Discorso di Pio XII ai parroci di Roma per la Quaresima

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Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza

Comunicato n. 18/24 del 19 febbraio 2024, San Gabino

Discorso di Pio XII ai parroci di Roma per la Quaresima


Discorso di Sua Santità Pio XII ai Parroci di Roma e ai Predicatori della Quaresima, 6 Febbraio 1940

Una cara e veneranda consuetudine Ci porge la gioia e il conforto di vedere, all’approssimarsi del tempo quadragesimale, riuniti intorno a Noi i Parroci e gli oratori sacri dell’Urbe. In mezzo a voi proviamo una vicinanza e un affetto antico e nuovo; sentiamo come la responsabilità di Supremo Pastore e l’amore di Padre comune, che Ci uniscono con tutte le diocesi del mondo, Ci legano in più stretto vincolo e si ravvivano con il clero della città Nostra natale, ora affidato a Noi dallo Spirito Santo, il quale nella sua infinita degnazione Ci ha posto a reggere la Chiesa di Roma e a un tempo l’universale Chiesa di Dio (Act., XX, 28).

Ma le gravi sollecitudini sempre crescenti per il governo della Chiesa universale obbligano i Sommi Pontefici, oggi ancor più che nei tempi passati, a porre con fiducia in altre esperte mani le cure giornaliere della diocesi romana; onde in questa felice circostanza godiamo di esprimere e altamente manifestare dinanzi a voi gratitudine e sommo riconoscimento al Nostro carissimo e Venerabile Fratello il Cardinale Vicario e ai suoi collaboratori per lo zelo illuminato e indefesso con cui Ci coadiuvano nel ministero episcopale. Perciò mentre Ci rallegriamo, o diletti Figli, di salutarvi qui presenti, vogliamo ringraziare anche voi e, poiché conosciamo le vostre opere, le vostre fatiche e la vostra costanza (Apoc., II, 2), bramiamo di significarvi l’intima Nostra soddisfazione per la vostra commendevole attività.

Che se questo Nostro compiacimento Ci offre ora l’occasione d’intrattenerCi con voi su alcune esigenze della cura parrocchiale in Roma, desideriamo che nelle Nostre parole vediate e sentiate soprattutto un’approvazione per quello che avete conseguito o a cui aspirate, un paterno incoraggiamento a proseguire nella via iniziata, un’assicurazione che voi e Noi siamo animati e mossi dalle stesse intenzioni e dai medesimi disegni. Non è forse vero che noi tutti, sacerdoti, siamo costituiti mediatori di riconciliazione fra Dio e gli uomini? Mediatori, bensì, subordinati a Cristo, unico Mediatore fra Dio e gli uomini «unus mediator Dei et hominum homo Christus Iesus», che diede se stesso in redenzione per tutti, e per il quale Dio ci ha a sé riconciliati e ha dato a noi il ministero della riconciliazione «dedit nobis ministerium reconciliationis », e ci ha incaricati della parola di riconciliazione «posuit in nobis verbum reconciliationis. Pro Christo ergo legatione fiingimur» (I Tim., II, 5 -6; II Cor., V, 18-20). Siamo ambasciatori per Cristo in mezzo al mondo, come se Dio esortasse gli uomini per bocca nostra. A quest’alto concetto sacerdotale propostoci dal Dottore delle Genti solleviamo, diletti Figli, il nostro sguardo, le nostre aspirazioni e i nostri intendimenti; e con l’operoso nostro zelo esaltiamo e rendiamo in mezzo al popolo cristiano veneranda la nostra dignità di mediatori e ambasciatori di Cristo. Ma nella sacra gerarchia chi è mai più vicino al popolo se non il parroco, la cui missione caratterizzano e definiscono tre parole: apostolo, padre, pastore?

Siete cooperatori del Vescovo, successore degli Apostoli, col quale costituite un’unità morale, sicché anche per ognuno di voi vale il mandato della grande missione di Cristo; siete padri dei vostri parrocchiani, e potete ripetere loro le parole dell’Apostolo ai novelli Cristiani : «Filioli mei, quos iterum parturio, donec formetur Christus in nobis» (Gal., IV, 19); siete pastori del vostro gregge, secondo le impareggiabilmente belle ed esaurienti descrizioni e l’irraggiungibile modello del Buon Pastore, Gesù Cristo. Attorno a queste parole di così densa comprensione: apostolo, padre, pastore, vogliamo esporvi alcuni brevi punti, che concernono il benessere e la prosperità della Nostra diocesi di Roma.

1) Ogni parroco è un apostolo; ma soprattutto colui, che svolge l’opera sua in una grande città, deve sentire in sé le fiamme dello spirito apostolico e missionario e dello zelo conquistatore di un San Paolo. Se considerate i tempi moderni coi loro eventi politici e religiosi e col multiforme disviarsi dell’indagine filosofica e scientifica e dell’istruzione ed educazione civile dalle credenze religiose, voi non tarderete a vedere come si siano talmente mutate le antiche condizioni spirituali della società, che neanche in questa Nostra diletta Roma può più parlarsi di un terreno puramente, intieramente e pacificamente cattolico; perché, accanto a coloro — e sono magnifiche legioni — rimasti fermi nella fede, non mancano in ogni parrocchia circoli di persone, le quali, fattesi indifferenti o estranee alla Chiesa, costituiscono quasi un territorio di missione da riconquistare a Cristo.
Di tale duplice aspetto del suo popolo è dovere del parroco di formarsi con pronto ed agile intuito un quadro chiaro e minutamente particolareggiato, vorremmo dire topograficamente strada per strada, — cioè, da un lato, della popolazione fedele, e segnatamente dei suoi membri più scelti, da cui trarre gli elementi per promuovere la Azione Cattolica; e dall’altro, dei ceti che si sono allontanati dalle pratiche di vita cristiana. Anche questi sono pecorelle appartenenti alla parrocchia, pecorelle randage; e anche di queste, anzi di loro particolarmente, siete responsabili custodi, Figli dilettissimi; e da buoni pastori non dovete schivare lavoro o pena per ricercarle, per riguadagnarle, né concedervi riposo, finché tutte ritrovino asilo, vita e gioia nel ritorno all’ovile di Gesù Cristo. Tale è per il parroco il significato ovvio ed essenziale della parabola del Buon Pastore, di quel Pastore che è insieme Padre e Maestro. Tale è l’apostolo della parrocchia, il quale, al pari di Paolo, « Si fa debole coi deboli per guadagnare i deboli, e si fa tutto a tutti per far tutti salvi » (I Cor., IX, 22).

2) Il parroco è pastore e padre, pastore di anime e padre spirituale. Dobbiamo tener sempre presente, diletti Figli, che l’azione della Chiesa, tutta rivolta al regno di Dio che non è di questo mondo, se non vuol essere sterile, ma svolgersi vivificante, sana ed efficace, ha da tendere allo scopo che gli uomini vivano e muoiano nella grazia di Dio. Istruire i fedeli nel pensiero cristiano, rinnovare l’uomo nella sequela e nella imitazione di Cristo, spianare la via, pur sempre angusta, al regno del cielo e rendere veramente cristiana la città, tale è la missione propria del parroco come maestro, padre e pastore della sua parrocchia.
Nell’adempimento di questi doveri non lasciate distogliere e inceppare il vostro zelo dai lavori di amministrazione. Forse non pochi di voi hanno giornalmente a condurre aspra lotta per non restare oppressi dalle occupazioni amministrative e trovare il modo e il tempo indispensabile per la vera cura di anime. Ora, se l’organizzazione e l’amministrazione sono pure senza dubbio mezzi preziosi di apostolato, debbono però essere adattate e subordinate al ministero spirituale e al verace e proprio ufficio operosamente pastorale.

3) Per divino consiglio, anche il sacerdote, come ogni Vescovo «ex hominibus assumptus, pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis» (Hebr., V, I); e perciò il sacro carattere di lui, intermediario tra Dio e gli uomini, si palesa, si svolge, si espande, si innalza e pienamente si sublima circondato e avvolto dalla suprema e somma luce del suo ministero, nel sacrificio della Santa Messa e nell’amministrazione dei Sacramenti. All’altare, al fonte battesimale, al tribunale di penitenza, alla mensa eucaristica, alla benedizione degli sposi, al letto degli infermi, all’agonia dei morenti, fra i fanciulli avidi ,del futuro e del cammino della vita, nelle famiglie e nelle scuole, negli asili del dolore e nelle case agiate, sul pulpito e nelle pie adunanze, dai sorrisi e dai vagiti delle candide culle ai silenti cimiteri dei riposanti nell’aspettazione di una rinascita immortale, il sacerdote è, nelle mani di Dio, il ministro, lo strumento più operante della poema, dell’amore, del perdono, della redenzione largita all’uomo decaduto per sottrarsi alla schiavitù e alle insidie di Satana, e ritornare al Padre celeste, come pellegrino rigenerato, rivestito di grazia, erede del cielo, ristorato dal viatico di un pane più vivo e salutifero che non fosse il frutto dell’albero della vita piantato in mezzo all’Eden. Tanto piacque al Figlio di Dio, Redentore del mondo, di esaltare a salute degli uomini il suo sacerdote!
Ponete quindi cura che la vostra dignità risplenda sempre innanzi al vostro popolo, e che questo del Santo Sacrificio e dei Sacramenti che amministrate conosca e comprenda con viva fede il significato e il valore, di guisa che con intelligente e personale partecipazione possa seguirne le mirabili cerimonie, come pure tutte le ineffabili bellezze della sacra liturgia. Ci è perciò di sommo conforto e letizia che quest’anno i Santi Sacramenti saranno, o diletti quaresimalisti, il tema centrale della vostra predicazione.
Voi tutti dunque, come certamente avete fatto sinora, celebrate con dignitosa e intima devozione i Santi Misteri, evitando con ogni sollecitudine che i riti sacri, per così dire, inaridiscano nelle mani del sacerdote. Senza dubbio non dipende dal personale merito del ministro l’effetto essenziale dei Sacramenti e si correrebbe il pericolo di ridurli a un mero atto esterno, se si attribuisse importanza principalmente alla loro efficacia psicologica. Ma proprio per stimolare i fedeli ad accostarsi a queste fonti soprannaturali e disporli a riceverne la grazia, dovete tenere come vostro sacro dovere il celebrare il Santo Sacrificio e l’amministrare i Sacramenti con quel profondo rispetto, con quella cosciente riverenza, con quell’interiore pietà che rendono le sacre funzioni esempi di edificazione e incitamenti di devozione. Premuto dalle dure contingenze della vita giornaliera, quando l’ora o la campana della parrocchia lo invitano, e destano, in mezzo al tumulto dei suoi affetti, il pensiero di Dio e il palpito dello spirito, allorché mette il piede sul limitare del tempio ed entra ad accomunarsi coi fedeli per assistere ai Sacri Misteri ed ascoltare la parola di Dio, che cerca mai, che desidera il cristiano? Che vuole il popolo? Esso vuole trovare alimento e ristoro anzitutto e soprattutto nella grazia che lo conforta, ma anche — e questo pure è volontà di Cristo — nell’effetto elevante che la magnificenza della casa di Dio e il decoro degli offici divini offrono all’occhio e all’orecchio, all’intelletto e al cuore, alla fede e al sentimento.
Dopo il Santo Sacrificio, il vostro atto più grave e rilevante è l’amministrazione del sacramento della Penitenza, che fu detto la tavola di salvezza dopo il naufragio. Siate pronti e generosi a offrire questa tavola ai naviganti nel procelloso mare della vita. Insistetevi con speciale zelo e piena dedizione; sedete in quel divino tribunale di accusa, di pentimento e di perdono, come giudici che nutrono in petto un cuore di padre e di amico, di medico e di maestro. E se lo scopo essenziale di questo sacramento è di riconciliare l’uomo con Dio, non perdete di vista che a raggiungere così alto fine giova potentemente quella direzione spirituale, per la quale le anime, più vicine che mai alla paterna voce del sacerdote, versano in lui le loro pene, i loro turbamenti e i loro dubbi e ne ascoltano fiduciose i consigli e gli ammonimenti; perché il popolo sente acuto il bisogno di confessori, che per virtù e per scienza teologica e ascetica, per maturità e ponderatezza, valgano a fornire illuminate e sicure norme di vita e di bene in maniera semplice e chiara, con tatto e benevolenza.

4) Quanto abbiamo detto fin qui riguarda specialmente il devoto e vigile ministero del parroco; ma oltre a questo, è suo stretto dovere di annunziare la parola di Dio (Can., 1344), dovere essenziale dell’apostolo, al quale viene affidato il «verbum reconciliationis» non meno che il «ministerium reconciliationis» (II Cor., V, 18-19). «Vae enim mini est, si non evangelizavero» (I Cor., IX, 16). Perché «fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi . . . Quomodo credent ei, quem non audierunt? Quomodo autem audient sine praedicante?» (Rom., X, 14-17). Come l’intelletto preluce alla volontà, così la verità è la lampada della buona azione. La parola è il veicolo della verità, e pur troppo anche dell’errore, che battono alla porta dell’intelletto e della volontà. Voi comprendete perché le ammonizioni dell’Apostolo connettano fede e udito, udito e predicatore, e perché, a sanare la cecità del mondo nel conoscere Dio parlante dalla sapienza lucente nell’universo «placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes» (I Cor., I, 21). Sublime stoltezza è questa; giacché la stoltezza di Dio è più saggia degli uomini (I Cor., I, 25) e il « disonor del Golgota » è la gloria di Cristo. Queste verità convengono pure, al pari degli ammonimenti dell’Apostolo, ai nostri tempi, in cui profonda è l’ignoranza religiosa e gravida di pericoli. Predicate la dottrina, le umiliazioni e le glorie del Salvatore divino; e poiché specialmente ogni domenica e nel tempo della quaresima numerosissimi cristiani si adunano intorno ai pulpiti, si offre a voi un’occasione unica, — che viene osservata con gelosia dagli araldi di altre concezioni — per rendere più potente e salda e profonda la fede nel popolo; e chi non si giovasse con ardente zelo di un’ora così opportuna, mancherebbe del senso d’illuminata responsabilità nel promuovere il bene, tanto necessario al vivere cristiano, dell’istruzione sacra.
Rendete con la predicazione familiari la persona e gli esempi dell’Uomo-Dio, poiché la vita religiosa dei singoli sboccia e si sviluppa con divina freschezza nella personale relazione e unione con Gesù Cristo. Predicate i misteri della fede; predicate la verità nella sua purezza e integrità fino nelle sue ultime conseguenze morali e sociali: di questo ha fame il popolo. Predicate con semplicità, mirando a quel senso pratico che arriva alla mente e si fa guida dello spirito. Non la scintillante e ricercata facondia conquista, oggi specialmente, le anime, bensì la parola con-vinta che parte dal cuore e va al cuore.
Coi grandi e coi maturi siate, ad immagine dell’apostolo Paolo, padri e dottori di perfezione; coi piccoli e coi giovani fatevi piccoli a guisa di madri «tamquam si nutrix foveat filios suos» (I Thess., II, 7). Non crediate coi piccoli e con gl’ignoranti di umiliarvi: uguale in valore alla predica è la catechesi, l’istruzione dei fanciulli come l’istruzione degli adulti. In tale ufficio il clero della parrocchia può certo contare sull’appoggio e sul concorso dell’Azione Cattolica; e a tutti quelli, che a così santa opera collaborano, Noi con sentimento paterno lieti mandiamo il Nostro profondo ringraziamento e la Benedizione Apostolica. Questa importante missione non dimenticate che i sacri canoni (1329-33) la suppongono come naturale e prima cura, a cui debba por mano colui che è messo curatore di anime. Lo zelo del sacerdote e la sua abilità sarà stimolo e modello ai collaboratori laici; e l’ora di catechismo offrirà al parroco propizia occasione di ritrovarsi con la giovane generazione della parrocchia. Non vi lasciate sfuggire l’occasione di preparare personalmente, quando vi riuscirà possibile, i fanciulli alla prima confessione e comunione : è il primo segreto incontro di voi e di Cristo, il divino amante dei piccoli, con anime ingenue che si accostano a voi e all’altare e si aprono, come fiori di primavera ai primi raggi del sole, e ne serbano indimenticato il ricordo attraverso il corso fluttuante della vita.

5) Non vogliamo infine tralasciare un tratto caratteristico della figura del Buon Pastore, il quale, oltre ad essere la Luce vera che illumina ogni uomo, veniente in questo mondo, nella verità, nella via e nella vita, prodigava fuori di sé la virtù sanatrice anche dei corpi e di ogni miseria umana «benefaciendo et sanando omnes» (Act., X, 38), e lasciando ai suoi Apostoli e alla sua Chiesa il mandato dell’amore misericordioso ai poveri, ai sofferenti, ai derelitti; perché la vita di quaggiù è un flusso e riflusso di beni e di mali, di pianto e di gioia, di bisogni e di soccorsi, di cadute e di risorgimenti, di lotte e di vittorie. Ma l’amore verso i fratelli tutti redenti da Cristo è il misterioso balsamo di ogni dolore e miseria.
Sull’inizio del secondo secolo, come voi ben sapete, S. Ignazio di Antiochia alla Chiesa di Roma, il cui anfiteatro egli, quasi leone morente fra i ruggiti dei leoni, stava per consacrare col suo sangue, dava già il titolo di «προκαζημένε τησ αγάπης»: espressione in cui, tra l’altro, si manifesta un riconoscimento onorevole e nobile della carità di lei, vale a dire che essa « ha il primato (anche) nell’amore » (Epist. ad Rom., II). La carità romana non è mai venuta meno nei secoli : essa brillò nelle catacombe, nelle case dei cristiani, negli ospedali, nei ricoveri dei pellegrini, degli orfani, nei randagi figli del popolo, nei pericoli delle famiglie e delle fanciulle, nei mille aspetti della sventura. Mostratevi degni dei vostri avi. Non vi è parrocchia, dove non vi sia penuria da sollevare; né può disinteressarsene una vita parrocchiale fiorente. Non conoscete voi ogni giorno quanto cresca il bisogno e la povertà, dove manifesta, dove occulta? Organizzate l’operosità della beneficenza, perché si svolga in maniera ordinata, giusta, uguale, vasta; animatela con vivo spirito d’amore, con rispetto delicato, con provvido sguardo verso coloro che senza colpa sono caduti nell’indigenza : qui miseretur, ammonisce S. Paolo, lo faccia in hilaritate (Rom., XII, 8), «con quel tacer pudico, che accetto il don ti fa» (Manzoni, Pentec.).
Attingete il coraggio e la luce nella storia della città e della diocesi di Roma. Per le sue grandezze, le sue decadenze e durezze di eventi, Roma non ha simili, e, in pari tempo, per le potenti manifestazioni della misericordia di Dio non ha uguali. Quanta è la dignità di questo colle Vaticano e di queste sponde del Tevere! Quanta è la gloria delle parrocchie e dei sacri titoli romani, dalle cui pareti mille ricordi e lapidi parlano e ammoniscono chi li contempla! Che se è pur dovere che gli animi nostri restino consapevoli della grave ed aspra ora che volge, la nostra vita e l’ardore nostro vogliono essere sostenuti dalla fiducia che la forza di Dio creerà anche oggi opere grandi e perfette; perché ogni sufficienza nostra viene da Lui: «Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (II Cor., III, 5 ; XII, 9).
Rivolgete in alto i vostri sguardi agli innumerevoli uomini, ché col loro sangue, come testimoni di Cristo, hanno abbeverato il suolo di questa città, agli eroi dello zelo, della parola e della carità, che con la santità della vita lo hanno reso fertile e rigoglioso, dai Principi degli Apostoli e dai Protomartiri della Chiesa romana sotto Nerone ai ministri di Dio, sacerdoti, religiosi, prelati e Pontefici, che in quest’Urbe furono lucerne ardenti e lucenti in secoli a noi più vicini. Con piena fiducia nella loro intercessione e specialmente in quella della Santissima Vergine, aiutandovi vicendevolmente con fraterno spirito sacerdotale, consacrandovi con piena e assidua dedizione all’opera di Cristo e della sua Chiesa, fate che questa città, diocesi Nostra particolare e anche cura vostra, tanto ampliatasi in pochi decenni e cresciuta, con straordinaria rapidità, di popolazione e splendore, sia, in faccia al mondo che qui conviene da ogni paese, modello di profonda fede, di costume cattolico e di cristiana carità.

Per questo impartiamo, diletti Figli, a voi e ai vostri collaboratori, a tutte le speranze e le intenzioni vostre, ai vostri parrocchiani, e specialmente alla gioventù, dalla pienezza del Nostro cuore paterno l’Apostolica Benedizione.

 

Articolo completo: https://www.centrostudifederici.org/discorso-di-pio-xii-ai-parroci-di-roma-per-la-quaresima%E2%80%A8/?fbclid=IwAR33jrNNwQ3YY6bEVDpbA4pSvEaSaGZpQ1BZosU9Rkpb8Swo7zybNVPVBQU

Il 25 luglio nacque dalle bombe del 19 luglio

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di Marcello Veneziani

L’Italia si sfasciò, in ogni senso, tra il 25 luglio e l’8 settembre di ottant’anni fa. Ma prima ci fu il 19 luglio, un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista. Che successe il 19 luglio? Roma fu pesantemente bombardata dagli americani; dai tempi delle invasioni barbariche, e poi del sacco di Roma di cinque secoli fa, a opera dei Lanzichenecchi, non era stata messa a ferro e fuoco in quel modo. Tremila morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia di feriti, case distrutte, terrore. Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri, un secondo bombardamento fu effettuato il 13 agosto. La fatidica immagine del Papa Pio XII a San Giovanni in Laterano che allarga le braccia in un atto estremo di paternità e soccorso; la Città Eterna ormai si raccomanda a Dio, avendo perso l’incrollabile fiducia nella storia e nella sua gloriosa incolumità.
Di solito si collega allo sbarco angloamericano in Sicilia iniziato pochi giorni prima, la spinta decisiva alla svolta del 25 luglio. Ma si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…
Il fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale, ebbe però un significato storico proverbiale e paradigmatico nella storia d’Italia. Se non fosse per la galoppante amnesia che ci prende ormai da anni e cancella rapidamente pagine e pagine di storia e memoria, dovremmo ricordare gli ottant’anni del 25 luglio perché è una data “fondativa” che rivela l’indole italiana ed è soprattutto il tormentone della storia d’Italia, il suo archetipo.
Il giorno in cui cadde il regime fascista, per voto democratico del Gran Consiglio, quando il Re Vittorio Emanuele III passò da Imperatore per grazia del Duce a carceriere del Duce medesimo, diventò la data ufficiale dello sbandamento e dello sdoppiamento nazionale. Il 25 luglio è il paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo. Ogni leader deposto nella nostra repubblica ha subito la sindrome del 25 luglio: da Craxi a d’Alema, da Berlusconi a Bossi, da Letta a Renzi, fino a Salvini e perfino Di Maio, solo per dire dei più recenti. Forse fa eccezione Giuseppe Conte, che si tradì da solo, e non fu, come un film biblico famoso, “Giuseppe venduto dai fratelli”.
Per i missini la replica del 25 luglio era la scissione di Democrazia Nazionale dal Msi, compiuta dai “migliori” della classe dirigente missina nel 1976; Giorgio Almirante ripeteva a loro proposito che era stato coniato dopo il 25 luglio un verbo in inglese, To Badogliate, per indicare il tradimento, usando come verbo il nome del Maresciallo Badoglio, colui che assunse la guida del governo dopo la caduta di Mussolini. Poi venne il caso Fini, divenuto in Alleanza Nazionale il nuovo Badoglio per antonomasia.
Il 25 luglio fu un mezzo golpe, come del resto era stato ventun anni prima la Marcia su Roma. Metà istituzionale e metà atto di forza, ma incruenti in ambo i casi, all’inizio e alla fine del regime fascista nel XXI anno della sua era (per essere un’era, durò pochino). Il 25 luglio è anche un evento paradossale: un dittatore va al Gran Consiglio consapevole del destino che lo attende, cade democraticamente, con voto di maggioranza, rimette il suo mandato nelle mani del Re e poi si fa arrestare senza alcuna reazione, forse concordando il suo esautoramento e perfino scegliendo la destinazione della sua prigionia. Perfino Donna Rachele, che non era un raffinato politologo ma una vivace donna del popolo, aveva capito il tranello e lo aveva scongiurato di non andare a quella seduta. Lui invece ci va, come se volesse quel che poi accadde; era un modo per dimettersi e per lasciare che l’Italia avesse le mani libere dall’alleato tedesco. Seguono due anni di orrori ma non sono solo legati ai campi di sterminio, alle esecuzioni naziste e fasciste ma ai bombardamenti americani sulle città e sulle popolazioni, alle migliaia di ragazze stuprate dai marocchini francesi e agli eccidi partigiani (foibe incluse).
Il 25 luglio ad abbattere il regime fascista sono i suoi quadrumviri superstititi della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi (Italo Balbo e Michelino Bianchi erano morti), le migliori intelligenze del regime, da Dino Grandi a Giuseppe Bottai, personalità di valore come l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni; quella che si potrebbe chiamare la destra del regime, sotto l’egida del Re, più qualche spurio. Con il Duce al Gran Consiglio restano in pochi. Mussolini è stanco e sfiduciato, non ama la prospettiva di andare al rimorchio dei tedeschi, magari voterebbe anche lui per la caduta del regime… Poi con l’8 settembre verranno le tragedie, da Salò al processo di Verona, gli eccidi rossi, i rastrellamenti tedeschi, la guerra civile, il tentativo di riprendere con la Repubblica sociale, con Mussolini metà prigioniero di Hitler e metà intenzionato a creare uno Stato cuscinetto, come dissero alcuni storici come Renzo De Felice, per impedire che i tedeschi, i nazisti prendessero il diretto controllo del nord d’Italia e si accanissero sugli italiani. Ma il Paese spaesato e decapitato, con la classe dirigente che si squaglia e va a vendersi l’Italia, comincia in quel dì, il 25 luglio (salvo antichi precedenti). Il 25 luglio, facendosi poi 8 settembre, non finì più, diventò un black friday in cui compiere periodicamente la svendita del magazzino morale e istituzionale del nostro Paese.

La Verità – 19 luglio 2023