere

Manifesto dei Migranti Interni

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Questo appello è rivolto a quanti sono nauseati dalla dominazione politica e governativa, intellettuale e ideologica, sanitaria e giudiziaria del nostro Paese e vogliono marinare il regime, come un tempo si diceva marinare la scuola.

É un manifesto dedicato a quanti sono insofferenti del potere vigente e dei palloni gonfiati che lo occupano e al loro abuso dell’emergenza; disgustati dalla mafia governativa, giudiziaria e ideologica che ci sovrasta e dall’omertà delle massime istituzioni; soffocati dall’asfissiante cappa di conformismo politically correct e dalla demagogia umanitaria, in aperto dissenso con le leggi che stabiliscono reati d’opinione a tutela di alcune categorie privilegiate; ma al tempo stesso l’appello è rivolto a quanti sono insoddisfatti dall’evanescente pochezza delle opposizioni e dalla loro inefficacia. Come sfuggire alla morsa velenosa del regime di sorveglianza in cui stiamo scivolando?

Nell’attesa sfiduciosa di una svolta, di un salutare cambiamento, ecco una exit strategy, una via di fuga da perseguire seduta stante, senza mobilitazione di piazza né movimenti politici: la chiamiamo migrazione interna o interiore, emigrazione mentale e sentimentale. Scelta singola, individuale o di gruppo, anche se può diventare una tendenza diffusa. Migrare stando a casa o nei paraggi o in un luogo del cuore a cui siamo legati. Ovvero, il contrario dei flussi migratori che hanno perso l’aspetto storico dell’emigrazione e somigliano all’esodo biblico delle migrazioni di popoli.

La migrazione interna non è una fuga dalla terra natia ma all’opposto, il rifugio nei luoghi natii per ripararsi dalla dominazione presente. Nessun barcone, nessun viaggio clandestino, nessuna Ong e nessuna richiesta di asilo ma lo sdegnoso rifiuto della dominazione sotto cui viviamo, per ripararsi ai margini della città e dello Stato; in campagna, in fattoria, nel paesino d’origine o d’elezione, nelle località di mare o di montagna. Scottati e incoraggiati dal lungo lockdown dei mesi scorsi, desiderosi di sottrarsi a nuovi arresti domiciliari in città, ventilati dall’emergenza, impossibilitati dalle proibizioni sanitarie a partire per mete lontane o destinazioni esotiche, l’unica soluzione è la migrazione interna, restando a casa o nella seconda casa, o trasferendosi nel casale abbandonato, dove siano più lontani i clamori molesti del giorno. È il modo per sfuggire al dispotismo dell’emergenza come alla globalizzazione onnipervasiva. Continua a leggere

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