LA SOVRANITA’ E’ LA SOLUZIONE, NON UNA PAROLACCIA

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di Matteo Castagna per www.2dipicche.news

Il Prof. Dieter Grimm è uno dei più autorevoli costituzionalisti europei. Docente emerito di Diritto pubblico della Humboldt-Universitat di Berlino, è stato giudice della Corte costituzionale della Repubblica federale tedesca. Ha insegnato a Yale, negli Stati Uniti, ed è stato visiting professor in molte università, in tutto il mondo. Ha pubblicato numerosi volumi di storia, teoria, diritto costituzionale ed europeo.

Leggere le sue pubblicazioni è estremamente utile, per comprendere in maniera esaustiva il concetto di “Sovranità”, che viene, spesso ed erroneamente, quanto maliziosamente, confuso con una forma di populismo, tanto che non c’è mai data una definizione unanime e chiara.

Da un lato fa comodo ai globalisti derubricare una dottrina politica a semplice e disprezzato sentimento popolare di protesta, dall’altro non vi è una approfondita preparazione culturale per fornire risposte concrete adeguate, che non siano uno spauracchio nel gioco delle parti, ma una precisa categoria ideale, sociale, monetaria,  economica, etica e religiosa.

Quello di “sovranità” è un concetto politico-giuridico che indica il potere di comando di una società, distinguendosi da altre associazioni umane ove tale potere non è presente. La sovranità vuole trasformare la forza di un potere legittimo, in un potere di diritto. L’idea di sovranità era già presente all’interno dell’Impero Romano nel Corpus iurisi civilis di Giustiniano con espressioni quali: maiestas, summa potestas, superiorem non recognoscens, rex est imperator in regno suo.

Il riferimento principale, cui rimanda spesso il Prof. Grimm, è al pensiero di Jean Bodin (1530-1596), che fu docente di diritto romano e poi avvocato al Parlamento di Parigi. “La politica è il nucleo essenziale della storia – scriveva Bodin – in quanto il più utile a conservare le società umane” e individua l’oggetto della civilis disciplina nell’imperium dello Stato, ovvero nella summa ratio del comandare e del proibire, che sola può armonizzare tutte le attività e le arti umane, indirizzandole alla pubblica utilità, ovvero al bene comune. In quest’ottica, Bodin definisce la sovranità come il potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato. Lo Stato sovrano non riconosce dipendenza da altri, siano essi Stati, élite, unioni di potere e ben si adatterebbe ad un mondo multipolare.

La sovranità consiste nel poter dare, annullare, interpretare, abolire le leggi; dichiarare guerra e concludere la pace; imporre le tasse ed esentare dal farlo; istituire e destituire i magistrati; concedere grazie e dispense alla legge; battere moneta propria; adottare un fisco equo. La sovranità e l’autonomia, se vogliamo, si possono accompagnare, in nome del principio di sussidiarietà. Ed anche il premierato potrebbe sostituire quello che Bodin chiamava il principe. 

Per Bodin, la sovranità non può essere illimitata: tutti i governanti della terra devono essere soggetti alla Legge di Dio e della natura. La summa potestas trova il suo equilibrio entro i limiti divini, quali la trasmissione del potere sovrano, il diritto alla proprietà da parte delle famiglie, intese come cellule fondamentali e fondanti di ogni comunità. Lo Stato organico, organizzato in corporazioni garantiscono stabilità ed equità sociale. Lo stato giusto – spiega Bodin – è quello in cui chi comanda e giudica lo faccia in funzione primaria delle superiori leggi e comandamenti di Dio.

Lo Stato sovrano decide la sua forma di governo. Bodin preferiva la monarchia ereditaria, ma non escludeva né l’aristocrazia, né la democrazia.

In quest’ultimo caso, non si riconosce né relativismo né liberalismo, perché i delegati dal popolo a governare devono farlo, in prima istanza, come soggetti all’Ordine stabilito da Dio. Trono e altare devono andare in armonia per gestire al meglio, ciascuno nei propri ambiti, la giustizia e la carità, l’amor patrio e la tutela della Famiglia. Il controllo delle migrazioni è un dovere di sovranità. L’eventuale Costituzione dello Stato sovrano non può contrastare coi principi indissolubili ed assoluti del cattolicesimo romano.

Se proviamo ad applicare al presente quanto insegnava Jean Bodin e, oggi, quanto scrive il Prof. Grimm, l’Italia sovrana è un obiettivo che sembra difficile da raggiungere, nell’attuale contingenza internazionale, ma la totale autonomia dello Stato sovrano deve venire prima di ogni trattato europeo.

L’interesse della Nazione e dei lavoratori è il valore primario. Le alleanze sono consentite e, anzi, promosse in nome del bene comune, ma nessun trattato può violare la sovranità dello Stato e mettere in difficoltà cittadini, soggetti fragili e mondo economico.

Lo storico di sinistra Luciano Canfora ha ammesso, con onestà intellettuale, che “ad esempio, la difesa della sovranità nazionale di fronte al capitale finanziario non è sbagliata”.

Per realizzare quello che si era capito già più di 600 anni fa, sarebbe indispensabile, nel tempo, raddrizzare l’Unione Europea, cacciando i mercanti dal Tempio e rimettendo in ordine le cose nella Chiesa.

Il “male minore” non significa compromesso

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di Matteo Castagna per www.informazionecattolica.it

I grandi maestri della tradizione cattolica S. Tommaso d’Aquino, S. Agostino, S. Alfonso hanno insegnato un aspetto della teologia morale che è il “male minore”. L’assolutismo morale di altri, in ambito cattolico, non appartiene al concetto classico stabilito dai Dottori della Chiesa.
Chi ignora la dottrina tomista inerente l’analogia, non riesce a cogliere la definizione di male come assenza di bene, in tutte le sue implicazioni.
“Un artefice sapiente produce un male minore per evitarne uno maggiore: come il medico taglia un membro perché l’intero corpo non perisca” (S. Tommaso, Summa Teologica I, q. 48, art. 6).
Saggiamente, il ricercatore e scrittore, dottore in Scienze religiose, Prof. Fabrizio Cannone, nel suo “Per una resistenza cattolica” (Ed. Solfanelli, 2016) afferma che in certa pubblicistica cattolica, poco accorta nella pratica, si è consolidata “l’idea peregrina” secondo cui il male minore non esisterebbe o, comunque da evitare, perché indice di compromesso.
Invece, infinite volte, la Chiesa, i Santi, i Pontefici e i prìncipi cattolici ne hanno fatto ricorso, optando, nello stato di necessità, per qualcosa che non era esente dal male, che lo rendeva privo di qualche o molte perfezioni.
L’intera questione 49 della prima parte della Summa Teologica è dedicata alle cause del male, con la premessa della questione 48 sull’esistenza di due mali: quello della colpa e quello della pena. Quest’ultimo è anche un bene, e senza alcuna contraddizione. Chi non comprende l’analogia intesa dell’Angelico non valuterà mai il fatto che il male minore possa essere, altresì, il bene maggiore che si può praticare in un determinato momento storico.
Il male, in quanto assenza di Bene, più che una realtà positiva, è una privazione di giustizia, di carità, di purezza, di fede, di umiltà, di moralità, di continenza, di potere e ricchezze leciti ecc., che viene da ciò che già esiste, come la natura o l’uomo. Così, paradossalmente, il male deriva dal bene. S. Agostino scrive, infatti, che “non c’è altra sorgente che il bene da cui possa derivare il male”.  Ovviamente lo è accidentalmente e indirettamente. S. Tommaso stabilisce che dio non è causa del male morale, ma può essere causa del male (analogico) , della corruzione o distruzione di una cosa. Infatti, il Signore “fa morire e fa vivere” (1, Sam 2,6).
Ad esempio, sul tema dell’aborto, sappiamo tutti che la legge 194 è male e andrebbe abolita. Inserirla come “diritto universale” è ancor peggio. Perciò il legislatore che si opponesse ad esso e che favorisse la presenza dei cattolici nei consultori, salverebbe moltissime vite. Questa opzione per il male minore, che produce il maggior bene possibile, è assolutamente conforme alla morale cattolica, così come concepita dal tomismo. Questo atteggiamento non va visto come compromissorio, ma come prudente e, soprattutto, metafisicamente fondato.
Ammettiamo che vi siano dei candidati (democraticamente) alle elezioni, che nella loro storia personale e politica si siano distinti più di altri nel rispetto dei princìpi cristiani, sebbene in altre occasioni, per vari motivi, abbiano sbagliato e optato per il male. Altri, invece, si sono sempre comportati da anti-cristiani, amorali, immorali, oppressori del popolo, giungendo perfino al satanismo, proponendo disvalori che gridano vendetta al cospetto di Dio.
Dovrei – si chiede p. Eriberto Jone, OFM, nel suo “Compendio di Teologia morale”, dotato di imprimatur, sotto il Pontificato di Pio XII (Ed. Marietti, 1955) – astenermi dal votare il candidato migliore, poiché comunque non buono in tanti aspetti, rischiando di contribuire all’elezione del candidato nettamente peggiore, come fanno quelli che non votano mai, non essendoci attualmente alcun partito conforme alla dottrina sociale della Chiesa? Evidentemente no. E’ doverosa la scelta del “male minore”, suffragata dalle risposte di S. Tommaso d’Aquino, del Magistero e della prassi secolare della Chiesa. Padre Dragone, nella sua “Spiegazione del catechismo di San Pio X”, Sodalitium, 2009, pag. 296-297, che dispone di imprimatur, dice: “Dio è padrone della vita. Non è quindi lecito uccidere. eccetto in tre casi: in guerra, per legittima difesa, per decisione dell’autorità competente. Ci sono, dunque, delle “eccezioni” in casi particolari.
“La cooperazione nell’approvazione di una legge cattiva è peccato. Si fa eccezione soltanto quando i deputati, con la loro cooperazione possono impedire qualche male peggiore” – continua p. Dragone (pag. 155, n. 295). Il massimalismo moralista, dunque, non è mai appartenuto alla storia ed alla dottrina cattolica, quanto è molto presente nella dimensione protestante e puritana, di cui non abbiamo bisogno, soprattutto in questi tempi in cui i veri cattolici non sono molti e vengono messi in un angolo dalla secolarizzazione.

 

Il 2024 porterà nuovi vescovi alla FSSPX: i “lefebvriani” perseverano nell’errore fallibilista

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EDITORIALE

di Matteo Castagna

Siamo stati cattolici fedeli alla Tradizione, seguendo l’apostolato dei sacerdoti della Fraternità san Pio X, dal 2003 al 2009 ed è giusto farne pubblica ammenda. I sacerdoti ci sembravano avere una formazione tradizionale, che lasciava o incoraggiava la militanza cattolica dei cattolici laici che volevano intraprenderla. Nel 2005 alcuni atteggiamenti cambiarono. Improvvisamente, il parroco conciliare di Spadarolo (Rimini) ove la FSSPX ha un priorato, ci lasciava l’ampio oratorio per nostre occasioni conviviali, le omelie tendevano a evitare di parlare degli atti modernisti del clero conciliare, così come le conferenze e le catechesi. ai convegni annuali del distretto Italiano non venivano più invitati come relatori gli esponenti più determinati e politicamente scorretti.

Anche nelle discussioni private si veniva gentilmente invitati a smetterla di attaccare in continuazione i vari esponenti della Curia romana. La militanza non veniva più incoraggiata, ma snobbata, scoraggiata o, addirittura, subdolamente, distrutta. Stava cambiando il clima, preludio a successivi cambiamenti. Nel 2006, oramai, il ralliement nei confronti dei conciliari era sempre più visibile e lo si leggeva nei bollettini dell’allora Superiore Generale Mons. Bernard Fellay.

Alcuni fedeli, accortisi di questa tendenza de facto si avvicinarono ad altri fedeli, storicamente sedevacantisti, ma tollerati, almeno a Messa, per approfondire la posizione. Dopo circa un anno di studio e di non facile accettazione, la convinzione venne espressa al sacerdote della Fraternità che era considerato il più vicino a tale posizione perché lasciava piena libertà di coscienza sull’argomento. Nel 2007 le trattative ufficiali tra i vertici della FSSPX e la Roma del Concilio portarono al Motu (im)Proprio “Summorum Pontificum”, con cui Ratzinger accoglieva la richiesta lefebvriana di lasciare liberi i sacerdoti di tutto il mondo di celebrare la Messa col Messale Romano promulgato da Roncalli nel 1962, prima della riforma liturgica, ma, allo stesso tempo subordinava la Messa more antiquo a quella Novus Ordo del 1969. La liturgia della Chiesa diventata, così, la forma extra-ordinaria dell’ “unico rito” romano, che era, evidentemente, la forma ordinaria promulgata da Montini con la consulenza di Mons. Annibale Bugnini, in forte odor di Massoneria e di 6 Pastori protestanti.

Non veniva più preso in considerazione che “lex orandi, lex credendi”, e quindi, non veniva risposto agli “anticristi” romani – come li definiva, negli anni ’80, Mons. Marcel Lefebvre – che le due Messe erano frutto di due fedi diverse, una cattolica e l’altra modernista. Alla Fraternità bastava avere la possibilità di celebrare la Messa, possibilmente in chiesa, senza che qualcuno gli rompesse più le scatole. Pazienza anche che a celebrarla fossero “sacerdoti” d’ordinazione invalida con rito riformato.

Non si imponevano già più le mani, sub condicione, al clero almeno di dubbia validità. Il sacerdote di cui sopra, durante un’omelia a Lanzago di Silea (TV) tuonò nei confronti di Ratzinger, del Motu (im)Proprio ma anche dei vertici della sua Fraternità che avevano accettato questo mostro teologico, senza batter ciglio. Tra il 2007 e il 2009 furono anni burrascosi e di grande fermento, in cui nacque il Circolo Christus Rex. Quando Ratzinger, a furia di trattative coi vertici fraternini, su richiesta espressa di Mons. Fellay, nel gennaio 2009, remise le scomuniche comminate ai 4 vescovi consacrati da Mons. Lefebvre nel 1988, il vaso traboccò. Perché tutta questa smania di voler esser riconosciuti veri cattolici dalla Chiesa modernista conciliare?? Mons. Lefebvre non si era forse appellato allo stato di necessità grave per il mantenimento della Fede Cattolica integra da errori già condannati, per consacrare 4 vescovi, contro la volontà di Wojtyla?

Un fatto, forse troppo ingenuo, ma privo di conseguenze giuridiche, contrariamente a Mons. Richard Williamson che ad una televisione svedese negò la Shoà, accorso a quel sacerdote, che era andato pubblicamente in linea con Mons.Williamson, aveva l’attenuante di sentirsi esasperato e tradito da quella che era la sua famiglia di confratelli, fu il pretesto per espellerlo dalla congregazione, con modalità che, ancora oggi, non sapremmo definire se più vigliacche, o più prive della minima carità cristiana.

C’era uno zoccolo duro di fedeli che non si spaventò, che non esitò a seguire colui che era stato cacciato, cambiandogli le chiavi della canonica mentre diceva Messa a Trieste, che lo ospitò, che lo aiutò affinché potesse celebrare la Santa Messa comunque, che gli trovò un posto ove andare a vivere, adeguato ad avere una cappella in taverna. Quella cinquantina di persone si diede da fare perché non gli mancasse nulla. Egli non era caduto nelle maglie dei conciliari e andava difeso e sostenuto. I laici furono la salvezza di quel sacerdote smarrito, angosciato e privato, perfino, temporaneamente, di ogni suo effetto personale.

Possiamo dire di conoscere piuttosto bene l’argomento poco edificante di cui parliamo, anche per una serie di numerose altre questioni, di cui non è questa la sede e il momenti di parlare.

Leggiamo su Facebook un articolo del sito www.unavox.it in cui si riporta uno stralcio del Bollettino del Priorato francese della Fraternità, in cui don Alain Delagneau dà l’annuncio di nuove ordinazioni episcopali da parte della sua confraternita. Scrive il priore: “Noi ci dobbiamo aspettare – da parte delle autorità – di essere trattati da scomunicati, da scismatici. Tutte cose dolorose e preoccupanti per un cattolico. I media sapranno amplificare queste condanne, come anche la Fraternità San Pietro e compagnia; per questi sarà una buona occasione per giustificare la loro scelta nella crisi della Chiesa.

Poi continua: “E’ chiaro che è il Papa ad avere la giurisdizione universale su tutti i cristiani, ed è dunque lui che affida una parte del gregge ad ogni vescovo, rimanendone responsabile davanti a Dio. E questo è di diritto divino […] E quindi rifiutare dei vescovi alla Tradizione attiene alla legge umana, mentre salvare le anime attiene alla legge divina. Ne consegue che nel caso di grave necessità per le anime del mondo intero, si può e perfino si deve andare contro una legge umana per salvaguardare la legge divina”.

Se ne desume che sia legittimo disobbedire a colui che si ritiene il legittimo Vicario di Cristo, che però, potrebbe scomunicare chi chiede vescovi per la Tradizione. pare un cortocircuito logico, prima che teologico e canonico. Come fa un legittimo Pontefice ad essere tale ed allo stesso tempo creare le situazioni di uno stato di necessità per la salvezza delle anime? San Pietro e tutti i Papi, fino a Pio XII, hanno sempre confermato i fratelli nella fede. Non l’hanno messa in discussione creando pericolo per la sua integrità.

Gesù Cristo ha istituito il magistero ecclesiastico, conferendo agli Apostoli lo speciale potere di “annunciare il lieto messaggio (Mt. 11,5), “per rendere testimonianza della verità” (Gv. 18,37). Gli apostoli e i loro successori devono “annunciare il Vangelo a tutte le creature” (Mc. 16,15). Questo è un magistero vivo, autoritativo, tradizionale. Il mezzo per cui la parola di Dio venisse tramandata come tale, non falsata né turbata dall’errore umano è il carisma dell’infallibilità, che Egli ha conferito alla Sua Chiesa.

Esso vale per l’assicurazione della verità della fede. Poiché la Chiesa deve soltanto custodire e annunziare il tesoro della rivelazione, l’infallibilità non costituisce per i suoi soggetti la comunicazione di nuove verità rivelate. Perciò il Magistero ordinario e straordinario dei veri Papi è infallibile. Non si può credere il contrario della Mortalium animos di Papa Pio XI, come ha stabilito la Nostra Aetate del Conciliabolo Vaticano II, così come non ci si può adeguare alla Traditionis Custodes di Bergoglio, che abolisce la Messa di sempre, senza averne il potere e l’autorità. Il problema è sempre quello del vicolo cieco del fallibilismo lefebvriano, che portò alle consacrazioni del 1988. senza prima aver dichiarato la Sede Vacante per eresia manifesta, come avrebbe voluto Mons. Antonio de Castro Mayer, Arcivescovo di Campos, in Brasile, comunque presente a quelle storiche consacrazioni.

La Fraternità vuole davvero fare marcia indietro e farsi scomunicare di nuovo pur di restare fedele alla Tradizione? Ammetterebbe implicitamente gli errori gravissimi degli ultimi decenni, ma le basi dottrinali appaiono sempre quelle. O è in arrivo per il 2024 un nuovo “scherzo da prete”, Bergoglio benedicente, a scapito della Tradizione cattolica e a favore della “coppia di fatto” con il modernismo conciliare?

Attendiamo gli eventi e preghiamo per il bene delle anime e la gloria di Dio, ma le “comunicatio in sacris” coi preti invalidi, le ambiguità dottrinali e le contraddizioni lefebvriane, in particolar modo sulla questione dell’Autorità nella Chiesa e del Magistero, ci fa essere scettici. Certamente non possiamo essere lefebvriani, come abbiamo capito, per grazia di dio, nel 2005. Non vorremmo trovarci a morire “una cum” more antiquo, ma “una cum Luca Casarini”, perché la Fraternità è molto “allegra” su argomenti importantissimi di teologia fondamentale. Il vostro parlare sia “sì sì, no no” perché il resto viene dal maligno che fa adagiare nella ricerca della posizione di comodo che non è mai quella vera.

 

Paolo VI, 24 maggio 1976: “Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico”

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Celebriamo oggi la Patrona (insieme ai SS. Pietro e Paolo e a San Pio V) del Sodalitium Pianum, associazione fondata da monsignor Umberto Benigni nel 1909 per contrastare i nemici interni ed esterni della Chiesa, in particolare per applicare il programma antimodernista tracciato da san Pio X (programma del Sodalitium Pianum: http://www.sodalitium.biz/documenti/programma-del-sodalitium-pianum/ ).

In tale occasione il Centro Studi don Paolo de Töth intende rendere gloria alla SS. Madre di Dio, Aiuto dei Cristiani, proponendo la lettura e la riflessione di un Discorso tenuto durante un Concistoro da ‘San Paolo VI’ (per noi card. G.B. Montini) proprio il 24 maggio 1976, nel quale imponeva la ‘Nuova Messa’ e vietava conseguentemente la precedente.

Chi colpevolizza oggi Bergoglio di vietare la Messa ‘in latino’ sappia che ‘Francesco’ è in perfetta continuità ed armonia con un suo Santo predecessore e chi accusa quello accusa anche questo, accusando così un Santo Papa della Chiesa, che avrebbe promulgato una Messa cattiva, insegnato errori, imposto Riti inaccettabili, etc. E l’assurdo è che tutto questo sarebbe affermato da veri Cattolici…

Anche il semplice Sagrestano nella famosa Tosca di pucciniana memoria, affermava più volte, rimbrottando il Cavaradossi, con la sua peculiare voce da basso: “Scherza coi fanti, ma lascia stare i Santi!!”, che sono tali, ovviamente, solo se canonizzati da Legittimi Successori di san Pietro, aggiungiamo noi.

 

Dal DISCORSO AL CONCISTORO
DEL SANTO PADRE PAOLO VI
(lunedì, 24 maggio 1976):

 

«…coloro che, col pretesto di una più grande fedeltà alla Chiesa e al Magistero, rifiutano sistematicamente gli insegnamenti del Concilio stesso, la sua applicazione e le riforme che ne derivano, la sua graduale applicazione a opera della Sede Apostolica e delle Conferenze Episcopali, […] si allontanano i fedeli dai legami di obbedienza alla Sede di Pietro come ai loro legittimi Vescovi; si rifiuta l’autorità di oggi, in nome di quella di ieri. E il fatto è tanto più grave, in quanto l’opposizione di cui parliamo non è soltanto incoraggiata da alcuni sacerdoti, ma capeggiata da un Vescovo, da Noi tuttavia sempre venerato, Monsignor Marcel Lefebvre.

È tanto doloroso il notarlo: ma come non vedere in tale atteggiamento – qualunque possano essere le intenzioni di queste persone – porsi fuori dell’obbedienza e della comunione con il Successore di Pietro e quindi della Chiesa?

Poiché questa, purtroppo, è la conseguenza logica, quando cioè si sostiene essere preferibile disobbedire col pretesto di conservare intatta la propria fede, di lavorare a proprio modo alla preservazione della Chiesa cattolica, negandole al tempo stesso un’effettiva obbedienza. E lo si dice apertamente! Si osa affermare che il Concilio Vaticano II non è vincolante; che la fede sarebbe in pericolo altresì a motivo delle riforme e degli orientamenti Post-conciliari, che si ha il dovere di disobbedire per conservare certe tradizioni. Quali tradizioni? È questo gruppo, e non il Papa, non il Collegio Episcopale, non il Concilio Ecumenico, a stabilire quali, fra le innumerevoli tradizioni debbono essere considerate come norma di fede! Come vedete, venerati Fratelli nostri, tale atteggiamento si erge a giudice di quella volontà divina, che ha posto Pietro e i Suoi Successori legittimi a Capo della Chiesa per confermare i fratelli nella fede, e per pascere il gregge universale (Cfr. Luc. 22, 32; Io. 21, 15 ss.), che lo ha stabilito garante e custode del deposito della Fede.

E ciò è tanto più grave, in particolare, quando si introduce la divisione, proprio là dove congregavit nos in unum Christi amor, nella Liturgia e nel Sacrificio Eucaristico, rifiutando l’ossequio alle norme definite in campo liturgico. È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L’adozione del nuovo “Ordo Missae” non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l’Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell’antica forma, con l’autorizzazione dell’ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populoIl nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino.

La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari. Ogni iniziativa che miri a ostacolarli non può arrogarsi la prerogativa di rendere un servizio alla Chiesa: in effetti reca ad essa grave danno».

(https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1976/documents/hf_p-vi_spe_19760524_concistoro.html)

Invocazione di San Giovanni Bosco a Maria Ausiliatrice

O Maria, vergine potente, tu sei grande e sublime difesa della Chiesa; tu mirabile aiuto dei cristiani; tu sei terribile come una schiera ordinata a battaglia; tu che da sola sbaragliasti tutte le eresie nel mondo intero; tu nelle afflizioni, nella guerra, nelle difficoltà difendici dal nemico e nell’eterna gioia accoglici nell’ora della morte. Così sia.

La devozione per il Papa, secondo S. Giovanni Bosco

Infine riportiamo, in questo giorno così caro a don Bosco, i suoi insegnamenti e le testimonianze della sua vita a riguardo del Papa. Allora come adesso se un Papa è un vero Papa, Legittimo Successore di San Pietro, Vicario di Cristo etc, ecco come dobbiamo rapportarci a lui, se siamo veri cattolici e non un qualsivoglia protestante.

 

Tratto da: San Giovanni Bosco, meditazioni per la novena, le commemorazioni mensili e la formazione salesiana. Autore: Sac. Domenico Bertetto SDB

Il grande amore e la indefettibile fedeltà di Don Bosco verso il Papa sono fondati sulla viva fede che lo illuminava, circa la dignità e le prerogative del Papa, facendogli vedere in lui il Vicario di Gesù Cristo, il Maestro infallibile, il supremo Pastore a cui Gesù ha affidate tutte le pecorelle del suo mistico Gregge, e che lo Spirito Santo assiste e dirige con specialissima provvidenza nel governo della Chiesa, affinché non abbia ad errare, ma invece assolva fedelmente al suo altissimo ufficio.

Un giorno Pio IX domandò a Don Bosco: «Mi amano i vostri giovani?». «Santo Padre, se vi amano? — rispose Don Bosco — vi hanno nel cuore. Il vostro nome lo portano intrecciato con quello di Dio». (VIII , 719).

La frase è ardita, ma vera. Infatti il Papa è Dio sulla terra. Gesù, dopo aver compiuta la sua missione redentrice, se ne partì, ma al suo stesso posto lasciò il Papa. E’ vero che Gesù torna e rimane in mezzo a noi nell’Eucaristia, ma in essa resta muto; ci nutre, ma non parla e non ci governa in modo visibile. A parlarci e a governarci lasciò il Papa, «il dolce Cristo in terra».

Gesù ha posto il Papa:

al di sopra dei profeti: perché questi preannunziano Gesù, mentre il Papa è la voce di Gesù;

al di sopra del Precursore: perché S. Giovanni Battista diceva: «Io non sono degno di sciogliergli i calzari», mentre il Papa deve dire: «Deo exhortante per nos, Dio parla per mezzo nostro»;

al di sopra degli angeli: a quale degli angeli ha detto: Siedi alla mia destra? A S. Pietro invece ed agli apostoli Egli ha detto: Voi sederete a giudicare le dodici tribù d’Israele.

Gesù ha collocato il Papa al livello stesso di Dio. Egli infatti dice a Pietro e ai suoi successori: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato». (Luca, 10, 16).

Perciò al Papa non si deve solo rispetto, ma venerazione, tenendo conto della sua eccelsa dignità e delle sue prerogative di Maestro infallibile e Pastore supremo, di cui Gesù lo ha insignito.

Se i fedeli genuflettono alla sua presenza, non fanno che tradurre all’esterno il sentimento che domina la loro anima: rendere omaggio a Gesù Cristo, presente nel suo Vicario in terra.

Conoscere il Papa, far conoscere il Papa: ecco l’impegno costante di Don Bosco nei suoi studi teologici, nei suoi scritti (basta pensare ai numerosi fascicoli delle Letture Cattoliche dedicati a questo argomento), nelle sue prediche e parlate ai giovani. Ho lo stesso interesse per il Papa? Mi dò premura di conoscere i documenti pontifici? I giovani trovano in me anzitutto un maestro illuminato e convinto, che fa loro conoscere il Papa?

Amare il Papa

Ecco i sentimenti professati costantemente da Don Bosco verso il Romano Pontefice: «Se mai la mia voce potesse giungere a quell’angelo consolatore: Beatissimo Padre, io direi, ascoltate e gradite le parole di un figlio povero, ma a Voi affezionatissimo. Noi vogliamo assicurarci la via che ci conduce al possesso della vera felicita; perciò tutti ci raccogliamo intorno a Voi come Padre amoroso e Maestro infallibile. Le Vostre parole saranno guida ai nostri passi, norma alle nostre azioni. I Vostri pensieri, i Vostri scritti, saranno accolti con la massima venerazione e con viva sollecitudine diffusi nelle nostre famiglie, fra i nostri parenti, e se fosse possibile, per tutto il mondo. Le Vostre gioie saranno pur quelle dei Vostri figli e le Vostre pene e le Vostre spine saranno parimenti con noi divise. E come torna a gloria del soldato, che in campo di battaglia muore per il suo sovrano, così sarà il più bel giorno di nostra vita, quando per Voi, o Beatissimo Padre, potessimo dare sostanza e vita, perché morendo per Voi, abbiamo sicura caparra di morire per quel Dio che corona i momentanei patimenti della terra con gli eterni godimenti del cielo». (XII, 171).

«Confesso altamente che fo miei tutti i sentimenti di fede, di stima, di rispetto, di venerazione, di amore inalterabile di S. Francesco di Sales verso il Sommo Pontefice». (XVIII, 277).

L’amore di Don Bosco verso il Papa si effondeva in fervide esortazioni per suscitare tale amore anche negli altri.

«Amiamoli i Romani Pontefici — egli diceva con convinzione ed ardore — e non facciamo distinzione del tempo e del luogo in cui parlano; quando ci danno un consiglio e più ancora quando ci manifestano un desiderio, questo sia per noi un comando». (V, 573).

«Volete voi essere forti per combattere contro il demonio e le sue tentazioni? Amate la Chiesa, venerate il Sommo Pontefice». (VI, 347).

Il programma di Don Bosco fu sempre questo: tutto col Papa, pel Papa, amando il Papa. (I, 12).

Con ragione gli stessi giornali liberali scrivevano: «In Don Bosco l’arte di innamorare al Papato è tutto e si può dire che in ciò vale mille maestri clericali». (XIV, 189).

Ecco quindi il programma che Don Bosco mi affida: far ardere nel mio cuore i grandi amori che hanno infiammato il suo: Gesù Sacramentato, Maria Ausiliatrice e il Papa.

Che cosa posso fare per amare di più il Papa? Come adoperarmi per suscitare nelle anime a me affidate l’amore al Papa. Con l’occhio agli esempi di Don Bosco e il cuore dilatato dai palpiti d’amore che da essi si sprigionano, non avrò certo difficoltà a regolare pensieri, affetti e opere, in modo che risulti chiaro il mio amore al Papa e divampi dal mio nel cuore di quanti da me dipendono.

Servire il Papa

L’amore al Papa si deve tradurre nella piena e incondizionata fedeltà a tutte le sue direttive.

«Il mio sistema — afferma Don Bosco — è quello di professare la Dottrina Cattolica, e seguire ogni detto, ogni desiderio, ogni consiglio del Romano Pontefice». (XV, 251).

«Io sottometto ogni detto, scritto o stampa a qualsiasi correzione, decisione o semplice consiglio della Santa Madre, la Chiesa Cattolica», ossia al suo capo, il Papa. (XVII, 265).

«Io sono attaccato al Papa più che il polipo allo scoglio». (VIII, 862). «Col Papa intendo rimanere da buon cattolico fino alla morte». (VI, 679).

In questa nobilissima consegna Don Bosco ha impegnato tutti i suoi figli, avendo fondata la Congregazione salesiana per la difesa del Papa. «Scopo fondamentale della Congregazione… fin dal suo principio fu costantemente sostenere e difendere l’autorità del Capo supremo della Chiesa nella classe meno agiata della società e particolarmente della gioventù pericolante». (X, 762).

«Intendo che gli alunni dell’umile Congregazione di S. Francesco di Sales non si discostino mai dai sentimenti di questo gran Santo verso la Sede Apostolica; che raccolgano prontamente e con semplicità di mente e di cuore, non solo le decisioni del Papa circa il dogma e la disciplina, ma che nelle cose stesse disputabili abbraccino sempre la sentenza di Lui». (XVIII, 277).

«Siccome è un cattivo figlio quello che censura la condotta di suo padre, così è un cattivo cristiano colui che censura il Papa, che è padre dei fedeli cristiani che sono in tutto il mondo». (IV, 55).

Con ragione Pio XI in un pubblico discorso chiamò Don Bosco «un grande, fedele e veramente sensato servo della Chiesa Romana, della S. Sede… perché tale egli fu sempre veramente».

Anche di ogni Salesiano si deve poter dire, sempre ed ovunque, che è un fedele e convinto figlio della Chiesa e del Papa. Solo a questa condizione Don Bosco lo riconosce come suo figlio, vivente nel suo stesso spirito.

Aiutami dunque, o buon Padre, ad imitarti sempre meglio nel conoscere, amare ed obbedire al Papa.

Mi devo impegnare in modo speciale a conoscere meglio gli insegnamenti del Papa. Con mirabile e continuo magistero Egli diffonde perennemente la luce del Vangelo nei vari settori della vita e dell’attività individuale, familiare e sociale. Debbo quindi attingere ai suoi insegnamenti per rendere sicuro e aggiornato il mio magistero catechistico e la mia predicazione.

I nemici di Dio spargono le più infami calunnie contro il Papa, che presentano come istigatore di guerra, nemico degli operai, oppressore della libertà. Il Papa deve trovare in me un soldato valoroso che sa prendere con competenza le Sue difese per far trionfare la verità.

Conoscendo e divulgando l’insegnamento del Papa ne promuoverò certamente anche l’amore e la fedeltà.

Fonte: https://www.paolodetoth.it/paolo-vi-24-maggio-1976-il-nuovo-ordo-e-stato-promulgato-perche-si-sostituisse-allantico/

La battaglia di Vienna, che ci salvò dall’invasione islamica

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Historia magistra vitae. Purtroppo l’attuale Europa dimentica la propria identità. Noi intendiamo ricordarla, perché non si compiano gli errori del passato (n.d.r.)

di Matteo Castagna

UNA GUERRA SCONOSCIUTA AI PIÙ, PROBABILMENTE PERCHÉ POCO STUDIATA IN QUANTO POLITICAMENTE SCORRETTISSIMA

Una guerra sconosciuta ai più, probabilmente perché poco studiata in quanto politicamente scorrettissima, ha fatto la storia dell’Europa: la battaglia di Vienna del 12 Settembre 1683. Di questa straordinaria e fondamentale vittoria, paladini della cristianità del XVII secolo: il cappuccino Carlo Domenico Cristofori, chiamato Marco D’Aviano e il Papa Innocenzo XI. la crociata fu preparata da un’ intensa opera di apostolato e predicazione in tutta l’Europa, effettuata instancabilmente dal frate, ed accompagnata da una serie di miracoli che accrescevano la credibilità e l’autorevolezza del religioso, in tutto il continente.

Innocenzo XI si fidò unicamente della Provvidenza divina: “In sola spe gratiae coelestis”. Si è occupato della riforma dei costumi, soprattutto in riguardo allo stato spirituale degli ecclesiastici. In particolare, si scagliò contro il lusso che regnava tra i vescovi e cardinali dell’epoca. Nella sua camera e nel suo studio si vide solo la figura di Cristo risorto. “Era tale la compassione che Innocenzo XI provava per i poveri, che si tenne la stessa veste per tutta la durata del pontificato: mai la volle cambiare, nemmeno quando divenne logora e quasi inutilizzabile […]”. Lo storico Ludwig von Pastor, nella sua “Storia dei Papi”, descrive così Benedetto Odescalchi: “Il significato storico-universale del suo pontificato, di gran lunga il più importante e glorioso nella seconda metà del secolo XVII…consiste nella sua politica, mantenuta ferma sino all’ultimo respiro, di unire le potenze cristiane contro l’attacco violento dell’islam”. Naturalmente l’impegno più importante per cui sarà ricordato per sempre è la liberazione di Vienna dall’assedio degli Ottomani nel 1683. Contemporaneamente, Padre Marco d’Aviano trascorreva un’esistenza austera e isolata, dormiva solo tre per notte su un letto di foglie secche, per il resto pregava e leggeva. Mangiava pochissimo, mai carne, uova e formaggio, la sua dieta era poco latte e poi frutta e verdura. Cercò sempre di rispettare scrupolosamente le regole dell’Ordine francescano. Sostanzialmente condusse una “vita intensa e spirito di preghiera; devozione e contemplazione; pratica radicale dell’altissima povertà interiore es esteriore […] grande ardore nella predicazione e apostolato ricondotto alla semplicità e umiltà evangeliche; carità concreta e prontezza nel servire ogni fratello bisognoso; spirito ecclesiale nella sottomissione e totale docilità al Pontefice romano e alla Chiesa gerarchica: queste erano le linee fondamentali della spiritualità ‘cappuccina’ che adottò il frate di Aviano”.

Il Seicento fu, per l’Europa cristiana, intriso di paura di essere invasi e conquistati dai turchi. Di fronte a questo vero e proprio incubo, c’era la divisione politica dell’Europa. In particolare, la Francia di Luigi XIV era in continuo dissidio sia con l’imperatore Leopoldo I, che con la Chiesa di Roma. Capita che alcuni governanti diventano protestanti per accaparrarsi i beni della Chiesa. Il re di Francia osteggiò apertamente gli Asburgo nella lotta contro gli ottomani.“Per tutto il Seicento, la discordia fra i principi all’interno degli stati cristiani fu grande e capillarmente diffusa. Essi si combatterono e si indebolirono a vicenda per egoistiche ragioni di predominio”. Invece padre Marco e Innocenzo XI, lavoravano per la liberazione della cristianità dal flagello turco, pertanto appoggiarono l’impero. Addirittura, il Papa affermò: “[…] saria andato volentieri alla testa dell’esercito e salito sulle navi da guerra per combattere contro il comune esercito”. Il pensiero dominante del Pontefice era quello di organizzare una Lega difensiva contro il pericolo turco. Oltre ai due beati, altre grandi personalità li affiancarono o con essi si scontrarono in quel frangente per il futuro dell’intero continente europeo.

Solo qualche nome, segnalo oltre a Luigi IV e Leopoldo I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero. Il compagno di viaggio di Marco D’Aviano, padre Cosma da Castelfranco. Giovanni III Sobieski re di Polonia e granduca di Lituania, grande ammiratore di padre Marco. Infine, Eugenio di Savoia-Garignano, comandante supremo dell’esercito imperiale. E poi Kara Mustafa Pasha di Merzifon, comandante in capo dell’armata turca.

Le truppe cristiane erano composte da settantamila uomini, un numero assai inferiore rispetto ai centocinquantamila dell’armata turca del gran visir Kara Mustafa Pasha che intendeva conquistare prima Vienna e successivamente Roma per fare di San Pietro la scuderia per i suoi cavalli. A questo proposito scrive lo storico Arrigo Petacco in “L’ultima crociata”: “con i se e con i ma la storia non si fa, va comunque sottolineato che se a Vienna, quel 12 settembre 1683, un qualsiasi accidente avesse fermato la carica degli ‘ussari alati’ che si scatenarono contro i turchi come arcangeli vendicatori, oggi probabilmente le nostre donne porterebbero il velo”.

Il 12 settembre prima della battaglia, sulle alture del Kahlemberg, padre Marco celebra la Messa, servita da due chierichetti d’eccezione: il re di Polonia e il Duca di Lorena, distribuisce la comunione ai comandanti, benedice l’esercito cristiano con la sua croce di legno. Attorno alle 12 ebbe inizio la battaglia. Lo scontro viene descritto da padre Cosma, testimone diretto dell’evento. La battaglia ben presto costringe miracolosamente i turchi alla resa. I trionfi dell’esercito cristiano – scrive il “cardinale” Schonborn – a Vienna, e poi a Buda, allontanarono il serio rischio di un’islamizzazione dell’Europa”. L’esultanza in tutta l’Europa fu immensa, l’unico a non esultare fu il re di Francia.

La preoccupazione dei due grandi della Civitas Christiana, Innocenzo XI e padre Marco, “fu la difesa della cristianità, e del cattolicesimo in modo particolare, e non la supremazia sull’islam. Si trattò, dunque, di un’azione di tutela e non di una crociata…”. Ne è convinto anche Petacco, le crociate, furono invece una legittima risposta al jihad. Tra l’altro padre Marco dopo queste liberazioni cercò di convincere i regnanti di completare l’opera di liberazione dei territori europei ancora in mano agli ottomani, la salvezza dell’Europa era sempre in cima ai suoi pensieri.

Il cattolico tiepido o chi si finge cattolico è restio a riconoscere la verità storica, determinata sia dall’eccezionale spiritualità dei due sopraccitati protagonisti, che dalle loro indiscutibili capacità politiche, nell’arte della mediazione, della diplomazia, dell’intuizione, della capacità oratoria, basate su quel connubio inscindibile tra Fede e Ragione così caro a San Tommaso d’Aquino. oggi, se si parla di loro, lo si attraverso un’oleografia molto parziale per non urtare la sensibilità degli islamici. Fortunatamente, il beato Innocenzo XI e padre Marco d’Aviano non furono buonisti, altrimenti da almeno 500 anni saremmo tutti in ginocchio verso la Mecca.

Fonte: https://www.informazionecattolica.it/2023/09/12/quella-battaglia-che-ci-salvo-dallinvasione-islamica/

Il 25 luglio nacque dalle bombe del 19 luglio

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di Marcello Veneziani

L’Italia si sfasciò, in ogni senso, tra il 25 luglio e l’8 settembre di ottant’anni fa. Ma prima ci fu il 19 luglio, un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista. Che successe il 19 luglio? Roma fu pesantemente bombardata dagli americani; dai tempi delle invasioni barbariche, e poi del sacco di Roma di cinque secoli fa, a opera dei Lanzichenecchi, non era stata messa a ferro e fuoco in quel modo. Tremila morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia di feriti, case distrutte, terrore. Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri, un secondo bombardamento fu effettuato il 13 agosto. La fatidica immagine del Papa Pio XII a San Giovanni in Laterano che allarga le braccia in un atto estremo di paternità e soccorso; la Città Eterna ormai si raccomanda a Dio, avendo perso l’incrollabile fiducia nella storia e nella sua gloriosa incolumità.
Di solito si collega allo sbarco angloamericano in Sicilia iniziato pochi giorni prima, la spinta decisiva alla svolta del 25 luglio. Ma si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…
Il fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale, ebbe però un significato storico proverbiale e paradigmatico nella storia d’Italia. Se non fosse per la galoppante amnesia che ci prende ormai da anni e cancella rapidamente pagine e pagine di storia e memoria, dovremmo ricordare gli ottant’anni del 25 luglio perché è una data “fondativa” che rivela l’indole italiana ed è soprattutto il tormentone della storia d’Italia, il suo archetipo.
Il giorno in cui cadde il regime fascista, per voto democratico del Gran Consiglio, quando il Re Vittorio Emanuele III passò da Imperatore per grazia del Duce a carceriere del Duce medesimo, diventò la data ufficiale dello sbandamento e dello sdoppiamento nazionale. Il 25 luglio è il paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo. Ogni leader deposto nella nostra repubblica ha subito la sindrome del 25 luglio: da Craxi a d’Alema, da Berlusconi a Bossi, da Letta a Renzi, fino a Salvini e perfino Di Maio, solo per dire dei più recenti. Forse fa eccezione Giuseppe Conte, che si tradì da solo, e non fu, come un film biblico famoso, “Giuseppe venduto dai fratelli”.
Per i missini la replica del 25 luglio era la scissione di Democrazia Nazionale dal Msi, compiuta dai “migliori” della classe dirigente missina nel 1976; Giorgio Almirante ripeteva a loro proposito che era stato coniato dopo il 25 luglio un verbo in inglese, To Badogliate, per indicare il tradimento, usando come verbo il nome del Maresciallo Badoglio, colui che assunse la guida del governo dopo la caduta di Mussolini. Poi venne il caso Fini, divenuto in Alleanza Nazionale il nuovo Badoglio per antonomasia.
Il 25 luglio fu un mezzo golpe, come del resto era stato ventun anni prima la Marcia su Roma. Metà istituzionale e metà atto di forza, ma incruenti in ambo i casi, all’inizio e alla fine del regime fascista nel XXI anno della sua era (per essere un’era, durò pochino). Il 25 luglio è anche un evento paradossale: un dittatore va al Gran Consiglio consapevole del destino che lo attende, cade democraticamente, con voto di maggioranza, rimette il suo mandato nelle mani del Re e poi si fa arrestare senza alcuna reazione, forse concordando il suo esautoramento e perfino scegliendo la destinazione della sua prigionia. Perfino Donna Rachele, che non era un raffinato politologo ma una vivace donna del popolo, aveva capito il tranello e lo aveva scongiurato di non andare a quella seduta. Lui invece ci va, come se volesse quel che poi accadde; era un modo per dimettersi e per lasciare che l’Italia avesse le mani libere dall’alleato tedesco. Seguono due anni di orrori ma non sono solo legati ai campi di sterminio, alle esecuzioni naziste e fasciste ma ai bombardamenti americani sulle città e sulle popolazioni, alle migliaia di ragazze stuprate dai marocchini francesi e agli eccidi partigiani (foibe incluse).
Il 25 luglio ad abbattere il regime fascista sono i suoi quadrumviri superstititi della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi (Italo Balbo e Michelino Bianchi erano morti), le migliori intelligenze del regime, da Dino Grandi a Giuseppe Bottai, personalità di valore come l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni; quella che si potrebbe chiamare la destra del regime, sotto l’egida del Re, più qualche spurio. Con il Duce al Gran Consiglio restano in pochi. Mussolini è stanco e sfiduciato, non ama la prospettiva di andare al rimorchio dei tedeschi, magari voterebbe anche lui per la caduta del regime… Poi con l’8 settembre verranno le tragedie, da Salò al processo di Verona, gli eccidi rossi, i rastrellamenti tedeschi, la guerra civile, il tentativo di riprendere con la Repubblica sociale, con Mussolini metà prigioniero di Hitler e metà intenzionato a creare uno Stato cuscinetto, come dissero alcuni storici come Renzo De Felice, per impedire che i tedeschi, i nazisti prendessero il diretto controllo del nord d’Italia e si accanissero sugli italiani. Ma il Paese spaesato e decapitato, con la classe dirigente che si squaglia e va a vendersi l’Italia, comincia in quel dì, il 25 luglio (salvo antichi precedenti). Il 25 luglio, facendosi poi 8 settembre, non finì più, diventò un black friday in cui compiere periodicamente la svendita del magazzino morale e istituzionale del nostro Paese.

La Verità – 19 luglio 2023

Paolo VI, 24 maggio 1976: “Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico”

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Partecipava concelebrante Joseph Ratzinger… (n.d.r.)

Celebriamo oggi la Patrona (insieme ai SS. Pietro e Paolo e a San Pio V) del Sodalitium Pianum, associazione fondata da monsignor Umberto Benigni nel 1909 per contrastare i nemici interni ed esterni della Chiesa, in particolare per applicare il programma antimodernista tracciato da san Pio X (programma del Sodalitium Pianum: http://www.sodalitium.biz/documenti/programma-del-sodalitium-pianum/ ).

In tale occasione il Centro Studi don Paolo de Töth intende rendere gloria alla SS. Madre di Dio, Aiuto dei Cristiani, proponendo la lettura e la riflessione di un Discorso tenuto durante un Concistoro da ‘San Paolo VI’ (per noi card. G.B. Montini) proprio il 24 maggio 1976, nel quale imponeva la ‘Nuova Messa’ e vietava conseguentemente la precedente.

Chi colpevolizza oggi Bergoglio di vietare la Messa ‘in latino’ sappia che ‘Francesco’ è in perfetta continuità ed armonia con un suo Santo predecessore e chi accusa quello accusa anche questo, accusando così un Santo Papa della Chiesa, che avrebbe promulgato una Messa cattiva, insegnato errori, imposto Riti inaccettabili, etc. E l’assurdo è che tutto questo sarebbe affermato da veri Cattolici…

Anche il semplice Sagrestano nella famosa Tosca di pucciniana memoria, affermava più volte, rimbrottando il Cavaradossi, con la sua peculiare voce da basso: “Scherza coi fanti, ma lascia stare i Santi!!”, che sono tali, ovviamente, solo se canonizzati da Legittimi Successori di san Pietro, aggiungiamo noi.

Dal DISCORSO AL CONCISTORO
DEL SANTO PADRE PAOLO VI
(lunedì, 24 maggio 1976):

«…coloro che, col pretesto di una più grande fedeltà alla Chiesa e al Magistero, rifiutano sistematicamente gli insegnamenti del Concilio stesso, la sua applicazione e le riforme che ne derivano, la sua graduale applicazione a opera della Sede Apostolica e delle Conferenze Episcopali, […] si allontanano i fedeli dai legami di obbedienza alla Sede di Pietro come ai loro legittimi Vescovi; si rifiuta l’autorità di oggi, in nome di quella di ieri. E il fatto è tanto più grave, in quanto l’opposizione di cui parliamo non è soltanto incoraggiata da alcuni sacerdoti, ma capeggiata da un Vescovo, da Noi tuttavia sempre venerato, Monsignor Marcel Lefebvre.

È tanto doloroso il notarlo: ma come non vedere in tale atteggiamento – qualunque possano essere le intenzioni di queste persone – porsi fuori dell’obbedienza e della comunione con il Successore di Pietro e quindi della Chiesa? Continua a leggere

L’elezione del Papa

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di Redazione

Questo articolo di don Francesco Ricossa scrive cose di grande interesse ed attualità, soprattutto ora, che qualcuno si appresta a indire un “conclave”, dopo la morte del “non-papa” Benedetto XVI. Don francesco, con grande franchezza e carità, trae spunto da alcune affermazioni di Mons. Mark Pivarunas (del quale noi non siamo fedeli) per allargare una critica ai sedevacantisti simpliciter, quali noi siamo per la maggior parte. I vescovi residenziali nel 2022 non esistono più perché, come spiega don Anthony Cekada, il rito di consacrazione episcopale del 1968 è “del tutto invalido e assolutamente nullo” (Ed. Sodalitium). Sul piano strettamente personale (da dottori o semplici studiosi privati) riteniamo plausibile che il Concilio imperfetto composto da vescovi non residenziali possa eleggere un legittimo sovrano Pontefice, proprio per la motivazione addotta da don Francesco, ovvero la situazione di assoluta straordinarietà del momento presente. E’ chiaro che non è nostra intenzione rimbeccare il Superiore dell’Istituto al quale ci rivolgiamo come fedeli, ma semplicemente porre una nostra rispettosa osservazione, tra “non una cum”.   

di don Francesco Ricossa

Articolo pubblicato su Sodalitium n 55 (dicembre 2002)

Mons. Mark Pivarunas CMRI (un vescovo consacrato da Mons. Carmona) invia periodicamente ai suoi fedeli una lettera intitolata Pro grege (1). Quella del 19 marzo 2002 ha particolarmente attirato la mia attenzione. Il prelato statunitense – che segue la tesi della sede vacante – risponde (a pag. 5) a due obiezioni del locale superiore di distretto della Fraternità San Pio X, padre Peter Scott.

Scrive Padre Scott: “Ciononostante è assurdo dire, come fanno i sedevacantisti, che non c’è stato nessun Papa da almeno 40 anni, perché questo distruggerebbe la visibilità della Chiesa, e la possibilità stessa dell’elezione canonica di un futuro Papa”.

Le obiezioni non sono nuove (2); più interessante è la risposta di Mons. Pivarunas.

Quanto alla prima difficoltà (quella del prolungarsi della vacanza della sede apostolica) Mons. Pivarunas risponde allegando l’esempio storico del Grande Scisma d’Occidente. Padre Edmund James O’Really S.J. (3), nel suo libro, edito nel 1882, intitolato The Relations of the Church to Society, scriveva a questo proposito: “Possiamo ora smettere di indagare su che cosa è stato detto in quel tempo della posizione dei tre pretendenti e dei loro diritti riguardo al papato. In primo luogo c’era sempre, dalla morte di Gregorio XI nel 1378, un Papa – con l’eccezione naturalmente delle vacanze creatisi tra le morti e l’elezioni. C’era, penso, in ogni momento un Papa, realmente investito della dignità di Vicario di Cristo e Capo della Chiesa, sebbene opinioni diverse possano esistere circa la sua legittimità; non nel senso che un interregno che coprisse l’intero periodo sarebbe stato impossibile o inconciliabile con le promesse di Cristo, perché questo è evidente, ma che di fatto non ci fu questo interregno” (Pivarunas, p. 5).

La cosa appunto è talmente evidente che non vale la pena di insistere.

Più difficile è invece rispondere alla seconda difficoltà. Vediamo quanto scrive al proposito Mons. Pivarunas:

«Quanto alla seconda ‘difficoltà’ proposta dalla Fraternità San Pio X contro la posizione sedevacantista, in altre parole quella dell’impossibilità dell’elezione di un futuro Papa se la sede è vacante dal Vaticano II, si può leggere ne ‘La Chiesa del Verbo Incarnato’ di Mons. Charles Journet: “Durante la vacanza della sede apostolica, la Chiesa ed il Concilio non possono contravvenire alle disposizioni prese per determinare il modo valido dell’elezione (Card. Gaetano o.p., De comparata…, cap. XIII, n°202). Tuttavia, in caso di permesso, per esempio se il Papa non ha previsto niente che vi si opponga, o in caso di ambiguità, per esempio se si ignora quali siano i veri cardinali, o chi è vero Papa, com’è accaduto ai tempi del grande scisma, il potere di ‘applicare il papato a tale persona’ è devoluto alla Chiesa universale, alla Chiesa di Dio (ibid., n° 204)”» (4).

Con questa citazione Mons. Pivarunas pensa di aver sufficientemente risposto a Padre Scott: in assenza di cardinali – e solo in assenza di cardinali (5) – il Papa può essere eletto, per devoluzione (6), dalla Chiesa.

Ma in realtà la difficoltà cambia solamente di oggetto: cosa si intende, infatti, in questo contesto, per “Chiesa universale”?

Mons. Pivarunas, nella sua lettera, non lo precisa. Neppure lo precisa Journet nel luogo citato. Ma poiché Journet fa propria la posizione del Cardinal Gaetano (7), citando la sua opera De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii cum apologia eiusdem tractatus (8), possiamo facilmente stabilire il significato di questa espressione consultando il Gaetano stesso.

Il Card. Gaetano, col termine “Chiesa universale”, intende designare il Concilio generale

Abbiamo visto come, in casi straordinari, il Papa possa essere eletto, in assenza di cardinali, dalla “Chiesa universale”; ma cosa intende il Cardinale Gaetano con questo termine?

Basta sfogliare il De comparatione per trovare la risposta – indubitabile – al nostro quesito. Già il titolo lo indica: De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii, seu Ecclesiæ universalis (n° 5) (Sulla comparazione dell’autorità del Papa e del Concilio, ovvero della Chiesa universale): la Chiesa universale ed il Concilio sono tutt’uno. Ma è nel capitolo V (n° 56) che Gaetano procede ad un’esplicita definizione dei termini:

“Dopo aver esaminato la comparazione tra il potere del Papa e quello degli apostoli in ragione del loro apostolato, dobbiamo adesso comparare il potere del Papa e il potere della Chiesa universale, ovvero del Concilio universale, adesso da un punto di vista generale, in seguito, come abbiamo annunciato, in alcuni casi ed eventi (particolari). E poiché gli opposti, messi a confronto, diventano più chiari, apporterò prima di tutto le ragioni principali nelle quali si trova il valore (degli argomenti) con il quale è provato [dagli avversari, N.d.T.] che il Papa è sottomesso al giudizio della Chiesa, ovvero del Concilio universale. E affinché non capiti più spesso di mettere assieme Chiesa e Concilio [preciso che] sono presi come sinonimi, poiché si distinguono solo come chi rappresenta e chi è rappresentato” (9). Il contesto generale dell’opera, d’altronde, ci indica chiaramente che il Gaetano per “Chiesa universale” intende il Concilio generale; il De comparatione in effetti risponde alle obiezioni dei conciliaristi, secondo i quali il Papa è inferiore alla Chiesa, cioè al Concilio (9). Ma c’è di più. Proprio quando parla dell’elezione del Papa, il Gaetano usa promiscuamente i termini “Chiesa” e “Concilio”: “in Ecclesia autem seu Concilio” (n° 202). Anzi, quando si tratta di presentare il caso concreto di elezione straordinaria di un Papa, il Gaetano non parla tanto di “Chiesa universale” ma piuttosto di Concilio generale: “si Concilium generale cum pace Romanæ ecclesiæ eligeret in tali casu Papam, verus Papa esset ille qui electus sic esset” (n° 745) (“se in questo caso il Concilio generale eleggesse il Papa con la pace [l’accettazione pacifica] della Chiesa romana, chi fosse eletto in questo modo sarebbe un vero Papa”).

È evidente quindi che, per Mons. Journet ed il Cardinal Gaetano, è il Concilio generale imperfetto (10) che ha il compito, in assenza di cardinali, di eleggere il Sommo Pontefice.

I vescovi residenziali, in quanto membri di diritto di questo Concilio generale, potrebbero eleggere il Papa

Appurato che gli elettori straordinari del Papa (in assenza di cardinali) sono i membri del Concilio generale, resta da vedere chi possa partecipare, di diritto, al Concilio generale. Il Codice di diritto canonico – trattando del Concilio ecumenico – elenca i membri di diritto del Concilio con voto deliberativo, al canone 223:

§ 1. Sono chiamati al Concilio ed hanno in esso il diritto al voto deliberativo:

1° I Cardinali di Santa Romana Chiesa, anche se non sono Vescovi;

2° I Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi residenziali, anche se non consacrati;

3° Gli Abati o prelati nullius;

4° L’Abate Primate, gli Abati Superiori di Congregazioni monastiche, i Superiori generali delle congregazioni clericali esenti, ma non delle altre religioni, a meno che il decreto di convocazione non disponga diversamente;

§ 2. Anche i Vescovi titolari, chiamati al Concilio, ottengono il voto deliberativo, a meno che non sia previsto esplicitamente il contrario nella convocazione.

§ 3. I teologi e i canonisti, eventualmente invitati al Concilio, hanno solo un voto consultivo.

Questo canone non esprime solo il diritto positivo, ma anche la natura stessa delle cose. Notiamo infatti che i Vescovi titolari, privi di giurisdizione, possono non essere convocati al Concilio o non avere diritto di voto. Al contrario, i Cardinali, i Vescovi residenziali, gli Abati o i prelati nullius (11) anche se non consacrati vescovi partecipano di diritto al Concilio, perché hanno giurisdizione su di un territorio (12). Questo significa che di per sé il criterio per essere un membro del Concilio è quello di appartenere alla gerarchia in ragione della giurisdizione e non dell’ordine sacro (per questa distinzione, di diritto divino, vedi il can. 108§3).

Stando così le cose, ci sembra che Mons. Pivarunas (e con lui tutti i sedevacantisti simpliciter, quelli cioè che non seguono la tesi di padre Guérard des Lauriers) non abbia sufficientemente risposto alla difficoltà posta dalla Fraternità San Pio X. Infatti, in una posizione strettamente sedevacantista, non si vede dove siano i vescovi residenziali cattolici che possano e vogliano eleggere il Papa, giacché tutti i vescovi residenziali (ed altri prelati che avrebbero giurisdizione) o sono stati nominati invalidamente da degli antipapi o sono comunque formalmente eretici e fuori della Chiesa – aderendo agli errori del Vaticano II – o sono in ogni caso in comunione con Giovanni Paolo II, capo della nuova “Chiesa conciliare”. La Chiesa gerarchica insomma sarebbe totalmente scomparsa, non solo in atto e formalmente, ma anche in potenza e materialmente (13).

I Vescovi senza giurisdizione non possono eleggere il Papa

Abbiamo visto che l’elezione del Papa in circostanze anormali – secondo il pensiero dei teologi che hanno trattato della questione – spetta al Concilio generale imperfetto, ovverosia ai Vescovi ed ai prelati che godono, nella Chiesa stessa, di giurisdizione. Il Papa, infatti, è Vescovo della Chiesa universale: è quindi normale che eccezionalmente lo eleggano quei prelati della Chiesa universale che, con lui e sotto di lui, governano una porzione del gregge. Abbiamo visto altresì che per la natura stessa delle cose, ed in conseguenza di quanto detto, sono esclusi dal novero degli elettori per accidens del Papa i Vescovi titolari, Vescovi consacrati col mandato romano, ma privi di giurisdizione nella Chiesa.

A più forte ragione sono esclusi dal numero degli elettori – proprio perché esclusi dal Concilio generale – i Vescovi consacrati senza mandato romano nelle condizioni eccezionali dell’attuale vacanza (formale) della Sede Apostolica. Tali Vescovi, infatti, sono stati consacrati validamente e persino, a nostro parere – almeno in alcuni casi – lecitamente; tuttavia essi sono però – nel modo più assoluto – privi di giurisdizione, in quanto la giurisdizione del Vescovo deriva da Dio solo tramite la mediazione del Papa che, nel nostro caso, è esclusa (14). Poiché sono privi di giurisdizione, non appartengono alla Gerarchia della Chiesa secondo la giurisdizione, non sono perciò membri di diritto del Concilio e pertanto non sono abilitati ad eleggere validamente il Papa, neppure in casi straordinari.

Questo punto di dottrina, già assodato in sé stesso, è confermato dall’impossibilità pratica di eleggere un Papa certo e non dubbio seguendo questa via. Chi stabilirà in maniera certa, tra i molti Vescovi che sono stati e saranno ancora consacrati in questo modo, quelli che hanno diritto di partecipare all’elezione e quelli che non lo hanno? Chi ha il diritto di convocare il Conclave e chi no? Chi è da considerarsi legittimamente consacrato e chi no? Non essendoci un criterio di discernimento (il mandato romano, la sede residenziale) non vi è di per sé limite a queste consacrazioni né da parte di chi le può autorizzare (il Papa) né da parte della porzione di territorio da governare (la diocesi). Il numero degli elettori può quindi crescere a dismisura senza nessuna garanzia della loro cattolicità, come è avvenuto in concreto. E, di fatto, si è già proceduto a svariate elezioni che non hanno avuto alcun seguito, neppure tra i sostenitori del “conclavismo”, sempre pronti a “fare il passo”, ma solamente in teoria.

A maggior ragione, i laici non possono eleggere il Papa

Se i Vescovi titolari, pur nominati dal Papa non possono eleggere il Papa, se non lo possono neppure i Vescovi puramente consacrati, senza mandato romano, ancor meno lo potranno i semplici sacerdoti. In maniera ancora più radicale sono esclusi da ogni elezione ecclesiastica i laici.

Questa conclusione è confermata dal diritto positivo della Chiesa, sia per quanto riguarda ogni elezione ecclesiastica in genere, sia per quanto riguarda l’elezione del Papa.

A proposito di ogni elezione ecclesiastica, il canone 166 stipula che “se i laici, contro la canonica libertà, si fossero immischiati in qualunque modo in un’elezione ecclesiastica, l’elezione è invalida per il diritto stesso” (Si laici contra canonicam libertatem electioni ecclesiasticæ quoque modo sese immiscuerint, electio ipso iure invalida est).

A proposito dell’elezione papale, fa testo l’apposita costituzione Vacante Sede Apostolica promulgata da San Pio X il 25 dicembre 1904. Il principio generale è espresso al n. 27: “Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ed esclusivamente (privative) ai Cardinali di Santa Romana Chiesa, essendo assolutamente escluso ed allontanato l’intervento di qualsiasi altra dignità ecclesiastica o laica potestà di qualunque grado e ordine”. Al numero 81, San Pio X rinnova la condanna già da lui sancita, con la Costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904, del cosiddetto diritto di Veto o di Esclusiva da parte del potere laico, concludendo: “Questa proibizione vogliamo sia estesa a qualunque intervento, intercessione o altro modo con il quale le autorità laiche di qualunque ordine e grado volessero immischiarsi nell’elezione del Pontefice”. Il Santo Papa fa riferimento a quanto accadde durante il Conclave che lo elesse al Sommo Pontificato, quando l’Imperatore Francesco Giuseppe, tramite il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, pose il suo veto all’elezione del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, già segretario di Stato di Leone XIII. Nella Costituzione Commissum San Pio X afferma che questo presunto diritto di “Veto”, già condannato dai suoi predecessori Pio IV (In eligendis), Gregorio XV (Aeterni Patris), Clemente XII (Apostolatus officium) e Pio IX (In hac sublimi, Licet per Apostolicas e Consulturi) è contrario alla libertà della Chiesa. Il suo ufficio, scrive il Santo Pontefice, è quello di far sì che “la vita della Chiesa si svolga in modo del tutto libero, allontanato ogni intervento esterno, come volle che si svolgesse il suo Divino Fondatore, e come lo richiede assolutamente la sua eccelsa missione. Ora, se c’è una funzione nella vita della Chiesa che richiede più di ogni altra questa libertà, essa deve essere considerata senza dubbio quella che riguarda l’elezione del Romano Pontefice; in effetti ‘non si tratta di un membro, ma di tutto il corpo, quando si tratta del capo’ (Gregorio XV, Aeterni Patris)”. L’esclusione dell’intervento delle autorità civili include naturalmente quello di qualunque altro membro del laicato: “Stabiliamo che non è lecito ad alcuno, neppure ai capi di stato, sotto qualsiasi pretesto, interporsi o ingerirsi nella grave questione dell’elezione del Romano Pontefice”.

Come si vede, l’esclusione di ogni intervento laicale è considerato da San Pio X non come una disposizione transitoria, ma come assolutamente necessario perché la Chiesa sia come l’ha voluta il suo Fondatore, Cristo Gesù.

Quanto disposto dal Codice di diritto Canonico e da San Pio X è perfettamente conforme a tutta la tradizione. Il Codice stesso rinvia al Corpus iuris canonici (l’antico diritto ecclesiastico) ove le decretali di Gregorio IX (libro I, titolo VI, de electione et electi potestate) prevedono l’invalidità dell’elezione fatta dai laici: il cap. 43 cita il IV Concilio Lateransense del 1215 (Costituzione XXV: “Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l’elezione e diventi ineleggibile…”); il cap. 56 cita un documento di Gregorio IX del 1226 col quale si dichiara invalida l’elezione di un vescovo fatta dai laici e dai canonici, secondo una consuetudine che è piuttosto chiamata una “corruttela”.

Potremmo citare altri documenti ecclesiastici al proposito, tra i quali vari Concili Ecumenici: il secondo di Nicea, dell’anno 787 (DS 604), il secondo di Costantinopoli dell’anno 870 (DS 659), il primo del Laterano, dell’anno 1123, contro le investiture dei laici (DS 712)…

Se nel passato la Chiesa doveva difendere la sua libertà dall’influenza dei Principi nelle elezioni, con la Rivoluzione dovette difenderla dalla pretesa democratica di far eleggere i Vescovi dal popolo. Fu così che Papa Pio VI condannò la Costituzione civile del clero votata dall’Assemblea Nazionale, con il Breve Quod aliquantulum del 10 marzo 1791. Non a caso, Papa Braschi collegava le decisioni in materia dei rivoluzionari francesi, coi più antichi errori di Wiclif, Marsilio da Padova, Jean de Jandun e Calvino (cf Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, 81-82, e Pie VI, Ecrits sur la Révolution française, Ed. Pamphiliennes, pp. 16-20).

Qual è il valore, allora, della partecipazione popolare ad alcune antiche elezioni? Lo ricorda ancora il Journet: “Nei tempi passati hanno preso parte all’elezione, a titoli diversi: il clero romano (per un titolo che sembra primo e diretto), il popolo (ma nella misura in cui dava il suo consenso e la sua approvazione all’elezione fatta dal clero), i principi secolari (sia lecitamente, dando solamente il loro consenso e il loro appoggio all’eletto; sia in maniera abusiva vietando, come fece Giustiniano, che l’eletto fosse consacrato prima dell’approvazione dell’imperatore), infine i cardinali, che sono i primi tra i chierici romani, in sorta che è al clero romano che è di nuovo affidata, oggi, l’elezione del Papa” (op. cit., p. 977) (15).

Un voto solo consultivo o approvativo, quindi, quello del popolo fedele; e le cose stanno così per una esigenza dogmatica fondata sulla distinzione e subordinazione nella Chiesa tra clero e fedeli, distinzione che è di diritto divino. Lo ricorda, tra gli altri, il teologo romano Cardinal Mazzella: “In terzo luogo, dai medesimi documenti, ne segue sia la distinzione tra i Chierici e i Laici, sia il fatto che la gerarchia costituita nell’ordine clericale è di diritto divino; e quindi che per il medesimo diritto divino la forma democratica è esclusa dal governo della Chiesa. Questa forma democratica sussiste quando la suprema autorità si trova in tutta la moltitudine; non in quanto tutta la moltitudine comandi e governi in atto, il che sarebbe impossibile; ‘ma in quanto – come dice Bellarmino (de Rom. Pont. l. 1, c. 6) – dove vige il regime popolare, i magistrati sono costituiti dallo stesso popolo, e ricevono da esso la loro autorità; non potendo il popolo legiferare da se stesso, deve almeno costituire altri che lo facciano in suo nome’. Ma, supposta una gerarchia divinamente costituita nell’ordine clericale, è ad essa e non a tutto il popolo che l’autorità è stata comunicata da Cristo; e perciò per istituzione di Cristo non risiede nel popolo il diritto di costituire i governanti, e questi non reggono la Chiesa in nome del popolo. Per una migliore comprensione di quanto detto, osserviamo:

come dice Bellarmino (de mem. Eccles. l. 1 c. 2), ‘nella creazione dei Vescovi sono contenute tre cose: l’elezione, l’ordinazione e la vocazione o missione; l’elezione non è nient’altro che la designazione di una persona determinata alla prelatura ecclesiastica; l’ordinazione è una sacra cerimonia con la quale, mediante un rito determinato, viene unto e consacrato il futuro Vescovo; la missione o vocazione conferisce la giurisdizione, e per il fatto stesso fa il Pastore e il presule’

Per cui sono cose molto diverse l’eleggere, il chiedere e il rendere testimonianza. Infatti, chi rende testimonianza in favore di qualcuno o chiede che questi sia eletto, non gli conferisce un diritto a ottenere una dignità; ma svolge solo il ruolo di una persona che loda e che chiede. Colui invece che elegge, chiama canonicamente alla dignità, e conferisce un vero diritto a riceverla (…)” (16).

Riassumendo: nelle elezioni ecclesiastiche il popolo può rendere testimonianza delle qualità di un soggetto (testimonium reddere) e chiederne l’elezione (petere) ma non può assolutamente votare in una elezione canonica, e quindi eleggere un candidato a una carica ecclesiastica dandogli il diritto a ricevere – in quanto persona eletta – la medesima carica. E questa conclusione si fonda su di un principio che appartiene alla fede e alla volontà del Signore: il fatto cioè che la Chiesa non sia una società democratica, ma gerarchica (e persino monarchica) (17) fondata sulla distinzione – di diritto divino – tra il Clero e i Laici. I “tradizionalisti” che attribuiscono a persone che non fanno parte della gerarchia di giurisdizione, e persino a dei semplici fedeli, il potere di eleggere persino il Sommo Pontefice, sono paradossalmente inquinati dall’eresia di una Chiesa democratica così diffusa tra i “modernisti” stile “comunità di base” o “la Chiesa siamo noi”.

Il Clero romano e l’elezione del Papa

Abbiamo escluso dal potere di eleggere il Papa i laici ed i Vescovi senza giurisdizione (a maggior ragione i semplici sacerdoti). Ci resta da vedere un soggetto particolare del diritto di eleggere il Papa: il clero romano. Se “per natura delle cose, e quindi per diritto divino” – scrive Journet a p. 977 – “il potere di eleggere il Papa appartiene alla Chiesa presa assieme al suo capo, il modo concreto in cui si farà l’elezione, dice Giovanni di San Tommaso, non è stato determinato in qualche luogo della Scrittura: è il semplice diritto ecclesiastico che determinerà quali persone nella Chiesa potranno validamente procedere all’elezione”.

Il diritto ecclesiastico attuale (e questo a partire dal 1179) prevede che solo i Cardinali possono eleggere validamente il Papa. In questo modo si mantiene in fondo la più antica tradizione ecclesiastica, che vuole che il Vescovo sia eletto dal suo clero e dai Vescovi circostanti. I Cardinali infatti sono i membri principali del Clero romano (diaconi e sacerdoti), uniti ai Vescovi delle diocesi limitrofe, dette suburbicarie (anch’essi Cardinali). Il Gaetano scrive che è normale che il Papa sia eletto dalla sua chiesa, che è la chiesa Romana e la Chiesa universale, in quanto il Papa è il Vescovo di Roma ed il Vescovo della Chiesa Cattolica (n° 746). Anzi, Gaetano prevede che “morti tutti i Cardinali, succede in maniera immediata [nel potere di eleggere il Papa] la Chiesa Romana, dalla quale è stato eletto [il Papa San] Lino prima di ogni disposizione di diritto umano a noi conosciuto” (n° 745). “La Chiesa Romana” infatti “rappresenta la Chiesa universale nel potere elettivo” (n° 746). Come ci siamo chiesti a proposito della “Chiesa universale”, così ci dobbiamo chiedere chi sono i membri della “Chiesa Romana” che potrebbero eleggere il Papa in mancanza dei cardinali, che della Chiesa Romana sono i membri principali. Gaetano spiega (n° 202): che l’elezione spetti a tale o tale diacono o sacerdote delle chiese romane, detti Cardinali, e non ad altri (come ad esempio i canonici di San Pietro o di san Giovanni in Laterano), o a tale o tal altro Vescovo suburbicario, e non ad altri, è disposizione di diritto positivo ecclesiastico, e non di diritto divino. La Chiesa non può mutare queste disposizioni di diritto ecclesiastico (n° 202), ma in caso di scomparsa di tutti i Cardinali si può supporre che gli altri membri del clero romano potrebbero eleggere il proprio Vescovo. È evidente che per essere membri del clero romano non basta essere nati o risiedere a Roma! Occorre essere incardinati nella diocesi e probabilmente avere cura pastorale del popolo romano o delle diocesi vicine. È facile rendersi conto che anche in questo caso non si vede chi mai potrebbe, concretamente, potere o volere eleggere il papa dato che il clero romano (parroci, vescovi limitrofi, ecc.) è attualmente in comunione con Giovanni Paolo II.

Il Papa non può essere designato direttamente dal Cielo (perché Dio non lo vuole)

Di fronte alla situazione gravissima che sta vivendo la Chiesa, che ha portato alla privazione dell’Autorità, c’è chi ha pensato che la soluzione poteva solo venire da un intervento – eccezionale – di Dio. Questo pensiero si fonda su di una intuizione vera: la Storia e la Chiesa sono nella mani di Dio, e “nulla è impossibile a Dio” (Lc I, 37). Alcuni hanno pensato a un intervento di Enoch e Elia, identificati (a mio parere, a torto) nei due testimoni dell’Apocalisse. Altri hanno ipotizzato la sopravvivenza dell’Apostolo Giovanni. Altri ancora immaginano un’elezione papale fatta direttamente da Cristo e dagli Apostoli Pietro e Paolo (18). A questo proposito non sono mancati coloro che hanno pubblicato profezie di Santi in favore di questa opinione (19).

Mons. M.-L. Guérard des Lauriers, nella sua intervista a Sodalitium (n. 13, p. 20) affermava a proposito del sedevacantismo stretto: “La persona fisica o morale che ha, nella Chiesa, qualità per dichiarare la vacanza totale della Sede Apostolica è identica a quella che, nella Chiesa, ha qualità per provvedere alla provvisione della stessa Sede Apostolica. Chi dichiara attualmente: ‘Mons. Wojtyla non è affatto Papa [neanche materialiter] deve: o convocare il Conclave [!] o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente ed immediatamente Legato di Nostro Signore Gesù Cristo [!!]”. Abbiamo finora dimostrato l’impossibilità, rebus sic stantibus, di convocare un Conclave; vediamo nel presente capitolo se è possibile a qualcuno presentarsi con le credenziali che lo costituirebbero Legato di Gesù Cristo o suo Vicario.

Al di là dell’improbabilità fattuale di un simile avvenimento, sottolineata dai due punti esclamativi apposti da Mons. Guérard dopo avere esposto questa ipotesi, mi sembra che riguardo alla possibilità teologica di questa ipotesi abbia correttamente risposto Mons. Sanborn:

“I sedevacantisti completi propongono una seconda soluzione alla crisi attuale: è Cristo stesso che designerà un successore, con un intervento miracoloso. Se Nostro Signore agisse in tal modo, e certamente lo potrebbe, l’uomo che sceglierebbe per essere Papa sarebbe certamente il suo vicario sulla terra, ma non sarebbe successore di san Pietro. Scomparirebbe l’apostolicità, perché quest’uomo non potrebbe risalire fino a san Pietro mediante una linea di successione legittima ininterrotta. Certo, come san Pietro sarebbe scelto da Cristo. Ma in realtà Nostro Signore creerebbe una nuova Chiesa.

D. Ma Nostro Signore non potrebbe essere un elettore legittimo? Perché non potrebbe scegliere un Papa che sarebbe anche successore di san Pietro?

R. Si, evidentemente Nostro Signore potrebbe scegliere un Papa, esattamente come ha scelto san Pietro. Ma un intervento divino come quello che immaginano i sedevacantisti completi equivarrebbe a una nuova rivelazione pubblica, il che è impossibile. La rivelazione pubblica è definitivamente chiusa con la morte dell’ultimo apostolo. È un articolo di fede. Tutte le rivelazioni che si sono svolte dopo la morte dell’ultimo Apostolo appartengono all’ambito delle rivelazioni private. Per i sedevacantisti completi quindi, è una rivelazione privata che rivelerebbe l’identità del Papa.

Non c’è bisogno di dire che una tale soluzione distrugge la visibilità e la legalità della Chiesa cattolica, e rende la sua stessa esistenza dipendente da dei veggenti. Non c’è bisogno di aggiungere neppure che essa abbandona il papato alle elucubrazioni degli apparizionisti.

La missione della Chiesa consiste nel far conoscere al mondo la divina rivelazione. Se la designazione del Papa – proprio colui che fa conoscere questa rivelazione – dipendesse da una rivelazione privata, crollerebbe l’intero sistema. La più alta autorità della Chiesa sarebbe allora il veggente, che potrebbe fare o disfare i Papi. Non ci sarebbe più alcun principio di autorità per poter determinare se il veggente è o non è un mistificatore. Ogni atto di fede dipenderebbe, alla fin fine, dall’onestà di un veggente.

La Chiesa cattolica, al contrario, è una società visibile ed ha una vita legale. Nostro Signore è il capo invisibile della Chiesa. La Chiesa non potrebbe più attribuirsi la visibilità se la sua gerarchia fosse designata da una persona [a noi] invisibile, fosse pure Nostro Signore in persona.

Anche ammettendo per un istante questa possibilità: la persona che Nostro Signore designerebbe in tal modo non sarebbe un successore legittimo di san Pietro. La successione è legittima solo se soddisfa le esigenze del diritto ecclesiatico o della consuetudine. Ma una successione per intervento divino non soddisfa alcuna di queste esigenze. Conseguentemente il Papa così designato non sarebbe il legittimo successore di san Pietro” (20).

Gesù potrebbe quindi (di “potenza assoluta”) scegliere nuovamente un Papa, ma non lo farà mai (21) (è impossibile di “potenza ordinata”) poiché Egli stesso ha stabilito che la Sua Chiesa, fondata su Pietro, sarebbe stata indefettibile: “le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. E questa verità dell’indefettibilità della Chiesa ci dà di già il motivo di fondo di quanto sosteniamo nel titolo del prossimo capitoletto.

La Chiesa non può restare totalmente priva di elettori del Papa

Il Concilio Vaticano I ha solennemente definito:

Se dunque qualcuno dirà che non è per istituzione dello stesso Cristo Signore ovvero per diritto divino che il Beato Pietro ha sempre dei successori nel primato della Chiesa universale; o che il Romano Pontefice non è il successore del Beato Pietro in questo primato, sia anatema” (D.S. 3058, Cost. dogmatica Pastor Aeternus, canone del capitolo 2).

È una verità di fede, pertanto, che “per sempre” vi sarà un Successore di Pietro: questa verità fa parte di quella concernente l’indefettibilità della Chiesa: se la Chiesa fosse priva di Papa, non esisterebbe più quale l’ha fondata Gesù. Per tornare al cardinal Gaetano, “Christus Dominus statuit Petrum in successoribus perpetuum: Cristo Signore ha stabilito (che) Pietro (sia reso) perpetuo nei suoi successori” (n. 746).

Naturalmente, questa definizione non può e non deve essere intesa nel senso che vi sarà sempre, in ogni istante, in atto, un Papa seduto sulla Cattedra di Pietro: durante la Sede vacante (ad esempio nel periodo che passa tra la morte di un Papa e l’elezione del suo successore). Ciò non conviene. In che senso dunque bisogna intendere la definizione vaticana?

Ce lo spiega ancora – per anticipazione – il Gaetano: “impossibile est Ecclesiam relinqui absque Papa et potestate electiva Papæ: è impossibile che la Chiesa sia lasciata senza Papa e senza il potere di eleggere il Papa” (n. 744). Durante la Sede vacante, pertanto, deve rimanere in qualche modo la persona morale che può eleggere il Papa: “papatus, secluso Papa, non est in Ecclesia nisi in potentia ministraliter electiva, quia scilicet potest, Sede vacante, Papam eligere, per Cardinales, vel per seipsam in casu: il Papato, tolto il Papa, si trova nella Chiesa solo in una potenza ministralmente elettiva, poiché essa può, durante la Sede vacante, eleggere il Papa mediante i Cardinali o, in un caso (accidentale) per mezzo di sé stessa” (n. 210).

È assolutamente necessario, pertanto, che – durante la Sede vacante – sussista ancora la possibilità di eleggere il Papa: lo esigono l’indefettibilità e l’apostolicità della Chiesa (22).

L’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa

Era appunto questa l’obiezione mossa da Mons. Lefebvre ai sedevacantisti, e ripresa da don Scott contro Mons. Pivarunas. Certamente, una obiezione non può annullare una dimostrazione, e Mons. Pivarunas ha ragione – e don Scott torto – sul fatto che la Sede sia attualmente vacante. Abbiamo visto però che il sedevacantismo simpliciter, se è capace di dimostrare la vacanza della Sede, non è però capace di spiegare come sussista ancor oggi il potere di eleggere un successore. I vari tentativi di spiegazione, fin qui analizzati, risultano tutti inconcludenti: non possono eleggere il Papa i semplici fedeli, e neppure i semplici sacerdoti, e neanche i Vescovi non residenziali. D’altra parte, nella prospettiva strettamente sedevacantista, non sussisterebbero più attualmente dei cardinali o dei Vescovi residenziali cattolici, in quanto tutti quelli esistenti avrebbero aderito alla “Chiesa conciliare”, divenendo formalmente eretici.

L’unica soluzione possibile a questa difficoltà viene, ci sembra, dalla Tesi detta di Cassiciacum, esposta da Padre Guérard des Lauriers, Tesi che i sedevacantisti si ostinano a rifiutare senza rendersi conto che essa è l’unica che permetta di difendere veramente la tesi della Sede vacante.

Secondo questa Tesi, nella situazione attuale dell’autorità nella Chiesa, il potere di eleggere il Sommo Pontefice sussiste ancora nella Chiesa non in atto, formalmente, ma in potenza, materialmente, e questo è sufficiente per assicurare la continuità della Successione Apostolica e per garantire l’indefettibilità della Chiesa.

Un’elezione del Papa è per il momento impossibile sia perché la Sede è ancora occupata materialmente e legalmente da Giovanni Paolo II, sia perché, e lo abbiamo dimostrato in questo articolo, non vi sono, in atto, elettori capaci di procedere a questa elezione.

L’elezione è però possibile in potenza, sia perché in principio non può essere altrimenti, come abbiamo visto prima, sia perché di fatto, sussistono materialmente gli elettori canonicamente abilitati ad eleggere il Papa. Secondo la Tesi, infatti, i Cardinali creati dai “papi” materialiter conservano il potere di eleggere il Pontefice, come pure i Vescovi, nominati dai “papi” materialiter alle varie sedi episcopali, le occupano materialmente e potrebbero, ritornati alla pubblica ed integrale professione della Fede, essere elettori del Papa in assenza di Cardinali. Lo stesso “papa” che occupa solo materialmente la Sede potrebbe, anatematizzando tutti gli errori e professando integralmente la Fede, divenire a tutti gli effetti Papa anche formalmente. Come si vede, la Tesi di Cassiciacum risponde alle obiezioni sollevate dai “modernisti” e dai “lefebvriani” al sedevacantismo, mentre le altre tesi sedevacantiste non ne sono capaci. Per la dimostrazione di questo punto della Tesi, rimandiamo il lettore a quanto già scritto al proposito (23).

Il dovere dei cattolici

Giunti al termine di questa esposizione, naturalmente sommaria, della questione dell’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa, possiamo tirare alcune conclusioni da quanto scritto.

Qual è il dovere dei cattolici, attualmente? Innanzitutto, conservare la fede. Questo dovere (conservare la fede) ne implica (di per sè) immediatamente un altro: quello di non riconoscere “l’autorità” di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II. Riconoscere l’autorità di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II implica, infatti, l’adesione al loro insegnamento che è – su alcuni punti – in contraddizione con la fede cattolica infallibilmente definita dalla Chiesa.

Il semplice cattolico però non può e non deve andare oltre. Non spetta al semplice fedele (e neppure ai sacerdoti e ai vescovi senza giurisdizione) dichiarare con autorità, ufficialmente e legalmente, la vacanza della Sede Apostolica e provvedere all’elezione di un autentico Pontefice. Il dovere del cattolico però è quello di pregare e lavorare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie competenze, affinché questa dichiarazione ufficiale – ad opera del collegio dei cardinali o del concilio generale imperfetto – divenga possibile. La tragedia dei nostri tempi – che detta la gravità della crisi presente – consiste proprio nel fatto che nessuno dei membri della gerarchia ha finora svolto questo ruolo. Attualmente, sembra impossibile che i Vescovi o i Cardinali giungano a condannare gli errori del Vaticano II e pongano l’occupante della Sede apostolica nella condizione di anatematizzare anch’egli questi errori, sotto pena di essere dichiarato formalmente eretico (e pertanto deposto, anche materialmente, dalla Sede); ma ciò che è impossibile agli uomini, ricordiamolo, è possibile a Dio. Ed in questo caso, sappiamo che Dio non può abbandonare la Sua Chiesa, perché le porte dell’inferno non prevarranno contro di Essa, ed Egli sarà con Essa fino alla fine del mondo.

Appendice

Esulano direttamente dalla nostra questione (la possibilità di eleggere un Papa allo stato attuale) due argomenti riguardanti pur sempre l’elezione del Papa: quello della certezza della validità dell’elezione papale a causa dell’accettazione pacifica di questa elezione da parte della Chiesa, e quello della santità dell’elezione. Di entrambi parla Journet nell’opera citata. Ne parlerò brevemente anch’io, poiché si tratta di due argomenti che possono servire da obiezione alla nostra posizione (la vacanza formale della Sede Apostolica).

L’accettazione pacifica come certezza della validità dell’elezione papale

Un’elezione, fosse anche l’elezione papale, può essere invalida o essere dubbia; lo ricorda lo stesso Journet, al seguito di Giovanni di San Tommaso (L’elezione del Papa. V. Validità e certezza dell’elezione). “La Chiesa – scrive Journet – possiede il diritto di eleggere il Papa, e quindi il diritto di conoscere con certezza l’eletto. Finché persiste il dubbio sull’elezione e che il consenso tacito della Chiesa universale non ha rimediato ai vizi possibili dell’elezione, non c’è il Papa, ‘Papa dubius, Papa nullus’. In effetti, fa notare Giovanni di San Tommaso, finché l’elezione pacifica e certa non è manifesta, è come se essa durasse ancora” (p. 978). Tuttavia, ogni incertezza sulla validità dell’elezione è dissipata dall’accettazione pacifica dell’elezione fatta dalla Chiesa universale: “l’accettazione pacifica della Chiesa universale, che si unisce attualmente a tale eletto come al capo al quale essa si sottomette, è un atto nel quale la Chiesa impegna il suo destino. E’ quindi di per sè un atto infallibile, ed è immediatamente conoscibile come tale. (Conseguentemente e mediatamente, risulterà che tutte le condizioni pre-richieste alla validità dell’elezione sono state realizzate)” (pp. 977-978). Quanto affermato da Journet si ritrova in quasi tutti i teologi.

Questa dottrina include un’obiezione gravissima contro ogni sedevacantismo (inclusa la nostra Tesi). L’abbé Lucien non nascondeva questa difficoltà, scrivendo: “Senza rispondere ai nostri argomenti, alcuni dichiarano che [la nostra tesi] è certamente falsa, poiché la sua conclusione, secondo loro, è contraria alla fede o almeno prossima all’eresia. Ricordano in effetti che la legittimità di un Papa è un fatto dogmatico, e aggiungono che il segno infallibile di questa legittimità è l’adesione della Chiesa universale. Ora, fanno notare, svariati anni dopo il 7 dicembre 1965 [data a partire della quale Paolo VI non era certamente più Papa formalmente] nessuno ha messo in causa, pubblicamente, nella Chiesa, la legittimità di Paolo VI. È quindi impossibile, concludono, che abbia cessato di essere papa legittimo in questa data, poiché la Chiesa universale continuava a riconoscerlo. Questi obbiettori affermano parimenti che ancor oggi la Chiesa universale aderisce a Giovanni Paolo II, poiché nessun membro della gerarchia di magistero lo ha ricusato: ora, questa gerarchia (l’insieme dei vescovi residenziali uniti al Papa) rappresenta autenticamente la Chiesa universale” (24). Rinvio il lettore alla magistrale risposta che dà l’abbé Lucien a questa obiezione. Da un lato, egli ricorda che la Costituzione Cum ex apostolatus di papa Paolo IV – che se non ha più valore giuridico è pur sempre un atto del magistero – insegna una dottrina contraria (la tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa come prova certa della validità di una elezione è quindi solo un’opinione teologica). D’altro canto, sottolinea come questa opinione si fondi sul fatto che è impossibile che la Chiesa intera segua una falsa regola di fede aderendo ad un falso pontefice: ciò sarebbe in contraddizione con l’indefettibilità della Chiesa. Ora, nel nostro caso, tra coloro che riconoscono la legittimità di Paolo VI e Giovanni Paolo II, ve ne sono molti che non aderiscono alle novità del Vaticano II; essi, di fatto, non riconoscono Paolo VI e Giovanni Paolo II come regola della fede e quindi, sempre di fatto, non ne riconoscono la legittimità (cf pp. 108-111). Insomma, il fatto che molti cattolici, implicitamente o esplicitamente, non abbiano recepito il Vaticano II, toglie alla tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa la sua forza dimostrativa quanto alla legittimità di chi il Concilio ha promulgato.

La santità dell’elezione

Se l’obiezione precedente è effettivamente importante, quella fondata sulla santità dell’elezione non lo è affatto; ma poiché molti fedeli me l’hanno citata, mi sembra opportuno rispondere con le parole stesse di Journet. Molte persone, infatti, credono a torto che sia lo Spirito Santo che garantisce l’elezione ispirando i cardinali, per cui l’eletto del Conclave sarebbe stato scelto direttamente da Dio. Journet ricorda che, quando si parla di santità dell’elezione papale, “non si vuol dire con queste parole che l’elezione del papa si compia sempre con una infallibile assistenza, poiché ci sono dei casi nei quali l’elezione è invalida, nei quali rimane dubbia, nei quali resta quindi in sospeso. Non si vuol neppure dire che sia scelto necessariamente il miglior soggetto. Si vuole solo dire che, se l’elezione è fatta validamente (il che, in sè, è sempre un bene) anche quando fosse il risultato di intrighi e di interventi spiacevoli (ma allora ciò che è peccato resterà peccato davanti a Dio), si è certi che lo Spirito Santo, il quale, al di là dei papi, veglia in modo speciale sulla sua Chiesa, utilizzando non solo il bene, ma anche il male che essi possono fare, non ha potuto volere o almeno permettere questa elezione che per dei fini spirituali la cui bontà si manifesterà a volte senza tardare nel corso della storia, oppure sarà conservata segreta fino alla rivelazione dell’ultimo giorno. Ma son questi misteri nei quali la fede sola può penetrare ” (pp. 978-979). Insomma, la divina Provvidenza veglia in maniera specialissima sulla Chiesa, ma non impedisce che a volte l’elezione papale possa essere nulla, dubbia, oppure, se valida, abbia per oggetto una persona meno degna di questa carica di un’altra. Negli ultimi conclavi quindi Dio ha potuto permettere, per motivi inscrutabili, che fossero eletti dei soggetti che non avevano oggettivamente la volontà abituale di procurare il bene ed il fine della Chiesa, e che pertanto, pur essendo gli eletti del Conclave (“papi” materialiter), hanno posto e pongono tuttora un ostacolo alla ricezione, da parte di Dio, dell’assistenza divina e dell’autorità pontificia (non sono “papi” formaliter) che, se non ci fosse quest’ostacolo sarebbe stata conferita all’eletto del conclave che accetta realmente l’elezione.

Note

1) La lettera Pro grege può essere richiesta al seguente indirizzo: Most Rev. Mark A. Pivarunas, Mater Dei Seminary, 7745 Military Avenue, Omaha, NE 68134-3356, U.S.A.
2) Peter Scott non fa altro che riprendere le due obiezioni già addotte da Mons. Lefebvre nel 1979: “la questione della visibilità della Chiesa è troppo necessaria alla sua esistenza perché Dio possa ometterla durante delle decadi. Il ragionamento di quanti affermano l’inesistenza del Papa mette la Chiesa in una situazione inestricabile. Chi ci dirà dov’è il futuro Papa? Come potrà essere designato, poiché non ci sono più cardinali?” (Fraternité Sacerdotale Saint Pie X, Position de Mgr Lefebvre sur la nouvelle messe et le pape, supplemento a Fideliter, 1980, p. 4).
3) Padre O’Really fu professore dell’Università cattolica di Dublino.
4) Mons. Pivarunas non dà i riferimenti della citazione di Journet. Si tratta dell’Excursus VIII, L’élection du pape dell’opera L’Eglise du Verbe Incarné, Vol. I La Hiérarchie apostolique, p. 976, Ed. Saint Augustin Saint Just-la-Pendue 1998. Il grassetto è di Mons. Pivarunas.
5) Pio IX, con la Costituzione apostolica Cum Romani Pontificibus del 4 dicembre 1869, avendo indetto il Concilio Vaticano I, si preoccupò di precisare le condizione dell’elezione pontificia, in caso di sua morte durante il Concilio. Sull’esempio di Giulio II (durante il quinto concilio lateransense) e di Paolo III e Pio IV (in occasione del concilio di Trento) stabilì che l’elezione era di spettanza esclusiva del Collegio dei Cardinali, con esplicita esclusione dei Padri Conciliari (Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, n. 326). Questa prescrizione è stata ripresa da San Pio X (Vacante Sede Apostolica, n. 28) e da Pio XII (Vacantis Apostolicae Sedis, dell’otto dicembre 1945, n. 33). La prescrizione non è solo disciplinare, ma ha un fondamento nel rifiuto delle teorie conciliariste.
6) Spiega Journet: “Nel caso che le condizioni previste fossero divenute inapplicabili, il compito di determinarne di nuove spetterebbe alla Chiesa per devoluzione, prendendo questo termine, come nota Gaetano (Apologia de comparata auctoritate papæ et concilii, cap. XIII, n° 745), non in senso stretto (in senso stretto la devoluzione è in favore dell’autorità superiore in caso di incuria da parte dell’inferiore), ma in senso largo, per indicare ogni trasmissione, anche se fatta a un inferiore” (op.cit., pp. 975-976).
7) Tommaso de Vio, detto Gaetano dal luogo di nascita (Gaeta), visse dal 1468 al 1533. Religioso domenicano nel 1484 iniziò l’insegnamento nel 1493. Fu Maestro generale dell’ordine dal 1508 al 1518, partecipò al V Concilio del Laterano e fu nominato Cardinale nel 1517. Nel 1518 fu legato della Santa Sede per procedere contro Lutero, lavorando alla stesura della bolla di Leone X, Exurge Domine, contro l’eresiarca. Vescovo di Gaeta nel 1519 fu ancora legato in Ungheria dal 1523 al 1524. È sepolto a Roma nella chiesa di santa Maria Sopra Minerva. “Il Gaetano è celebre per i suoi classici commenti a tutta la Somma teologica di san Tommaso, ai quali rimane legato il suo nome e la sua fama più duratura… Particolarmente attaccato alla Sede Apostolica, il Gaetano ne difese con profondità e brio le prerogative nel celebre trattato De auctoritate Papae con relativa Apologia, che stroncò le velleità conciliaristiche di Pisa (1511) e preparò in anticipo la condanna dell’errore gallicano. (…) San Roberto Bellarmino lo definiva ‘uomo di sommo ingegno e di non minore pietà” (Enciclopedia Cattolica, voce De Vio).
8) “Il primo opuscolo, intitolato ‘De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii; fu composto dal Cardinal Gaetano – che lo finì il 12 ottobre 1511 – nell’arco di due mesi. Occasione di questo opuscolo era il Concilio scismatico di Pisa, indetto in quei tempi da alcuni cardinali contro Papa Giulio II; per cui l’Autore si impegna a confutare le tesi cosiddette Gallicane, sostenute fin dal XV secolo in occasione del Concilio di Costanza; innanzitutto la (tesi) di Occam e Gerson, che afferma la superiorità del Concilio sul Papa. Contro (questa tesi), Gaetano dimostra (…) che il Papa, in quanto successore di Pietro, gode del primato, ovvero della piena e suprema potestà ecclesiastica, con tutte le prerogative che gli sono annesse. Il Re di Francia Luigi XII sottopose quest’Opera all’esame dell’Università di Parigi, che affidò la difesa [della propria posizione] al giovane e facondo autore Jacques Almain. Poiché questi compose l’opuscolo ‘De auctoritate Ecclesiæ, seu sacrorum Conciliorum eam repraesentantem, contra Thomam de Vio, Dominicanum’ (Parigi, Jean Granjon, 1512), Gaetano rispose con un altro opuscolo, ovvero l’‘Apologia de comparata auctoritate Papæ et Concilii’, portato a termine il 29 novembre 1512” (nostra traduzione dal latino dell’introduzione di Padre Pollet, o.p., alla riedizione dei due opuscoli del Gaetano, fatta a cura dell’Angelicum, a Roma, nel 1936).
9) “Examinata comparatione potestatis Papæ ad Apostolos ratione sui apostolatus, comparanda modo est Papæ potestas Ecclesiæ universalis seu Concilii universalis potestati, nunc quidem absolute, postmodum vero in eventibus et casibus, ut promisimus. Et quoniam opposita iuxta se posita magis elucescunt, afferam primo rationes primarias in quibus consistit vis, quibus probatur Papam subesse Ecclesiæ seu Concilii universalis iudicio. Et ne contingat sæpius Ecclesiam et Concilium iungere, pro eodem sumantur, quoniam non nisi sicut repraesentans et repraesentatum distinguuntur”.
10) Diciamo “imperfetto” perché, in assenza del Papa, un Concilio generale è appunto imperfetto (cf De comparatione, n° 231, parlando del Concilio di Costanza che si riunì per l’elezione di Martino V), in quanto privo del suo Capo, il quale è il solo a potere convocare, dirigere e confermare un Concilio ecumenico (can. 222; Gaetano, op. cit., cap. XVI). Ricordiamo che – secondo il Gaetano – è lo stesso Concilio generale imperfetto che ha il compito di deporre il Papa eretico (n° 230).
11) “I prelati che sono a capo su di un proprio territorio separato da ogni diocesi,, con clero e popolo, sono detti Abati o Prelati ‘nullius’, cioè di nessuna diocesi…” (can. 319). I Prelati o Abati nullius devono avere le stesse qualità richieste nel vescovo (can. 320§2) ed hanno lo stesso potere ordinario e gli stessi obblighi del vescovo residenziale (can. 323§1) del quale portano l’abito e le insegne liturgiche (can. 325) anche se fossero privi del carattere episcopale.
12) Gli altri Abati ed i superiori delle religioni clericali esenti pur non avendo giurisdizione su di un territorio hanno giurisdizione su delle persone (i propri sudditi) indipendentemente dal Vescovo diocesano. Sono quindi degli Ordinari, anche se non degli Ordinari di luogo (can. 198). Anche in questo caso il criterio per partecipare al Concilio è la giurisdizione e non l’ordine episcopale.
13) Giacché questa posizione rifiuta la successione materiale sulle sedi episcopali, ammessa invece dal sedevacantismo ‘formaliter’ ma non ‘materialiter’ di padre Guérard des Lauriers.
14) Ho già provato altrove (F. Ricossa, Le consacrazioni Episcopali, C.L.S. Verrua Savoia 1997) come la Chiesa insegni che il Vescovo non riceve la giurisdizione da Dio mediante la Consacrazione, ma solo mediante il Papa, anche se il Vaticano II insegna il contrario. Contro questa dottrina insegnata ripetutamente dal magistero ordinario non serve obiettare con esempi storici di elezioni (e consacrazioni) episcopali durante la sede vacante. Queste elezioni dimostrano solo la non illiceità – in caso di sede vacante ad esempio – di consacrazioni episcopali, ma non dimostrano che gli eletti godessero della giurisdizione episcopale, che ricevettero solo, con la conferma della loro elezione canonica, dal nuovo Papa. Ciò non toglie che essi potessero credere in buona fede di avere giurisdizione ancor prima della conferma papale, giacché la dottrina che noi difendiamo (secondo la quale la giurisdizione episcopale viene dal Papa e non dalla consacrazione) è stata precisata dal magistero in periodi successivi a questi fatti storici, mentre era ancora discussa al Concilio di Trento. Segnalo tra l’altro come la dottrina di Gaetano a questo proposito – anche in questo fedele discepolo di san Tommaso – è quella che abbiamo ricordato (cf n°267).
15) Journet conclude rinviando al Dictionnaire de théologie catholique, alla voce Election des papes, per “un esposizione storica delle diverse condizioni nelle quali i papi sono stati eletti”. Ne approfitto per notare quanto sulla questione che stiamo trattando (e non è l’unico caso) il DTC sia deludente. L’estensore della voce “elezione dei papi” infatti si limita ad una esposizione storica omettendo invece il ben più importante punto di vista teologico e dommatico: un punto di vista che ha tratto in inganno – per omissione – non pochi lettori e studiosi.
16) Camillo Card. Mazzella, De Religione et Ecclesia, Praelectiones Scolastico-Dogmaticae,Roma, 1880. Ringrazio Mons. Sanborn, che anni fa mi ha segnalato questa citazione (mentre la colpa della traduzione è tutta mia).
17) Cf San Pio X, ep. Ex quo nono 26/12/111910, DS. 3555, ove viene condannato l’errore opposto professato dagli scismatici orientali. Recentemente invece Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha negato che la Chiesa fosse una monarchia.
18) È stato il caso – tra gli altri – del “veggente” del Palmar de Troya, Clemente Dominguez, che sarebbe stato eletto Papa direttamente dal Cielo dopo la morte di Paolo VI.
19) L’editore Delacroix, ad esempio, ha pubblicato le “Visions de la Vénérable Elisabeth Canori Mora sur l’intervention de Saint Pierre et Saint Paul à la fin des temps” presentando il libretto come una conferma delle conclusioni del libro di don Paladino, L’Eglise eclipsée?, libro pubblicato dal medesimo editore, dove si accenna (p. 274) a queste e altre profezie.
20) Per completezza, riporto la risposta che Mons. Sanborn dà ai sedevacantisti che – implicitamente o esplicitamente – ritengono possibile invece la soluzione del Conclave: “D. Perché il sedevacantismo completo non è una soluzione?
R. Perché priva la Chiesa della possibilità di eleggere un successore legittimo di san Pietro. Esso distrugge fondamentalmente l’apostolicità della Chiesa.
I sedevacantisti completi cercano di risolvere il problema della successione apostolica in due modi. Il primo è il conclavismo. Essi sostengono che la Chiesa è una società che ha il diritto intrinseco di eleggere i propri capi. Ne consegue che il piccolo resto dei fedeli potrebbe riunirsi e leggere un Papa.
Dato e non concesso che una simile impresa possa essere portata a compimento essa solleva alcuni problemi. Primo: chi sarebbe legalmente designato per votare? Come sarebbero designati legalemente questi elettori? Secondo: in nome di qual principio i cattolici potrebbero essere obbligati a riconoscere come legittimo successore di san Pietro colui che vincerebbe una simile elezione? Di fatto il conclavismo non è altro che un elegante eufemismo per designare il regno dell’anarchia dove vige la legge del più forte. La Chiesa cattolica, non è anarchia, ma una società divinamente costituita, retta dalle sue proprie regole e da leggi proprie. In terzo luogo, ed è il punto più importante, non è lecito passare dal diritto naturale che hanno gli uomini a scegliersi dei capi, al diritto di leggere un Papa. La Chiesa non è un istituto naturale allo stesso titolo di una società temporale. I membri della Chiesa cattolica non hanno alcun diritto a designare il Romano Pontefice. È Cristo stesso che all’origine ha scelto san Pietro per essere il romano pontefice ed in seguito le modalità di designazione sono state fissate legalmente”. Mons. Donald J. Sanborn, Explanation of the Thesis of Bishop Guérard des Lauriers, 29/06/2002. Presso l’autore: Most Holy Trinity Seminary 2850 Parent Warren, Michigan 48092 USA bpsanborn@catholicrestoration.org.
21) Quanto abbiamo affermato non è in contrasto con quanto scritto da Mons. Guérard des Lauriers nella medesima intervista pubblicata sul n. 13 di Sodalitium: “in mancanza di M. [ovvero della persona morale – i Vescovi residenziali – abilitati a convocare un Concilio generale imperfetto ove si porrebbero le monizioni canoniche a Giovanni Paolo II] non esiste una soluzione ‘canonica’! Gesù solo rimetterà la Chiesa in ordine, nel e col Trionfo di Sua Madre. Sarà allora evidente per tutti che la salvezza sarà venuta dall’Alto” (p. 30). Questo intervento divino, infatti, non sarà contrario alla divina costituzione della Chiesa quale è stata stabilita da Gesù stesso. Un ritorno dei Vescovi e/o del “papa” materialiter alla professione pubblica della Fede sarebbe (sarà) d’altra parte un miracolo di ordine morale talmente straordinario da eguagliare la conversione di San Paolo. In quali circostanze ciò avverrà, lo ignoriamo.
22) Al proposito il lettore potrà leggere con profitto quanto scritto da Padre Goupil s.j. (L’Eglise, quinta ed., 1946, Laval, pp. 48-49) ed il commento che ne fa B. Lucien (La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise, Bruxelles, 1985, p. 103, n. 132). Vedi anche F. Ricossa, Don Paladino e la Tesi di Cassiciacum, Verrua Savoia, pp. 12-22).
23) B. Lucien, La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise. La Thèse de Cassiciacum, Bruxelles, 1985, capitolo X. D. Sanborn, De Papatu materiali, Verrua Savoia, 2001. La rivista Le sel de la terre contesta, nel suo numero 41, la dimostrazione data da don Sanborn. Ritorneremo sulla questione nel prossimo numero.
24) Lucien, op. cit., p. 107.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/lelezione-del-papa/

Il Sedevacantismo è l’unica posizione logica, prevista dal Magistero della Chiesa

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di Matteo Castagna

Noi sedevacantisti siamo i più papisti di tutti, perché per amore del papato romano siamo costretti a constatare la Vacanza della Sede Apostolica per onorare la figura del Vicario di Cristo.

Chi, dopo sessant’anni di “chiesa conciliare” non vuole constatare la sede vacante, o è ignorante in materia teologica o è in mala fede. Oppure, entrambe messe assieme. L’animo candido e puro, che conosce le verità e non ha freni mondani di qualsiasi tipo è sedevacantista, anche solo nell’approccio e nell’atteggiamento, senza affermare pubblicamente di esserlo. Infatti, chi critica il Vicario di Cristo in materia di Fede e/o Morale, contravviene al dogma dell’infallibilità pontificia, si erge al disopra del Papa, con atteggiamento fallibilista e gallicano.

Al fine di una comprensione che vada oltre gli slogan dei difensori dell’eresia vaticano secondista e, quindi, dei loro massimi pastori, ritengo molto utile comprendere il Magistero ecclesiastico in materia di legittimità del Sommo sovrano Pontefice. Così si arriverà a comprendere che, nella situazione attuale, il cattolico papista è paradossalmente il sedevacantista, mentre il cattolico con approssimazione, che giunge all’eresia, è il papolatra, che, generalmente per motivi di comodo, diffonde una dottrina erronea sul papato romano, creando confusione e pericolo per le anime.

Il canone 188,4 del Codice di Diritto Canonico del 1917 è chiarissimo: “Esistono certe cause che influiscono sulla tacita dimissione di un ufficio, la quale dimissione è accettata in anteprima mediante un’operazione della legge, essendo dunque effettiva senza alcuna dichiarazione. Queste cause sono… 4) ove l’eretico fosse caduto pubblicamente lontano dalla Fede.” [124]

Papa Vigilio, Concilio di Costantinopoli II, 553 DC: “… Noi teniamo a mente ciò che fu promesso circa la Santa Chiesa e Colui Che affermò: ‘I cancelli dell’Inferno non prevarranno contro di essa.’, per essi noi comprendiamo le lingue trattanti di morte degli eretici, … ” [1]  L’indefettibilità non significa che la Chiesa Cattolica non venga ridotta ad un rimanente, siccome accaduto durante la crisi Ariana, e siccome predetto accadere alla fine. Essa non significa che degli Antipapi non regnino da Roma, Italia, siccome accaduto, o che non esista un periodo senza un Papa. Gli eretici sono definiti essere dai Papi i cancelli dell’Inferno. Sono coloro i quali asseriscono che gli eretici possono essere Papi a proclamare che i cancelli dell’Inferno sono prevalsi sulla Chiesa Cattolica. Esiste nessun singolo dogma citabile contraddicente la situazione di una Chiesa Cattolica contraffatta, capeggiata da Antipapi, opponentesi alla vera Chiesa Cattolica ridotta ad un rimanente

L’autorità è il dogma Cattolico. Asserire che l’utilizzo di un dogma sia un’interpretazione privata è un’azione condannata da Papa San Pio X. Il Concilio di Trento insegna che i dogmi sono regole infallibili di Fede Universale intese per tutti i fedeli, onde distinguere la verità dall’errore ed i Cattolici dagli eretici. La Chiesa Cattolica esistette centinaia di volte senza un Papa, per anni. La risposta include una citazione proveniente da un teologo risaputo, avente scritto dopo il Concilio Vaticano I, il quale affermò che la Chiesa Cattolica può esistere per decenni senza un Papa. Le definizioni del Concilio Vaticano I non contraddicono in modo alcuno la posizione di coloro rigettanti gli Antipapi del Vaticano II; sono offerte delle risposte alle citazioni di passaggi specifici. Infatti, solamente coloro rigettanti Antipapa Francesco possono professare fedelmente i dogmi del Concilio Vaticano I, giacché egli li rigetta completamente. È precisamente perciocché si crede nel Concilio Vaticano I e nelle di esso definizioni circa l’Ufficio Papale che occorre rigettare gli Antipapi del Vaticano II, i quali le reputavano e reputano insignificanti.

La Santa Sede ha scandito che nessun eretico può occuparla. Negare ciò equivale a giudicare la Santa Sede. Il significato originale della frase si riferisce al rendere soggetto un vero Vescovo di Roma ad un processo, avente nulla a che vedere con il riconoscere che un eretico manifesto non può essere Papa. Papa Paolo IV distrusse tale obiezione citando tale esatto insegnamento nell’esatta bolla Papale Cum ex Apostolatus Officio dichiarante l’impossibilità di accettare un eretico come il Papa. San Roberto Bellarmino detta che un eretico manifesto non può essere il Papa. Nel passaggio reso dall’obiezione egli discute di un Papa malvagio, non di un eretico manifesto. Inoltre, i sedevacantisti non depongono un Papa. Essi riconoscono che un eretico manifesto si è deposto da solo.

È un fatto dogmatico che un eretico non può essere il capo della Chiesa Cattolica, giacché è un dogma che un eretico non è un membro della stessa. Un “cardinale sotto scomunica” presuppone che la scomunica non sia avvenuta per eresia, dacché un eretico non è più un cardinale. Vi sono numerose motivazioni per cui un cardinale venga scomunicato e rimanga un cardinale Cattolico: la distinzione tra scomuniche maggiori e minori. Ciò è reso chiaro dal fatto per cui Papa Pio XII discute di punizioni Ecclesiastiche. Gli eretici sono sbarrati dal Papato non meramente per legge Ecclesiastica bensì per Legge Divina. Papa Pio XII discute di Cattolici sotto impedimenti Ecclesiastici, non di eretici. Anche se si concedesse, per scopi argomentativi, che Papa Pio XII avesse legiferato che gli eretici possano essere eletti, cosa che egli non fece, egli affermò che la scomunica di un cardinale viene sospesa solamente per lo scopo dell’elezione, tornando in vigore subito dopo. Ciò significherebbe, quando anche si concedesse per scopi argomentativi che l’obiezione sia corretta, che l’eletto eretico perderebbe il suo ufficio immediatamente dopo l’elezione.

Se la questione non importasse allora la “nuova” messa non importerebbe, l’acattolicesimo della setta del Vaticano II non importerebbe e così via. In aggiunta, se si accettassero Antipapa Francesco, Antipapa Benedetto XVI, Antipapa Giovanni Paolo II e così via come validi Papi allora si potrebbe neanche presentare la Fede Cattolica come vincolante ad un Protestante. Ciò è illustrato nel Dilemma devastante.

Il dilemma devastante dimostra che si potrebbe neppure tentare di convertire in maniera consistente un Protestante qualora si accettassero i “Papi” del Vaticano II !!!!!

Papa Paolo IV insegnò esplicitamente che non è possibile accettare come valida l’elezione di un eretico come Papa, anche se essa accadesse con il consenso di tutti i presunti cardinali, dimostrando che ciò sia una possibilità. All’inizio del Grande Scisma di Occidente tutti gli apparenti cardinali rigettarono Papa Urbano VI ed accettarono Antipapa Clemente VII.

La gente male interpreta in che cosa consista la visibilità della Chiesa Cattolica. Essa non esclude la possibilità donde la Chiesa Cattolica venga ridotta ad un piccolo rimanente alla fine, essente precisamente ciò che è predetto accadere dalla profezia Cattolica e dalla Sacra Scrittura e ciò che fu osservato durante la fase dell’eresia Ariana. La gerarchia permane assieme al minuto clero rimanente fedele alla pienezza della Fede Cattolica. La setta del Vaticano II non può essere la visibile Chiesa Universale del Cristo; infatti, una delle sue eresie è la di essa negazione della visibilità della Chiesa Cattolica. Importante, dunque, è ricordare bene che l’eresia pubblica depone un chierico dall’ufficio senza alcuna dichiarazione ex Codex 1917.

Fonte: Libro completo: La verità su ciò che è realmente accaduto alla Chiesa Cattolica dopo il Vaticano II [PDF] redatto da Fratello Michele Dimond, O.S.B., e Fratello Pietro Dimond, O.S.B.

 

 

Tabella dei contenuti

Glossario di termini e principii

PARTE I

1. La grande apostasia ed una Chiesa Cattolica contraffatta predette nel Nuovo Testamento e nelle profezie Cattoliche

2. L’orazione originale di Papa Leone XIII a San Michele: una profezia circa la futura apostasia a Roma, Italia

3. Il messaggio di Fatima, Portogallo: un segno Celeste marcante l’inizio degli ultimi tempi ed una predizione dell’apostasia dalla Chiesa Cattolica

4. Una lista completa degli Antipapi nella storia

5. Il Grande Scisma di Occidente (1378-1417) e ciò che esso insegna circa l’apostasia post-Vaticano II

6. La Chiesa Cattolica insegna che un eretico cesserebbe di essere il Papa e che un eretico non potrebbe essere una Papa validamente eletto

7. I nemici della Chiesa Cattolica, i comunisti ed i frammassoni, operarono uno sforzo organizzato di infiltrazione nella Chiesa Cattolica

8. La rivoluzione del Vaticano II (1962-1965)

9. La rivoluzione “liturgica”: una nuova “messa”

10. Il nuovo rito di “ordinazione”

11. Il nuovo rito di “consacrazione episcopale”

12. I nuovi “Sacramenti”: i tentati cambiamenti agli altri Sacramenti

13. Gli scandali e le eresie di Antipapa Giovanni XXIII

14. Le eresie di Antipapa Paolo VI (1963-1978), l’uomo il quale diede al mondo la nuova “messa” e gli insegnamenti del Vaticano II

15. Gli scandali e le eresie di Antipapa Giovanni Paolo I

16. Le eresie di Antipapa Giovanni Paolo II, l’uomo più viaggiante della storia e forse il più eretico

17. La rivoluzione Protestante della setta del Vaticano II: la dichiarazione congiunta del 1999 con i Luterani sulla giustificazione

18. La setta del Vaticano II contro la Chiesa Cattolica sulla partecipazione all’adorazione acattolica

19. La setta del Vaticano II contro la Chiesa Cattolica sulla ricezione della Santa Comunione da parte degli acattolici

20. Le eresie di Antipapa Benedetto XVI (2005-2013)

20 bis. Le eresie di Antipapa Francesco (2013-   )

Per concludere, è necessario e indispensabile chiarire che l’unica Messa Cattolica è stata codificata da S. Pio V e dispone di indulto perpetuo, ex Bolla Quo Primum Tempore, che infligge l’anatema a chiunque intenda modificarne anche un solo iota. Il Novus Ordo Missae, già ampiamente criticato dai cardinali Ottaviani e Bacci nel “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” (1969) non è cattolico ma figlio delle eresie ecumeniste conciliari.

Veniamo, infine, all’ “una cum”. 

del Rev. Abbé Hervé Belmont

Nel canone della Santa Messa, nella prima preghiera Te Igitur, il sacerdote celebrante, parlando del Sacrificio di cui è in corso l’offerta, pronuncia le seguenti parole:

… in primis, quæ tibi offérimus pro Ecclésia tua sancta catholica : quam pacifiquere, custodíre, adunáre et régere dignéris toto orbe terrárum : una cum fámulo tuo Papa nostro N. et Antístite nostro N. et ómnibus orthodóxis…

La lettera N. significa nomen e quindi indica che va sostituita con il nome del Sommo Pontefice, poi quello del Vescovo diocesano.

Il Ritus servandus in Celebratione Missæ posto all’inizio del Messale Romano detta (VIII, 2): «Ubi dicit : una cum famulo tuo Papa nostro N., exprimit nomen Papae : Sede autem vacante verba prædicta omittuntur».

In caso di posto vacante nella Santa Sede, le prime parole devono essere omesse (che sono ovviamente le sei parole che il Ritus servandus ha stampato in rosso): di queste parole soppresse, dunque, appartiene la frase una cum. È, quindi, che una cum si riferisce solo al nome del Papa, e non si riferisce al vescovo del luogo, né eventualmente al Re, né ad altri (vescovi) di buona dottrina e di unità cattolica.

Ciò non dovrebbe sorprendere, poiché qui è in questione la Chiesa militante nella sua interezza (… catholica… toto orbe terrarum…).

Una cum significa quindi in comunione con il Sommo Pontefice.

2. Fin dall’antichità la menzione del Papa nei dittici è stata considerata come appartenente all’unità della Chiesa e condizionante l’appartenenza alla Chiesa; ci troviamo nell’ordine teologico (e non solo morale e tanto meno amministrativo). Questa menzione non è una semplice intenzione di preghiera, comporta fedeltà e una certa collaborazione da parte dei presenti.

Quando, nell’anno 449, il Patriarca di Alessandria Dioscoro osò togliere il nome di San Leone papa dai dittici delle messe, la sua audacia suscitò la generale disapprovazione.

Iceforo riferisce che nel V secolo il Patriarca di Costantinopoli Acacio († 489) escluse dai dittici il nome di papa Felice II († 492). L’imperatore Costantino Pogonat andò immediatamente dal Papa per spiegare la sua resistenza a questo istigatore dello scisma. Più tardi, quando il Patriarca di Costantinopoli Fozio provocò il dissenso della Chiesa greca (858), i nomi dei Papi furono cancellati dalla liturgia scismatica.

In Occidente, il Concilio di Vaison (529), convocato da San Cesareo d’Arles, prescriveva di citare nella Messa il nome del Papa che presiede la Sede Apostolica: «Et hoc nobis justum visum est ut nomen domini Papae quicumque Sedi apostolicæ præfuerit in nostris ecclesiis recitetur” (canone 4). E ci è sembrato giusto che nelle nostre chiese si recitasse il nome del Signor Papa che sarà stato a capo della Sede Apostolica.

Papa Pelagio II (579–590) ha insegnato che omettere il nome del Papa dal canone della Messa significa separarsi dalla Chiesa universale.

Quindi non ci sono dubbi: si tratta di una cosa seria che ha conseguenze importanti che non possono essere ignorate subito.

3. Una cum Papa nostro è per il celebrante edificazione ed espressione della comunione con il Sommo Pontefice. In questo caso non si tratta di una comunione qualsiasi, ma della comunione più profonda.

Ecco l’insegnamento di Papa Benedetto XIV: «La commemorazione del Romano Pontefice durante la Messa, così come le preghiere da lui offerte durante il Sacrificio, sono — nella testimonianza e nella realtà — un segno sicuro con il quale si dichiara di riconoscere questo stesso Pontefice come Capo della Chiesa, Vicario di Gesù Cristo e Successore di San Pietro; così si fa professione di spirito e di cuore aderendo fermamente all’unità cattolica; come ben indica anche Christian Lupus, scrivendo sui Concili (volume IV, edizione Bruxelles, p. 422): Questa commemorazione è la più alta e onorevole forma di comunione». (Lettre Ex quo primum tempore, 1 er mars 1756, § 12. Benedicti Papae XIV Bullarium, Malines 1827, tomo iv, vol. 11, p. 299)

Questa effettiva dichiarazione di comunione non è fatta a beneficio di alcun membro della Chiesa; è indirizzata a colui che è riconosciuto come sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo, come regola vivente della fede, come titolare della giurisdizione sovrana e immediata su ciascuno dei cattolici, come punto di riferimento per l’unità dei la Chiesa. È, quindi, una comunione di fedeltà e di subordinazione: una comunione di intelligenza e di intenti.

4. Per la Chiesa cattolica, l’espressione una cum assume una nuova gravità. Questo perché, come avremo notato, queste due parole e ciò che esse comandano (la menzione del Papa) si riferiscono direttamente alla Santa Chiesa. È lei che, in sacrificio, si unisce a quella nominata. Ora la Chiesa è doppiamente coinvolta nel Santo Sacrificio della Messa:

A. Come beneficiario. Questo è ciò che esprime la preghiera del Te Igitur. La Messa vivifica la Chiesa: pacifica, custodisce, unifica e guida; la Messa fa tutto questo perché la Chiesa sia una e perché la Chiesa è una con il Sommo Pontefice qui nominato; la Messa lo fa in e mediante la sua unione con il Capo visibile della Chiesa, Vicario di Gesù Cristo e Sovrano dei suoi membri.

L’unità della Chiesa è il fine proprio e primario del sacramento dell’Eucaristia. Questo è l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino: “La grazia prodotta da questo sacramento è l’unità del Corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza”. [Suma Theologica, IIIa, q. LXIII,a.3]

Questa è anche la dottrina del Concilio di Trento: «[Gesù Cristo, nell’istituire il sacramento della Santissima Eucaristia] volle che fosse garanzia della nostra gloria futura e della nostra felicità eterna, insieme simbolo di questa singolare Corpo di cui egli stesso è il capo e al quale ha voluto che noi, come sue membra, fossimo legati dai più stretti vincoli di fede, speranza e carità, perché tutti professiamo la stessa cosa e non ci siano fra noi scismi. ” (Sessione XIII, De Eucharistia, c. 2, Denzinger 875)

B. Come offerente. La presenza e il primato della Chiesa come beneficiaria dell’offerta della Messa hanno un significato che ci spiega san Tommaso d’Aquino (Suma teologica, IIIa, q. XLVIII, a.3) facendo proprio un testo di sant’Agostino: “ L’unico e vero mediatore [Gesù Cristo] che ci riconcilia con Dio mediante il sacrificio della pace deve rimanere uno con colui al quale ha offerto questo sacrificio, per rendere uno in lui coloro per i quali l’ha offerto (unum in se faceret pro quibus offerebat ), per essere tutt’uno ciò che ha offerto e ciò che ha offerto”.

Coloro per i quali Gesù Cristo offre il suo Sacrificio, beneficiando della virtù santificante del sacrificio, diventano tutt’uno con il sacerdote nell’atto stesso dell’offerta. Per questo il Concilio di Trento afferma che è la Chiesa che offre la Santa Messa: “Dio, Nostro Signore […], per mezzo dei sacerdoti) sotto segni visibili” (Sess. XXII, c. 1).

Non solo il Papa è associato come capo all’essere della Chiesa, ma è associato al fine del sacrificio (che è l’unità della Chiesa) e anche all’offerta sacrificale stessa, che è offerta dalla Chiesa, dice il Concilio di Trento. È difficile diventare più intimi, più coinvolti.

5. Il canone della Messa è immacolato: tale è l’insegnamento del Concilio di Trento nella sua XXII sessione, rafforzato da un canone che rifiuta chi professa diversamente.

“La Chiesa cattolica ha istituito, molti secoli fa, il santo canone così puro da ogni errore, che non vi è nulla in esso che non respiri grande santità e pietà, e non elevi lo spirito di coloro che lo offrono a Dio”. (Denzinger 942)

“Se qualcuno dice che il Canone della Messa contiene errori e va revocato: sia anatema”. (Denzinger 953)

Coinvolgere il nome di Jorge-Bergoglio-Francesco-I non significa negare in un atto solenne questo solenne insegnamento del Concilio di Trento?

L’erede e l’aggravante del Vaticano II, assumendo e prolungando la diffusa distruzione della fede teologale che vi ebbe luogo, hanno il loro posto nel cuore del Mysterium fidei?

È possibile allearsi con lui – partecipando attivamente all’efficienza sacramentale – quando è necessario sottrarsi alla sua giurisdizione (al suo governo) se si vuole conservare la fede e salvare la propria anima?

Il nome di un profeta dell’ecumenismo, che promuove il dissenso nella fede e cerca di dissolvere l’unità della Chiesa, non deflora un’azione così santa il cui scopo è proprio l’unità della Chiesa?

Chi è intrappolato in un “sistema sacramentale” ispirato al protestantesimo, il cui fiore all’occhiello (!) è la “Messa di Lutero”, può essere nominato capo e identificatore della Chiesa cattolica che offre il Sacrificio di Gesù Cristo?

Porsi queste domande significa rispondere. Se, come abbiamo visto, è difficile fare di più intimo e più coinvolgente dell’unione di Chiesa e Papa nel Santo Sacrificio della Messa, sarebbe difficile fare di più empio e di più oltraggioso alla Chiesa di Gesù Cristo, se fosse nominato un falso papa, falsa regola di fede, e quel che è peggio, regola di falsa fede.

Si noti bene che non si tratta qui della scienza, della virtù o dello zelo di coloro che occupano la Sede Apostolica. Se gravi colpe in queste materie hanno conseguenze disastrose per il bene della Chiesa, esse non sono in alcun modo incompatibili né con l’autorità apostolica né con la loro menzione nel canone della Messa.

Dopo i disastrosi proclami e le riforme del Vaticano II, ci troviamo in presenza di carenze fondamentali, ufficiali, permanenti: riguardano la regola della fede, l’ordine sacramentale, l’offerta del Sacrificio, l’unità della Chiesa. Riguardano sia la Messa che la Chiesa, che, insegna san Tommaso d’Aquino, è costituita dalla fede e dai sacramenti della fede (IIIa, q. LIV, a. 2, ad 3).

Non è quindi per leggerezza o per spirito di opposizione all’unità della Chiesa che rifiutiamo di nominare Jorge-Bergoglio-Francisco-I nel Te Igitur: è testimonianza della fede cattolica, è richiesta di la dottrina e l’unità della Chiesa. Perché nominarlo implica necessariamente — pena la negazione della dottrina più certa — accogliere il suo insegnamento senza finzioni, sottomettersi alla sua regola senza vacillare, dare e ricevere i sacramenti sotto la sua egida… in altri errori è separarsi altrimenti dall’unità della Chiesa.

6. Anche per gli assistenti (fedeli) si pone il problema. Sono membri della Chiesa, battezzati e cresimati, deputati ad offrire con il sacerdote per il loro carattere sacramentale che è “partecipazione al sacerdozio di Cristo, derivato da Cristo stesso” (San Tommaso, Summa Theologica, IIIa, q. LXIII , a .5, c). Già san Pietro diceva: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale” (I Pietro II, 9).

Solo il sacerdote offre sacramentalmente, ma i fedeli si uniscono a Gesù Cristo in questo stesso sacrificio, per offrire il sacrificio della Chiesa. «Questa oblazione che viene dalla consacrazione è una certa affermazione (testificatio) che tutta la Chiesa concorda (consentiat), concorda con l’oblazione fatta da Cristo e la offre insieme con lui» (San Roberto Bellarmino, De missa, II, v. 4, citato da Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947).

Sebbene i fedeli stessi non pronuncino questa una cum così ferita dalla santità della Messa, vi sono comunque associati. Con la loro presenza, con la loro azione, portano collaborazione al meum ac vestrum sacrificium che il sacerdote celebra all’altare. Per discernere la moralità di questa presenza, dobbiamo fare riferimento ai principi che regolano la cooperazione al male.

Qualsiasi cooperazione formale deve essere respinta senza esitazione. Chi deliberatamente sceglie di assistere alla Messa una cum, coopera formalmente alla grave distorsione che essa comporta in relazione alla santità della Messa, in relazione all’unità della fede e della Chiesa. E abbiamo scelto ogni volta che potevamo fare diversamente, anche se dovevamo fare uno sforzo significativo (distanza, tempo, ecc.).

È anche impossibile realizzare un’immediata cooperazione materiale, come sarebbe realizzata dall’ufficio di diacono o suddiacono.

È vietata anche la collaborazione materiale, stretta oa distanza, a meno che non sussista un grave motivo per annullarla: a meno che, quindi, non sia possibile fare diversamente. Questa grave ragione deve essere proporzionata; è necessario evitare lo scandalo e combattere gli effetti negativi su di sé — perché non ci devono essere illusioni: la fedeltà, anche indiretta e odiata, a Francesco Bergoglio, a cui ci si abitua, lascia tracce profonde nell’anima e nell’integrità della fede cattolica , pur avendolo. Inoltre, se si assiste a una Messa “falsata”, si deve protestare interiormente contro la distorsione per evitare una collaborazione formale.

Quanto più stretta e abituale è la collaborazione, tanto più grave deve essere il motivo. Ci possono essere differenze di apprezzamento in questa materia, e ognuno deve decidere davanti a Dio per se stesso e per coloro di cui ha la responsabilità con molta purezza di intenzione e fede illuminata. Quanto più stretta e abituale è la cooperazione, tanto più sarà necessario cercare di sottrarsi ad essa. Quanto più stretta e abituale è la cooperazione, tanto più necessario è odiare interiormente e, di tanto in tanto, assistere esteriormente a questo disaccordo. Quanto prima e abituale sarà la cooperazione, tanto più bisognerà fare di tutto per non abituarsi ad essa (perché l’abitudine modifica il giudizio), tanto più sarà necessario educarsi a non lasciarsi trascinare in le false dottrine alla base dell’una cum Francesco.

7. La posta in gioco in una cum consiste anche in questo: la menzione di Francesco Bergoglio nel canone della Santa Messa è un male, ma è ben lungi dall’essere l’unico male esistente o possibile; non risolviamo tutto una volta che lo omettiamo. Sarebbe una grave illusione immaginare di poterci poi liberare dall’osservanza della giustizia e della carità verso il prossimo, dalla prudenza e dalla fermezza nel fare il bene, dalla lotta contro il peccato e contro l’occasione del peccato.

Sarebbe ancora e sempre un’illusione mortale credersi esenti dall’amore della verità; lo studio della dottrina cattolica in tutta la sua ampiezza; l’acquisizione e il mantenimento della naturale rettitudine dell’intelligenza, rettitudine di giudizio; doveri verso il bene comune della Città e delle diverse società di cui essa fa parte.

Peggio ancora sarebbe trovare nel rifiuto dell’una cum un pretesto per ricorrere, direttamente o indirettamente, a consacrazioni episcopali senza mandato apostolico, ovvero a quanto segue: sarebbe cercare di combattere il male con il male, sarebbe voler evitare una ferita profonda all’unità della Chiesa ricorrendo ad un attacco all’unità della Chiesa (e, in questo caso, ad un’azione più abbondante e più direttamente condannata dall’autorità della Santa Chiesa).

Lasciamo a Gesù Cristo ciò che è oggetto di una sua solenne promessa, e che quindi è sua esclusiva competenza: la perpetuazione della sua Chiesa militante fino al suo ritorno nella gloria. Intanto: «Gli uomini ci considerino ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora ciò che si richiede agli amministratori è che siano trovati fedeli”. (I Cor. IV, 1-2)

Fonte: https://medium.com/@veritatis_catholicus/lenjeu-de-l-una-cum-o-problema-da-una-cum-a436579c2c0e

 

 

Calendario Sodalitium 2023: Leone XIII e il suo magistero a 120 anni dalla morte

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Segnalazione del Centro Studi Federici

di don Francesco Ricossa

Leone XIII e il suo magistero a 120 anni dalla morte
 
Il 20 luglio 1903, 120 anni fa, moriva in Vaticano Papa Leone XIII; il 4 agosto successivo veniva eletto come suo successore il cardinale Sarto, che prese il nome di Pio X e veneriamo come nostro Santo protettore (assieme alla Madonna del Buon Consiglio, a san Giuseppe e a san Pio V). Nato nel 1810 a Carpineto Romano, e battezzato col nome di Vincenzo Gioachino Pecci, fu ordinato sacerdote nel 1837, nominato vescovo nel 1843 da Papa Gregorio XVI, creato cardinale da Pio IX nel 1853, ed eletto suo successore nel 1878. Prima della sua esaltazione al Sommo Pontificato servì la Santa Sede nella diplomazia (nunzio in Belgio), nell’amministrazione del potere temporale della Chiesa (delegato a Benevento, Spoleto e Perugia) e nel ministero episcopale (arcivescovo di Perugia).
 
Dedicandogli questo calendario, vogliamo rendere omaggio a un grande Pontefice che volle imitare un suo predecessore, l’illustre Innocenzo III, il quale riposò nella sua Perugia e di cui volle portare le spoglie a Roma.
Per ben comprendere il pontificato di Leone XIII e soprattutto il suo magistero, bisogna tener presente la sua fedeltà al Dottore comune, San Tommaso d’Aquino. Suo il grande, grandissimo merito di rimettere in onore la filosofia scolastica ed il pensiero del Dottore Angelico nell’enciclica Æterni Patris: tutto il suo insegnamento deve considerarsi come un’applicazione di questi grandi principi. A torto qualcuno ha visto nel suo pontificato una mano tesa al mondo moderno nato dalla Rivoluzione; al contrario, lo scopo del Pontefice era la restaurazione della Cristianità medioevale così ben rappresentata dal già citato Innocenzo III, erede di quella civiltà cristiana e romana ben incarnata dal patrono di Leone XIII, San Leone Magno. Contro il “diritto nuovo”, egli ricordò i grandi princìpi dello Stato e della Società cristiana, iniziando dal rammentare che la sovranità non viene dal basso, ma dall’alto, ovvero da Dio. Contro il falso concetto di libertà, ricordò, al seguito di San Tommaso, il vero e genuino concetto di libertà, che ha per oggetto il bene, e non il male. Riconobbe nella setta massonica l’opera tenebrosa di Lucifero e il nemico dichiarato della Chiesa: di tutti i Papi fu certamente il più attivo nel combattere il naturalismo massonico che oltraggiava la Chiesa in Roma stessa, col sindaco Nathan e il monumento a Giordano Bruno. Per questo fu convinto assertore dei diritti violati della Santa Sede anche quanto al potere temporale, ben conscio di come la setta massonica, attraverso la secolarizzazione della società laicizzata, l’attacco alla famiglia e l’ostacolo posto alla libertà e indipendenza del Sommo Pontefice, intendesse distruggere lo stesso Papato e con esso la Chiesa di Gesù Cristo, la rivelazione divina, la vita sovrannaturale.
 
Leone XIII ebbe modo anche di avvedersi dei prodromi della crisi che stava per manifestarsi all’interno della Chiesa stessa: per questo diede un duro colpo al movimento ecumenico con la dichiarazione sull’invalidità delle ordinazioni anglicane (Bolla Apostolicæ curaæ, 1896) e con l’enciclica sull’unità della Chiesa Satis cognitum. Diede anche le prime condanne al nascente modernismo, nel campo della spiritualità (condanna dell’americanismo con Testem benevolentiæ, 1899) come nel campo dell’attività politico-sociale (enciclica Graves de communi, 1901). Con l’enciclica Rerum novarum, sulla questione operaia, si opponeva sia al socialismo sia al liberalismo, rinnovando l’alleanza tra la Chiesa e il popolo e ponendo le basi di una società veramente cristiana. Affidò questo grande progetto alla protezione della Santissima Vergine: devotissimo alla Madonna del Buon Consiglio, Leone XIII raccomandò a tutti la recita del Santo Rosario in tante encicliche, ben sapendo come nella meditazione dei misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Resurrezione del Signore, con gli occhi e i sentimenti della SS. Vergine, il popolo cristiano avrebbe mantenuto viva la Fede.
 
Durante il suo lungo pontificato non mancarono, è vero, anche gli insuccessi. Vana fu la sua attenzione all’Oriente, nella speranza di ricondurlo all’unità cattolica. Dura fu la persecuzione che dovette subire dai nemici della Chiesa un po’ ovunque durante l’Ottocento anticlericale, dal  tedesco, ai governi massonici in tutto il mondo, specie nelle vicine Italia e Francia. Soprattutto da quel paese vennero cocenti delusioni, e sarà il suo successore, san Pio X, che con coraggio intrepido e distacco da ogni bene terreno, con libertà evangelica, affronterà la separazione tra Stato e Chiesa, la cacciata dei religiosi, la confisca dei beni della Chiesa, facendo rinascere la Chiesa di Francia e condannando le false interpretazioni del magistero leonino (come quella del Sillon). Leone XIII vide anche la stringente necessità di sviluppare e ammodernare gli studi ecclesiastici, un programma pienamente condiviso dal giovane perugino Umberto Benigni; ma sulla fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si faceva già luce il tradimento di questo bel programma da parte dei modernisti: sarà san Pio X (nominato vescovo nel 1884 e creato cardinale nel 1893 proprio da Leone XIII) a dover affrontare il pericolo mortale, per “restaurare ogni cosa in Cristo”.
 
Ogni mese del nuovo anno può essere un’occasione per i nostri lettori di leggere una o più encicliche di questo grande Papa, che abbiamo scelto, in quest’occasione, di onorare.
 
Don Francesco Ricossa
 
 
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