Schiaffo dai Sauditi: perché Biden non può che rimproverare se stesso

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Riyad allineata a Mosca? Lettura semplicistica e autoconsolatoria, ecco gli errori Usa: produzione nazionale bloccata da agenda green; sauditi maltrattati; Europa abbandonata

di Federico Punzi

Alla fine è arrivato il sonoro schiaffone dell’Arabia Saudita all’amministrazione Biden. Ieri, a Vienna, l’Opec+, il cartello che riunisce i principali Paesi produttori di petrolio più la Russia, ha deciso un taglio della produzione di ben 2 milioni di barili al giorno. E questo nonostante da mesi Washington chieda a Riyad di aumentare la produzione per raffreddare i prezzi.

Il presidente Joe Biden si era speso in prima persona recandosi in visita nel Regno, nel luglio scorso, e ricevendo critiche in patria per un saluto pugno a pugno ritenuto troppo complice con il principe ereditario Mohammad bin Salman.

Atto ostile: ma di chi?

Qualche ora prima della decisione la Casa Bianca aveva fatto circolare, via Cnnparole durissime sulla prospettiva di un taglio della produzione: “disastro totale”“atto ostile”.

La reazione alla decisione non si è fatta attendere. “Il presidente è deluso dalla miope decisione” e “si consulterà con il Congresso sugli strumenti per ridurre il controllo dell’Opec+ sui prezzi dell’energia”.

Un proposito che suona beffardo, perché Washington avrebbe un modo molto semplice per “ridurre il controllo” dell’Opec: aumentare la sua produzione nazionale, che invece, fin dal primo giorno in cui si è insediata, l’amministrazione Biden ha sistematicamente sabotato.

Ora Biden torna a supplicare l’industria petrolifera Usa, la stessa che in campagna elettorale aveva promesso che avrebbe fatto chiudere (letteralmente: “I guarantee you, we’re going to end fossil fuel”), di abbassare i prezzi dei carburanti.

E apre ad un nuovo rilascio di riserve strategiche per calmierare i prezzi. Di fatto, le sta prosciugando nel tentativo di evitare una sonora sconfitta alle elezioni di midterm, che si terranno tra circa un mese.

Un funzionario dell’amministrazione ha rivelato che la Casa Bianca ha segretamente offerto all’Opec+ di acquistare fino a 200 milioni di barili del suo petrolio a 80 dollari al barile per rimpinguare le riserve strategiche, oggi ai minimi storici, in cambio della rinuncia a tagliare la produzione.

E bisogna ricordare che nel 2020 i Democratici bloccarono la proposta di Trump di riempire le riserve con il petrolio dei produttori Usa, provati dalla pandemia, acquistandolo ad un prezzo di soli 24 dollari al barile.

Il vero atto ostile è quello dell’amministrazione Biden contro l’industria oil & gas Usa, ostacolata con ogni mezzo, fermando progetti infrastrutturali e bloccando nuove concessioni, come abbiamo già raccontato su Atlantico Quotidiano. Oggi la produzione in America, stima Robert Bryce (The Power Hungry podcast), è inferiore del 7 per cento al periodo pre-Covid.

Biden ha pensato di cavarsela ottenendo dall’Opec+ un aumento della produzione, evitando così di dover aumentare la produzione nazionale, e quindi di scontentare i gretini del suo partito. Quello che ha ottenuto, invece, è aver reso l’America più vulnerabile alle decisioni dell’Opec+, aver aiutato Putin e alimentato l’inflazione.

La mossa dell’Opec infatti va anche a contrastare gli sforzi della Fed per raffreddare l’inflazione. Se il rialzo dei tassi diminuisce la domanda di petrolio, abbassandone i prezzi, il taglio della produzione deciso ieri lo compensa almeno in parte, costringendo la Fed ad un ulteriore rialzo, che però spingerà ancor di più l’economia Usa verso la recessione.

Lo ripetiamo: in America, così come in Europa, l’obiettivo della decarbonizzazione, di uscire dalle fonti fossili, è una follia insostenibile. Ma lo è ancor di più in concomitanza con la guerra economica alla Russia.

Riyad si schiera con Mosca?

Fin troppo facile concludere che l’Arabia Saudita ha deciso di schierarsi con la Russia e contro l’Occidente. È proprio così? La realtà è più complessa.

L’Opec+ si mostra “allineata con la Russia“, ha affermato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, e leggerete molte analisi in tal senso. Ma è proprio questo genere di letture a far letteralmente imbufalire Riyad, perché dimostrano come a Washington gli interessi sauditi siano totalmente snobbati.

Per dare la misura dell’irritazione di Riyad su questo tema, proprio ieri, durante la conferenza stampa al termine della riunione dell’Opec+, il ministro dell’energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, si è rifiutato di rispondere ad un giornalista della Reuters, rimproverando all’agenzia di aver pubblicato una falsa storia di collusione tra Arabia Saudita e Russia utilizzando una fonte anonima. Purtroppo ormai certa stampa si è fatta prendere la mano dalle storie di collusione con la Russia…

Alla base della decisione di ieri dell’Opec+ ci sono valutazioni certo economiche e innegabilmente anche di natura politica. Ma non banalmente dettate dalla volontà di “schierarsi” dalla parte di Putin e contro l’Occidente. Questa lettura caricaturale, anzi, rischia di essere un regalo a Mosca.

Una reazione al price cap

Non solo i segnali di recessione globale e l’obiettivo dei Paesi Opec+ di tenere il prezzo del petrolio al di sopra dei 90 dollari (fino a ieri era poco sopra gli 80). Come molti avevano avvertito, questa decisione è una reazione – economica e politica – al price cap sul petrolio russo, esteso anche ai Paesi terzi che volessero rivenderlo.

Se il miglior modo per tagliare gli introiti di Putin è tenere bassi i prezzi di gas e petrolio, la misura ha avuto un effetto contrario, spingendo gli altri Paesi produttori a difendere il prezzo del petrolio, ma soprattutto a sanzionare quello che viene giustamente considerato, dal loro punto di vista, un precedente pericoloso.

Gli interessi sauditi

Questi Paesi, Arabia Saudita in testa, non si sono schierati ideologicamente con Mosca, ma sono stati costretti dalle nostre scelte a difendere il loro interesse nazionale con esiti che li fa apparire vicini alla Russia.

Come ha spiegato Mohammed Alyahyasenior fellow dell’Hudson Institute, questo genere di letture sembra negare a Ryad il suo diritto a considerare i propri interessi e sembra presumere che l’Arabia Saudita sia un attore irrazionale e inaffidabile. Ma questo è un presupposto “falso e pericoloso”.

E ricorda come nell’aprile 2020, in piena pandemia, Riyad abbia combattuto “con le unghie e con i denti” una guerra dei prezzi contro la Russia, vincendola. Non per ragioni politiche, ma per proteggere l’Opec+ e difendere la propria leadership nei mercati energetici, il suo ruolo di gestore e stabilizzatore del mercato.

Nulla è cambiato oggi, si tratta di interessi. L’interesse saudita è anche oggi proteggere l’Opec+ in quanto organizzazione. Ma questo a Washington non sono sembrati in grado di comprenderlo.

Tra l’altro, fa notare lo studioso, il taglio effettivo è di un milione di barili, non due, perché molti Stati membri dell’Opec+ già oggi non riescono a soddisfare le loro attuali quote di produzione, nella misura di un milione di barili.

Con il taglio odierno, sostiene Alyahya, gli Stati del Golfo avranno una maggiore capacità inutilizzata per far fronte alle interruzioni che saranno causate dalle sanzioni Usa-Ue sul petrolio russo. Senza questa ulteriore capacità inutilizzata, non sarebbero in grado di mantenere i mercati in equilibrio.

Un’analisi condivisa da Gregg Carlstrom dell’Economistil mercato petrolifero è un “casino” in questo momento. L’Opec+ ha poca capacità inutilizzata; molti produttori non riescono a rispettare le proprie quote; le sanzioni alla Russia stanno “biforcando” il mercato.

I sauditi hanno “un interesse razionale” a mantenere prezzi alti e stabili, e il settore petrolifero abbastanza redditizio da consentire alle compagnie di investire nella costruzione di nuova capacità – cosa che a quanto pare a noi occidentali non interessa più.

Gli affronti di Biden a Riyad

Detto questo, la decisione dell’Opec+ non può che apparire come un “affronto” dei sauditi a Washington, a soli tre mesi dalla visita del presidente Joe Biden a Jeddah per ricucire i rapporti con Riyad.

Ma secondo Carlstrom si tratta di un problema di aspettative eccessive: i tempi della visita e alcuni messaggi hanno suggerito che Biden si fosse assicurato un aumento della produzione di petrolio. Ma “questo non è mai stato realistico, come ti avrebbe detto chiunque nel Golfo prima della sua visita”.

Da una parte, dunque, la percezione americana e occidentale che i sauditi non stiano rispettando la loro parte dell’accordo quasi secolare con gli Usa e si stiano schierando con la Russia. Dall’altra, però, va detto che i sauditi hanno buone ragioni per ritenere che l’America non stia rispettando i propri impegni sulla “sicurezza”, a cominciare dalle politiche occidentali che conferiscono potere all’Iran a livello regionale.

Gli errori dell’amministrazione Biden con l’Arabia Saudita risalgono infatti ai primi giorni del suo mandato: la diffusione del rapporto dell’Intelligence che accusava il principe ereditario Mohammed Bin Salman di aver personalmente approvato e ordinato l’omicidio di Jamal Khashoggi; lo stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti; la revoca della designazione dei ribelli Houthi come organizzazione terroristica; la decisione di riprendere i colloqui con Teheran per un nuovo accordo sul programma nucleare. Quattro veri e propri affronti, tutti all’inizio del mandato.

Già in campagna elettorale, inoltre, Biden aveva avvertito che con lui alla Casa Bianca le cose tra Washington e Riyad sarebbero cambiate, spingendosi fino a definire il Regno “un pariah” della comunità internazionale.

Gestione disastrosa della crisi energetica

Ma ancora peggio, per tutto il 2021 e fino all’inizio del 2022, incredibilmente l’amministrazione Biden non ha fatto nulla per riparare i rapporti con Riyad, nonostante avesse acquisito e diffondesse informazioni sempre più credibili e precise circa le intenzioni e i preparativi di Mosca per invadere l’Ucraina, dunque pur essendo consapevole che ci saremmo potuti trovare presto nel bel mezzo di uno shock energetico e di una guerra economica con la Russia.

Se la gestione del conflitto ucraino da parte dell’amministrazione Biden è stata efficiente dal punto di vista militare e di intelligence (sebbene a nostro avviso poteva essere più coraggiosa nello stabilire linee rosse e più rapida nell’invio di armamenti a Kiev), è stata senza alcun dubbio niente meno che disastrosa sul piano energetico.

Dai già menzionati rapporti con l’Arabia Saudita alla crisi del gas che attanaglia l’Europa, completamente abbandonata, che rischia di sgretolare il supporto europeo alla causa ucraina.

Nel momento in cui i Paesi Ue, a cominciare da Italia e Germania, hanno assunto la decisione di liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, sarebbe stata opportuna una iniziativa di Washington per una gestione coordinata e solidale della crisi energetica tra gli alleati Nato (di cui fa parte la Norvegia, importante produttore di gas), in modo da tenere il più possibile sotto controllo i prezzi.

L’alternativa all’hub del gas russo-tedesco

Venendo meno l’hub energetico russo-tedesco per ovvie ragioni, l’amministrazione Biden, piuttosto che fare promesse di forniture LNG impossibili da mantenere, avrebbe dovuto impegnarsi da subito per sostituirlo con un hub di gasdotti italiano, su cui far convergere tutto il gas proveniente dal Mediterraneo e dall’Africa.

Un progetto, però, che non avrebbe fatto piacere a Erdogan, che infatti sembra aver giocato d’anticipo. Proprio ieri è arrivata la notizia che Turchia e Libia – o meglio, il governo libico riconosciuto ma attualmente sfiduciato dal Parlamento di Tripoli – hanno firmato accordi di collaborazione nel settore petrolio e gas, scatenando l’ira sia del Parlamento di Tobruk, che di Grecia ed Egitto.

Ebbene, non solo gli Usa non hanno finora rilanciato il progetto Eastmed, ma non hanno nemmeno mosso un dito per la risoluzione della crisi libica.

Una latitanza di Washington – e di Roma – che denota la miopia sia dell’amministrazione Biden che del governo Draghi, che avrebbero potuto almeno avviare lo sviluppo di alternative in grado nel medio-lungo termine di risolvere il problema dell’approvvigionamento di gas all’Europa.

Ecco come sta cambiando il mondo

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di Giulio Tremonti

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno

Una visione preveggente sul mondo che sta cambiando in fretta, fuori dai dogmi globalisti, emerge dal dialogo con Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia e presidente dell’Aspen Institute Italia, che sulla prospettiva di «un patto nazionale» anti-inflazione è perplesso, ritenendolo difficilmente irrealizzabile. Sullo sfondo risalta la visione dell’“europeismo della realtà” che l’accademico ha perseguito sul piano politico e culturale, osteggiato dai tecnocrati del sovrastato Ue. Il suo ultimo saggio è Le tre profezie (Solferino).
Prof. Tremonti, alle difficoltà del post Covid ora si aggiunge la crisi economica per l’Ucraina. Dall’inflazione al caro energia, famiglie e imprese sono allo stremo. Che strumenti ha la politica per fronteggiare questa fase?
«Evocare un “patto nazionale” come ai tempi di Ciampi non tiene conto del fatto che la storia non si può ripetere per identità perfette. E in questo caso neppure ripetere per analogie. A quel tempo, nei primi anni novanta, non c’era la globalizzazione, non c’era la Cina, non c’era l’euro, non c’era la sovranità di Bruxelles. E quindi, se a quell’altezza di tempo fu fatto un esercizio politico virtuoso, oggi sarebbe un servizio politico non virtuoso e molto difficile tentarne la replica. Non ci sono i presupposti, il mondo è radicalmente cambiato».
Quali i cambiamenti più rilevanti rispetto al passato?
«L’Italia aveva una forte sovranità economica nazionale, e anche per questo era più facile combinarla con la responsabilità sociale. Tra l’altro la forza delle parti sociali era anche superiore a quella attuale».
Pesano meno?
«Ricordo il “Tavolo Verde” a Palazzo Chigi: da un lato il governo, dall’altro lato un impressionante schieramento di forze sociali economiche e sindacali. Credo che ora sia difficile rifare il tavolo in quella composizione, di massa e di forza».
Prima della pandemia c’era una ossessione per il rigore e l’austerità. Ora è tutto rimosso…
«Nelle considerazioni conclusive del governatore Draghi, Banca d’Italia maggio 2011, c’era scritto: “La gestione del pubblico Bilancio è stata prudente. Le correzioni necessarie in Italia inferiori a quelle necessarie in altri paesi europei”. Poi la stessa mano ha firmato l’opposto con la lettera della Bce… La pandemia in ogni caso ha segnato una rottura della storia politica dell’Italia e non solo».
Sono cambiati anche gli equilibri istituzionali?
«La pandemia ha avuto effetti politici e non solo sanitari. Ha spostato l’asse del potere verso il governo, ha liberato l’esecutivo dai vincoli finanziari. C’è una immagine che rende l’idea di quello che è successo».
Prego.
«La pandemia ricorda il mito della torre di Babele: l’uomo sfida la divinità erigendo verso il cielo la torre. La divinità reagisce privando l’umanità della lingua unica. Con la pandemia è stato lo stesso: è stato tolto il pensiero unico, spezzato il software della globalizzazione, si è persa la fiducia nel paradiso terrestre. Il mondo che riappare adesso è un mondo diverso da quello globale, oggi carico di tensioni, di torsioni, che si vedono sulle linee di produzione e sul prezzo delle materie prime: dal legno alla ghisa, dal petrolio al gas. Un mondo in cui l’uomo registra i suoi limiti, e i limiti del suo mondo. E questi sono evidenti per esempio nell’inquinamento ambientale creato dall’industria globale».
E i cittadini registrano l’arretramento del proprio potere d’acquisto.
«Erano già iper-evidenti tutte le tensioni di inflazione, prima della guerra. L’inflazione c’era già nelle bollette, nel carrello della spesa, sul pieno di benzina. E questo ci poneva il problema fondamentale».
Quale?
«Siamo tutti uguali davanti alle bollette, al carrello e alla pompa o sta peggio chi ha di meno?».
C’è un rischio gilet gialli sullo schema delle proteste francesi?
«Più che un rischio futuro, vedo già attuale la sofferenza di chi ha meno risorse economiche».
Non ricordavamo più gli effetti dell’inflazione…
«E’ una orrenda tassa regressiva. Fino all’ultima Finanziaria, davanti a questa realtà già evidente, l’azione del governo è stata strampalata, con politiche espansive, prevedendo sgravi fiscali per il ceto medio, e solo alla fine la tardiva scoperta del caro-bollette. Adesso il governo è mezzo salvato dalla guerra, ma lo vedo in difficoltà nel continuare le politiche di spesa pubblica espansiva, come sarebbe necessario a fronte dell’inflazione».
La realtà, se ci fosse chi la registra, scombina i piani dei governanti?
«Il malessere sociale è un dato di fatto. L’altro giorno scorreva sul display di un treno dell’Alta velocità, uno spot del governo sul Pnrr. Nel video risaltavano uomini e donne bellissimi, tipo attori americani. Ecco, la réclame del governo è oltre Hollywood: dà l’idea della distopia tra governo e Paese. Chi lo ha commissionato dovrebbe rimborsare di tasca sua il costo dello spot e destinare l’importo alla Caritas… Ho l’impressione che l’alta velocità si confonda con l’altra stupidità…».
La crisi energetica: c’è chi quasi scarica la responsabilità sugli italiani stessi…
«Il governo ha accusato il Paese per non aver capito l’emergenza energetica addossando le colpe agli italiani e agli anni passati. Ma se emergenza energetica fosse stata prevedibile, Draghi avrebbe dovuta metterla nel suo programma già l’anno scorso. In realtà non se ne parla neppure nel Pnrr. Aggiungo che fino al 2011, l’Italia, con l’Eni, aveva la piena proprietà dei campi petroliferi in Libia, non i diritti di concessione. E quindi una prospettiva di sviluppo incredibile. Qualcuno, che forse chi è al governo conosce, ha deciso di privarcene. Ottima dunque la prospettiva di ricerca di fonti alternative, ma come diceva quel tale…».
Diamogli un nome.
«Un economista di rango secondario rispetto ai giganti attuali, John Maynard Keynes, (Tremonti sorride, ndr), diceva che “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Non dico che Gheddafi fosse simpatico, ma il petrolio libico era utile».
I dem, intanto sono innamorati del governo di emergenza e del mantra “ci vuole più Europa”. E’ la posizione di chi ha combattuto gli eurobond e portato il vincolo esterno…
«Quando è caduto il Muro, pochi sono rimasti sotto le macerie. Tutti hanno compiuto il salto. Molti hanno portato i loro “Penati ideologici”, nei templi dell’Occidente: dalla City di Londra a Bruxelles. Il comunismo ha perso perché ha perso, il mondo occidentale si è successivamente perso nel mercatismo e in varie successive ideologie».
L’europeismo come coperta di Linus?
«L’idea di Europa è fuori da tutto questo. Nel 2003, nel semestre di presidenza italiana Ue, il governo italiano propose gli eurobond per finanziare infrastrutture e industria militare. Il no fu totale. Solo nel 2020 – con 17 anni di ritardo – l’Ue emette eurobond. Solo nel 2022 in questi giorni si comincia a parlare di Difesa europea. Con questo ritardo sulla storia, è almeno il caso di rinunciare a dare lezioni».
Il mercatismo come era, non ci sarà più. Verrà maggiore spazio per i diritti dei popoli?
«Non c’è più l’ideologia globalista, riemerge “nella sinistra” la retorica europeista. Tanto per tentare di pareggiare il pensiero di questi giganti, le citerò una frase sull’Europa di Konrad Adenauer, pronunciata dopo il trattato di Roma del 1957: “Che la foresta non sia tanto fitta da impedire la visione dell’albero”. Parlava del rapporto tra Bruxelles e gli stati».
Che lettura non conformista consiglierebbe ai governati italiani in questi giorni…
«Mi faccia un’altra domanda…».

A cura di Michele de Feudis

Benzina alle stelle: quando l’Italia puntava all’autosufficienza energetica

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LETTERE DEL LETTORE

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera pervenuta e pubblicata anche su https://www.ilmiogiornale.net/benzina-alle-stelle-quando-litalia-puntava-allautosufficienza-energetica/

di Ferdinando Bergamaschi

Il forte aumento della benzina, ai massimi dal 2014 malgrado il prezzo del petrolio stia tenendo, apre di nuovo il dibattito su quanto il fisco incida nel prezzo dei combustibili. E pensare che l’Italia è stato uno dei primi Stati occidentali a muoversi verso la ricerca di una sovranità energetica che mirasse a tutelare i consumatori. Vediamo allora dove inizia questa storia.

Le tesi di Canali

In un libro dello storico antifascista Mauro CanaliIl delitto Matteotti (Il Mulino, 2004), accanto a una tesi pregiudiziale sull’omicidio del deputato socialista (quella della responsabilità diretta di Mussolini, su cui non siamo d’accordo), si fa luce con una pregevole ricerca storica su quella che è stata “La questione petrolifera e la convenzione Sinclair”. Nell’omonimo capitolo del suo libro Canali approfondisce infatti la vicenda, preambolo nel quale si è generato il delitto del deputato socialista. 

Figura centrale di questi avvenimenti del 1923-1924 legati alla questione petrolifera italiana è stato l’allora ministro dell’Agricoltura del governo Mussolini. Stiamo parlando del liberale di destra Giuseppe De Capitani D’Arzago, uomo politico di indiscussa competenza e capacità, come peraltro si evince anche dai giudizi positivi che su di lui dà Canali e dalla ricostruzione della sua opera di ministro che lo storico ci riconsegna.

Chi era De Capitani? Un liberale di destra, dapprima di orientamento salandrino, che durante la sua reggenza al dicastero dell’Agricoltura aveva sempre cercato di mantenere autonoma la sua posizione e il suo ministero, non senza polemizzare con Mussolini quando questi voleva riunire, riuscendovi, il ministero dell’Agricoltura con quello dell’Industria (creando il Ministero dell’Economia nazionale). 

Italia e trust del petrolio

De Capitani e con lui il funzionario Arnaldo Petretti, direttore generale dei combustili e servizi diversi, volevano proseguire la politica energetica del governo Giolitti e rafforzarla in senso nazionale (oggi si direbbe “sovranista”). De Capitani infatti era un tenace avversario dei trust internazionali, nemico delle loro brame monopolistiche e oligopolistiche. Canali giustamente rileva a tal proposito: «Nel discorso programmatico davanti al Senato, De Capitani confermava la sua intenzione di intensificare la ricerca di petrolio nel sottosuolo nazionale, e di avviare a soluzione in tempi brevi il grave problema dell’approvvigionamento, altrimenti – aveva concluso – “sarà per sempre rinsaldata la dipendenza del nostro mercato dai trust internazionali”».

Addirittura il trust mondiale del petrolio, e la Standard Oil in particolare, vedevano De Capitani come un grande pericolo per le loro strategie. Da un lato infatti era un deciso sostenitore dell’esplorazione del nostro sottosuolo, col fine di rendere indipendente l’Italia nell’approvvigionamento e nella distribuzione del petrolio; e dall’altro lato, visto che comunque ciò non sarebbe bastato, il ministro, non accettando che il mercato fosse così fortemente condizionato dai grandi trust, voleva approvvigionarsi presso compagnie indipendenti. De Capitani addirittura, pur di non piegarsi al monopolio della Standard Oil, aveva tentato la strada di acquistare direttamente all’estero i pozzi da sfruttare. 

Da De Capitani a Mattei

Questo contesto, come si è detto, è quello in cui nasce l’affaire Matteotti che ovviamente per la sua complessità non può in questa sede essere considerato. Qui ci limitiamo ad evidenziare che De Capitani è stato l’iniziatore di quella politica di difesa e potenziamento della sovranità energetica italiana che avrebbe portato poi, due anni più tardi, nel 1926, alla creazione dell’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli). Egli è stato il creatore e il grande sostenitore di questa politica energetica nazionale che voleva fosse basata su una partecipazione pubblica e privata.

La scelta di De Capitani, come è noto, nel secondo dopoguerra sarà portata avanti e potenziata dall’imprenditore Enrico Mattei, presidente dell’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), che fra l’altro nel 1948 scopre il giacimento di gas e petrolio a Cortemaggiore (dal 1951 l’Agip avrà in produzione campi di gas anche a Podenzano e Pontenure), anch’egli “poco gradito”, evidentemente, ai grandi trust internazionali.
Insomma, l’opera intrapresa da un liberale di destra è stata ereditata e portata avanti da un democristiano di sinistra… a dimostrazione una volta di più che le vie del Signore sono infinite.

Nigeria: un Paese devastato dalla sua “ricchezza”

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di Salvo Ardizzone

Nigeria: un Paese devastato dalla sua “ricchezza”

Fonte: Il Faro sul Mondo

La Nigeria è un Paese più grande di Francia e Germania messe insieme, con sopra 170 milioni d’abitanti che tirano una vita grama (54% della popolazione sotto la soglia della povertà) pur stando sopra a un mare di petrolio (l’estrazione, pur rallentata da tanti problemi, è di circa due ml di barili al giorno) e di gas; e detto per inciso, è da qui che vengono l’80% delle entrate fiscali e il 95% delle esportazioni, perché per il resto è il deserto. Il Pil, che è il secondo d’Africa, è suddiviso nel modo più ineguale non solo fra la gente (i ricchi ci sono, eccome!), ma anche fra regione (che lì si chiamano stati) e regione e fra etnia ed etnia. E di etnie ce ne sono tante in questo stato (circa 250!) tagliato, come tanti in Africa, in base ai capricci dei colonialisti (lì erano inglesi); le più importanti sono cinque: Yoruma (21% della popolazione), Igbo (18%), e Ijaw (10%) che stanno al sud; Hausa Fulani (20%) e Kanuri (4%) che stanno al nord. Continua a leggere