LE PROSPETTIVE PER L’ECONOMIA ITALIANA – ANNI 2023-2024

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COMUNICATO STAMPA ISTAT

Il Pil italiano è atteso in crescita dello 0,7% sia nel 2023 sia nel 2024, in rallentamento rispetto al 2022.

Nel biennio di previsione, l’aumento del Pil verrebbe sostenuto principalmente dal contributo della domanda interna al netto delle scorte (+0,8 punti percentuali nel 2023 e +0,7 p.p. nel 2024) a fronte di un contributo della domanda estera netta marginalmente negativo nel 2023 (-0,1 p.p.) e nullo nel 2024. Il contributo delle scorte è, invece, previsto nullo in entrambi gli anni.

La domanda interna sarà trainata principalmente dai consumi privati (+1,4% nel 2023 e +1,0% nel 2024) sostenuti dalla decelerazione dell’inflazione, da un graduale (anche se parziale) recupero delle retribuzioni e dalla crescita dell’occupazione. Gli investimenti sono attesi in netto rallentamento rispetto al biennio precedente (+0,6% in entrambi gli anni).

L’occupazione, misurata in termini di unità di lavoro (ULA), segnerà un aumento in linea con quello del Pil (+0,6% nel 2023 e +0,8% nel 2024), a cui si accompagnerà un calo del tasso di disoccupazione (7,6% quest’anno e 7,5% l’anno prossimo).

L’inflazione si ridurrà per effetto della discesa dei prezzi dei beni energetici e delle conseguenze delle politiche monetarie restrittive attuate dalla BCE. La dinamica del deflatore della spesa delle famiglie residenti scende nell’anno corrente al +5,4% e al +2,5% nel 2024.

Lo scenario previsivo sconta l’ipotesi del proseguimento del calo dei prezzi al consumo e dei listini delle materie prime importate, di una graduale ripresa del commercio mondiale e della progressiva attuazione del piano di investimenti previsti nel PNRR.

Un approfondimento sulla valutazione degli effetti macroeconomici della legge di bilancio 2024 mostra risultati in linea con la NADEF, se pur con maggiori effetti sui consumi rispetto agli investimenti.

Fonte: https://www.istat.it/it/archivio/291840

Moody’s avverte: Italia a rischio declassamento del rating

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Segnalazione Wall Street Italia

di Mariangela Tessa

Si addensano le nubi sull’economia italiana su cui ora pesa anche sul rischio di una bocciatura sul credito sovrano da parte di Moody’s. Lo ha preannunciato ieri l’agenzia di rating, spiegando che un probabile declassamento avverràin presenza di un significativo indebolimento delle prospettive di crescita, ma anche per la mancata attuazione delle riforme, comprese quelle delineate nel   Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del paese. Un altro fattore di declassamento sarebbe un aumento significativo del debito pubblico italiano.

Venerdì scorso Moody’s non ha aggiornato il rating italiano, che è quindi restato a “Baa3”, con outlook negativo. Nonostante la revisione fosse in programma per quel giorno, 30 settembre, diversi analisti avevano previsto l’eventualità che Moody’s scegliesse di non cambiare il rating sull’Italia e prendesse tempo per osservare gli sviluppi politici e la formazione del nuovo Governo.

I rischi al ribasso per Moody’s

Tra i rischi al ribasso citati dall‘agenzia di rating, spicca quello relativo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). “Se la coalizione di destra che ha vinto le recenti elezioni dovesse tentare di rinegoziare alcuni aspetti del PNRR, ciò probabilmente ritarderà la sua attuazione, esercitando una pressione al ribasso sulla spesa per investimenti in un momento in cui l’inflazione elevata e i rischi per l’approvvigionamento energetico stanno già pesando sull’attività economica”.

Avrebbero un impatto negativo sui rating anche “segnali sull’avvio di una crescita significativa del debito sia a causa di prospettive di crescita sostanzialmente più deboli, sia a causa di un aumento del costo degli interessi o di un concreto allentamento fiscale”.  Inoltre, “politiche fiscali e/o economiche che avessero causato un indebolimento del sentiment del mercato e l’aumento del livello del debito nel medio termine porterebbero anch’esse a pressioni al ribasso dei rating”.

Moody’s sottolinea di ritenere improbabile un miglioramento del rating nel prossimo futuro, ma potrebbe alzare l’outlook “se le istituzioni italiane, le prospettive di crescita e la traiettoria del debito si dimostrassero resistenti ai rischi derivanti dall’incertezza politica, dalla sicurezza energetica e dall’aumento dei costi di finanziamento”.

La dimostrazione che il prossimo governo è impegnato all’attuazione delle riforme strutturali a sostegno della crescita, comprese quelle delineate nel PNRR del paese, porterebbero verosimilmente a una stabilizzazione dell’outlook se accompagnata da un piano credibile di consolidamento fiscale di medio termine che impedisse un aumento significativo del debito”.

 

‘CASO UNGHERIA’ FRA SOVRANISMO E SOVRANITÀ NAZIONALE

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’iniziativa della Commissione UE di congelare i 7 miliardi di euro del PNRR – Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa ungherese e di tagliare il 65% dei fondi di coesione, pari ad altri 7.5 miliardi, è dichiaratamente fondata sulla presunta lesione dei princìpi dello Stato di diritto da parte del governo magiaro. Ma siamo certi che spetti alla Commissione o ad altri organi dell’Unione Europea stabilirlo? 

  1. L’Europarlamento ha votato lo scorso 15 settembre una mozione che condanna il governo di Budapest perché «non è più una democrazia compiuta». Il rapporto definisce l’Ungheria «una minaccia sistemica» ai valori UE, un «regime ibrido di autocrazia elettorale», ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni, ma manca il rispetto di norme e standard democratici. In particolare, destano preoccupazione l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse e la libertà di espressione, compreso il pluralismo dei media, nonché la libertà accademica, la libertà di religione, la libertà di associazione, il diritto alla parità di trattamento, i diritti delle persone LGBTIQ, i diritti delle minoranze, dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati politici.
    La Commissione si è schierata in conformità al Parlamento europeo: dopo avere sospeso l’invio della prima tranche di acconto sul PNRR ungherese e aver minacciato l’applicazione del meccanismo di condizionalità economica sui fondi di bilancio europeo destinati allo Stato membro, il collegio dei Commissari europei ha deliberato sul documento del 20 luglio del commissario al Bilancio Johannes Hahn, votando all’unanimità la proposta di sospendere il 65% dei fondi di tre programmi operativi per la Coesione destinati all’Ungheria a causa della violazione dello Stato di diritto. Il valore totale dei fondi in questione è di 7,5 miliardi di euro, che corrisponde circa a un terzo di tutti i fondi di Coesione destinati all’Ungheria. La decisione – ha spiegato il Commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn – deriva dalle irregolarità sistemiche nelle procedure di appalto, dalle insufficienti inchieste contro il conflitto d’interessi e in generale dalla debolezza nell’intervento contro la corruzione.
  2. Secondo altri, la vera ragione della recrudescente azione degli organi UE nei confronti dell’Ungheria è la riluttanza di Orban a consentire più significative iniziative europee contro la Russia di Putin – Orban è rimasto l’unico a rilasciare visti di ingresso Shengen ai cittadini russi -, diversamente dall’apparente appeasement della Commissione nei confronti della Polonia – pur essa ritenuta rea di lesione dello Stato di diritto, che ha, al contrario, assunto la guida della resistenza pro Ucraina contro la Federazione russa.
    La contestualità temporale dei provvedimenti UE contro l’Ungheria con la nuova normativa ungherese in materia di aborto farebbe, piuttosto, pensare a una ritorsione contro la previsione, appunto introdotta il 15 settembre, che i medici che si occupano di interruzione di gravidanza dovranno mostrare alle donne che scelgono l’aborto, «una prova chiara delle funzioni vitali del feto», tra tutte, il battito del cuore, dovendo il personale sanitario fornire documenti che attestino che la paziente è stata sottoposta a tale procedura: altrimenti l’aborto non potrà essere praticato (su di esso cf. https://www.centrostudilivatino.it/la-tutela-del-concepito-tra-diritto-romano-e-costituzione-ungherese/).
    In realtà, l’aborto è praticabile in Ungheria, sin dal 1953, fino a 12 settimane dall’inizio della gestazione senza particolari restrizioni, mentre invece la normativa italiana, la legge n. 194/1978, che taluni vorrebbero porre a fondamento di un inesistente diritto all’aborto[1], nel prevedere l’assistenza dei consultori familiari alle donne che chiedono di abortire stabilisce che essi, “oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto” (art. 5).
  3. È difficile da comprendere in che cosa consista l’aggravamento della condizione femminile delle ungheresi – la cui libertà di abortire sarebbe messa a repentaglio dall’ascolto del battito fetale del proprio bambino – rispetto alle italiane, cui il probabile prossimo Presidente del Consiglio italiano, con omologo scandalo mediatico, vorrebbe far rispettare più attentamente la normativa vigente, anche nella parte in cui questa prevede l’aiuto alla maternità responsabile.
    Ma tant’è, se la stessa Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, la ‘popolare’ tedesca, “non una pericolosa comunista” (come ha ricordato Enrico Letta, segretario DEM), a proposito della possibile deriva ungherese dell’Italia post 25 settembre, rispondendo a una domanda a Princeton sul possibile risultato delle elezioni in Italia, dato che – è stato fatto notare – tra i candidati vi sono figure vicine a Putin, ha testualmente dichiarato: “Vedremo il risultato del voto in Italia, ci sono state anche le elezioni in Svezia (con il clamoroso successo dei Democratici Svedesi di destra). Se le cose andranno in una direzione difficile, abbiamo degli strumenti, come nel caso di Polonia e Ungheria“.
    A fronte delle polemiche suscitate da tale intervento, contestato come una indebita intromissione nelle elezioni di un Paese membro, la Commissione europea, con interpretazione autentica tesa a sedare gli animi ma, in realtà, ancor più urticante, ha fatto sapere che “lavorerà con tutti i governi che usciranno dalle elezioni e che vogliono lavorare con noi”, con la presidente che avrebbe solo “cercato di spiegare il ruolo di guardiana dei trattati della Commissione in particolare nel campo dello Stato di diritto”.
  4. Orbene, gli strumenti di cui parla von der Leyen sono le procedure di infrazione per violazione dei trattati europei. Nel caso dell’Ungheria sono stati avviati per violazione del trattato fondamentale sull’Unione europea, in relazione alla mancanza di indipendenza della magistratura, alla scarsissima libertà di stampa e alla carenza di diritti e tutele o la vera e propria vessazione delle minoranze, a partire dalla comunità Lgbt, oltre, appunto, al grande scalpore suscitato dalla legge in base alla quale le donne che intendono abortire dovranno prima ascoltare il battito del feto.
    L’Europarlamento chiede addirittura di attivare l’art. 7 del trattato dell’Unione Europea, che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea, tra cui il diritto di voto in sede di Consiglio, in caso di violazione grave e persistente da parte di un Paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione.
    È lecito chiedersi, al riguardo, se la asserita violazione di regole e princìpi che vengono assimilati alla rule of law, ma che piuttosto rientrano in materie espressamente riservate, in base agli stessi Trattati fondativi dell’Unione, alla competenza esclusiva degli Stati membri, sia censurabile dagli organi UE senza, con ciò, ledere, per esorbitanza, il rispetto delle prerogative loro assegnate.
    In altri termini, ai fini della tenuta dell’Europa, è più pericolosa la pretesa di governi nazionali, liberamente eletti ed espressione democratica del popolo, di sottrarsi al mainstream dei ‘nuovi diritti’, o piuttosto l’autoassunzione della Presidente della Commissione della funzione di guardania dei Trattati in materie che questi non assegnano all’Unione? Intendono quelli esercitare la propria sovranità nazionale o sono espressione eurofobica di pericoloso sovranismo?
    In un contesto geopolitico in cui l’Europa è chiamata a svolgere finalmente un ruolo da protagonista, pena la sorte del vaso di coccio tra quelli di ferro, sarà più prudente spingere per una Europa delle nazioni o per quella che Vladimir Bukovskjy, già all’inizio del millennio, paventava come l’EURSS, l’Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche?

                                                                                Renato Veneruso


[1]  L’art. 1 recita espressamente: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite

Fonte:

ANCORA SU UE, UNGHERIA E ‘STATO DI DIRITTO’: RISORSE PNRR SOLO CON PROPAGANDA LGBTIQ PER I BAMBINI

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

Si intensifica lo scontro fra la Commissione europea e l’Ungheria: il veto del governo magiaro all’introduzione della ‘global minimum tax’ induce Bruxelles a portare la procedura di infrazione per violazione dello ‘stato di diritto’ alla Corte di giustizia, e a mantenere il blocco alla erogazione dei fondi del PNRR di Budapest, dopo averlo appena tolto alla Polonia, per contrastare la legge ungherese che vieta l’ideologia gender nelle scuole.

1. In occasione della seduta a Strasburgo del 6 luglio 2022, il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza una risoluzione con cui invita il Governo ungherese a ritirare il parere contrario al sistema di tassazione delle multinazionali – Big Tech comprese – elaborato dall’OCSE e approvato dal G20 con un accordo al vertice di Roma di ottobre 2021, denominato global minimum tax (su cui cf. www.centrostudilivatino.it/global-minimum-tax-1-tassazione-senza-rappresentanza/ e https//www.centrostudilivatino.it/global-minimum-tax-2-chi-guadagna-e-chi-perde/).

Secondo Budapest, il maggior onere fiscale, nel generale contesto della guerra russo-ucraina, potrebbe essere “fatale” per le aziende manifatturiere e andrebbe a danno della competitività Ue.

Il Parlamento invece ritiene che il veto ungherese sia stato opposto, come già accaduto con la Polonia (che lo ha ritirato, appena prima che lo ponesse l’Ungheria, solo lo scorso 18 giugno, una volta ottenuta l’ammissione da parte della Commissione UE al PNRR–Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), in modo strumentale per superare, per l’appunto, la sospensione nell’erogazione dei fondi del Next Generation UE, pari a circa 7 miliardi di euro, vincolata alla verifica del rispetto da parte del Paese magiaro dei princìpi dello ‘stato di diritto’.

I deputati europei sollecitano la Commissione e il Consiglio “a non entrare in contrattazioni politiche”, e ad “astenersi dall’approvare il piano nazionale ungherese per la ripresa e la resilienza fintanto che l’Ungheria non avrà pienamente rispettato tutti i criteri stabiliti nel regolamento”.

Da un lato, quindi, ci si lamenta che il veto ungherese sia lesivo dell’esigenza di rendere efficace la nuova tassazione sui profitti delle multinazionali operanti all’interno dell’Unione; dall’altro, si mantiene la pretesa di bloccare l’erogazione dei fondi europei di aiuto ai singoli Stati membri finché questi non dimostrino che i propri ordinamenti domestici siano rispettosi delle regole dello ‘stato di diritto’.

2. Mettiamo un momento da parte i problemi che il nuovo sistema di tassazione comunque pone (su cui cf. www.centrostudilivatino.it/global-minimum-tax-iii-quando-gli-stati-sono-estromessi-dalla-decisione/): il che rende non peregrina la preoccupazione della sua introduzione in un contesto geopolitico profondamente aggravatosi dalla sua approvazione. Veniamo al dato politico: censurare la strumentalità dell’opzione ungherese dopo avere imposto tale condizionalità agli aiuti economico-finanziari somiglia tanto al detto popolare del “bue che chiama cornuto l’asino”; resta di fondo che il contrasto tra gli organi dell’Unione, principalmente il Parlamento europeo, e con minore veemenza la Commissione europea, contro alcuni degli Stati membri, segnatamente Polonia ed Ungheria, continua a mostrarsi più ideologico che politico-giuridico.

Va infatti ribadito che le materie controverse con i Paesi dell’Est, per le quali questi sono richiesti da anni dal Parlamento europeo di procedura di infrazione davanti alla Corte di Bruxelles, e oggi sono inflitti della condizionalità economica applicata al Next Generation EU, non sono, in base ai Trattati istitutivi, di competenza della UE, ma rimangono di pertinenza dei singoli Stati membri. Se così è, riesce difficile non leggere nella pretesa del Parlamento e della Commissione UE il tentativo di imporre una visione dei princìpi dello ‘stato di diritto’ ispirata al ‘politicamente corretto’ del pensiero unico globalizzante; per esso, vietare la propaganda di contenuti omossessuali ai minori è condotta qualificata come “vergognosa”, come conferma la Presidente della Commissione, Ursula von del Leyen: «I capi di stato e di governo hanno condotto una discussione molto personale ed emotiva sulla legge ungherese, praticamente l’omosessualità viene posta a livello della pornografia, e questa legge non serve alla protezione dei bambini, è un pretesto per discriminare. Questa legge è vergognosa».

Se l’Ungheria non «aggiusterà il tiro», ha aggiunto la Presidente, la Commissione «userà i poteri ad essa conferiti in qualità di garante dei trattati, dobbiamo dirlo chiaramente noi ricorriamo a questi poteri a prescindere dallo stato membro». «Dall’inizio del mio mandato abbiamo aperto circa quaranta procedure di infrazione legate alla protezione dello stato diritto e altri valori Ue e se necessario apriremo altre procedure», ha specificato Ursula von der Leyen.

La Commissione ha infatti appena deferito lo Stato ungherese alla Corte di Giustizia per l’asserito contrasto della propria legge sul ‘divieto di promozione dell’omosessualità ai minori’, che vieta di mostrare ai minori qualsiasi contenuto, nei media e nelle scuole, che ritragga o promuova l’omosessualità o il cambio di sesso: secondo la Commissione, la legge viola le regole del mercato interno, i valori europei e i diritti fondamentali degli individui, in particolare delle persone Lgbtiq. Bruxelles, che ribadisce come la protezione dei bambini sia una priorità assoluta per l’Ue e gli Stati membri, ritiene che il provvedimento ungherese contenga disposizioni che “non sono giustificate sulla base della promozione di questo interesse fondamentale o sono sproporzionate a raggiungere l’obiettivo dichiarato“!

3. La legge magiara, che il premier ungherese Viktor Orban qualifica come “non omofoba” e tesa unicamente alla protezione dei minori, nella prospettazione della Commissione viola invece “in modo sistematico diversi diritti fondamentali” sanciti dalla Carta dei diritti Ue, tra cui l’inviolabilità della dignità umana, il diritto alla libertà di espressione e di informazione, il diritto alla vita privata e familiare, nonché il diritto alla non discriminazione. “Per la gravità di tali violazioni – scrive Bruxelles – le disposizioni impugnate violano anche i valori comuni di cui all’articolo 2 Tue“. Il deferimento alla Corte è la fase successiva della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione il 15 luglio 2021 con l’invio a Budapest di una lettera di messa in mora; a essa ha dato riscontro il Governo magiaro con l’invio di un parere motivato, ma le autorità ungheresi – rileva l’Esecutivo UE – non hanno risposto in misura sufficiente alle preoccupazioni sollevate in merito all’uguaglianza e alla protezione dei diritti fondamentali, e non hanno mostrato alcun impegno a porre rimedio all’incompatibilità.

Nella medesima occasione della discussione all’Assemblea plenaria di Strasburgo, Von der Leyen ha stigmatizzato l’istituzione in Polonia delle cosiddette zone «Lgbt free», ovvero le amministrazioni del Paese che si autoqualificano come libere dalla «ideologia Lgbt». «Non possiamo – ha detto von der Leyen – restare a guardare quando ci sono regioni che si dichiarano libere dagli Lgbt. Non lasceremo mai che parte della nostra società sia stigmatizzata a causa di quello che si pensa, dell’etnia, delle opinioni politiche o credi religiosi».

Tale dura presa di posizione, fortemente criticata dalla presidente della coalizione parlamentare europea ‘Conservatori e riformisti’, Giorgia Meloni, come «l’ennesimo inaccettabile ricatto politico contro il legittimo governo di una nazione sovrana», è del 6 luglio; il giorno dopo, l’ANSA ha dato notizia che “Dopo il via libera di Bruxelles al piano di ripresa e resilienza polacco, si sono registrati significativi passi in avanti nei negoziati tra Ue e Ungheria. Budapest ha accettato le condizioni della Commissione europea per l’approvazione del piano di ripresa e resilienza ungherese. Ad annunciarlo Gergely Gulyas, capo di gabinetto del premier: la posizione dell’Esecutivo europeo è stata accolta su quattro punti che riguardano, tra gli altri, la lotta alla corruzione, gli appalti pubblici e l’uso di parte significativa dei fondi europei per il raggiungimento del livello più alto possibile di indipendenza energetica, ma non è dato sapere, al momento, quale sarà la conclusione di possibile accordo sullo ‘stato di diritto’.

4. Il 13 luglio è stato approvato il progetto di relazione della LIBE-la commissione per le libertà civili del Parlamento europeo, con 47 voti favorevoli, 10 contrari e 2 astensioni, che verrà discusso e messo al voto nella prossima sessione plenaria in programma dal 12 al 15 settembre a Strasburgo: in base a esso la mancanza di un’azione decisiva dell’Ue ha contribuito all’emergere in Ungheria di un “regime ibrido di autocrazia elettorale“, e un ulteriore ritardo nella procedura di cui all’articolo 7 equivarrebbe a una violazione dello stato di diritto da parte dello stesso Consiglio dell’Ue.

Gli eurodeputati esortano, pertanto, la Commissione europea a ricorrere a tutti gli strumenti a disposizione e, alla luce della guerra russa contro l’Ucraina e delle azioni anti-Ue di Budapest, chiedono all’Esecutivo di non approvare il PNRR magiaro fino a quando l’Ungheria non avrà rispettato le raccomandazioni contenute nel semestre europeo e applicato le sentenze della Corte di giustizia dell’Ue e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tra le aree che destano preoccupazione: l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse, la libertà di espressione, tra cui il pluralismo dei media, il diritto alla parità di trattamento, compresi i diritti Lgbtiq, i diritti delle minoranze, migranti, richiedenti asilo e rifugiati.

5. E’ un caso che tutto ciò sia avvenuto appena qualche giorno dopo che l’Ungheria ponesse il veto all’introduzione della ‘global minimum tax’ in Europa, per la quale occorre l’unanimità dei consensi da parte dei 27 Stati membri, o è pensar male che si tratti della ennesima strumentalizzazione nell’ambito dello scontro, appunto, ideologico sopra descritto?

Ed è pensar male anche che chi vuole – come il Presidente del Consiglio, ovvero l’appena rieletto Presidente della Francia, Emmanuel Macron – introdurre meccanismi di superamento del criterio della unanimità (nonostante i casi di suo utilizzo siano già, a Trattati vigenti, ben limitati), non lo faccia solo per rendere la UE più capace di adottare misure adeguate contro le emergenze belliche o economiche, bensì per più agevolmente perseguire il disegno di una Europa ispirata non al rispetto della sua identità plurale, bensì alla omologazione del pensiero unico ‘progressista’?

 

REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA: SANCISCE IL FALLIMENTO DI UNA LEGISLATURA

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Il mancato raggiungimento del quorum costituisce non soltanto il naufragio dell’iniziativa referendaria – dagli obiettivi condivisibili, ma operata coi mezzi più confusi e contraddittori (cf. https://www.centrostudilivatino.it/referendum-per-la-giustizia-giusta-una-lettura-ragionata-dei-quesiti-proposti/)-, bensì pure il fallimento sui temi della giustizia di una intera legislatura: partita dalla manipolazione della prescrizione, proseguita con l’introduzione di istituti dagli effetti devastanti, quale l’improcedibilità in appello e in cassazione, e con destinazioni dei fondi Pnrr provvisorie e inutili, come l’ufficio per il processo, senza affrontare direttamente uno solo dei problemi emersi dal c.d. ‘caso Palamara’.

Se il bilancio è di cinque anni perduti, unitamente a risorse e a occasioni di riforme, il senso di responsabilità impone alle forze politiche, all’indomani di questa manifestazione di sfiducia dell’elettorato, di individuare i veri nodi della questione giustizia in Italia e, al di là delle divisioni, di assumere l’impegno perché la prossima legislatura sia dedicata ad affrontarli e a risolverli.

Ciò vuol dire, per restare allo stretto ambito della magistratura, puntare, oltre che a una vera e formale separazione delle carriere, che comunque ha bisogno di una modifica costituzionale, a estrapolare il giudizio disciplinare dal CSM, per affidarlo a un giudice non elettivo, ad adeguare gli organici di magistrati e personale di cancelleria, elevando l’attuale media della metà rispetto agli organici degli altri Pesi UE, a rivedere i meccanismi di ingresso nella funzione e di progressione in carriera, e quindi a cambiare le modalità del concorso e della nomina dei capi degli uffici.

Chi ha ricevuto un mandato dagli elettori, e siede in Parlamento e nel Governo, vari queste indilazionabili riforme, senza aggiramenti per via referendaria: che fanno tornare al punto di partenza, avendo nel frattempo bruciato tempo e denaro.

 

Dopo il covid, il virus dell’inflazione ritorna e si espande

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

L’inflazione, già invocata per anni dalla crisi del 2008, è infine arrivata insieme con la ripresa post – pandemica. E’ tornato, dopo il covid, il virus dell’inflazione, che rischia di contagiare tutto il mondo. Nella fase pre covid, nella UE, nonostante le erogazioni di liquidità della BCE, deliberate prima da Draghi e poi da Lagarde, l’inflazione non era mai riuscita a stabilizzarsi ai livelli prefissati del 2%. In Europa cioè, la ripresa dal 2008 in poi non si era dimostrata sufficiente per superare la lunga fase deflattiva generata dalla recessione.
Era comunque da considerarsi fisiologica la comparsa dell’inflazione nella fase post pandemica, a seguito di una ripresa della produzione non ancora sufficiente a coprire l’eccesso di domanda determinatosi in virtù della massa di liquidità erogata dalle banche centrali a sostegno di famiglie e imprese colpite dalla pandemia. Si prevedeva però che la comparsa dell’inflazione sarebbe stata temporanea e che essa sarebbe stata assorbita rapidamente dalla crescita dell’economia con la ripresa post – pandemica. Tuttavia tali previsioni sembrano essere state smentite dal perdurare dell’ondata inflattiva. Il presidente della FED Jerome Powell al Senato americano ha dichiarato: “È il momento di rinunciare all’aggettivo ‘transitoria’ riferito all’inflazione”. Negli USA il tasso di inflazione si attesta al 6,2%, un record negli ultimi 30 anni. Nell’area euro il tasso di inflazione medio è salito dal 4,1% di ottobre al 4,9% di novembre, con la punta massima del 6% in Germania, mentre in Italia si attesta al 3,8%, che è comunque la più alta percentuale registratasi dal 2008.
Tra le cause del fenomeno inflattivo si rileva l’eccesso di domanda in una fase di ripresa produttiva ancora limitata, il rincaro dei prezzi delle materie prime, l’aumento dei costi nel settore immobiliare e la prolungata carenza di forniture nelle economie avanzate. Secondo le previsioni del FMI, l’inflazione crescerà ancora nei prossimi mesi per poi ridursi a metà 2022 al 2%: “Le nostre previsioni sono per un picco dell’inflazione annuale nelle economie avanzate al 3,6% in media nei mesi finali di quest’anno, prima di regredire nella prima metà del 2022 al 2%, in linea con gli obiettivi delle banche centrali. I mercati emergenti vedranno aumenti più rapidi e l’inflazione raggiungerà il 6,8% in media, per poi scendere al 4%. Le proiezioni, però, sono accompagnate da una considerevole incertezza e l’inflazione potrebbe restare elevata più a lungo”. Da tali previsioni emergono però fondati motivi di incertezza riguardo agli sviluppi della crescita economica nel quadro globale. Il FMI rileva inoltre che i prezzi dei prodotti alimentari, aumentati con la pandemia del 40%, sono destinati ad incidere particolarmente nelle economie dei paesi in via di sviluppo, in cui la spesa alimentare costituisce la percentuale largamente maggioritaria dei consumi.
Questo repentino riaccendersi della spirale inflattiva è dunque assai preoccupante, per la sua incidenza su economie che non hanno ancora recuperato i livelli di Pil della pre – pandemia. Aggiungasi inoltre che l’economia europea già prima della pandemia non era riuscita a recuperare i livelli di crescita anteriori alla crisi del 2008.
L’emergere di una inflazione “non transitoria”, come affermato da Powell, richiederà dunque l’attenuarsi, se non la cessazione, delle misure espansive e si prospetta negli USA una accelerazione del “tapering”, la diminuzione progressiva cioè degli acquisti di titoli da parte della FED. Allo stato attuale nella UE, la BCE ha adottato un atteggiamento ispirato alla prudenza: si giudica prematuro il taglio dei sostegni fiscali in una fase economica di ripresa dominata dall’incertezza. Ma è comunque avvertito il rischio di una ondata inflattiva prolungata che potrebbe pregiudicare la ripresa. E’ altresì evidente che un taglio drastico delle misure espansive negli USA, accompagnato dall’aumento dei tassi di interesse, coinvolgerebbe anche l’Europa, data la interdipendenza delle economie su scala globale. E’ tuttavia prevedibile che le attuali leggi bilancio espansive non potranno essere replicate dal 2023 in poi, con il concreto rischio per la UE di un ritorno a politiche di austerity che avrebbero effetti devastanti su una ripresa ancora fragile.
L’aumento dei tassi determinerebbe infatti l’ulteriore espandersi del debito pubblico degli stati (in particolare dell’Italia, il cui debito è pari al 157% del Pil), già incrementatosi a dismisura nella fase pandemica. Una inflazione prolungata inoltre, comporterebbe la svalutazione dei fondi europei del Pnrr, i cui effetti sugli investimenti verrebbero gravemente compromessi.
In Italia non saranno certo gli sconti fiscali della recente riforma, né i fondi stanziati per far fronte al caro – bollette, a compensare la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni che verrà decrementato dal rincaro di prezzi e tariffe. Afferma Luca Ricolfi in un articolo su “La repubblica” del 01/12/2021: “Per capire perché, dobbiamo fare i conti con il convitato di pietra del dibattito sulla legge di bilancio: l’inflazione. Se ne parla ancora poco, ma la realtà è che già oggi l’inflazione ha rialzato la testa (+3,8%, secondo le ultime stime dell’Istat) e nessuno sa ancora se il rialzo sarà temporaneo o permanente. Ma, a parità di altre condizioni (ossia: se i redditi nominali restano fermi), una inflazione anche solo del 3% significa una perdita di potere di acquisto di circa 30 miliardi, che assorbirebbe completamente gli 8 miliardi di sgravi promessi. Siamo come commensali che litigano sugli antipasti, senza accorgersi che qualcuno si sta portando via il resto del pranzo”.
Questa ondata di inflazione incombe peraltro su di un paese devastato, oltre che dalla pandemia, dalle sciagurate politiche deflattive dell’austerity, che hanno determinato l’accentuarsi progressivo delle diseguaglianze, la precarietà del lavoro, fratture sociali insanabili, tagli drastici del welfare.
Nonostante le politiche espansive messe in atto dalla BCE per far fronte alla crisi pandemica e le previsioni di crescita del Pil italiano per il 2021 del 6,3%, a novembre si è registrata una flessione dell’indice di fiducia dei consumatori, a causa del clima d’incertezza riguardo alle attese legate all’evolversi della situazione economico – sociale italiana. Permane dunque una percezione negativa nella popolazione riguardo al futuro dell’Italia. Tale orientamento, pessimistico nella sostanza, incide negativamente sulla propensione al consumo a sugli investimenti. Occorre tener conto peraltro che l’Italia è più povera rispetto al 2007 e la sfiducia induce a contenere i consumi, alimentando anche la propensione al risparmio (almeno per quella parte sempre più esigua della popolazione che dispone ancora di quote di reddito da destinare al risparmio). Sugli stessi investimenti incombe l’incertezza delle prospettive economiche. Per i mutui di nuova concessione si registra infatti l’incremento del tasso medio di interesse dall’1,25% del 2020 all’1,42% del 2021. Tale rialzo dei tassi è dovuto ad una politica bancaria volta a cautelarsi rispetto agli eventuali aumenti dei tassi che si verificherebbero qualora l’ondata inflattiva si protraesse nel tempo.
Gli aumenti delle tariffe non saranno certo temporanei. Infatti, al di là della crisi pandemica, si verificherà nel tempo un aumento progressivo del consumo di elettricità. Con la transizione ambientale, le auto elettriche sostituiranno quelle a diesel e benzina. E’ documentato che se oggi tutte le auto in circolazione a Milano fossero elettriche, non si sarebbe più in grado nemmeno di accendere un interruttore della luce. Occorrerà pertanto produrre grandi quantità di energia elettrica aggiuntiva. Ma al momento, non si sa come e a quale prezzo. La transizione ambientale verso le energie rinnovabili richiederà tempi lunghi e l’impiego di ingenti risorse pubbliche e private. Ma a quali costi, per una popolazione già depauperata da decenni di crisi economiche e pandemiche? Quanto potranno incidere i nuovi investimenti su una crescita economica oggi fragile e precaria? Domande allarmanti cui nessuno fornisce risposte adeguate.
L’inflazione tuttavia potrà incidere positivamente sul peso degli interessi del debito pubblico. A tal riguardo, così si esprime Luca Ricolfi nell’articolo de “La Repubblica” sopra citato: “La seconda ragione per cui ritengo verosimile, almeno nel breve periodo, il permanere di un’inflazione elevata, è che l’inflazione stessa è un formidabile strumento per alleggerire il peso del debito pubblico. L’inflazione, prima o poi, trascina con sé un aumento dei redditi monetari, che gonfia il Pil nominale e così contribuisce a ridurre il rapporto debito – Pil, da cui dipende la sostenibilità dei nostri conti pubblici”.
Occorre comunque rilevare che il costo dell’inflazione ricade sui cittadini, specie sulle fasce più deboli, che subiranno rilevanti decurtazioni su salari e risparmi. L’inflazione determina inoltre un incremento solo monetario dei redditi e pertanto può produrre, in termini reali, un aumento della pressione fiscale (fiscal drag), qualora non si provveda ad una costante rimodulazione delle aliquote fiscali. Un esempio paradigmatico del costo dell’inflazione sostenuto dai lavoratori ci viene fornito dagli effetti prodotti dalla soppressione della scala mobile avvenuta nel 1992 con il governo Amato. Fu infatti soppresso il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni alle variazioni dell’indice dei prezzi al consumo, al fine di eliminare la spirale inflattiva. Ma al blocco delle retribuzioni non corrispose il congelamento dei prezzi e pertanto, furono solo i redditi dei lavoratori a subire l’erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni determinato dall’inflazione.
L’incombere dell’ondata inflattiva metterà nuovamente in luce i guasti e le contraddizioni interne del sistema neoliberista. Dalla crisi del 2008 il sistema ha potuto perpetuarsi in virtù delle politiche di espansione illimitata della liquidità messe in atto dalle banche centrali e dei tassi a zero, se non in territorio negativo. Qualora per combattere l’inflazione si facesse ricorso a politiche di restrizione della liquidità con contemporaneo aumento dei tassi di interesse, potrebbero manifestarsi crisi strutturali non governabili.
Lo stesso aumento vorticoso delle materie prime e la crisi della produzione della componentistica, sono fenomeni legati alle catene di fornitura geograficamente assai estese (specie in Asia), in virtù della delocalizzazione industriale e alla scarsità di scorte imposta dalla logica di massimizzazione del profitto.
Nella stessa UE, la Germania, che già invocava il ripristino del patto di stabilità, potrebbe essere indotta, (sull’onda emotiva di una popolazione assai sensibile alla crescita dell’inflazione, dati i precedenti storici),  con il manifestarsi di una ondata inflattiva al 6% al ritorno alle politiche di austerity. Tuttavia, la crisi dei chip, che ha determinato un calo di produzione nel settore dell’auto del 18%, facendolo retrocedere ai livelli del 1975, potrebbe dar luogo ad una crisi destinata ad incidere sulla stabilità interna e dell’Europa stessa.
In un futuro dominato dalla incertezza, se non dal panico, prevedibili crisi e conflittualità vecchie e nuove, potrebbero verificarsi alla lunga trasformazioni strutturali di un sistema neoliberista, non in grado di generare nuove forme di sviluppo e già peraltro rivelatosi iniquo e fallimentare.