Fra angoscia e paura

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di Flores Tovo

Fonte: Flores Tovo

Quasi sempre si confonde l’angoscia con la paura. Trattasi invece di due stati d’animo completamente diversi. Come comprese per primo il filosofo S. Kierkegaard, la paura, o timore, è un istinto determinato da una minaccia reale più o meno incombente: un istinto strettamente legato alla propria sopravvivenza (principium conservationis). Successivamente Heidegger individuò nella sua opera “Essere e tempo” tre tipi di paura, che sono lo spavento (una paura inaspettata ed improvvisa),  l’orrore (una paura dovuta ad una minaccia che si sente essere presente) e il terrore (che è la sintesi delle prime due, e cioè inaspettata e permanente). L’angoscia è invece un sentimento, che però non è determinato da un alcunché di individuabile. Essa non scaturisce da una minaccia determinata,  ma è piuttosto un’ansia indefinita che ci spinge a decidere su una possibilità che la vita ci presenta: possibilità che sì, possibilità che no. Una possibilità che implica una libertà di scelta su fatti reali che ci condizionano.

Si può allora cercare di analizzare, nei limiti di un breve scritto, cos’è l’angoscia, distinguendola, come s’è detto, dalla paura. Essa è appunto un sentimento che genera un’ansia scaturente da un senso di inquietudine o spaesamento che può provocare uno stato di sofferenza sia individuale che collettivo. Addirittura, affermano molti psichiatri, un’ansia normale può diventare in taluni casi anche patologica, che può degenerare in forme esistenziali paralizzanti, come, tanto per fare un esempio, l’asino di Buridano. Kierkegaard, in suo capolavoro, “Il concetto di angoscia”, la esaminò come una oppressione spirituale dettata dal senso di precarietà nei confronti col mondo.  Egli scrisse a riguardo:

“L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia. Nella veglia la differenza tra l’io e l’altro da me è posta; nel sogno è sospesa… La realtà dello spirito si mostra come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua… Il concetto di angoscia è completamente diverso da quello del timore e  da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità” (1).

Va da sé che Kierkegaard, essendo un teologo cristiano, ritenne che la comparsa nell’animo umano di questo sentimento nacque col divieto divino  di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.  Tale divieto fece sorgere in Adamo (l’Uomo) la situazione emotiva del possibile e del poter scegliere. Da qui l’inquietudine angosciante che poi lo spingerà a scegliere il peccato, che altro non è, come ben comprese S. Paolo, il massimo atto di superbia da parte dell’uomo di volersi sostituire a Dio. L’angoscia non è perciò né una necessità, né una libertà astratta priva di condizionamenti, ossia non è libero arbitrio: essa è apertura verso una libertà finita, una libertà limitata e impastoiata che rivela tuttavia la possibilità prometeica da parte dell’uomo. In effetti Adamo e Prometeo costituiscono i miti basilari della storia umana.

Dal pensiero di Kierkegaard si svilupparono più tardi le opere di grandi teologi del ‘900, quali K. Barth (il commentario all’epistola di S. Paolo “Lettera ai Romani” è un’opera notevolissima), R. Bultmann, D. Bonhoeffer ed altri.  Ma fu M. Heidegger che più di ogni altro analizzò la situazione emotiva dell’angoscia, non più solo da una posizione teologico-cristiana, ma anche spiccatamente esistenziale, che riguarda il singolo uomo (l’esserci), nel suo rapporto con la morte. L’uomo è un poter-essere aperto al mondo e agli altri, epperò questa apertura si chiude con la morte, di fronte alla quale l’esserci umano individuale viene interamente isolato con se stesso: la morte è una possibilità insormontabile, scrive Heidegger, in quanto stabilisce la rinuncia ad una qualsiasi possibilità. Per cui di fronte a questo limite invalicabile gli uomini possono provare o paura o angoscia: se si è dominati dalla paura si fugge dalla morte perdendo se stessi nella dimensione del Si passivante e nello stordimento di sè, mentre se si accetta l’angoscia si vive per la morte, ossia  si aderisce con  convinzione al proprio destino sia individuale che storico attraverso, come lui la definisce, “una decisione anticipatrice”.

Questi sintetici chiarimenti filosofici ci sono serviti almeno parzialmente ad indicare  il che cosa sono  angoscia e paura, i cui significati vengono comunemente, si diceva, usati senza tener conto delle loro differenze specifiche, pur essendo entrambe le due principali situazioni emotive umane.

Di solito gli uomini sanno trarre fuori il meglio di se stessi quando il pericolo è estremo. Ebbene la soglia su cui si corre prima di cadere in un precipizio senza fondo, pare sia stata raggiunta: ma il pertugio da cui uscirne non si scorge. Anzi gli umani presenti  barcollano, come non mai, nel fitto della nebbia dirigendosi verso l’abisso. Essi sono come l’alcolizzato, che prima di essere travolto da un delirium tremens fatale, si aggrappa al collo della bottiglia per bere l’ultimo sorso. Eppure ci si trova davvero sull’orlo di un vulcano che invece di eruttare lapilli, gas e lava incandescente, probabilmente sputerà fuori bombe a fusione nucleare che possono raggiungere, una volta esplose, circa i 10 milioni di gradi. Si osserva però con un certo stupore che quasi nessuno sembra preoccuparsene. Gli unici intimoriti che si possono notare in giro sono coloro che ancora indossano la mascherina ovunque, dopo più di due anni di una presunta pandemia convidiana terrificante. La quale, invece, come ben ora si constata, si è palesata come una epidemia influenzale di diversa tipologia, che ha causato poco più o poco meno lo stesso numero di morti di quella del 2017,  ma che ancora genera ancora un senso di paura maggiore a quella di un possibile, ahimè, molto possibile, olocausto atomico: e questo perché i più degli umani sono quasi del tutto indifferenti rispetto al pericolo di una guerra nucleare, poiché esso non è sentito come una minaccia reale. Nessuno si mobilita, nessuno si organizza per contrapporsi a tale terribile rischio. L’unica preoccupazione consiste e consisterà sempre più nel dover pagare le bollette troppo care, o,  in prospettiva, di perdere il posto di lavoro (che comunque sono aspetti assai rilevanti per la vita quotidiana).  Sul pericolo mortale che si manifesta sempre più, nessun segnale di risposta attiva, nessuna contestazione, nessuna battaglia culturale, tranne quella portata avanti dai soliti quattro gatti.  La bomba non è avvertita come un pericolo mortale. Come è possibile tutto questo?

Ecco che allora i distinti significati di paura e angoscia ci tornano necessari per rispondere, almeno parzialmente, a questa domanda. La paura, alimentata ad arte dai media posseduti dai grandi gruppi finanziari proprietari pure delle grandi industrie farmaceutiche, veniva e  viene diffusa con sadica perizia dai mass-media, con la cui complicità  facevano vedere per mesi  carovane di morti, oppure ospedali e case di riposo piene di malati gravi. La paura è in effetti, più che un sentimento, un istinto primordiale di conservazione, che, fra l’altro è comune a tutti gli esseri viventi, virus compresi. Se poi viene propagandata in modo universalmente pervasivo, con celati fini politico-economici, essa diventa terrore. Per questo tutta la vicenda “pandemica” è stata un enorme atto terroristico. Cosicchè  quasi tutta l’umanità  è stata  penetrata da una paura profonda,  tramite la quale ogni forma di pensiero razionale  sparisce. Si è giunti al punto che era inutile spiegare anche a professori universitari o a persone  qualificate in senso intellettuale, come per esempio è la stragrande maggioranza dei medici, che le statistiche riguardanti la mortalità causata dal virus era nella norma degli ultimi decenni. Il terrore obnubila totalmente il pensiero. Sette milioni circa di morti in due anni su otto miliardi di umani è un dato incontrovertibile:  il tasso di letalità è stato bassissimo.  Questo, a rigore, dimostra come la paura abbia ben poco da spartire con ogni forma di razionalità, se non quella  atta alla salvaguardia di se stessi. Essa è stata vissuta come il si salvi chi può. La paura non fa pensare.

Ben più complessa è l’analisi sull’angoscia.

Se si rilegge il brano di Kierkegaard sopra riportato, troviamo scritto che l’angoscia è “la realtà della libertà intesa come possibilità per la possibilità”. Questo significa che nell’uomo Adamo si “sostantifica”, sia come dono che come dannazione, la libertà di scelta, che, sebbene realizzabile solo empiricamente, è pur sempre la nostra libertà fondamentale. Essa comporta necessariamente in sé una riflessione interna sul che cosa decidere: l’angoscia ci obbliga a pensare. Non si può scegliere alcunchè senza una riflessione. Per questo siamo dei poter-essere, cioè degli esserci che hanno, ripetiamo, nella libertà di scelta il loro fondamento sia pure nell’ambito della finitudine, e che Heidegger chiamava invero con la sua propria terminologia un nullo-fondamento, poiché caratterizzato dalla morte come possibilità invalicabile. Ma, a parte queste disquisizioni, possiamo trarre la conclusione che l’angoscia implica un legame indissolubile con un’autocoscienza che sa di pensare e che essa è del tutto differente dalla paura, che invece annienta ogni possibilità di pensiero, in quanto essa è rifiuto di ogni possibilità, il  che genera, come conseguenza, una  fuga inane dalla morte, che diventa sempre la morte degli altri. D’altra parte si potrebbe affermare che l’angoscia, essendo un sentimento, si esprime con  giudizi riflettenti sentimental-esistenziali concernenti la possibilità, simili a quelli di cui parlava Kant riguardo l’estetica, cioè riguardo il bello ed il sublime.

Gli uomini attuali, in grande maggioranza, sono caduti nella dimensione della paura terrifica. G. Anders scrisse, nel suo più importante libro “L’uomo è antiquato” (2), che l’uomo attuale è  “un analfabeta dell’angoscia”, in particolare rispetto al pericolo atomico. Una definizione apparentemente difficile da commentare, poiché se si accoglie la definizione così com’è alla lettera, si prende atto che l’uomo storico vivente non prova più angoscia, o che perlomeno l’ha tolta da sé come situazione emotiva. In realtà Anders aveva capito che la stragrande maggioranza degli esserci umani non sceglie più, e che quindi non riflette più. Essa vive totalmente dentro la propria alienazione dovuta ad una esistenza inautentica, ripetitiva e senza futuro.

Oggi soprattutto la popolazione occidentale è soggiogata dalla paura e non comprende più il senso dell’angoscia riflettente. A causa di ciò essa non sa riconoscere i veri pericoli, in quanto nessuno pensa più in modo profondo. Il dio denaro del capitalismo  ha corrotto integralmente ogni nobile aspetto umano: non c’è più il vero, il giusto, il bello, il sacro, l’etica, il senso di comunità. Alla fine ci ha privato persino del senso dell’angoscia, e con ciò ogni possibilità di essere liberi.

Ormai l’Essere, inteso come pensiero o come coappartenenza con esso da parte dell’esserci, ci ha abbandonato, per cui siamo diventati naufraghi senza nessuna isola su cui  poter approdare (3).

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Note:

1)     S. KIERKEGAARD, Il concetto di angoscia, sta in “Opere” p.130, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni editore, Milano 1993.

2)     G. ANDERS, L’uomo è antiquato, parte quarta “L’uomo è inferiore a se stesso, pp.248-253, ed. Bollati Beringhieri, Torino 2014.

3)      Si veda  F. TOVO , L’abbandono dell’essere, ivi pubblicato in aprile 2018.

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Rovigo, 5-10-2022.

Flores Tovo

Una Cappa ci impedisce di pensare

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QUINTA COLONNA

Ci si sente come don Abbondio, un “[…] vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro […], ma in questo secolo non si parla più di bravacci, di soprusi tangibili, chiaramente additabili, bensì di un clima impalpabile che permea tutto e se ne impossessa subdolamente, una brodaglia di mainstream e di politically correct che monitora attentamente che cosa sia giusto dire, fare. Non è semplice comprendere il contesto e sembra quasi che il nostro obiettivo sia ormai solo quello di ammaccarci il meno possibile e arrivare indenni alla fine della storia.

È il principio della rana bollita di Chomsky e, in fondo, ne siamo tutti consapevoli, d’altronde è così piacevolmente tiepido questo consoChomsky, rana bollita, salute, involucro, spirito, libertà, pensiero liberommé che non vale la pena scalpitare più di tanto e deglutire. Che qualcuno si prenda la responsabilità, di grazia!  Non io che non posso, ho troppo o nulla da perdere.

Marcello Veneziani ne La Cappa, suo ultimo saggio, lo fa, si prende questa responsabilità e da libero pensatore ci aiuta a osservare il presente: “Una Cappa ci opprime, la sua densità ci impedisce di vedere oltre, di leggere dentro. […] Esiste solo ciò che è dentro, tutto è inglobato, e chi vorrebbe esserne fuori, alla fine viene fatto fuori; non espulso, ma evacuato, e non in un altrove, ma nel vuoto dell’inesistenza, cancellato. La nuova inquisizione censura e corregge”.

Le fasi acute della pandemia ci hanno obnubilato, ma la cappa non è solo pandemica. C’era già prima, ma, come Proteo, si adatta ai tempi, alle paure del momento, chiude i cuori e le menti servendosi di elementi nuovi. È un’impalpabile e moderata condizione che brutalmente non permette l’oppure, l’alternativa “Eppure la vita, l’intelligenza, la libertà nascono proprio dalla possibilità d’alternativa. L’intelligenza è la spada che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante”.

Si parla di ambiente non di Natura

Grandi temi etici e sociali sono stati delineati proprio escludendo a priori idee alternative; pensiamo all’ambiente, una definizione asettica, neutra, pulita dal terriccio, che prescinde dalla Natura intesa nella sua completezza: “Perché si parla di ambiente anziché di Natura? La Natura è la realtà che noi non abbiamo creato ma che abbiamo trovato, e non dipende da noi. La Natura è un nome antico, originario che comprende con il pianeta tutti i suoi abitanti, compresi noi umani e in quanto tali ci troviamo di fronte alla malattia, alla guerra, a fare i conti con la morte, con quel mistero che abbiamo allontanato al punto da non pensarci più: “L’accettazione della morte come orizzonte della vita è l’unico modo per vivere in libertà, coraggio e dignità, senza paura. Amor fati”.

Attenti solo alla salute dell’involucro

Spaventati, ci siamo così isolati e separati dal nostro io e dagli altri, badiamo alla salute dell’involucro, ci riflettiamo narcisisticamente e onanisticamente allo specchio, curando le sopracciglia e trascurando lo spirito, abbiamo perso la passione e l’attrazione, troppo compromettente e rischioso, preferiamo rinunciare all’amore e ai legami intensi perché comportano dolore, non sono totalmente controllabili. “Il vero organo sessuale è lo smartphone. […] Chi ama se stesso sopra ogni cosa, chi vive nel proprio riflesso, fino ad autoritrarsi di continuo (selfie made man), si defila da ogni rapporto o legame per dedicarsi al culto di sé.” È una storia senza sugo, una mortadella vegana: “Propter vitam vivendi perdere causas, diceva Giovenale, per salvare la vita perdiamo le ragioni della vita stessa”.

Politicamente corretto

Usiamo le parole giuste e il lessico è sorvegliatissimo, ma deformato; cancelliamo ciò che è fuori dai parametri 2030, cancelliamo la storia, perché è imperfetta, anzi, estremamente imperfetta: “Ci sono due modi per stuprare la storia: forzarla nell’attualità o cancellarla fino a negarla. […] C’è una cappa che impedisce ormai di vedere liberamente il passato, gli autori classici e soprattutto la storia, i suoi personaggi ed eventi. Quella cappa cancella tutto quel che non è compatibile, non omogeneo all’oggi. È l’insofferenza per ogni vera differenza: è permessa la variabilità, non la varietà. […] Eleva un punto di vista ad assoluto e perenne: tutto viene relativizzato rispetto a quel punto di vista e tutto può essere rimosso e cancellato in suo nome” Il nostro tempo diventa allora protagonista assoluto e non riconosce altre autorità all’infuori di se stesso.

Bisogna stare attenti a fare le battute, anche con i colleghi, l’ironia è bandita, perché è bandito il contesto, il tessuto complesso e intelligente di strati e registri diversi, in cui un sorriso, un’occhiata aggiustava il peso della parola; ora invece solo gli emoji ci salvano.

Si creano delle crepe, tuttavia, nella cappa e nonostante vengano per lo più additate e stuccate, se ne creano delle altre… e poi altre che fanno filtrare alternative, perché gli analgesici e i palliativi non bastano e la verità si fa spazio, sempre. Nei varchi di dolore, negli spazi di realtà si ode la voce di chi non ha smesso di esercitare un pensiero libero: “E se invece compito del pensatore fosse contraddire il corso dell’epoca, scoperchiare la cappa? […] Non siamo solo corpo e materia ma anche realtà invisibile e simbolica; siamo anime pensanti. Che non ci possiamo nutrire solo di scienza e di tecnica, ma anche di mito, di rito e di sacro. Che non siamo solo il frutto di evoluzione e scambi, ma anche di tradizione e di eredità trasmesse. Che non agiamo mossi soltanto dall’utile ma anche da scopi ulteriori: ricerca del senso, del destino, dell’avventura”.

Pensare sarebbe dunque la vera novità per il tempo che verrà.

Fiorenza Cirillo, 21 marzo 2022

Una Cappa ci impedisce di pensare

 

Povera Italia! Tutto quello che esula dalla narrazione imposta è “putinismo”

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di Dalila Di Dio

LICIA RONZULLI, SENATRICE TUTTOLOGA IN QUANTO POSIZIONATA DALLA PARTE GRADITA AL MAINSTREAM, È LIBERA DI PROPINARE AI TELESPETTATORI SPAVENTOSE ABERRAZIONI…

«Intanto devo fare delle premesse: che parlo a titolo personale, che non rappresento nessuno, che condanno la Russia e che sono schierato dalla parte dell’Ucraina. Penso che quando un professore universitario prima di parlare deve fare tutte queste premesse, non penso che sia un bel clima…».

Con queste parole il professore Alessandro Orsini ha aperto il suo intervento giovedì sera, ospite di Piazza Pulita su La7.

No, non è un bel clima. Non è affatto un bel clima quello in cui, a un accademico di incontestata competenza, è consentito esprimere il proprio pensiero solo previe premesse.

La storia ricorda un po’ quella di chiunque, fino a un paio di settimane fa, volesse esprimere una posizione contro l’aberrazione del green pass: «premetto che sono vaccinato e credo ne #LaScienza» era il mantra. E, ora come allora, la premessa non serve affatto ad avvalorare la tesi proposta dal malcapitato di turno ma è più un tentativo di mitigare la reazione di parte avversa, di contenere la violenza di quelli che, ineluttabilmente dalla parte giusta, con la laurea in niente spiegavano, allora a medici e docenti di diritto e oggi ad esperti di geopolitica di chiara fama, che si sbagliano perché tutto quello che esula dalla narrazione imposta è complottismo, terrapiattismo, negazionismo, putinismo.

Peccato che, mentre al professore Orsini vengono richieste le premesse di cui sopra, altrove senatrici tuttologhe Licia Ronzulli siano libere di scorrazzare per le televisioni nazionali ciarlando di guerra e geopolitica ed affermando che «è inutile cercare le motivazioni della guerra in Ucraina nella storia». Una visione illuminante, quella della senatrice forzista, che in quanto posizionata dalla parte gradita al mainstream è libera di propinare ai telespettatori spaventose aberrazioni, senza che alcuno osi alzare il ditino per domandarle dall’alto di quali studi e con quali competenze affermi ciò che afferma.

Dopotutto, stiamo affrontando una delle crisi geopolitiche più gravi di sempre avendo al comando della nostra diplomazia Giggino Di Maio, che forte delle sue competenze maturate nel corso dei suoi studi al Liceo Classico Vittorio Imbriani di Pomigliano D’Arco, dopo aver definito Putin peggio di un animale, sentenzia: «dobbiamo indebolire pesantemente Putin e l’economia russa. Ben venga il quarto pacchetto di sanzioni, che stanno avendo un impatto clamoroso. Praticamente quando dicono che pagano solo in rubli significa che c’è già stato il default. Quanto più li indeboliamo, tanto più Putin avrà difficoltà a sostenere guerre».

Non ha bisogno di premesse, Di Maio. Lui che, purtroppo, parla a nome di una intera nazione, può andare a ruota libera senza dover premettere alcunché e senza dover spiegare come sia pervenuto alla conclusione che «praticamente quando dicono che pagano solo in rubli significa che c’è già stato il default».

Non deve neppure spiegare se ha capito che non sta giocando a Risiko. Nessuno gli domanda come intenda far fronte ai disastri che le scelte sue e del governo di cui si fregia di far parte stanno già causando all’economia italiana e alle tasche dei cittadini già in ginocchio dopo due anni di restrizioni.

A chi sta dalla parte giusta non sono richieste premesse, non è richiesto di offrire prova della propria competenza, non è domandato, a ben vedere, neppure di pensare. Già, pensare. «Siamo pagati per pensare» ha sostenuto, visibilmente provato dalle pressioni subite, Orsini.

Una affermazione deflagrante e rivoluzionaria in un tempo in cui la verità ci viene servita ogni mattina, tostata e imburrata, e alla gente è richiesto solo di mandarla giù.

Pensare. Interrogarsi. Capire che la posta in palio è altissima, che questa non è una guerra in cui un pazzo cattivo ha invaso un paese pacifico e inerme ma è il punto di rottura di una lunghissima partita geopolitica il cui approdo era chiaro e prevedibile da tempo.

Pensare. Interrogarsi. Capire perché dopo otto anni di massacri in Donbass l’occidente si sia accorto solo oggi dei profughi e dei bambini morti.

Pensare. Interrogarsi. Capire chi può trarre vantaggio a costo zero dal protrarsi di un conflitto nel cuore dell’Europa.

Pensare. Interrogarsi. Capire.
Una vera rivoluzione, in un sistema che ti consente di parlare solo dopo le dovute premesse.

Fonte: https://www.informazionecattolica.it/2022/03/13/povera-italia-tutto-quello-che-esula-dalla-narrazione-imposta-e-putinismo/