Draghi tenta la fuga per la seconda volta: in alternativa, i pieni poteri

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di Redazione

Quando in Italia si prospetta una crisi di governo, generalmente diventiamo tutti politologi. Tutti vorrebbero dire la loro per essere i primi ad aver azzeccato il pronostico. E’ la solita mentalità da tifoseria, che ci caratterizza e rende, anche un po’ macchiette, come quelle che ben scimmiottava Alberto Sordi. Onde evitare il toto-governo e le paventate elezioni che servono a far scrivere i giornali d’estate, con l’editoria già in crisi perenne, riteniamo opportuno affidarci a una analisi equilibrata. Ricordiamo che la data del 24 Settembre è fondamentale per i parlamentari, in quanto è quella che garantisce loro il vitalizio. Infine, sappiano bene i nostri lettori che in Italia non ci può essere vera crisi finché essa non produce effetti di radicale cambiamento. A nostro avviso, non c’è alcun partito, oggi, che dia garanzie di questa intenzione.

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Rispetto alla prima volta situazione più grave: rischio crollo del Btp e l’ora delle scelte ultime. A Chigi un Draghi con pieni poteri, o un premier sacrificabile

La crisi di governo è stata assai ben inquadrata da Federico PunziSua Competenza ha “fin dall’inizio inteso questa esperienza di governo come un’anticamera, un dazio da pagare prima di salire con tutti gli onori al Colle”, mentre invece era una trappola giacché “al Quirinale il piano era dall’inizio la riconferma di Mattarella, e la sua chiamata a Chigi un modo elegante per mettere fuori gioco un titolato pretendente”. Cioè, il nostro aveva già tentato la fuga da Chigi.

Visto che quel primo tentativo di fuga era andato male, continua Punzi, Sua Competenza ne sta tentando un secondo: “coglierebbe al volo l’occasione di una fuoriuscita dei 5 Stelle per sfilarsi anche lui”.

Infatti, egli oggi usa esattamente le stesse parole che usava l’altra volta che ha tentato la fuga: martedì egli “ha rivendicato che tutti gli obiettivi del Pnrr sono centrati … ricordiamo che già mesi fa, poco prima dell’apertura delle votazioni per il Quirinale, fu lo stesso Draghi ad affermare in conferenza stampa di ritenere compiuta la missione assegnatagli”.

E però, pure stavolta i suoi carcerieri cercano di impedirgli la fuga. Conclude Punzi: “ha provato ad andarsene, ma accettando di essere rimandato davanti alle Camere per la verifica, di fatto ha concesso ai suoi carcerieri, Mattarella e Pd, altri cinque giorni, che questi useranno per inchiodarlo alla croce che dovrà portare fino a fine legislatura”.

Differenze fra i due tentativi di fuga

I due tentativi di fuga sono diversi fra loro, per quanto riguarda la crisi energetico-ucraina: perché allora Biden ed i suoi alleati erano persuasi di poter vincere la Russia con le sanzioni e le armi a Kiev, mentre oggi tale esito è tutto meno che scontato.

E sono diversi fra loro, per quanto riguarda la crisi del Btp: perché allora Bce aveva annunciato che avrebbe smesso di comprare titoli di Stato, mentre oggi ha smesso per davvero e, anzi, sta per aumentare i tassi ufficiali di interesse.

Se, fin dal primo tentativo, la situazione appariva a Sua Competenza abbastanza compromessa da spingerlo a puntare tutte le proprie carte su una fuga al Quirinale … figurarsi oggidì che le cose si son fatte molto più gravi.

E non è tutto, perché presto potrebbero farsi ancora più gravi: giovedì 21 luglio, il giorno dopo il previsto reddere rationem al Parlamento italiano, Bce si riunirà e dovrebbe scoprire le carte sul fantasmagorico scudo anti-spread salva-Btp.

Se quest’ultimo confermerà le attese rivelandosi un accrocchio inservibile … e tanto più se esso coinvolgerà strutturalmente il MES (cioè la Troika), allora il Btp crollerà. E con esso le residue speranze di Chigi in un decisivo indebolimento tedesco nel contesto dello scontro in corso fra Usa e Germania. Nonché la residua legittimazione magico-politica di Sua CompetenzaL’Iceberg sarebbe infine giunto.

Quindi, se è vero che i due carcerieri son riusciti a tenerlo in gabbia a Chigi quella prima volta, non è detto ci riescano questa seconda volta.

Lo Stato Italiano di fronte alle scelte ultime

Per intanto, Sua Competenza ed i suoi carcerieri hanno guadagnato un vantaggio tattico: i cinque giorni bastano ad anticipare parte di quel crollo del Btp che avverrebbe comunque dopo la presentazione dello scudo anti-spread.

E servono a trovare una scusa per il carattere inservibile di quest’ultimo. Addossandone la colpa su Giuseppe Conte e scaricandola dalle spalle di Bce e di Sua Competenza (che pure il Parlamento tutto pensava avrebbe esercitato una magica influenza su Francoforte).

Un vantaggio tattico, appunto, ma tutt’altro che strategico visto che, se lo scudo anti-spread si presenterà davvero come inservibile, allora la caduta del Btp non potrebbe far altro che proseguire come e peggio di prima. Reuters già scrive che il Btp crollerà comunque, perché il problema è la crescita del Pil: “la situazione fiscale non è la causa, è la conseguenza di quella debolezza” e specifica che Sua Competenza non la ha risollevata.

Sicché, chiunque siederà a Chigi, la Repubblica Italiana si troverà presto di fronte alle scelte ultime: la ristrutturazione del Btp, o l’esproprio di massa di una quota degli immobili, o la mega-patrimoniale sui conti correnti, seguite da un bail-in di massa ed accompagnate dal controllo dei movimenti dei capitali; oppure, meglio, il solo controllo dei movimenti dei capitali … garantendo così il finanziamento del Btp.

Da notare, che il controllo dei movimenti dei capitali sarebbe comunque necessario anche se inevitabilmente avvia la dissoluzione dell’Euro. Esito che è comprensibile non ecciti l’amor proprio di Sua Competenza: trovarsi lui, che firmava le banconote dell’€unico, a firmare quelle dell’€sud o, meglio ancora, della Nuova Lira Italiana.

Un premier sacrificabile, o una mano forte

Orbene, tali scelte ultime non possono essere consensuali: troppi gli interessi ed i diritti (anche costituzionali) in gioco, troppo forti le proteste che verrebbero scatenate, troppa la gente che ha troppo da perdere. Per vararle, servirà un primo ministro sacrificabile, o una mano forte.

Sua Competenza preferirebbe la prima soluzione: andarsene, passando la mano ad un primo ministro sacrificabile (tipo Fernando de la Rúa), per poi magari ricomparire come salvatore della patria ma a cose fatte. Solo, egli non accetta di essere lui il sacrificato.

In subordine, Sua Competenza potrebbe accettare di essere lui la mano forte. Forte, per poteri a disposizione: i poteri di un primo ministro che gode della obbedienza assoluta della larghissima maggioranza del Parlamento, come al principio di questo governo, magari pure oltre la scadenza prevista della legislatura.

A meno di non voler ricorrere ai poteri speciali di uno stato di eccezione, come pure è stato fatto col Covid ed è pure stato immaginato di istituzionalizzare ma, sin qui, senza esito definitivo.

Sicché, sarebbe sbagliato interpretare le preoccupazioni di Sua Competenza come un fatto caratteriale. Non di capriccio si tratta, ma di seri argomenti di una seria trattativa: se davvero i suoi carcerieri preferiranno tenerlo incatenato a Chigi, ebbene in cambio gli dovranno dare tutti i poteri che egli pretende. In difetto, entrerà in scena il primo ministro sacrificabile.

Fonte: https://www.nicolaporro.it/atlanticoquotidiano/quotidiano/politica/draghi-tenta-la-fuga-per-la-seconda-volta-in-alternativa-i-pieni-poteri/?utm_source=nicolaporro.it&utm_medium=link&utm_campaign=atlantico

 

Mattarella, il bis degli incapaci

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PARTITA DEL QUIRINALE ANCORA IN STALLO. LETTA PUNTA SU DRAGHI E MATTARELLA BIS. MA È UN ERRORE

di Giuseppe De Lorenzo

Gli scatoloni così come li hai riempiti, facilmente puoi svuotarli per far tornare appunti e ammennicoli al loro posto. Giovanni Grasso, scaltro portavoce di Sergio Mattarella, lo sa benissimo. E il presidente della Repubblica anche. Se ne è andato a Palermo per qualche giorno, all’uscita dalla messa alcuni cittadini gli hanno chiesto di restare al Colle, un po’ come accadde alla Scala. E per quanto il Capo dello Stato abbia ripetuto urbi et orbi che non intende replicare il settennato, la possibilità è meno peregrina di quanto ci si possa attendere. Non tanto per volontà di Mattarella, cui ovviamente altri sette anni di sue foto in tutti i tribunali non farebbero schifo. Ma soprattutto per l’incapacità manifesta della classe politica di produrre un’alternativa.

Per intenderci: secondo la Costituzione può essere eletto “ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici”. Ci saranno più di 20 milioni di italiani che rispondono a queste caratteristiche. Certo: nessuno s’immagina un epilogo stile “Benvenuto Presidente” di Claudio Bisio, con un ignaro Giuseppe Garibaldi eletto per errore e senza esperienze politiche pregresse. Ma certo l’elenco di uomini delle istituzioni è ben fornito di ultra 50enni dalle indubbie capacità etiche e morali. Possibile che i partiti debbano anche solo pensare all’ipotesi di rimettere Mattarella sul Colle più alto di Roma?

La riconferma di Sergio sarebbe la pietra tombale sulla credibilità della politica. E non perché Mattarella non sia stato un discreto presidente, per quanto interventista e tutt’altro che “super partes”. Ma perché dimostrerebbe l’incapacità dei leader di trovare un accordo e di partorire alcunché, proprio come avvenne con Giorgio Napolitano. Renderebbe plastica l’inettitudine del centrodestra di mettersi d’accordo su un nome condiviso, quando avrebbe l’opportunità più unica che rara nell’ultimo secolo di nominare (finalmente) un arbitro non ostile. Ma sarebbe anche una debacle per la sinistra, tutta spocchia e veti, che da settimane si occupa solo di boicottare gli avversari convinta di avere il diritto divino di dare le carte, ma che si ritrova a lunedì 24 gennaio altrettanto priva di nomi realmente presentabili.

Certo resta in piedi l’opzione Draghi, il quale però nasconde dei rischi per la tenuta del governoPierferdinando Casini qualche chance le ha. Casellati, Pera e Moratti per ora si scontrano contro l’incomprensibile veto del Pd. E poi? Nessun altro? Il fatto che Letta ritenga “il massimo” e “la soluzione perfetta” la rielezione di Mattarella dà il senso del crinale da cui la politica italiana sta precipitando. Incapace di accordarsi su un nome “nuovo”, preferendo l’usato sicuro.

Giuseppe De Lorenzo, 24 gennaio 2022

Fonte: https://www.nicolaporro.it/mattarella-il-bis-degli-incapaci/

Quirinale: chi vincerà la partita del Colle tra Meloni, Salvini, Letta e Conte?

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di Ferdinando Bergamaschi

Quirinale: sulla conquista del Colle si sta giocando una partita nella partita. Non solo quella tra chi ambisce alla carica di presidente della Repubblica. Ma anche tra i leader dei partiti che sull’elezione del capo dello Stato ipotecano una bella fetta di futuro.

Se nelle elezioni del 2015 gli attori principali sulla scena erano il 64enne Pierluigi Bersani e il 78enne Silvio Berlusconi, adesso il quadro è ben diverso. In realtà c’è una costante ed è naturalmente Matteo Renzi. Ma oltre a lui, oggi 47enne, gli altri protagonisti del match sono sempre quaranta-cinquantenni: Giorgia Meloni (44 anni), Matteo Salvini (48), Enrico Letta (55) e Giuseppe Conte (57). 

Un dato anagrafico che evidenzia un sostanziale svecchiamento della classe politica italiana. Se ai nomi già citati infatti aggiungiamo quello di Luigi Di Maio (35 anni), si tratta probabilmente della classe politica più giovane che si sia mai giocata la partita del Colle nella storia della Repubblica. E allora vediamo le mosse di ognuno di loro.

Le ambiguità di Salvini

Da leader nazional-populista con sedicenti ambizioni di rompere gli schemi tra destra e sinistra, il leghista Salvini da un paio d’anni a questa parte si è ritrovato ad essere un liberal-populista (come già lo era stato Berlusconi), dovendo rincorrere a destra la Meloni che sopravanza. Da quando, in pieno Covid, è entrato nel governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi ha assunto un atteggiamento molto ambiguo sia nei confronti della pandemia sia nei confronti del governo medesimo. Con questo atteggiamento non ha guadagnato al centro e ha perso a destra fino a farsi sorpassare nei sondaggi dal partito di Giorgia Meloni, se non altro più coerente nella sua linea politica.

Venendo ad oggi, nella partita del Colle, Salvini sembra muoversi su due versanti. Questa volta la sua ambiguità viene riversata sul centrodestra. Da un lato ha sostenuto ufficialmente la candidatura di Berlusconi, dall’altro negli ultimi giorni ha fatto sapere che le carte della Lega devono ancora essere scoperte. E in effetti oggi ha prima annunciato di voler coinvolgere Berlusconi nella scelta di un nome per il Colle (e quindi implicitamente ha escluso quello del presidente di Forza Italia) e poi ha incontrato Conte per cercare una soluzione condivisa. 

Letta in stand by

Democristiano di sinistra, Letta da lungo tempo, come tutto il Pd (sia quello post-democristiano sia quello post-comunista) ha abbracciato la corrente dem, allineandosi con l’impostazione delle più importanti sinistre occidentali a partire da quella americana. Richiamato circa un anno fa a sostituire il dimissionario Zingaretti alla segreteria, secondo D’Alema, ha avuto il merito di guarire il Pd dal virus del renzismo. Merito che ovviamente per Letta è irricevibile, non potendo ammettere che lo stesso fosse malato. 

Nella partita del Colle Letta ha da giocare i numeri del campo che comprende l’alleanza tra Pd e 5 Stelle. Punto fermo il contrasto alla candidatura di Berlusconi. Si è spinto a far sapere di apprezzare la figura di Amato. Non potendo dare le carte, aspetta. E vedremo se, davanti a una diversa e nuova proposta del centrodestra, Letta giocherà di sponda, oppure se, come sul Ddl Zan, deciderà di andare al muro contro muro. 

Meloni win-win?

Fratelli d’Italia è l’unico partito all’opposizione al governo Draghi. Giorgia Meloni rappresenta da sempre una tendenza nazional-conservatrice (o come preferirebbe dire patriottico-conservatrice). Nella partita del Quirinale però è anche colei che per prima si è detta disponibile a considerare la candidatura dell’attuale premier al Colle.

In effetti, se Draghi raggiungesse il Colle per la Meloni si aprirebbero due scenari entrambi abbastanza favorevoli. Il primo: elezioni anticipate. Sondaggi alla mano, la premierebbero portandola a circa il 20% dei consensi. Il secondo: nuovo governo di larghe intese fino alla fine naturale della legislatura nel 2023; in questo caso Meloni forse addirittura potrebbe aumentare il suo consenso. Unica leader d’opposizione, potrebbe cavalcare infatti ogni possibile passo falso di questo governo. Se nei giorni scorsi si era schierata in via ufficiale, come Salvini, per la candidatura di Berlusconi, oggi chiede si organizzi un vertice del centrodestra per scegliere un nome. 

Conte in affanno

In questo momento Conte è quello che sta peggio. È a capo dei 5 Stelle che sono divisi e non hanno una rotta precisa. Quando Conte è andato alla guida del governo gialloverde, il Movimento sembrava aver abbracciato la linea di fondo tesa a un populismo sovranista di tipo moderato; ma dopo la crisi di governo voluta da Salvini ha dovuto cambiare rotta alleandosi col Pd. Accanto ai suoi cavalli di battaglia (tra cui predominano un condivisibile ambientalismo e un discutibile giustizialismo) non ha comunque rinunciato del tutto al suo moderato sovranismo (infatti si deve a lui la rinuncia al Mes). 

Nella partita del Colle così Conte si può muovere con minor agibilità persino rispetto allo stesso Letta. Infatti dai 5 Stelle non è finora uscita nessuna proposta che non fosse un Mattarella bis. L’incontro di oggi con Salvini potrebbe però essere un punto di svolta. 

La regola del tre

Almeno tre di questi quattro giocatori della partita del Quirinale dovranno comunque trovare un accordo. Sia che si converga su Draghi sia che si punti su un’altra figura. E chi ne rimarrà fuori sarà fortemente penalizzato anche per il solo fatto di non aver partecipato alla scelta del prossimo presidente della Repubblica.

In particolare c’è il rischio di una spaccatura nel centrodestra tra Meloni e Salvini. Quest’ultimo, infatti, ha fatto sapere nei giorni scorsi che dopo l’elezione del capo dello Stato sarebbe auspicabile che leader politici entrino nel governo per rafforzarne l’azione. Una mano tesa a Conte e Letta e un avvertimento alla Meloni.

Sarà difficile, ma comunque ci pare auspicabile che i quattro leader trovino una soluzione condivisa. Un segnale di distensione che sarebbe molto utile anche per accogliere nel modo migliore il nuovo inquilino del Quirinale.

 

Mattarella ribadisce: niente bis. E se proprio Draghi gli chiedesse di restare?

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di Adolfo Spezzaferro

Roma, 1 gen – Mattarella nel discorso di fine anno ribadisce che non vuole fare il bis, come un Napolitano qualsiasi, ma attenersi alle regole. “Ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po’ di emozione. Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni, come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente“. E’ l’esordio del discorso del capo dello Stato, in piedi, con le bandiere sullo sfondo, in una scenografia da congedo imminente.

Mattarella ribadisce: niente bis. E attacca un’ultima volta i non vaccinati

Nel suo discorso (qui il testo integrale), breve e programmatico per chi verrà dopo di lui, il presidente della Repubblica si è dilungato sulla pandemia e i vaccini salvifici, attaccando un’ultima volta i cosiddetti no vax. “Sprecare i vaccini è un’offesa a chi non li ha avuti“, è il monito del Presidente. “Anche nei momenti più bui, non mi sono mai sentito solo e ho cercato di trasmettere un sentimento di fiducia e di gratitudine a chi era in prima linea. Ai sindaci e alle loro comunità. Ai presidenti di Regione, a quanti hanno incessantemente lavorato nei territori, accanto alle persone”, dice poi sulla gestione della pandemia.

Ecco l’identikit del suo successore

Dopodiché traccia le linee programmatiche del dopo Mattarella, in un certo senso. “Il volto reale di una Repubblica unita e solidale. È il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica. La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l’unità nazionale. Questo compito – che ho cercato di assolvere con impegno – è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale. Questo legame va continuamente rinsaldato dall’azione responsabile, dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli. Ma non potrebbe resistere senza il sostegno proveniente dai cittadini”, chiarisce Mattarella.

Il lascito dell’ex diccì a chi verrà dopo di lui

Ancora, per l’ex diccì, “unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica. Credo che ciascun Presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che – esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato – deve trasmettere integri al suo successore“. E’ questo il lascito a chi verrà dopo di lui, insomma.

Se Mattarella va via il rischio che crolli tutto è concreto

All’indomani del suo discorso, gli scenaristi ribadiscono che nelle parole del Presidente è ribadito forte e chiaro che non è disponibile a un irrituale bis, che vuole concludere il suo settennato. Lasciando nei guai Draghi, perché di questo stiamo parlando. Senza Mattarella al Colle viene meno quel dream ticket – chiamiamolo così – che ha gestito la vaccinazione di massa e garantito l’unità nazionale con una maggioranza ampissima. Ma anche tenuta insieme dell’emergenza e che senza i presupposti e i paletti giusti cadrebbe in un batter di ciglia. Ma al di là di Letta che siccome non dà le carte per la battaglia del Quirinale minaccia la crisi di governo, il rischio che crolli tutto è concreto.

I paletti di Draghi nel caso andasse lui al Colle

Draghi va tenuto a Palazzo Chigi, dicono i partiti della maggioranza (e The Economist). Il premier dal canto suo, si è detto disponibile a tutto, come “nonno al servizio delle istituzioni”. Ma ha messo dei paletti: la maggioranza deve restare ampissima e il governo non deve cadere, chiunque sarà il premier. In sostanza, Draghi dice ai partiti: se vado al Colle piazzo un premier di mia strettissima fiducia e voi continuate a fare quello che dico io. Il problema è che quando i partiti potranno eleggere il nuovo capo dello Stato, potranno farlo finalmente in autonomia. Al di là del monito di Draghi di non eleggere un Presidente di parte. Nel senso insomma che seppure l’attuale premier avesse un disegno per andare al Colle e mettere – tanto per fare un esempio – l’attuale titolare del Mef a Palazzo Chigi – al momento del voto in Aula potrà succedere di tutto.

Ma i partiti in Aula votano chi vogliono

Renzi è stato il primo a ricordare che lui fece eleggere Mattarella con una maggioranza diversa dalla maggioranza di governo. E che si può fare. In ballo c’è la candidatura di Berlusconi e il fatto che i centristi, Italia Viva compresa, potrebbero votarlo. Stavolta il pallino infatti è in mano al centrodestra. Per non parlare dei cosiddetti franchi tiratori. Insomma, dalla quarta votazione in poi, quando basta la maggioranza assoluta (la metà più uno dei votanti), può accadere di tutto.

E se Draghi provasse a convincere Mattarella a restare?

Ecco perché non possiamo escludere che Draghi in persona provi a convincere Mattarella a restare, per il bene supremo della nazione. Così l’ex numero uno della Bce resterebbe dove sta, a gestire i soldi del Pnrr, come chiedono Ue, Usa, Nato ecc. ecc. E il Presidente continuerebbe a fare il garante di tutti e della Costituzione. Squadra che vince non si cambia, no? E chi a quel punto proverebbe a far cadere il governo Draghi, accollandosi la responsabilità di gettare l’Italia nel caos in un momento così delicato?

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/politica/mattarella-ribadisce-niente-bis-e-se-proprio-draghi-gli-chiedesse-di-restare-219314/

L’ultima idea: vogliono eleggere il Quirinale con un conclave

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LA PROPOSTA DELLO STORICO RAFFAELE ROMANELLI: ELETTORI CHIUSI DENTRO, SENZA CELLULARI E SCHEDE BRUCIATE

Difficile dire se si tratti di una boutade (si spera). Ma l’ultima idea in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica è questa: eleggere il capo dello Stato al Quirinale con un conclave. Segreto, segretissimo. Senza tutto il circo politico-mediatico già partito due mesi prima del voto. A mettere nero su bianco la proposta (o lo scherzo?) è lo storico Raffaele Romanelli sul Domani. Tutto nasce dalla convinzione che chiedere a Sergio Mattarella il bis, anche solo per un paio di anni, sarebbe un sacrificio alla “dignità dei politici” e a quella “dell’ordinamento costituzionale”. Un “presidente toppa”, un rimedio per la manifesta incapacità dei partiti di trovare un’alternativa, sarebbe una brutta figura. Come evitarlo, dunque?

Per il Quirinale Romanelli propone di rifarsi al conclave, ovvero alle modalità di elezione del Papa dal qualche secolo a questa parte. In fondo, fa notare lo storico, “fino al 1870 l’elezione avveniva nel palazzo del Quirinale”, un tempo di proprietà dello Stato Pontificio. “Di recente – continua – è stabilito che lo scrutinio debba essere segreto, con schede poi abbruciate (con fumata bianca o nera) perché si eviti poi di calcolare, soppesare, attribuire”. Ovviamente, il tutto chiusi sotto chiave, con il cibo fornito dall’esterno e senza poter parlare o interagire col mondo circostante. Dunque, dice Romanelli, “si faccia tesoro delle regole del conclave, che sono ben rodate“. Anche per eleggere il successore di Mattarella, i grandi elettori vengano “chiusi dentro, via i cellulari, nessun rapporto con l’esterno”. Decidano “e non si sappia mai chi ha votato per chi: si brucino le schede, si cancellino i file. Senza fretta, semmai dopo un po’ si taglino i viveri”.

Fonte: https://www.nicolaporro.it/lultima-idea-vogliono-eleggere-il-quirinale-con-un-conclave/

 

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Trattato del Quirinale: i punti salienti del testo

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di Eugenio Palazzini

Roma, 26 nov – “Italia e Francia insieme per un futuro comune”, per una “cooperazione bilaterale rafforzata” e per “un’Europa più forte”. Slogan conditi da buoni auspici, preambolo festoso per un accordo siglato al Colle. Il Trattato del Quirinale è realtà, firmato oggi dal primo ministro italiano Mario Draghi e dal presidente francese Emmanuel Macron, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Dall’asse franco-tedesco a quella italo-francese

Un patto tra due nazioni dal sapore antico, un tuffo nel primo Novecento quando l’Europa unita era una chimera e il vecchio continente non era stato ancora sconquassato da due enormi conflitti. Un trattato che fuor di allitterazione è stato preceduto da una lunga trattativa, iniziata nel 2018 su spinta del governo francese e dell’allora premier italiano Paolo Gentiloni. Un accordo bilaterale tra due Paesi membri dell’Unione europea e che per questo pone – di nuovo – seri dubbi sulla solidità dell’Ue stessa. Di nuovo perché già nel 2019 Macron ad Aquisgrana ne siglò un altro di trattato bilaterale, con la Germania di Angela Merkel.

In quel caso sulla carta fu un’estensione del precedente accordo – del 1963 – tra Charles de Gaulle e Konrad Adenauer, con la firma simbolica avvenuta lo stesso giorno: il 22 gennaio. Fu de facto molto di più e fece tremare gli alti papaveri di Bruxelles: le locomotive d’Europa si muovevano autonomamente, infischiandosene dell’Unione continentale. Allora si parlava di asse franco-tedescooggi si parla di asse italo-francese e attenzione, invertendo l’ordine dei firmatari il risultato cambia eccome. Il rischio di trasformarci in un protettorato economico di Parigi è stato di fatto ben illustrato su questo giornale da un acuto pezzo di Filippo Burla, a cui rimandiamo in questa sede: Trattato del Quirinale: così diventeremo (per iscritto) una colonia francese.

Buon vecchia pace di Vestfalia

Ora gli storici più attenti potranno evocare facilmente la pace di Vestfalia, correva l’anno 1648 e lo stato moderno veniva consacrato come attore unico della politica. Un paragone senz’altro azzardato se consideriamo oggi la presenza determinante – a tratti dominante – degli agenti globali non governativi, sovranazionali e in quanto tali svincolati da un reale controllo statale. Eppure l’Ue non può che guardare con sospetto alle mosse di due Stati membri che bypassano in un certo qual modo la linea comunitaria, tracciandone un’altra parallela. Ma cosa sappiamo davvero di questo Trattato del Quirinale, cosa prevede e che ruolo potrà giocare l’Italia?

Cosa prevede il Trattato del Quirinale: il testo

Oggi è finalmente spuntato il testo dell’accordo, composto da 11 capitoli su 11 specifici temi: Esteri, Difesa, Europa, Migrazioni, Giustizia, Sviluppo economico, Sostenibilità e transizione ecologica, Spazio, Istruzione formazione e cultura, Gioventù, Cooperazione transfrontaliera e pubblica amministrazione. Undici punti con un programma di circa trenta pagine in cui si prova a delineare il modo in cui Francia e Italia dovranno centrare gli obiettivi elencati. Punto per punto, vediamo le parti che a nostro avviso sono maggiormente rilevanti.

Politica estera e difesa

Articolo 1, comma 3: “Riconoscendo che il Mediterraneo è il loro ambiente comune, le Parti sviluppano sinergie e rafforzano il coordinamento su tutte le questioni che influiscono sulla sicurezza, sullo sviluppo socio-economico, sull’integrazione, sulla pace e sulla tutela dei diritti umani nella regione, ivi incluso il contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare. Esse promuovono un utilizzo giusto e sostenibile delle risorse energetiche. Esse s’impegnano altresì a favorire un approccio comune europeo nelle politiche con il Vicinato Meridionale e Orientale”

Sicurezza e difesa

Articolo 2, comma 1: “Nel quadro degli sforzi comuni volti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e in coerenza con gli obiettivi delle organizzazioni internazionali cui esse partecipano e con l’Iniziativa Europea d’Intervento, le Parti s’impegnano a promuovere le cooperazioni e gli scambi sia tra le proprie forze armate, sia sui materiali di difesa e sulle attrezzature, e a sviluppare sinergie ambiziose sul piano delle capacità e su quello operativo ovunque i loro interessi strategici s’incontrino. Così facendo, esse contribuiscono a salvaguardare la sicurezza comune europea e rafforzare le capacità dell’Europa della Difesa, operando in tal modo anche per il consolidamento del pilastro europeo della NATO. Sulla base dell’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord e dell’articolo 42, comma 7, del Trattato sull’Unione Europea, esse si forniscono assistenza in caso di aggressione armata. Le Parti contribuiscono alle missioni internazionali di gestione delle crisi coordinando i loro sforzi”.

Affari europei e politiche migratorie

Articolo 3 comma 4: “Le Parti si consultano regolarmente e a ogni livello in vista del raggiungimento di posizioni comuni sulle politiche e sulle questioni d’interesse comune prima dei principali appuntamenti europei”.

Politiche migratorie, giustizia e affari interni

Articolo 4, comma 10: “Le parti programmano incontri, a cadenza regolare, tra le rispettive forze dell’ordine al fine di analizzare e risolvere le questioni di interesse comune, nonché individuare e implementare buone prassi nell’applicazione degli strumenti di cooperazione di polizia. Le Parti s’impegnano altresì a favorire lo scambio di membri delle forze dell’ordine e a sostenere l’attuazione di attività di formazione comune e lo scambio di conoscenze e competenze in ambito securitario, promuovendo e organizzando corsi comuni di formazione o brevi programmi di scambio professionale presso le rispettive amministrazioni”.

Cooperazione economia, industriale e digitale

Articolo 5, comma 3: “Le Parti riconoscono l’importanza della loro cooperazione al fine di rafforzare la sovranità e la transizione digitale europea. Esse s’impegnano ad approfondire la loro cooperazione in settori strategici per il raggiungimento di tale obiettivo, quali le nuove tecnologie, la cyber-sicurezza, il cloud, l’intelligenza artificiale, la condivisione dei dati, la connettività, il 5G-6G, la digitalizzazione dei pagamenti e la quantistica. Esse si impegnano a lavorare per una migliore regolamentazione a livello europeo e per una governance internazionale del settore digitale e del cyber-spazio”.

Articolo 5, comma 5: “E’ istituito un forum di consultazione fra i Ministeri competenti per l’economia, le finanze e lo sviluppo economico. Esso si riunisce con cadenza annuale a livello dei Ministri competenti al fine di assicurare un dialogo permanente nell’ambito di due distinti segmenti: il primo sulle politiche macro-economiche; e il secondo sulle politiche industriali, sull’avvicinamento dei tessuti economici dei due Paesi, sul mercato interno europeo e sulle cooperazioni industriali che coinvolgono imprese dei due Paesi

Sviluppo sociale, sostenibile e inclusivo

Articolo 6, comma 5: “Nel riconoscere il ruolo significativo della mobilità e delle infrastrutture nel perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), del Green Deal europeo e del contrasto dei cambiamenti climatici, le Parti cooperano a livello bilaterale e in ambito Unione Europea per ridurre le emissioni prodotte dai trasporti e per sviluppare modelli di mobilità e d’infrastrutture puliti e sostenibili a sostegno di una transizione ambiziosa, solidale e giusta. A tal fine, un Dialogo strategico sui trasporti a livello di ministri competenti per le infrastrutture e della mobilità sostenibili si tiene alternativamente in Italia e in Francia”.

Spazio

Articolo 7, comma 3: “Attraverso la loro cooperazione, le Parti mirano a rafforzare la strategia spaziale europea e a consolidare la competitività e l’integrazione ’dell’industria spaziale dei due Paesi. Nel settore dell’accesso allo spazio, esse sostengono il principio di una preferenza europea attraverso lo sviluppo, l’evoluzione e l’utilizzo coordinato, equilibrato e sostenibile dei lanciatori istituzionali Ariane e Vega. Le Parti riaffermano il loro sostegno alla base europea di lancio di Kourou, rafforzando la sua competitività e la sua apertura. Nel settore dei sistemi orbitali, esse intendono incoraggiare e sviluppare la cooperazione industriale nel settore dell’esplorazione, dell’osservazione della terra e delle telecomunicazioni, della navigazione e dei relativi segmenti terrestri.

Istruzione e formazione, ricerca e innovazione

Articolo 8, comma 3: “Le Parti si adoperano per una cooperazione sempre più stretta tra i loro rispettivi sistemi di istruzione, con l’obiettivo in particolare di contribuire alla costruzione dello Spazio europeo dell’istruzione. Esse incoraggiano la mobilità giovanile, in particolare per l’istruzione e la formazione professionale, in un’ottica di apprendimento permanente, con l’obiettivo di istituire dei centri di eccellenza professionale italo-francesi ed europei e di favorire il riconoscimento di tali percorsi. Esse sviluppano i percorsi dell’Esame di Stato italiano e del Baccalauréat francese (“Esabac”) e incoraggiano i partenariati sistematici tra gli istituti italiani e francesi che li offrono, nonché la mobilità degli studenti e dei loro docenti. Inoltre, esse s’impegnano a cooperare per un’educazione allo sviluppo sostenibile e alla cittadinanza globale, attraverso programmi di collaborazione dedicati”.

Cultura, giovani e società civile

Articolo 9, comma 1: “Le parti istituiscono un programma di volontariato italo-francese intitolato ‘servizio civile italo-francese’. Esse esaminano la possibilità di collegare questo programma al Corpo europeo di solidarietà”.

Cooperazione transfrontaliera

Articolo 10, comma 5: “Le parti favoriscono la formazione dei parlanti bilingue in italiano e in francese nelle regioni frontaliere, valorizzando in tal modo l’uso delle due lingue nella vita quotidiana”.

Articolo 10, comma 6: “Le parti studiano congiuntamente le evoluzioni dello spazio frontaliero, mettendo in rete i loro organismi di osservazione territoriale“.

Organizzazione

Articolo 11, comma 1: “Le Parti organizzano con cadenza annuale un Vertice intergovernativo. In tale occasione, esse fanno un punto preciso di situazione sull’attuazione del presente Trattato ed esaminano ogni questione prioritaria d’interesse reciproco”.

Disposizioni finali

Occhio infine al comma 3 dell’articolo 12: “Il Trattato ha durata indeterminata, fatta salva la facoltà di ciascuna Parte di denunciarlo con un preavviso di almeno dodici mesi per via diplomatica. In questo caso, il Trattato cessa di essere in vigore al compimento di sei mesi dopo la data di ricezione della denuncia”.

Eugenio Palazzini

Fonte: www.ilprimatonazionale.it 

Quirinale, dal Ddl Zan prove tecniche per l’elezione del capo dello Stato

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LETTERE DEL LETTORE

di Ferdinando Bergamaschi

Quirinale: il voto sul Ddl Zan ha aperto uno squarcio su una nuova prospettiva riguardo all’assetto delle forze in Parlamento. Con questo voto tutti hanno visto quelli che possono essere i futuri schieramenti per la partita del Colle che si giocherà il prossimo febbraio.

Centrodestra: c’è già una maggioranza?

Renzi parla di 40 franchi tiratori e biasima il Partito democratico per avere gestito malissimo questa partita. Il Pd dal canto suo parla di 16 franchi tiratori; e accusa Renzi di aver sabotato l’approvazione della legge votando a favore della tagliola assieme al centrodestra. Salvini, infine, rinfaccia a Letta di aver agito con arroganza, evitando di confrontarsi con la Lega per una mediazione che partorisse una legge sull’omotransfobia condivisa da tutti i partiti.

Comunque stiano le cose, dalla partita sul Ddl Zan è saltata fuori una maggioranza in Senato composta dal centrodestra unito più Italia Viva. E non si può non osservare che questo nuovo quadro può essere considerato come la prova tecnica per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Difficile fare nomi per il Colle che possano uscire da questa maggioranza parlamentare: i più papabili al momento paiono Casini e lo stesso Berlusconi. 

L’indebolimento del Pd

Sullo sfondo di questo nuovo assetto parlamentare però si delinea soprattutto un altro punto: non c’è un centrosinistra sommato ai 5 Stelle che abbia i numeri per giocare da solo la partita del Quirinale. Il Pd (e precedentemente l’Ulivo) infatti era abituato bene dai tempi di Scalfaro fino a Mattarella, riuscendo sempre a far eleggere un capo dello Stato che gli fosse gradito. O addirittura, come nel caso di Napolitano ma anche dell’attuale inquilino del Colle, che fosse espressione diretta della propria classe politica. Questo, con tutta probabilità, non potrà più avvenire dal prossimo scrutinio per eleggere il presidente della Repubblica.

Draghi in pole position

Detto ciò, è inutile negare che la carta di Mario Draghi per il Colle rimane la più plausibile. Metterebbe d’accordo (quasi) tutti. Con il premier che raggiungendo il Quirinale già nel febbraio 2022 potrebbe giocare la sua partita in senso presidenzialista. Naturalmente, per essere eletto da questo Parlamento, Draghi dovrebbe dare a deputati e senatori la garanzia di non sciogliere a stretto giro le Camere, impegnandosi a portare il Paese alle elezioni politiche previste dalla scadenza naturale del 2023. Con un altro vantaggio per il presidente appena eletto: in caso di elezioni anticipate, qualsiasi maggioranza ne uscisse indebolirebbe il suo potere già nel primo anno al Colle, visto che il capo dello Stato dovrebbe adeguarsi in anticipo ai risultati delle urne, rimettendosi alle logiche del nuovo quadro politico.

In più, Draghi sa bene di essere il solo in questo momento a poter dare garanzie internazionali sull’Italia. E probabilmente ritiene in cuor suo che non sia ancora maturo il momento di riaffidare tout court le sorti del Paese ai partiti. Ecco quindi che, come sostiene anche Federica Capurso dalle colonne de La Stampa, potrebbe nascere un asse portante, con 5 Stelle, Italia viva, Forza Italia e la parte di Lega a trazione giorgettiana, pronto a eleggere il premier al Quirinale. E poi pronto a votare un nuovo Governo presieduto dall’attuale ministro dell’Economia Franco, stretto collaboratore di Draghi, fino alla fine naturale della legislatura.

Il vicolo cieco della Repubblica

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QUINTA COLONNA

Analisi completa e magistrale di una delle menti più lucide della destra italiana.

di Marcello Veneziani

Il popolo italiano diserta le urne a larga maggioranza, il governo è nelle mani di un Grande Timoniere che viene dalle banche e non dal voto; l’opposizione, per due terzi al governo, non riesce più a rappresentare largamente la piazza, il dissenso e gli umori popolari. Sia nelle battaglie sociali, civili che sanitarie.

Abbiamo imboccato il vicolo cieco della Repubblica. Che in questa situazione di sospensione della politica e di larga disaffezione degli italiani, il centro-sinistra vinca le competizioni amministrative raccogliendo un elettore su quattro, è logico, comprensibile, conseguente. Senza essere scopritori di nulla e profeti di niente, lo prevedemmo già svariate settimane fa. Il partito-establishment euro-istituzionale, con i suoi candidati d’apparato, vince facilmente se l’avversario si scompone in tre parti: area di governo, area di opposizione e area extra-politica di protesta. Ma la repubblica, o forse la democrazia, ha imboccato un vicolo cielo.

Partiamo dalla gente. La percezione più diffusa, che comunque riguarda una massa considerevole di elettori, è che si va inutilmente a votare, come si va inutilmente in piazza. Non si ottiene nulla. Non si aspettano nulla dalla politica, e da nessun leader. I “populisti” non riescono a intercettare questo stato d’animo e di cose; in primis i grillini affidati a un azzeccagarbugli trasformista che è l’antitesi del ribellismo alternativo dei grillini d’origine. Poi la Lega, al governo con tutti gli avversari, sotto la guida di Draghi. Infine, di riflesso, Fratelli d’Italia che tengono botta ma sul piano delle opinioni non del voto amministrativo. A loro si aggiunge lo scarso peso dei candidati: non riescono a trovare di meglio, e quando ce l’hanno (Albertini a Milano, Bertolaso a Roma) se lo lasciando sfuggire.

È falso il racconto dominante che la sinistra si sia ripresa l’Italia, come se l’elettorato dopo la sbandata “populista” e “sovranista” sia tornato all’ovile o si sia convertito alla ragione. È vero il contrario: la fetta più dissidente, più ribelle, non si sente più rappresentata dai grillini, dai leghisti e in parte dalla destra. E indebolendo questi, rafforza quelli. La gente entra nel pulviscolo, nella clandestinità molecolare o di gruppo, si sfoga nei social. A volte si ritrova, in ranghi sparsi e conventicole non componibili, in molte battaglie radicali, e sui temi del vaccino/green pass, che riguardano una corposa minoranza. La sconfitta del centro-destra non è la vittoria dei moderati ma la diserzione dal voto dei dissidenti radicali.

In Italia c’è un’area radicale di protesta che si può calcolare del venti-venticinque per cento, ovvero di pari consistenza a quella del centro-sinistra che non si riconosce nei partiti, e che finora in gran parte rifluiva sui 5Stelle e sulla Lega. In minor misura sono ora rifluiti sulla Meloni; in maggior misura si allontanano dalla politica con disgusto e sensazione d’impotenza, si sentono traditi, delusi, qualcuno spera ancora in qualche altro cobas della politica, anzi dell’antipolitica. Insomma, si chiamano fuori.

Serpeggia un sentimento diffuso: la politica non è in grado di fare nulla, di cambiare il corso delle cose, di intervenire sui temi più sensibili, di opporsi ai grandi poteri transnazionali, sanitari, lobbistici, ideologici. È ininfluente, comanda Draghi, comandano le oligarchie tecno-finanziarie, medico-farmaceutiche, ideologico-culturali; non si sgarra, siamo sotto l’Europa, dentro il guscio global.

Sappiamo bene che il voto politico sarebbe un’altra cosa, avrebbe altri esiti; ma non aspettatevi il voto politico come il giudizio di Dio, l’ordalia finale o lo showdown, la resa dei conti e il momento supremo della verità. Primo, perché probabilmente non si andrà a votare nemmeno la prossima primavera, e in caso di fuoruscita della Lega dal governo, probabilmente resterebbe una maggioranza Ursula, estesa a Forza Italia, a sostenere Draghi e a evitare il voto. Secondo, perché questi due anni, in particolare l’ultimo, hanno logorato e sfibrato le appartenenze politiche e le aspettative di cambiamento. Sono rimasti al più i timori, sul piano del fisco, delle pensioni, delle restrizioni, degli sbarchi. Il covid e Draghi si sono mangiati la politica. Terzo, non sottovalutate il fatto che c’è forse una reale maggioranza del paese, trasversale, che alla fine preferisce Draghi o perlomeno preferisce tenersi Draghi anziché correre altre avventure troppo costose.

E se dovesse presentarsi l’occasione del voto, ci sarebbero almeno due ostacoli di partenza per il centro-destra o per i sovranisti, oltre il fuoco di fila della macchina mediatico-giudiziaria-europea: l’incognita su chi potrebbe essere il premier in una loro coalizione. E l’agibilità interna e soprattutto internazionale di un governo del genere; considerando che difficilmente l’Europa garantirà quel che finora ha promesso e in parte garantito circa il Recovery fund. Un conto è avere uno della Casa, Draghi, un altro è avere un “forestiero”. La gente lo ha capito, a naso, e si regola di conseguenza.

Per dirla in breve, l’antipolitica dall’alto (Draghi) e l’antipolitica dal basso (il populismo autarchico, allo stato sfuso), si stanno mangiando la politica (io stesso scrivo di politica assai di malavoglia, e rifiuto interviste e interventi sul tema).

L’ipotesi più ragionevole sarebbe quella di mandare Draghi al Quirinale, come garante del Recovery e della Repubblica agli occhi dell’Europa, e mandare gli italiani alle urne. Ma allo stato attuale non ci pare la cosa più probabile. Si preferisce continuare a percorrere il vicolo cieco, sapendo che a un certo punto finisce la strada.

MV, La Verità (20 ottobre 2021)

http://www.marcelloveneziani.com/articoli/il-vicolo-cieco-della-repubblica/ 

Amministrative, i tre mali del centrodestra (o quattro?)

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IL COMMENTO POST ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2021

di Giuseppe De Lorenzo

È inutile nasconderselo: le elezioni amministrative 2021, che già iniziavano sotto cattivi auspici, sono andate persino peggio del previsto. Al di là del premio di consolazione – la Calabria e, forse, qualche Comune che la coalizione riuscirà a conservare – il centrodestra viene stracciato al primo turno a Milano e Napoli, a Torino parte in svantaggio e a Roma, probabilmente, soccomberà al ballottaggio (mai dare nulla per scontato, ma all’alba del giorno dopo, questa è la proiezione).

I tre motivi della disfatta

L’analisi della sconfitta non può prescindere da tre elementi di riflessione. I tre vicoli ciechi che hanno eroso una squadra, fino a poco tempo fa, col vento in poppa e dai quali non è detto sia possibile uscire.

1. L’incapacità di offrire una classe politica all’altezza, unita alla paura di amministrare. Un fattore abbastanza sorprendente soprattutto nel caso della Lega, che tradizionalmente aveva nel buongoverno locale un suo punto di forza. L’indisponibilità di big da giocarsi nelle metropoli, in realtà, è stata solo uno dei fattori in gioco: sicuramente, a spingere verso la scelta di candidati estranei ai partiti e oggettivamente deboli e impreparati, sono stati il timore di raccogliere sfide pericolose come banco di prova nazionale (Roma), le liti e le fratture interne alla coalizione e la costituiva difficoltà del messaggio sovranista a penetrare nei grandi centri urbani (Milano). Anche se – valga come monito a quelli di scuola giorgettiana – non hanno scaldato i cuori degli elettori nemmeno candidati tutt’altro che radicali, come i borghesissimi Luca Bernardo nel capoluogo lombardo e Paolo Damilano sotto la Mole.

2. È indubbio, tuttavia, che sulla disillusione dei sostenitori della coalizione – è il secondo spunto – abbia pesato la sostanziale irrilevanza politica dei sovranisti. Gli uni (Fdi), in quanto ancorati a una scelta d’opposizione coerente quanto si vuole, ma alla fine improduttiva: il partito di Giorgia Meloni ha un’indiscutibile forza critica, però è inevitabilmente marginale rispetto alle decisioni che contano e che esso deve limitarsi a subire. Gli altri (il Carroccio), nonostante avessero scelto di entrare nell’esecutivo di Mario Draghi proprio “per incidere”.

La realtà è che anche l’ala moderata o governista, alimentata dai presidenti delle Regioni del Nord e capitanata da Giancarlo Giorogetti, non ha portato a casa nulla: non l’apertura delle discoteche, non i tamponi gratis per il green pass, non la propulsione alla produzione di vaccini italiani, mentre l’abbandono dei lockdown duri derivava prevalentemente da un’intima convinzione di Draghi, il quale di sicuro non si concepisce come un uomo chiamato a gestire un Paese fermo. Giorgetti, per adesso, ha solo l’onere di affrontare le crisi industriali al Mise. Un ministero che appariva un grande riconoscimento alla Lega e che, a ben vedere, potrebbe essere stato un trappolone. Nel frattempo, Draghi & company preparano un’imboscata fiscale già nel cdm odierno. Tutto ciò ha suscitato una sensazione di disempowerment e di scoramento nell’elettorato d’area: la gente ormai ha capito che, comunque vadano le elezioni, non cambierà nulla.

3. Questo ci porta al terzo, più buio vicolo cieco: l’inagibilità politica. Un centrodestra a trazione sovranista finirebbe in un cul de sac, quand’anche vincesse le elezioni 2023. Da un lato, resterebbe esposto, com’era già successo ai gialloverdi nel 2018-2019, alle imboscate dei mercati finanziari e dell’élite europea. Dall’altro, sarebbe comunque vincolato in partenza agli impegni sottoscritti col Pnrr e modellati sulla base delle “raccomandazioni” dell’Ue all’Italia. Cercare di sottrarsi alla tenaglia significherebbe, con ogni probabilità, perdere l’accesso alle fonti di finanziamento del debito pubblico e le risorse garantite dal Next generation EU.

Noi di “Christus Rex” aggiungeremmo un quarto motivo: la mancanza più assoluta di un orizzonte valoriale metapolitico chiaro e condiviso da tutto il centrodestra. Ricordiamo che Salvini faceva incetta di voti quando parlava da cattolico e proponeva principi con solide radici cristiane, senza timore di andare controcorrente. Ci sarà ancora posto, nel centrodestra, per incidere come cristiani? Crediamo che nei fatti, nelle aperture anche alle persone maggiormente rappresentative di quest’area conservatrice e tradizionalista, della quale si sente orfano di rappresentanza almeno un milione di “tradizionalisti” anonimi, si possa e si debba ragionare. Se si annacqua il tutto per paura del politicamente corretto e del Pensiero Unico, il centrodestra è destinato, a nostro avviso, a continue debacle. Le linee siano chiare fin da principio, senza tentennamenti, ricordando che, anche in politica, come nella vita, nella morale, nell’etica, due + due fa sempre e solo quattro. (N.d.R.)

Come scrivemmo già su questo blog, il Recovery fund commissaria la destra per i decenni a venire. Il che, peraltro, rende quanto mai incerte le geometrie parlamentari del 2023, fermo restando che, per formulare ipotesi, è necessario scoprire chi arriverà al Quirinale. Ad esempio, se Draghi restasse a disposizione di un incarico a Palazzo Chigi, mettereste la mano sul fuoco sul fatto che Forza Italia s’imbarcherebbe in un’impresa con leghisti e meloniani, anziché riproporre una grande coalizione, ovvero una conventio ad excludendum contro i sovranisti?

Era ieri, quando il caos immigrazione metteva il turbo alla Lega di Matteo Salvini. Eppure, è come se fosse passata un’eternità.

Giuseppe De Lorenzo, 5 ottobre 2021

Fonte: https://www.nicolaporro.it/amministrative-i-tre-mali-del-centrodestra/

 

 Leggi anche

Mario Draghi e la partita che va oltre il Quirinale…

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LETTERE DEL LETTORE

Riceviamo e pubblichiamo l’interessante articolo ricevuto e pubblicato anche su https://www.ilmiogiornale.net/mario-draghi-e-la-partita-che-va-oltre-il-quirinale/

di Ferdinando Bergamaschi

Draghi non è Monti. Non è l’uomo che le élite euroglobaliste in avanzata avevano imposto per il tramite di Napolitano. Non è l’uomo che imporrà politiche assurde di austerity, marchiate “lacrime e sangue”. Mario Draghi è un keynesiano sincero e illuminato che sì, ha lavorato per la Goldman Sachs, ma che evidentemente non ha assimilato dall’alta finanza l’inconfessabile strategia di voler soppiantare popoli e nazioni con un nuovo tipo di uomo completamente sradicato da patrie e territori d’origine. Un tipo d’uomo disposto a tutto pur di rincorrere la neo-divinità “capitale” (che per definizione non ha né patria né territorio). 

Il garante italiano

Draghi, checché ne dicano i sovranisti estremisti, è un uomo di ri-equilibrio e di mediazione tra il nazionale e il sovranazionale, che in più di un’occasione non ha temuto di mettersi contro la Bundesbank e i rigoristi. Per queste doti, e quindi per la sua mancanza di servilismo nei confronti degli altri Stati, specialmente di Germania e Francia, il premier italiano a livello internazionale gode di grande considerazione. A maggior ragione dopo l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, viene visto come l’uomo forte dell’Europa.

La partita del Colle

Ecco perché nessun partito, escluso Fratelli d’Italia e poche altre frange d’opposizione, vuole fare a meno di lui, anche se per diverse ragioni legate sia alla strategia sia alla tattica e all’opportunismo. Ed è per questo che l’ex governatore della Bce assume un ruolo da protagonista anche nella difficile partita del Quirinale. Anzi, il ruolo che può assumere Draghi in questa partita ne fa forse qualcosa di più che non la semplice corsa al Colle.

Non è affatto da escludere infatti che il presidente del Consiglio voglia consolidare una “scalata al potere” – in senso neutro, né positivo né negativo – che coinciderebbe con le sue ambizioni personali e con quelle dell’Italia. La sua permanenza ai gradi massimi dello Stato potrebbe quindi allungarsi, con una convergenza tra tutti i partiti che lo sostengono.  

Questo lo si può dedurre sia da come si è mosso Draghi finora, sia da quello che è il suo tasso di gradimento fra gli italiani. Sul primo punto, il premier si è espresso sinora in modo trasversale: ha abbracciato nel modo più netto possibile la causa della transizione ecologica; ha detto di non volere alzare le tasse (“È il momento di dare, non di prendere”); ha affermato che condivide nello spirito di fondo il reddito di cittadinanza; si è espresso in favore di un patto sociale che coinvolga sindacati e Confindustria.

Draghi politicamente poi si è definito un socialista liberale, e non si può non pensare, rispetto a questa definizione, a due figure in particolare: Carlo Rosselli e Bettino Craxi. Si è messo cioè al centro rispetto all’asse politico formato dai partiti, ma restando pur sempre al di sopra degli stessi.
Circa il secondo punto, che è strettamente legato al primo, il gradimento del premier presso gli italiani rimane altissimo, attorno al 70%.

Verso il presidenzialismo?

Entrambi questi fattori potrebbero così far pensare anche alla possibilità di una svolta presidenzialista della nostra Costituzione sotto l’egida di Draghi, per esempio sul modello francese. Un’ipotesi che già dalla fine degli anni 70 era stata prospettata da Craxi. Il leader socialista si era reso conto che l’eccesso di parlamentarizzazione delle decisioni e del potere di veto rappresentava un grave deficit per le capacità di manovra della Presidenza del Consiglio (e ciò in una logica sia governista, sia come maggior riconoscimento dell’opposizione, allora rappresentata dai comunisti). 

Il lodo Giorgetti

Un Draghi come De Gaulle, insomma. Ed è proprio come il generale francese che lo vede uno dei più importanti rappresentanti del Governo, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Intervistato da La Stampa ha affermato anche che “è nell’interesse del Paese che Draghi vada subito al Quirinale”. E ha aggiunto: “Appena arriveranno delle scelte politicamente sensibili la coalizione si spaccherà”, sottolineando che “Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente”.

Allo stesso modo del ministro leghista sembra pensarla Confindustria, che per voce del suo presidente Carlo Bonomi ha definito Draghi “l’uomo della necessità”. Un’ipotesi sottesa anche in un’intervista di Matteo Renzi a La Repubblica, quando il leader di Italia Viva ha detto che l’asse con il centrodestra per la partita del Quirinale “non solo è possibile, ma probabile”.

 Appuntamento a febbraio

Percorribile, ma fino a un certo punto, sarebbe invece la strada di riproporre Mattarella al Quirinale fino a fine legislatura, nel 2023, per poi “incoronare” al Colle l’ex presidente della Bce. Come nel caso di Napolitano nel 2013, anche qui servirebbe un’ampissima maggioranza parlamentare per il sì di Mattarella. Ma affinché questo si verifichi, bisognerebbe convincere non solo Meloni ma anche Salvini. E comunque, in questo caso, Draghi dovrebbe sopportare quell’anno di campagna elettorale che paventava Giorgetti. Ecco perché la strada più probabile rimane quella del premier già al Quirinale nel febbraio prossimo.

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