Pensioni, nel 2024 quota 103 con alcune variabili

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Giulia Schiro

A partire da oggi, mercoledì 3 gennaio, i pensionati stanno ricevendo l’assegno di gennaio, che sarà più sostanzioso grazie alla rivalutazione legata a quella che viene comunemente definita inflazione prevista. In base ai calcoli dell’Istat, la percentuale di rivalutazione delle pensioni per il 2024 è stata fissata al 5,4%. Gli assegni conterranno anche l’adeguamento alle nuove aliquote Irpef in vigore appunto da questo mese.

Nel dettaglio, le pensioni pari o inferiori a 4 volte il minimo, cioè fino a 2.272,76 euro, saranno rivalutate del 100%, come stabilito nel decreto firmato dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e dalla ministra del lavoro Maria Elvira Calderone: l’aumento effettivo nel caso della rivalutazione piena sarà dunque pari al 5,4% dell’assegno. Se, ad esempio, la pensione è di 1.500 euro lordi mensili, moltiplicandoli per 5,4% si riceveranno 1.581 euro lordi al mese, quindi un aumento di 81 euro.

Per le pensioni più alte, invece, la percentuale scende man mano che aumenta l’importo.
Nello specifico, le pensioni da 4 a 5 volte il minimo, il cui assegno va da 2.271,76 a 2.839,70 euro, saranno rivalutate dell’85%. L’aumento effettivo in questo caso è di 4,59%. Ad esempio, una pensione di 2.500 euro, moltiplicata per 4,59%, diventerà di 2.614 euro, sempre lordi mensili, con un aumento di 114 euro.
Le pensioni da 5 a 6 volte il minimo, da 2.839,70 a 3.407,64 euro, avranno una rivalutazione del 53%, con un aumento pari al 2,862%. Esempio: pensione da 3.000 euro x 2,862% = 3.085,86, con un aumento di +85 euro.
Le pensioni da 6 a 8 volte il minimo, che variano da 3.407,64 a 4.543,52 euro, saranno rivalutate del 47%, con un aumento del 2,538%. Esempio pratico: pensione da 4.000 euro x 2,538% = 4.101,52 euro, con un aumento di 101 euro.
Le pensioni da 8 a 10 volte il minimo, da 4.543,52 a 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 37%, con un aumento pari al 1.998%. Esempio: una pensione da 5000 euro x 1,998% = 5.099,9 euro, quindi un assegno più ricco di quasi 100 euro.
E infine, le pensioni oltre 10 volte il minimo, con un assegno che supera i 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 22%, con un aumento effettivo del 1,188%. Esempio: pensione da 6000 euro x 1,188% = 6.071, quindi 71 euro in più.
L’aliquota di quest’ultimo scaglione rappresenta la novità più rilevante riguardante la rivalutazione delle pensioni contenuta nella legge di bilancio 2024: per le pensioni di importo elevato, quindi esclusivamente per la classe di importo superiore a 10 volte il trattamento minimo Inps, viene fissata l’aliquota di rivalutazione del 22% invece che del 32% come nel 2023.

Come ogni anno, anche a fine 2024, l’inflazione attesa sarà confrontata con quella effettiva. Se, come avvenuto nel 2023, l’aumento del costo della vita reale dovesse essere diversa da quella prevista sarà versato un conguaglio (una tantum) nella pensione di gennaio 2025 pari alla differenza fra i due valori: se positiva ci saranno soldi in più, se negativa, purtroppo, soldi in meno.

La rivalutazione delle pensioni post rimodulazione aliquote Irpef

Un altro piccolo aumento nel 2024 arriverà grazie alla rimodulazione delle aliquote Irpef (passate da 4 a 3). La riforma Irpef avvantaggerà ovviamente anche i pensionati (al pari dei lavoratori), visto che l’imposta sul reddito delle persone fisiche viene corrisposta da chiunque abbia un reddito. In questo caso il calcolo è meno semplice, così come l’aumento relativo, perché si tratta sostanzialmente di un accorpamento dei primi due scaglioni. Non esisterà più la fascia 15.000-28.000 euro di reddito, che viene unita a quella fino ai 15.000 euro. Il nuovo schema è il seguente: prima fascia fino a 28.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 23% di Irpef; seconda fascia da 28.000 a 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 35% di Irpef; terza fascia al di sopra dei 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 43% di Irpef.

Per chi ha un reddito annuo lordo di 25.000 euro, il vantaggio fiscale sarà di 200 euro annui e salirà a 260 per i redditi superiori a 28.000 euro. Per chi ha un reddito complessivo superiore a 50.000 euro dovrebbe essere previsto un taglio lineare alle detrazioni da 260 euro che dunque vanificherà (sopra questa soglia) gli effetti della riforma, mentre i lavoratori con un reddito sotto i 15.000 euro potrebbero beneficiare di un incremento delle detrazioni dei redditi da lavoro (da 1.880 euro a 1.955 euro).

Vie di uscita anticipata più strette nel 2024

Ma la nuova legge di Bilancio non incide solo sulla rivalutazione degli importi delle pensioni, ma anche sulle possibilità d’uscita anticipata, per cui il Governo Meloni ha stabilito una vera e propria stretta, tanto che, in base alle stime, si prevede un dimezzamento delle uscite con anticipi e scivoli.

Nel dettaglio, è stata confermata Quota 103 (composta da 62 anni di età e 41 di contributi) e, nel corso dell’anno appena cominciato, potranno lasciare il lavoro anche i nati nel ’62 che raggiungeranno i 62 anni, a condizione anche di conquistare i 41 anni di attività.
Ma i lavoratori di questa classe rischiano in larga maggioranza di dover attendere di fatto il 2025 per poter lasciare effettivamente il lavoro, perché le finestre mobili fanno slittare in avanti di 7 o 9 mesi (rispettivamente per i dipendenti privati e pubblici), rispetto ai 3 e 6 mesi previsti nel 2023, la conquista del primo assegno dal momento della maturazione dei requisiti.
Solo i lavoratori privati che raggiungono le condizioni richieste nei primi 5 mesi, o nei primi 3 mesi se pubblici, potranno uscire nell’anno. Non basta. Chi andrà via con questa formula dovrà accettare anche il calcolo interamente contributivo del trattamento e non più il sistema misto (retributivo per gli anni sino al 31 dicembre 1995 o al 31 dicembre 2011 se si avevano almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), con penalizzazione dell’importo anche fino al 20 per cento. I nati nel ’61, invece, sono potuti andare via fin dall’anno appena chiuso, perché i 62 anni richiesti li hanno già conquistati nei mesi scorsi. Ma se non dovessero aver raggiunto i 41 anni di contributi, anche per loro la prospettiva è quella dei nati nel ’62. E questo vale anche per le classi di età precedenti.
Inoltre, la misura del trattamento non potrà superare i 2.272 euro lordi mensili (quattro volte il trattamento minimo Inps) sino al compimento dell’età di 67 anni.

Con il 2024 entrano nell’area di accesso all’Ape sociale i nati del 1961 (oltre che quelli degli anni precedenti che si dovessero trovare in una delle situazioni previste dalla formula nel corso dell’anno appena cominciato), ma non tutti potranno utilizzare lo strumento. L’aumento del requisito dell’età da 63 a 63 anni e 5 mesi fa sì che potranno effettivamente chiedere l’Ape sociale i nati nel ’61 che compiono gli anni fino a luglio. I nati nei mesi successivi potranno conquistare l’assegno solo dal 2025. Riguarda, come nel passato, coloro che si trovano in condizioni di disagio: disoccupati, coloro che assistono familiari disabili, persone con invalidità pari almeno al 74% e chi, con 36 anni (o con 30) di contributi, svolge lavori gravosi (come, per esempio, operai edili, autisti di mezzi pesanti, badanti, infermieri ospedalieri, maestre d’asilo, macchinisti, addetti alle pulizie). Sono stati esclusi però gli appartenenti alle 23 ulteriori categorie di lavoratori che svolgono attività gravose inserite nel biennio 2022-2023, come i professori di scuola primaria, i tecnici della salute, le estetiste e via di seguito. E sono state cancellate le riduzioni contributive per edili e ceramisti.
Non basta: è stata introdotta l’incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o autonomo a eccezione del lavoro occasionale entro un massimo di 5.000 euro annui. Resta fermo che l’assegno non potrà superare l’importo massimo fino a 1.500 euro lorde mensili, senza tredicesima e senza gli adeguamenti dovuti all’inflazione, fino alla pensione di vecchiaia a 67 anni.

Anche Opzione Donna subisce una nuova stretta: l’età minima sale da 60 a 61 anni, con uno sconto di un anno per figlio fino a un massimo di due. Dunque, potranno utilizzare la via di uscita (uscita anticipata ma pensione ricalcolata con il metodo contributivo, con una penalizzazione tra il 20 e il 25 per cento) le donne dipendenti e autonome con almeno 59 anni (se con due figli), 60 (se con un figlio) e 61 (senza figli) al 31 dicembre 2023, purché abbiano anche almeno 35 anni di contributi e rientrino in una delle seguenti categorie: invalide per almeno il 74%, disoccupate (licenziate o dipendenti di aziende in stato di crisi) o caregiver. Quest’ultime poi al momento della richiesta e da almeno sei mesi, devono dimostrare di assistere il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità. Per le lavoratrici dipendenti il posticipo dalla data di maturazione dei requisiti è di almeno 12 mesi.
Il risultato è che potranno utilizzare questa via d’uscita le lavoratrici che potevano utilizzarla anche nel 2023: le nate dal 1962 al 1964, con 59-61 anni a fine 2023. Dunque, la platea delle candidate sarà anche più ristretta di quella comunque limitata dell’anno passato.

Alla fine, il solo canale che è stato confermato in tutte le sue caratteristiche è il canale precoci che permette di andare in pensione anticipatamente con 41 anni di contributi ai lavoratori dipendenti e autonomi, che abbiano lavorato prima dei 19 anni per almeno 12 mesi. Potranno lasciare il lavoro coloro che, a prescindere dall’età anagrafica, abbiano cominciato a lavorare entro il 1983. Sempre che rientrino nelle categorie dell’Ape sociale.

Come riporta la relazione tecnica della legge di Bilancio 2024, l’anno prossimo dovrebbero accedere a Quota 103 circa 17 mila persone, a Opzione donna 2.200 e all’Ape sociale 12.500 per un totale di circa 31.200 uscite anticipate. Circa la metà rispetto alle 60 mila prospettate nel 2023.

Pensioni 2024, il tema è sempre più caldo. Le nuove ipotesi

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Segnalazione Wall Street Italia

di Pierpaolo Molinengo
Pubblicato 21 Luglio 2023 • Aggiornato 22 Luglio 2023 08:29

Un tema caldo dell’estate continua ad essere quello delle pensioni e della riforma dell’intero sistema previdenziale italiano. Oggi come oggi, secondo l’ultima rilevazione dell’Istat (che è aggiornata al 31 gennaio 2021), in Italia sono presenti oltre 16 milioni di pensionati, che in un modo o nell’altro percepiscono complessivamente 23 milioni di euro.

Quando si parla di pensioni, è importante anche sottolineare che il nostro paese, in questo momento, è al centro di una congiuntura negativa, innescata dal sovrapporsi di tre diversi fattori:

  • la bassa natalità;
  • l’invecchiamento, anche lavorativo, della popolazione;
  • uno dei tassi più bassi di occupazione dell’Unione europea.

La particolare situazione che si è venuta a creare nel nostro paese ha fatto sì che crescesse la preoccupazione legata alla spesa previdenziale, che è destinata ad aumentare nel corso dei prossimi anni. Secondo una recente stima del Centro Studi di Unimpresa, il costo totale delle pensioni dovrebbe salire a quasi 318 miliardi nel 2023. Continuerà a crescere nel corso dei prossimi quattro anni. La spesa previdenziale, almeno teoricamente, dovrebbe seguire il seguente andamento.

  • 2023: 317,9 miliardi, pari al 15,8% del Pil;
  • 2024: 340,7 miliardi, pari al 16,2% del Pil
  • 2025: 350,9 miliardi, pari al 16,1% del Pil
  • 2026: 361,8 miliardi, pari al 16,1% del Pil

Andando a vedere quanto peseranno in futuro le pensioni, risulta difficile per il governo Meloni aprire, in qualche modo, un discorso legato alle pensioni anticipate. Ma vediamo quali sono le ipotesi presenti sul tavolo.

Pensioni, le ipotesi

Quali Quote saranno adottate nel corso del 2024? Capire quale strada possa essere intrapresa dalla riforma previdenziale diventa sempre più difficile. Il problema maggiore è costituito dalle risorse, che in qualche modo il governo dovrebbe riuscire a reperire per poter superare, almeno in parte, la Legge Fornero nel corso dei prossimi anni.
Sul tavolo delle ipotesi, in questi giorni, ha fatto capolino Quota 96, che potrebbe essere riservata ai lavoratori impegnati in attività gravose e usuranti. Si parla di Quota 41 contributiva e di proroga di Quota 103.

Quota 103, si parla di una proroga

Quota 103, che prevede l’uscita dal mondo del lavoro al compimento dei 62 anni con almeno 41 anni di contributi, è destinata a finire il 31 dicembre 2023. Una delle ipotesi messe sul tavolo è che questa opzione possa essere prolungata per tutto il 2024. Si ipotizza di andare a ritoccare leggermente la misura. Per il momento questa sembra essere una soluzione percorribile.

Ricordiamo a quanti dovessero decidere di andare in pensione con Quota 103, questa misura non è cumulabile con qualsiasi altra attività lavorativa, anche se è svolta all’estero. L’unica eccezione prevista è la possibilità di svolgere un lavoro autonomo occasionale entro il limite massimo di 5.000 euro lordi ogni anno.

Pensioni: Quota 41 contributiva

L’obiettivo della Lega è quello di aprire la strada, prima della fine della legislatura, ad una Quota 41 in forma secca. La misura, almeno nelle intenzioni, prevederebbe la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età raggiunta.

Purtroppo, però, questa misura risulta essere particolarmente costosa. Si parla di una spesa prevista per il primo anno di almeno 4 miliardi di euro. Questo è il motivo per il quale si starebbe pensando ad un Quota 41 temporanea, che prevede il ricalcolo contributivo dell’assegno. Questa operazione porterebbe ad una riduzione del 10-15% della spesa prevista.

Ricordiamo che già adesso è presente una Quota 41, a cui possono accedere i lavoratori che, al 31 dicembre 1995, potevano far valere almeno 12 mesi di versamenti antecedenti al compimento del diciannovesimo anno d’età: stiamo parlando dei cosiddetti lavoratori precoci. I disoccupati, i caregiver e gli invalidi civili con oltre il 745 di invalidità hanno la possibilità di accedere a questa misura.

Pensioni: la nuova Quota 96

Una delle tante ipotesi che stanno circolando in queste ore è Quota 96. Questa misura darebbe la possibilità di andare in pensione a 61 anni con 35 di contributi. Potrebbero, però, accedere a questa misura solo determinate categorie. Tra i possibili beneficiari ci sarebbero i lavoratori impegnati in attività usuranti e gravose.

Quota 96 non è una novità assoluta nel panorama italiano, perché era già stata in vigore nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 ed il 31 dicembre 2012. All’epoca era possibile andare in pensione al raggiungimento almeno dei 60 anni, mentre i contributi non potevano essere inferiori a 35 anni. In altre parole significava andare in pensione a 61 anni e 35 di contributi o 60 anni di età e 36 di contributi

I prossimi passi e le scadenze da rispettare

Quali sono i prossimi passi della riforma previdenziale? Per il 26 luglio è stato fissato un tavolo tecnico dedicato alla flessibilità di uscita dal mondo del lavoro. I successivi incontri tra il governo e le parti sociali dovrebbero arrivare a settembre, quando si dovranno affrontare i temi legati ai trattamenti pensionistici delle donne e della previdenza complementare. Di questi argomenti se ne parlerà tra il 5 ed il 18 settembre.

Al termine di queste riunioni il governo deciderà come muoversi sulle pensioni.

Pensioni: i nuovi requisiti per accedere a Quota 103

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di Pierpaolo Molinengo

Inizia a prendere forma la pensione anticipata flessibile per il 2023: stiamo parlando di Quota 103, prevista direttamente dalla Legge di Bilancio 2023. Dal 1° gennaio i lavoratori dipendenti avranno la possibilità di andare in quiescenza al compimento dei 62 anni con 41 anni di contributi.

È bene ricordare, comunque, che i diretti interessati, fino a quando non saranno in possesso dei requisiti standard – ossia i 67 anni – percepiranno un assegno previdenziale che non potrà, in nessun caso, superare cinque volte il trattamento minimo.

Pensione, ecco cosa cambia

La Legge di Bilancio dedica ampio spazio al tema delle pensioni: si passa, infatti, dall’Ape Sociale fino ad Opzione Donna. Quest’ultima, tra l’altro, è oggetto di un importante ritocco. Vengono, inoltre, stabiliti nuovi criteri per procedere alla rivalutazione delle pensioni minime.

Ad attrarre maggiormente l’attenzione dei lavoratori, però, è senza dubbio Quota 103, che permetterà di andare in pensione con 62 anni e 41 di contributi. Si tratta, in altre parole, di una sorta di Quota 41 con alcune modifiche.

Ma come funzionerà nel dettaglio questa nuova misura? A spiegarlo è stata la stessa Giorgia MeloniPresidente del Consiglio, che nel corso della conferenza stampa di presentazione della Manovra ha affermato che “chi decide di entrare in questa finestra, fino a maturazione dei requisiti, non potrà prendere una pensione superiore a cinque volte la minima”. In altre parole questo significa che, quanti hanno intenzione di andare in pensione tra i 62 ed i 67 anni, riceveranno un assegno previdenziale che non potrà superare un determinato limite.

Quota 103 ha un altro limite: fino a quando non vengono maturati i requisiti per accedere alla pensione di vecchiaia, non è cumulabile con i redditi da lavoro dipendente o autonomo. L’unica eccezione è rappresentata da quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, che devono, comunque, rimanere al disotto dei 5.000 euro lordi l’anno.

Un premio per chi rimane al lavoro

Chi dovesse decidere, invece, di non andare in pensione e volesse rimanere al lavoro – anche se è in possesso dei requisiti per l’anticipata – riceverà un bonus. Questa sorta di premio è costituita da un esonero contributivo del 10%, che permette un aumento dello stipendio della stessa misura.

La Manovra contiene anche la proroga dell’Ape Sociale e di Opzione Donna, anche se in quest’ultimo caso sono state introdotte alcune modifiche. Sostanzialmente, quindi, viene confermata la pensione per i lavori usuranti, disoccupati, invalidi e caregivers.

Per quanto riguarda Opzione Donna, invece, è importante segnalare che le lavoratrici avranno la possibilità di andare in pensione con 35 anni di contributi. Devono, però, accettare il calcolo contributivo dell’assegno previdenziale, nei seguenti casi:

  • a 58 anni d’età per donne con due o più figli;
  • a 59 anni con un figlio;
  • a 60 anni negli altri casi.

Sicuramente queste novità sono particolarmente interessanti per i lavoratori. Giorgia Meloni ha comunque ribadito che l’obiettivo dell’esecutivo è quello di procedere verso una nuova riforma delle pensioni, che sarà completata entro la fine del prossimo anno. Le misure che vengono introdotte come la Legge di Bilancio 2023 sono transitorie, perché, in questo momento, i tempi sono troppo stretti per completare una riforma previdenziale.

Riforma pensioni al palo: Ue boccia Quota 102 e Opzione donna

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Segnalazione di Wall Street italia

di Alessandra Caparello

E’ ancora aperto il cantiere per la riforma delle pensioni e, stando così le cose, non sembra che si chiuderà a breve. Per ora si fanno solo ipotesi su quelle che potranno essere le nuove misure previdenziali che entreranno in vigore forse il prossimo anno.

In primo luogo il prossimo anno, già sappiamo, che non ci sarà più quota 102. Il 31 dicembre 2021 è andata definitivamente in soffitta Quota 100, l’anticipo pensionistico del precedente governo Conte. Per sostituire il vuoto creato con l’addio a quota 100, il governo Draghi ha previsto una nuova misura, quota 102.

Riforma pensioni: quota 102 addio dal 2023

Quota 102 dà il diritto alla pensione anticipata al raggiungimento, entro il 31 dicembre 2022, di un’età anagrafica di almeno 64 anni e di un’anzianità contributiva minima di 38 anni. I nuovi requisiti pensionistici devono essere maturati entro il 2022. In base alla relazione tecnica del Ministero dell’Economia e delle Finanze, quota 102 peserà per 1,6 miliardi di euro in manovra e permetterà di accedere al pensionamento anticipato a una platea di circa 60 mila lavoratori nei prossimi 4 anni. Dalle 5 alle 10 volte in meno rispetto a chi ha usufruito di Quota 100, che ha avuto un costo per il 2019 di 2,18 miliardi di euro e di 3,53 miliardi nel 2020.

Commissione Ue contro quota 102 e Opzione donna

A bacchettare l’Italia per quota 102 è la Commissione Europea che nel Country Report sull’Italia incluso nel cosiddetto pacchetto di primavera afferma che la spesa per pensioni è destinata ad aumentare a causa degli sviluppi sfavorevoli della demografia. Ma Bruxelles fa notare che a trainare le uscite pensionistiche nel breve e nel medio termine sono anche le numerose deroghe alla legge Fornero introdotte negli ultimi anni.

Nel mirino quindi non solo quota 102 ma anche il predecessore “Quota 100”, “Opzione donna” e i programmi di pensionamento anticipato per i vulnerabili, cioè le misure più o meno temporanee pensate dall’Italia per favorire l’uscita dei lavoratori verso la pensione. Ciò si tradurrà a conti fatti in un diniego della proroga di quota 102 anche per il prossimo anno. Le proposte sul tavolo?

Riforma pensioni: la proposta del presidente Inps

Sulla flessibilità del sistema pensionistico ne parliamo da troppo tempo e probabilmente nemmeno questa legislatura riuscirà a chiudere questo cantiere: almeno non mi sembra che questo capitolo sia in procinto di essere chiuso»

Così ha detto il presidente dell’Inps in occasione di un convegno organizzato dall’Università la Sapienza per la presentazione del Rapporto sullo stato sociale 2022 a 35 anni dalla scomparsa di Federico Caffè. Tridico con l’occasione ha anche rilanciato la sua proposta di riforma previdenziale che consente una volta giunti alla soglia anagrafica dei 63-64 anni l’uscita con l’anticipo della sola quota contributiva della pensione per poi recuperare anche la parte retributiva al raggiungimento dei 67 anni d’età.

La proposta di Tridico è quella di puntare a consentire l’uscita dal lavoro a chi ha 63 o 64 anni, potendo però fruire di una pensione basata solo sulla quota contributiva fino ai 67 anni, quando scatterebbe l’integrazione basata sul retributivo.

La proposta dei sindacati: Quota 41

Cgil, Cisl e Uil continuano a invocare la riapertura del tavolo ribadendo che la loro posizione punta sul pensionamento a 62 anni o alla maturazione di 41 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica.

Il governo conduca in porto una riforma del sistema previdenziale che dia alle pensioni maggiore consistenza, sostenibilità sociale e inclusività, soprattutto per giovani e donne” e una maggiore flessibilità in uscita ” permettendo ad ogni persona di uscire liberamente dopo 41 anni di contributi o raggiunti i 62 anni di età“.

Così il leader Cisl, Luigi Sbarra dal palco del XIX congresso sindacale, a riaprire la madre di tutte le trattative che neanche questo governo sembra in grado di poter chiudere, la riforma della legge Fornero.

“L’esecutivo vada oltre le istruttorie tecniche, e faccia ripartire subito il confronto in sede politica sulle nuove pensioni, individuando risposte concrete e coerenti con la nostra piattaforma. Una piattaforma che si coniuga con le pensioni di garanzia per i giovani e i forti sconti contributivi per le donne e le madri; con un’ Ape sociale strutturale e l’allargamento della platea ai lavori usuranti e pesanti; con una valorizzazione dei fondi pensione, come colonna aggiuntiva indispensabile per garantire dignità alla terza età. E poi il capitolo flessibilità con cui uscire dal lavoro “o con 41 anni di contribuzione o a 62 anni di età”: “anche questa, soprattutto questa, è sostenibilità”.

Quota 41 inoltre piace anche alla Lega.

Stiamo lavorando insieme a tutte le forze sindacali per quota 41, per superare entro il 31 dicembre di quest’anno e azzerare la sciagurata legge Fornero”, spiega il leader della LegaMatteo Salvini, a margine del XIX Congresso confederale della Cisl , sottolinea “l’assoluta sintonia” sulle pensioni con la Cisl. “La necessità di tutelare lavoratori e pensionati è un impegno comune”.

Pensioni: con la riforma Irpef aumenti fino a 744 euro annui

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Alessandra Caparello

Con la riforma dell’Irpef prevista dalla legge di Bilancio 2022, le pensioni avranno aumenti medi di 210 euro annuo. A dare i numeri è il ministero dell’economia e delle Finanze rispondendo ad un question time in Commissione Finanze alla Camera.

Riforma Irpef 2022: cosa prevede

Soffermandoci in primo luogo sulla riforma dell’Irpef, l’Imposta sul reddito delle persone fisiche, l’ultima Legge di bilancio ha introdotto 4 nuovi scaglioni che sono nel dettaglio:

  • fascia di reddito fino a 15mila: resta al 23%,
  • fascia di reddito 15-28mila: passa dal 27% al 25%,
  • fascia di reddito 28-50mila: passa dal 38% al 35%,
  • oltre i 50mila: si passa direttamente al 43%.

Vengono quindi tagliate le aliquote Irpef per i redditi tra 15.000 e 55.000 euro (che rappresentano il 50% dei contribuenti italiani), il che significa che chi ha un reddito compreso in questa fascia pagherà il 2% o il 3% di tasse in meno rispetto a prima. Nulla cambia per i redditi più bassi, fino a 15.000 euro, e per quelli più alti, da 75.000 euro in su: le aliquote restano invariate, pertanto pagheranno all’incirca la stessa Irpef.

Riforma Irpef: cosa cambia per le pensioni

Cosa cambia per le pensioni lo illustra sempre durante il question time il sottosegretario all’Economia, Federico Freni che con l’occasione ha fornito le tabelle con le proiezioni realizzate dal Mef.

Ebbene, i pensionati interessati dalla misura sono in totale 10 milioni e 292mila e la media di incremento dell’assegno è di 211 euro all’anno, ma con una ripartizione diversa base agli scaglioni di reddito. Il beneficio maggiore spetta a redditi medio alti, mentre per le fasce più basse l’aumento è di poche decine di euro al mese. Ma andiamo nei dettagli.

Per lo scaglione compreso tra 15mila e 30mila euro, circa 4 milioni e 900mila pensionati, l’aumento medio è di 167 euro all’anno, sotto i 14 euro mensili.

Per i 2 milioni di pensionati con reddito tra 30mila e 55mila euro, l’aumento annuale è di 308 euro, pari a 25 euro al mese.

Poi ci sono 95mila pensionati, con una fascia di reddito inclusa tra i 50mila e i 55mila euro e con assegno aumentato di ben 744 euro. E ancora, per i pensionati che rientrano nella fascia di reddito tra i 55mila e i 70mila euro, il ritocco annuo è di 495 euro, circa 41,25 al mese  da ultimo  i pensionati sopra i 75mila euro, che avranno un aumento di 270 euro annui, pari a 22,5 in più sull’assegno mensile.

In sostanza, nella fascia di reddito 15-28 mila euro (la più numerosa con 4,9 milioni di contribuenti) il beneficio medio annuo è stimato in 167 euro. Mentre il vantaggio più corposo è di 744 euro medi annui nella fascia 50-55mila euro, dove però i contribuenti sono poco meno di 96mila.

Si tratta di un primo passo, certamente non sufficiente, anche perché non spalmato in maniera progressiva, che ci impegna per il futuro a fare di più e meglio”, spiega Fragomeli del PD, primo firmatario del question time commentando le tabelle del Mef.

Fonte: https://www.wallstreetitalia.com/pensioni-con-la-riforma-irpef-aumenti-fino-a-744-euro-annui/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter:%20Wall%20Street%20Italia&utm_content=pensioni-con-la-riforma-irpef-aumenti-fino-a-744-euro-annui&utm_expid=24d0ca8f6aa04e501a1696e2bb16eb15a1464a4f6d2645e107c1efc8f8ee3e0f

Draghi molla il tavolo con i sindacati: rottura sulle pensioni, verso lo sciopero

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di Adolfo Spezzaferro

Roma, 27 ott – E’ rottura sulle pensioni, con il premier Mario Draghi che lascia il tavolo con i sindacati: “Ho un altro impegno, indietro non si torna“. Cgil, Cisl e Uil, che chiedevano una trattativa, verso la mobilitazione: “Nessuna risposta, troppo poco per gli ammortizzatori“. Draghi dunque tira dritto sulle pensioni: “Transizione graduale verso la normalità”, ossia il ritorno alla legge Fornero. E’ quella – secondo il premier – l’unica riforma possibile, quella peraltro imposta dalla Ue.

Pensioni, rottura governo-sindacati. Draghi respinge le richieste di Cgil, Cisl e Uil

Il premier non ascolta i sindacati sul fronte delle pensioni. “Possiamo discutere di quota 101, 102 o anche 102,5, ma il percorso progressivo verso il sistema contributivo non cambia. Indietro non torniamo, perché il sistema previdenziale retributivo ha creato delle vulnerabilità che tutti anche all’estero ci rimproverano“. Dopo un incontro di quasi tre ore, è rottura con i sindacati, che chiedevano una riforma complessiva delle pensioni. E Draghi prende e se ne va, ha un altro impegno “programmato”. Circa la riunione, il premier non nasconde l’irritazione: “Non mi aspettavo un intervento tanto polemico, con 3 miliardi sugli ammortizzatori sociali e 8 sulla riduzione delle tasse, mi sarei aspettato un atteggiamento diverso. La manovra è un pacchetto corposo di misure”. E’ la prima rottura tra governo e parti sociali. Ora i sindacati valuteranno la mobilitazione e un possibile sciopero generale.

Sindacati pronti allo sciopero generale

“Se il governo va avanti in questa direzione valuteremo il da farsi. Noi siamo pronti al confronto. Se il governo ci ascolterà nei prossimi giorni bene, altrimenti adotteremo le iniziative di mobilitazione più adatte con Cisl e Uil“. Così il segretario della Cgil Maurizio Landini a margine dell’incontro con Draghi a Palazzo Chigi, giudicato “insoddisfacente”. Luigi Sbarra della Cisl parla di “grandi insufficienze e squilibri, per effetto del mancato dialogo con le parti sociali“. Le misure sono “largamente insufficienti sia per le pensioni, che per gli ammortizzatori sociali e per la non autosufficienza“, aggiunge. Non bastano soli 600 milioni, sottolinea Pierpaolo Bombardieri della Uil: “Non è una riforma degna di questo nome. Noi ci battiamo per garantire pensioni dignitose ai giovani e alle donne“. Tutto dipenderà dunque da cosa deciderà domani il Cdm con il varo della legge di Bilancio. Sabato al più tardi i sindacati faranno sapere come intendono muoversi.

Il premier deve trovare la quadra anche con la Lega

Il superamento di Quota 100, misura di bandiera della Lega, è un problema anche interno alla maggioranza, con Salvini che vuole strappare un compromesso per potersi intestare la non sconfitta. L’ultima opzione all’esame dei tecnici è stata costruita attorno al requisito fisso dei 41 anni di contributi, sulla falsariga di quella Quota 41 cara alla Lega. Ossia la possibilità di uscita al raggiungimento appunto del 41esimo anno di contribuzione, con un’età minima di 62 anni. Misura che però non avrebbe le coperture necessarie.

Draghi tira dritto perché i saldi sono decisi e la legge di Bilancio in sostanza sarà approvata così com’è, anche perché è convinto che con la Lega troverà un accordo. Allo stato attuale dunque il premier non sembra preoccupato all’idea di uno sciopero dei sindacati.

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/politica/draghi-molla-tavolo-sindacati-rottura-pensioni-verso-sciopero-212304/

Crisi demografica, l’Europa dell’Est non cede ai ricatti: “Immigrazione non è soluzione”

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Roma, 2 ott – L’immigrazione di massa è la vera soluzione alla crisi demografica dell’Europa? Ammesso che di soluzione si tratti, questa “grande sostituzione” applicata alla realtà è inutile e dannosa. Per tutta una serie di motivi, a partire dal fatto che gli immigrati invecchiano come tutti gli altri e quindi il problema di ripresenterebbe ex novo negli anni a venire. Senza poi considerare tutti gli altri costi, ivi compresi quelli previdenziali (altro che il “pagano le nostre pensioni”). Dati e circostanze che, laddove dalle nostre parti la sinistra continua a battersi in preda ad un disturbo ossessivo-compulsivo, nell’Europa dell’Est sembrano ancora essere di buon senso.

La conferenza di Budapest: meno immigrazione, più politiche di aiuto alla natalità per sconfiggere la crisi demografica

Pochi giorni fa a Budapest si è tenuta una conferenza proprio sull’inverno demografico del vecchio (potremmo dire in tutti i sensi) continente, alla quale hanno preso parte i capi di Stato e di governo delle nazioni dell’Europa dell’est. Raggiungendo un’intesa che sbugiarda la narrazione dominante e fatta propria, tra gli altri, anche dall’Unione Europa.

Leggi anche: Sostenere la natalità, non l’integrazione degli immigrati. La Ue cambi prospettiva

I leader di Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Serbia e Slovenia hanno infatti firmato una dichiarazione in cui rifiutano categoricamente di usare l’immigrazione per risolvere la crisi demografica. Impegnandosi al contrario a promuovere politiche attive per favorire la natalità. A spingere di più su questa proposta sono stati il primo ministro magiaro Viktor Orban e il suo omologo ceco Andrej Babis, i quali stanno già facendo una campagna elettorale basata su una forte opposizione all’immigrazione in vista delle elezioni che si terranno nei prossimi mesi.

Giuseppe De Santis

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/esteri/europa-est-rifiuta-grande-sostituzione-immigrazione-crisi-demografica-209091/

Pensioni: I’INPS calcola i costi della riforma, Quota 41 la soluzione più cara

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di Mariangela Tessa

Mentre si avvicina il momento dell’addio a Quota 100, l’INPS mette nero su bianco i costi di tre delle strade possibili per riformare le pensioni. Lo fa nel XX rapporto annuale, presentato alla Camera dal presidente dell’Istituto, Pasquale Tridico, che fotografa anche la risposta del nostro sistema di Welfare alla crisi pandemica.

Ecco le caratteristiche essenziali delle tre proposte:

1- Quota 41 anni si riduce il requisito dell’anzianità contributiva a 41 di anni di contribuzione per l’accesso alla pensione anticipata sia per gli uomini che per le donne (lasciando inalterata la finestra trimestrale per la decorrenza della pensione).  È la più cara per le casse dello stato: il livello di maggior spesa pensionistica è crescente: si va dai 4,3 miliardi del 2022 a 9,2 miliardi alla fine del decennio. Dunque, una riforma costosa che nell’anno di maggior costo impegna circa lo 0,4% del prodotto interno lordo.

2 – Opzione al calcolo contributivo: si introduce un requisito di flessibilità che permetta a tutti l’uscita anticipata con i requisiti previsti per i lavoratori del sistema contributivo (64 anni di età e almeno 20 di anzianità contributiva con un importo minimo della pensione pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale). A causa della limitata possibilità di accesso per i lavoratori autonomi e per le donne, si propone in alternativa un requisito di almeno 64 anni di età e 36 anni di contributi, senza il limite sul valore dell’assegno.

La seconda proposta, considerata più equa in termini intergenerazionali, produrrebbe risparmi già poco prima del 2035 per effetto della minor quota di pensione dovuta all’anticipo ma soprattutto ai risparmi generati dal calcolo contributivo, ma nella fase di innesco farebbe lievitare la spesa di quasi 1,2 miliardi nel primo anno con un picco di 4,6 e 4,7 miliardi nel quinto e sesto anno del tratto decennale.

3 –  Anticipo della quota contributiva della pensione: si permette ai lavoratori del sistema misto l’anticipo pensionistico della sola quota di pensione contributiva al raggiungimento dei seguenti requisiti: almeno 63 anni di età, almeno 20 anni di contribuzione e un importo minimo di 1,2 volte l’assegno sociale. Al raggiungimento del requisito di vecchiaia al lavoratore viene riconosciuta anche la quota retributiva della pensione.

Proprio quest’ultima ipotesi, che è stata promossa nelle scorse settimane da Tridico, è quella che presenta i costi più bassi per il sistema pensionistico: si partirebbe con non più di 443 milioni il primo anno per arrivare a poco più di 2 miliardi nell’ultima annualità su un arco decennale.

Il Fascismo e le pensioni agli italiani. La verità storica è più forte delle bufale di Aldo Grasso

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di Francesco Severini

Il Fascismo e le pensioni agli italiani. La verità storica è più forte delle bufale di Aldo Grasso

Fonte: secolo d’Italia

Sulla prima pagina del Corriere della sera del 7/11/2018 Aldo Grasso confuta la “bufala” (secondo lui) delle pensioni introdotte dal fascismo in Italia, spiegando ai lettori che tra le “cose positive” che il regime mussoliniano ha introdotto non c’è l’Inps, come alcuni ripetono senza documentarsi a dovere. E scrive che l’Inps nacque invece nel 1898, mentre la pensione sociale arriva solo nel 1969, quando il fascismo era caduto da un pezzo. Una ricostruzione non corretta, fa notare il giornalista e scrittore Gianni Scipione Rossi: “Aldo Grasso – scrive Rossi in una nota su Fb – dimentica la sostanziale differenza tra l’assicurazione pensionistica volontaria per operai e impiegati, nata in Italia nel 1898, e quella obbligatoria, nata nel 1919, dunque prima del governo Mussolini”.  Continua a leggere

Immigrazione: quanti falsi miti da sfatare!

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Risultati immagini per stop immigrazionedi Tatiana Santi

“Fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare”, “pagano le pensioni agli italiani”, “solo loro fanno figli in un Paese morente”. Il presidente dell’Inps Boeri vede proprio nell’arrivo di nuovi immigrati la soluzione a tutti i problemi italiani. Gli immigrati sono davvero così indispensabili?

Mentre i giovani italiani scappano all’estero in cerca di un lavoro e mentre le famiglie rinunciano a fare figli per mancanza di sicurezze, secondo il presidente dell’Inps Tito Boeri l’Italia ha bisogno di immigrati. Sarebbe curioso capire se Boeri si riferisce ad altri immigrati ancora che finirebbero a lavorare sui campi senza contratto, quindi sottopagati e senza alcun diritto. Il cosiddetto lavoro che gli italiani non farebbero più.

Per quanto riguarda il calo demografico, fenomeno preoccupante per il Paese, i dati Istat hanno mostrato come a fare meno figli siano tutti, italiani e immigrati. A mancare sono le sicurezze e il lavoro per poter mantenere una famiglia con i bimbi. Al di là della propaganda e delle dichiarazioni politiche del presidente dell’Inps, quali sono i miti legati all’immigrazione ancora da sfatare? Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista Laura Tecce, giornalista e sociologa.

Laura Tecce, qual è il suo punto di vista sulla dichiarazione di Boeri in merito alla necessità di una maggiore immigrazione per pagare le pensioni ai contribuenti?

Questo è lo slogan di tutti gli immigrazionisti, di chi è pro immigrazione e pro sostituzione della popolazione italiana, perché di questo si tratta. Boeri, che è il presidente dell’Inps, messo a capo dell’ente previdenziale da Renzi nel 2015, ha fatto dichiarazioni assolutamente opinabili. Ha affermato che l’invecchiamento della popolazione, il declino demografico e la fuga dei giovani all’estero possono essere compensati solo dagli immigrati.

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