Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo
bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli
sulla fede di certificati da lui concessi senza noie supplementari di vagliature più faticose.
Aggiungete che sulle scuole ci mangiano ispettori, presidi, bidelli, preparatori, assistenti, editori,
librai, cartolai e avrete la trama completa degli interessi tessuti attorno alle comunali e regie e
pareggiate case di pena.
Nessuno
–
fuorché a discorsi
–
pensa al miglioramento della nazione, allo sviluppo del pensiero e
tanto meno a quello cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli.
Le scuole ci sono, fanno comodo, menano a qualche guadagno: ficchiamoci maschi e femmine e non
ci pensiamo più.
L’uomo, nelle tre mezze dozzine d’anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai
diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà.
Libertà per rafforzare il suo corpo e conservarsi la salute, libertà all’aria aperta: nelle scuole si
rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici posson maledir
e giustamente le scuole e chi l’ha inventate!).
Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in
quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi.
Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s’impara nulla d’importante dalle lezioni ma
soltanto dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella quale ognuno s’inserisce a modo suo
e sceglie quel che gli è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme
ch’è l’insegnamento.
Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati
–
l’immobilità fisica più antinaturale
–
l’immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare
–
lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili
–
e l’annegamento
sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a
sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, di bambinaie o d’istitutrici; dai sei ai
ventiquattro è sottoposto
a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della
moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d’ogni
padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.
Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere un po’ d’igienica anarchia!
L’unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua
riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c’è abbastanza concordia fra gli spiriti più
illuminati. La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione.
Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé.
Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuol poi una bella fatica a liberarsene
–
e non tutti ci arrivano.
Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati.
Non insegna quasi mai ciò che un uomo do
vrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi
un faticoso e lungo noviziato autodidattico.
Insegna (pretende d’insegnare) quel che nessuno potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il
gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la
musica nei conservatori.
Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non
tenendo conto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc.
Non si può insegnare a più d’uno. Non s’impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due,
dove colui che insegna si adatta alla natura dell’altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non
detta il suo verbo dall’ alto.