Stefania Craxi: Draghi? Dimostra tutta l’attualità del presidenzialismo di mio padre

Condividi su:

di Ferdinando Bergamaschi

Stefania Craxi: “Non mi chiami senatrice, preferisco senatore”. La battuta rivela tutta la sicurezza della figlia di Bettino Craxi, che a Palazzo Madama siede tra i banchi di Forza Italia. Il senatore ha uno sguardo dolce ma sempre attento, e l’atteggiamento di chi ama raccontarsi ma anche confrontarsi. Arriva da Parigi nella Milano di suo padre e osserva con piacere la Madonnina che appare ben distinta dalla vista che ci offrono le finestre del settimo piano che ci circondano. Poche formalità, ed entriamo subito nel vivo del discorso.

A questo punto della sua carriera politica che bilancio fa della sua esperienza parlamentare?
“Innanzitutto non sono in Parlamento per far carriera. Ho fatto questa scelta perché ho condotto e conduco una battaglia per rendere onore e merito a un uomo che ha lavorato tutta la vita per il bene del suo Paese. Ed è più facile farlo avendo un pulpito nazionale piuttosto che no. Mi è servito indubbiamente per avere consensi, ma lo spettacolo che da tempo offre il Parlamento italiano è miserevole; d’altronde questo accade da quando hanno distrutto i partiti, che avevano una funzione molto importante”.

Qual era questa funzione?
“Innanzitutto selezionavano una classe politica. La politica è una grande passione che richiede esperienza, confronto con la vita degli italiani e delle italiane. Una volta i partiti ti facevano fare una scuola di vita con percorsi che duravano anni. E che cominciavano dal basso, dalle periferie, dai piccoli paesi. Il fatto che oggi il Parlamento sia formato da persone che per lo più nella vita fanno altre cose è stato un depauperamento grave della politica e della nostra democrazia”. 

In Italia si è tornati a parlare di presidenzialismo. Pensa che il progetto di riforma costituzionale disegnato da suo padre in tal senso sia ancora attuale e perseguibile?
“Craxi parla della grande riforma istituzionale comprensiva del presidenzialismo nel lontano 1979. Lui aveva visto che quel sistema nato alla fine della guerra e che a quell’epoca era giusto, oggi di fatto impedisce il governo del Paese. Credo che Craxi fosse lungimirante quarant’anni fa e che il presidenzialismo sia di totale attualità; e credo anche che in questi vent’anni il Paese si sia avviato naturalmente verso un sistema presidenziale; basti vedere la fiducia che si è riposta nei presidenti della Repubblica e oggi nello stesso Draghi che di fatto sta governando con un sistema semipresidenziale. È la politica ad essere in ritardo”.

A proposito del premier, come pensa che finirà la partita del Quirinale? Draghi potrà salire al Colle già nel febbraio del 2022?
“Come sempre è successo nella nostra Repubblica la partita del Quirinale è molto complicata. Una volta si diceva: chi entra Papa esce cardinale. Non è mai detto che il candidato previsto sia quello che esce. Pensi al caso di Pertini, di Scalfaro e a tanti altri. Credo che Draghi, una volta fatte le riforme necessarie a consentirci di portare a casa i soldi del Pnrr (che, ci tengo a precisare, sono in gran parte debiti) probabilmente ambirà ad andare al Quirinale. E credo che sarà difficile per i partiti che oggi lo sostengono non votarlo. Tuttavia la ritengo una partita ancora aperta”. 

Torniamo a suo padre: lei pensa che la mancanza di servilismo che lo caratterizzava nei confronti degli altri partiti, dal Pci alla Dc e verso la dirigenza del suo partito (il Psi), così come nei confronti delle maggiori potenze straniere – vedi la crisi di Sigonella – abbia poi giocato un ruolo decisivo nel linciaggio giuridico-mediatico che ha subìto?
“Più che di mancanza di servilismo parlerei delle convinzioni profonde – giuste o sbagliate che fossero – che guidavano Craxi nelle sue decisioni politiche. Non si è mai posto un problema di opportunità. Certamente il suo carattere non lo ha aiutato, perché era un uomo libero. E si sa, gli uomini liberi difficilmente sono digeribili, soprattutto in un Paese che è stato molto spesso servo”.  

Ritiene che l’azione politica così incisiva e carismatica di suo padre sia stata in qualche misura ereditata da uno o più partiti di oggi? Se sì, quali sono questi partiti? E di cosa sono debitori dell’azione politica di Bettino Craxi?
“Craxi lascia indubbiamente un’eredità politica che è un patrimonio di idee capace di dare ancora buoni frutti. Che ci sia un partito che lo abbia ereditato in toto, credo di no; certamente alcune visioni, come quella del sistema presidenziale, si ritrovano più in un centrodestra che non in una sinistra che oggi senza ragione, senza storia e senza verità pretende di dirsi riformista. In realtà, dico sempre che è una usurpazione mancata: è come nel film Blade Runner, sono dei replicanti che vestono abiti non loro. Quella di Craxi comunque è un’eredità ancora viva nella disponibilità non di una persona, né di un partito ma dell’intera Nazione”. 

Bettino Craxi aveva grande ammirazione per Garibaldi e teneva in grande considerazione anche Mazzini. La personalità di suo padre si abbeverava alla fonte della sinistra risorgimentale. Il 2 giugno 1985 nel commemorare Garibaldi all’isola di Caprera, ebbe a dire: “Io considero un dovere il rinnovare la memoria delle idee, dei fatti e degli uomini che innalzarono l’Italia al rango di Nazione. La coscienza nazionale non è una retorica presunzione nazionalistica”. Questo concetto di coscienza nazionale oggi è forse più attuale che mai? Draghi oggi è, o può essere, la coscienza nazionale?
“Craxi era una personalità del tutto straordinaria perché aveva un esprit risorgimentale fortissimo; basti pensare che è un uomo che ha rinunciato alla sua vita per difendere le sue idee: un gesto di un altro secolo. E al tempo stesso aveva uno sguardo estremamente lungimirante sul  futuro. Era veramente un ‘ircocervo’ particolarissimo”.

E il suo amore per Garibaldi?
“Era un amore per l’Italia, per le battaglie combattute nel Risorgimento, per il pensiero di Garibaldi che era un socialista umanitario (andava al Senato col poncho e parlava di povertà, diritti, parità tra uomo e donna, elezione dei magistrati). A un certo punto addirittura la vita di Craxi si è sovrapposta alla vita del suo idolo…”.

In che senso, senatore Craxi?
“Se lei pensa che Garibaldi, pochi giorni dopo la morte di Anita, inseguito da cinque eserciti si imbarca per Tunisi dove rimarrà un anno in esilio; se lei pensa che entrambi concludono la loro vita da sconfitti, guardando quello che succede all’Italia con amarezza. Garibaldi ebbe a dire: ‘Non è questa l’Italia che io sognavo: miserabile al suo interno e derisa al suo esterno’. Potrebbero essere parole pronunciate anche da Craxi nell’ultimo periodo della sua vita, perché era un patriota. Quindi l’interesse della Nazione, scevro da ogni tentazione nazionalistica, era per lui un faro”.

Ci fa un esempio concreto?
“Certo. Anche quando ha dato vita all’Atto Unico Europeo, non ha mai pensato a un’Europa dove non si potessero difendere gli interessi nazionali. Oggi quella coscienza nazionale così intesa è d’attualità. Lo confermano anche le espressioni più estremiste, come questo sovranismo, che non si capisce bene cosa sia. Ma è comunque la reazione ad una globalizzazione finanziaria che ha preteso che non esistessero più popoli e nazioni; invece i popoli e le nazioni esistono ed esiste quindi una coscienza nazionale”.

E Draghi oggi può rappresentarla?
“È un uomo tenuto in grande considerazione internazionale, di grande livello culturale, di conoscenza, ma è un banchiere. Il suo mondo di riferimento non è mai stato un mondo nazionale e si riferisce ad ambienti sovranazionali: non saprei dirle se Draghi può essere espressione della coscienza nazionale”. 

Quale pensa possa essere la critica maggiore, formale e sostanziale, che si può muovere a Bettino Craxi?
“Il suo errore politico più grande fu, nel 1991, fidarsi dei comunisti, fare un gesto di lealtà nei loro confronti e non andare alle elezioni. Era caduto il Muro di Berlino, probabilmente sarebbero stati distrutti. Craxi pensava che la storia avrebbe fatto il suo corso e avrebbe portato i comunisti sulla strada di una socialdemocrazia matura, di un socialismo liberale. Ma ciò non è avvenuto, neanche oggi. Un altro errore, sul piano umano, è l’aver dato fiducia a persone che forse non la meritavano”.  

Suo padre, in un’intervista, raccontava che da ragazzo andava a portare dei fiori a Piazzale Loreto dove 15 antifascisti (tra cui diversi socialisti) erano stati uccisi dai fascisti. Poi che un giorno, arrivato a Giulino di Mezzegra sul lago di Como con moglie e figli, decise di portare dei fiori davanti al cancello di Villa Belmonte, luogo simbolo dell’uccisione di Benito Mussolini. E che quando si recava al cimitero di Musocco era solito portare dei fiori anche agli sconfitti della Seconda guerra mondiale… Lei crede che gesti così nobili possano aiutare a far sì che la coscienza italiana possa riappacificarsi con se stessa?
“Guardi, le rispondo così: ho trovato assolutamente ridicola la polemica odierna su fascismo e antifascismo. Sono passati 70 anni e una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe non dividersi ma lavorare per una pacificazione nazionale”.

Lo ritiene possibile?
“No. Basta vedere lo scontro paradossale e ridicolo di questi giorni in cui si è divisa tra fascisti e antifascisti sempre con due pesi e due misure”.

Quali sarebbero?
“Non si capisce perché si chiede a chi ha nell’album di famiglia la storia del fascismo di abiurarla e nessuno dall’altra parte ha mai pensato di abiurare la storia del totalitarismo comunista. Quella di portare i fiori a Piazzale Loreto sia dove è stata consumata quella scena barbara, cioè lo scempio del cadavere di Mussolini, sia dove sono stati uccisi 15 resistenti socialisti, è una cosa che mi riprometto di fare ogni 25 aprile e che mi piacerebbe molto fare. Devo trovare qualcuno che abbia il coraggio di venire con me”.

Mario Draghi e la partita che va oltre il Quirinale…

Condividi su:

LETTERE DEL LETTORE

Riceviamo e pubblichiamo l’interessante articolo ricevuto e pubblicato anche su https://www.ilmiogiornale.net/mario-draghi-e-la-partita-che-va-oltre-il-quirinale/

di Ferdinando Bergamaschi

Draghi non è Monti. Non è l’uomo che le élite euroglobaliste in avanzata avevano imposto per il tramite di Napolitano. Non è l’uomo che imporrà politiche assurde di austerity, marchiate “lacrime e sangue”. Mario Draghi è un keynesiano sincero e illuminato che sì, ha lavorato per la Goldman Sachs, ma che evidentemente non ha assimilato dall’alta finanza l’inconfessabile strategia di voler soppiantare popoli e nazioni con un nuovo tipo di uomo completamente sradicato da patrie e territori d’origine. Un tipo d’uomo disposto a tutto pur di rincorrere la neo-divinità “capitale” (che per definizione non ha né patria né territorio). 

Il garante italiano

Draghi, checché ne dicano i sovranisti estremisti, è un uomo di ri-equilibrio e di mediazione tra il nazionale e il sovranazionale, che in più di un’occasione non ha temuto di mettersi contro la Bundesbank e i rigoristi. Per queste doti, e quindi per la sua mancanza di servilismo nei confronti degli altri Stati, specialmente di Germania e Francia, il premier italiano a livello internazionale gode di grande considerazione. A maggior ragione dopo l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, viene visto come l’uomo forte dell’Europa.

La partita del Colle

Ecco perché nessun partito, escluso Fratelli d’Italia e poche altre frange d’opposizione, vuole fare a meno di lui, anche se per diverse ragioni legate sia alla strategia sia alla tattica e all’opportunismo. Ed è per questo che l’ex governatore della Bce assume un ruolo da protagonista anche nella difficile partita del Quirinale. Anzi, il ruolo che può assumere Draghi in questa partita ne fa forse qualcosa di più che non la semplice corsa al Colle.

Non è affatto da escludere infatti che il presidente del Consiglio voglia consolidare una “scalata al potere” – in senso neutro, né positivo né negativo – che coinciderebbe con le sue ambizioni personali e con quelle dell’Italia. La sua permanenza ai gradi massimi dello Stato potrebbe quindi allungarsi, con una convergenza tra tutti i partiti che lo sostengono.  

Questo lo si può dedurre sia da come si è mosso Draghi finora, sia da quello che è il suo tasso di gradimento fra gli italiani. Sul primo punto, il premier si è espresso sinora in modo trasversale: ha abbracciato nel modo più netto possibile la causa della transizione ecologica; ha detto di non volere alzare le tasse (“È il momento di dare, non di prendere”); ha affermato che condivide nello spirito di fondo il reddito di cittadinanza; si è espresso in favore di un patto sociale che coinvolga sindacati e Confindustria.

Draghi politicamente poi si è definito un socialista liberale, e non si può non pensare, rispetto a questa definizione, a due figure in particolare: Carlo Rosselli e Bettino Craxi. Si è messo cioè al centro rispetto all’asse politico formato dai partiti, ma restando pur sempre al di sopra degli stessi.
Circa il secondo punto, che è strettamente legato al primo, il gradimento del premier presso gli italiani rimane altissimo, attorno al 70%.

Verso il presidenzialismo?

Entrambi questi fattori potrebbero così far pensare anche alla possibilità di una svolta presidenzialista della nostra Costituzione sotto l’egida di Draghi, per esempio sul modello francese. Un’ipotesi che già dalla fine degli anni 70 era stata prospettata da Craxi. Il leader socialista si era reso conto che l’eccesso di parlamentarizzazione delle decisioni e del potere di veto rappresentava un grave deficit per le capacità di manovra della Presidenza del Consiglio (e ciò in una logica sia governista, sia come maggior riconoscimento dell’opposizione, allora rappresentata dai comunisti). 

Il lodo Giorgetti

Un Draghi come De Gaulle, insomma. Ed è proprio come il generale francese che lo vede uno dei più importanti rappresentanti del Governo, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Intervistato da La Stampa ha affermato anche che “è nell’interesse del Paese che Draghi vada subito al Quirinale”. E ha aggiunto: “Appena arriveranno delle scelte politicamente sensibili la coalizione si spaccherà”, sottolineando che “Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente”.

Allo stesso modo del ministro leghista sembra pensarla Confindustria, che per voce del suo presidente Carlo Bonomi ha definito Draghi “l’uomo della necessità”. Un’ipotesi sottesa anche in un’intervista di Matteo Renzi a La Repubblica, quando il leader di Italia Viva ha detto che l’asse con il centrodestra per la partita del Quirinale “non solo è possibile, ma probabile”.

 Appuntamento a febbraio

Percorribile, ma fino a un certo punto, sarebbe invece la strada di riproporre Mattarella al Quirinale fino a fine legislatura, nel 2023, per poi “incoronare” al Colle l’ex presidente della Bce. Come nel caso di Napolitano nel 2013, anche qui servirebbe un’ampissima maggioranza parlamentare per il sì di Mattarella. Ma affinché questo si verifichi, bisognerebbe convincere non solo Meloni ma anche Salvini. E comunque, in questo caso, Draghi dovrebbe sopportare quell’anno di campagna elettorale che paventava Giorgetti. Ecco perché la strada più probabile rimane quella del premier già al Quirinale nel febbraio prossimo.