Perché solo la vera Destra ha la verità?
EDITORIALE
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QUINTA COLONNA
di Marcello Veneziani
Stiamo perdendo la terra sotto i piedi. Stiamo perdendo la realtà. Al posto della vita i flussi informativi, al posto delle cose concrete i dati numerici, al posto dell’universo i Big Data, al posto della terra Google hearth, al posto del cielo il Cloud. Senza accorgercene sta avvenendo una radicale Sostituzione; non dei popoli europei con i flussi migratori, come sostiene Renaud Camus. Ma la sostituzione ben più profonda del mondo reale, il mondo delle cose e la vita pensante, i cuori e le menti, col mondo artificiale, come l’intelligenza e tutti i medium che si frappongono tra noi e il mondo. Fino alla Sostituzione dell’umano. La cosa più terribile è che non ci badiamo, non ce ne diamo pensiero. Avviene, non possiamo sottrarci. Tutto è così ineluttabile, automatico. La perdita della libertà è assoluta quando si vive la vita da automi.
Ho tra le mani un ennesimo libro di Byung-Chul Han, Le non cose, pubblicato da Einaudi che descrive “come abbiamo smesso di vivere il reale”. Il filosofo tedesco-coreano denuncia una trasformazione come mai c’è stata e lancia un atto d’accusa al mondo contemporaneo, che lo situa a pieno titolo tra i conservatori apocalittici. Cosa è successo? La rivoluzione digitale ci ha reso tutti “infomani”. Non vediamo più le cose ma gli infomi. Siamo guidati dagli algoritmi, non abbiamo più autonomia di pensiero e visione della realtà. Siamo collegati ma abbiamo smesso di avere legami.
Peggior quadro della situazione non sarebbe possibile: siamo allo stadio finale dell’alienazione. Dopodiché c’è solo la scomparsa dell’umano. La mano che era il simbolo fattivo dell’umanità si fa inerte e cede al dito, come si addice a una società digitale. Dobbiamo premere tasti e non più maneggiare il mondo. Il dito apre gli accessi, avvia i percorsi prestabiliti, ci conduce in una dimensione fittizia, artificiale, irreale.
L’homo sapiens è stato sostituito dal phono sapiens. Sola valvola di sfogo il gioco, divertirsi. La storia è sostituita dallo storytelling, scompaiono i confini tra cultura e commercio, si perde ogni relazione tra cultura e comunità.
Lo scettro che ci rende all’apparenza sovrani e nella realtà schiavi di questo nuovo mondo ci è ormai familiare più di ogni altra cosa: è lo smartphone. Esso trasforma il mondo in informazione, e la realtà -potremmo aggiungere- in rappresentazione veicolata. Lo smartphone ci sorveglia, e ancor più ci sorveglierà via via che si perfezionano le tecnologie. L’infosocietà non opprime, non sopprime la libertà, anche se pone sempre più divieti e censure: ma la sfrutta, la svuota per poi riempirla dei propri input. Insomma la dirige, la plasma; così la libertà nega se stessa. Scompaiono le cose, ma scompare anche l’altro, nella relazione narcisistica e autistica con lo smartphone. L’intelligenza artificiale è priva di mondo, non ha cuore, non ha pathos, non ha concetto; è sorda e cieca.
Sul piano delle icone, il passaggio decisivo secondo Han è dalla fotografia analogica a quella digitale. La foto stampata, in carta, è una cosa, patisce il degrado e la morte, come se fosse vivente. E’ un’emanazione della persona reale, ricorda, racconta una storia, un destino. La foto digitale, invece, elimina il referente, è autoreferenziale, istantanea, avulsa dal cammino del mondo. Il selfie non è una cosa, ma una non cosa, un’info, non va conservata per ricordare. Il ritratto analogico è silente ma parla, come una natura morta: il ritratto digitale è rumoroso ma inespressivo, annuncia la fine dell’umano e non conosce morte né caducità.
Dopo la lettura di Byung Chul Han resta uno sciame di dubbi: è davvero così radicale il salto tra l’analogico e il digitale, o c’è una gradualità nel passaggio? Perché la tecnica che accompagna l’uomo da sempre solo ora scatena tutto il suo potenziale inumano? A parte gli indubbi vantaggi del digitale, quale risposta possiamo dare, oltre a constatare la perdita del mondo, della realtà e dell’umano? Abbiamo margini di reazione o di alternativa, è possibile (e auspicabile) tornare indietro, cancellare, rimuovere l’infosfera digitale? Siamo poi sicuri che sia la tecnica a cambiarci e non l’uomo stesso a servirsi della tecnica per mutarsi al punto di sopprimersi e predisporsi a un’altra dimensione postumana? E se fossimo noi incapaci di sopportare i limiti, i dolori, la caducità del nostro essere, che vogliamo sottrarci al reale, alla mortalità, al nostro essere e ai suoi limiti?
Quel che Han rileva della società digitale, Heidegger già lo notava nel suo tempo col semplice uso della macchina da scrivere, scorgendo il predominio del dito che pigia sulla mano che afferra e modifica; eppure non eravamo ancora in un’era digitale e il prodotto era una cosa reale, un foglio scritto. Il computer perfezionerà quel passaggio, ma Heidegger notava il tratto alienante della macchina da scrivere. Andando a ritroso nei millenni, Platone, narrando nel Fedro il mito di Theut, vide già nella scrittura il declino dell’umana facoltà di tenere a mente, trasmettere tramite la parola viva. La scrittura non serve a ricordare, dice Platone tramite il re egizio Thamus, ma a dimenticare, lasciando traccia solo negli scritti. Da ciò verrà fuori una falsa sapienza, conosceremo “l’apparenza, non la verità”.
Insomma, la Sostituzione viene da lontano, s’intreccia alla storia dell’uomo e della tecnica, e il digitale è solo l’ultimo stadio finora conosciuto. Come i polpi hanno un cervello nei tentacoli, anche negli umani il cervello si rifugerà nel dito? Come in una Creazione di Michelangelo a rovescio, dell’uomo alla fine resterà solo il dito?
MV, Panorama (n.14)
Un’intervista che merita di essere letta, perché Marcello Veneziani esprime dei concetti estremamente condivisibili, che dovrebbero coinvolgere un po’ tutti coloro che sono impegnati in politica da veri cattolici o da laici rispettosi del diritto naturale..
di Marcello Veneziani
Intervista per Destra.it a cura di Umberto Masoero
Il fenomeno, purtroppo, non ha nulla di passeggero, e non si esaurirà nemmeno con la pandemia: è una crisi strutturale e profonda aggravata dall’esperienza dell’attuale pontificato e dallo svuotamento spirituale del cristianesimo ridotto a filantropia e diritti umani, accoglienza e migranti. La perdita dello spirituale non è soltanto la scomparsa della religione, ma è la fine dell’umano. Quel che dà all’uomo dignità e libertà, e che lo distingue dalle macchine e dalle bestie, è l’energia spirituale, che fonda la sua anima, la sua mente e il suo cuore e dà un senso alla sua vita. Il transumanesimo di cui si annunciano passi da gigante, sembra avviarsi in questa direzione alienante, perdendo ogni distinzione tra l’automa e l’umano.
La visione conservatrice è oggi necessaria perché si tratta di salvare la natura, l’uomo, la tradizione e la civiltà. Poi si può essere anche altro, ma quel principio basilare di salvare la realtà, a mio parere resta fondamentale. Poi assicurata quella base si può pensare ad altre altezze; si può amare Nietzsche e non amare “la sua scimmia”, come spregiativamente fu definito Spengler (che era un conservatore un po’ contraddittorio), si può preferire la definizione di rivoluzionario conservatore o di conservatore ribelle e si può perfino accettare la critica al conservatorismo come paura del futuro e amore per le abitudini. Ho sempre detto che almeno in via di principio è giusto essere conservatori sul piano dei principi e innovatori sul piano degli assetti civili, sociali, politici e tecnici. Il conservatore non ama “la dolce morte accasciato alle radici dell’albero della tradizione” ma conserva la gioia delle cose durevoli, ama conservare la fiamma della vita e non fare la guardia alle ceneri.
Temo che non sia proprio così: nel senso che sul piano della qualità e dei contenuti quell’egemonia non partorisce da anni opere notevoli, pensieri, percorsi di livello, è come esaurita la sua vena; ma resta forte e attiva come potere d’interdizione, cupola di comando, guardia rossa del politically correct e dei suoi derivati, e s’intreccia sempre più al global-capitalismo, diventando quasi il cappellano militante dell’establishment, a cui offre un simulacro di moralismo ideologico. Il fallimento è vistoso, sul piano delle idee e degli esiti, ma rimane intatto il potere di negazione, la capacità di distruggere e di eliminare chi non si conforma. Finché il potere culturale sarà nelle sue mani a ogni livello e finché si salderà con i grandi poteri economici, tecnocratici, giudiziari e dirigenziali, a nulla potrà servire avere ragione da scalzi…
Da noi l’istigazione continua al centro-destra è a farsi liberale, e quindi moderno, antifascista, europeista. E la speranza è che si svuoti, perda consensi, diventi una forza completamente inserita, e in modo periferico, nell’establishment e nel suo perimetro ideologico e pratico. In realtà credo che alla destra tocchi la necessità di questo salto conservatore o perlomeno la capacità di un’offerta politica diversificata in cui il movimentismo nazionale-popolare e sociale, il populismo e il sovranismo, riconoscano il ruolo centrale di un nucleo conservatore. Ma stiamo parlando di ipotesi allo stato attuale non defilate, nemmeno a livello embrionale, se non con o sforzo encomiabile di Giorgia Meloni di far digerire a un’Italia refrattaria e a una destra sociale, nazional-rivoluzionaria, non conservatrice, in buona parte di provenienza missina, almeno la definizione di conservatori, difensori della civiltà e della tradizione.
Il fatto che si parli di stare in piedi tra le rovine da circa settant’anni, come minimo, dimostra che bisogna convivere con questo mondo e con questa epoca, non protestando continuamente la propria estraneità/ostilità e sentendosi sempre alla fine del mondo, mentre scorrono i titoli di coda dell’umanità. Non è così, o perlomeno questa attitudine al distacco può avere qualche fondamento in chi ha raggiunto un’età grave, come il sottoscritto, che ha accumulato troppe delusioni e tanta stanchezza lungo il cammino; ma non si addice a un giovane. A lui suggerisco di impegnarsi in questo processo di trasmutazione, secondo le sue attitudini: bisogna studiare, leggere, intervenire, fare gruppo, collegarsi, esortare gli altri, i tanti, a uscire allo scoperto, esercitare le proprie energie vitali, dedicarsi. Amo dire che alla nostra età abbiamo ormai maturato il diritto di ritirarci, di non partecipare, di non coltivare illusioni e speranze; ma abbiamo il dovere di aiutare o quantomeno incoraggiare chi è giovane e deve ancora cimentarsi con la vita e le sue più grandi imprese. Indipendentemente dall’esito, giova a chi le compie.
Sui passi di Nietzsche, Marcello Veneziani con Sossio Giametta, Giuseppe Girgenti e Massimo Donà in Engandina
di Marcello Veneziani
Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica.
La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. Trump, Bolsonaro, Johnson e da noi Salvini, Briatore, Sgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli. Un atteggiamento che in sintesi potremmo definire fascio-libertario. Il superuomo nietzscheano può accettare il distanziamento sociale, e perfino auspicarlo, anche se detesta l’imposizione; ma la mascherina no, è una schiavitù umiliante, una coercizione all’uniformità.
Ma perché non cogliere pure sull’altro versante l’ideologia serpeggiante che unisce gli apologeti della mascherina, e il suo forte significato simbolico e metaforico, al di là del suo uso sanitario e della sua effettiva utilità? Per molti fautori della mascherina si tratta di qualcosa di più che una semplice profilassi; quasi un bisogno inconscio, una coperta di Linus, un istinto di gregge, il retaggio di un’ideologia. La mascherina è una livella ugualitaria e uniformatrice, la protesi della paura che accomuna la popolazione in semilibertà vigilata; la mascherina sfigura i volti e cancella le differenze in una specie di comunismo facciale, anche se esalta gli occhi e nasconde le brutture; genera isolamento pur restando in una prospettiva ospedaliero-collettivista, rende più difficile la comunicazione, evoca il bavaglio e la museruola, ha qualcosa di inevitabilmente angoscioso e orwelliano. Lo spettacolo di folle in mascherina sarà confortante per il senso civico-sanitario ma è deprimente, ha qualcosa di umanità addomesticata e impaurita, ridotta a silenzio e servitù dal terrore della malattia e dal relativo terrorismo sanitario. Continua a leggere
QUINTA COLONNA
di Marcello Veneziani
Non c’è giorno che un editorialista, un corsivista, un curatore di rubrica coi lettori su un giornalone o nelle sue periferie conformi, non elogi la buona destra che non c’è. È una storia vecchia, che si acutizza ogni volta che nel nostro paese o nel mondo la maggioranza dei consensi va alla destra, per definizione cattiva. Il connotato principale di una buona destra per lorsignori, lo ripetiamo, è quella di essere minoritaria, perdente, subalterna all’establishment e alla sinistra, che ne è il suo braccio politico-ideologico; e i suoi migliori riferimenti sono sempre morti. E anche stavolta (l’ultima sul Corriere della sera l’altro giorno) il copione si ripete. Di solito i riferimenti positivi che si riescono a pescare tra i viventi sono reduci dalla disastrosa esperienza finale di Fini e ora si collocano nell’area del Pd. Curioso, no?
Ma non voglio scendere sul terreno della politichetta, dei casi personali e degli interessi passeggeri, e prima di tornare allo scenario politico presente, alle destre in tutto il mondo, vi chiedo: ma secondo voi qual è il tratto tipico e generale della destra, ciò che la caratterizza e la distingue, a livello di principio e di sensibilità popolare? A me pare evidente. Piaccia o non piaccia ogni destra popolare che ha vinto o è vincente è una variazione sul tema Dio, patria e famiglia. Variazione aggiornata o degradata, volgarizzata o modernizzata, comunque l’asse su cui ruota la destra nel mondo è quella. Poi ci possono essere destre più laiche che lasciano in secondo piano il connotato religioso, altre che attenuano l’aspetto nazionalista o altre che declinano in modo più soft i diritti civili. Il tema portante è la tradizione, il comune sentire, il realismo unito alla meritocrazia; poi le declinazioni possono essere di tipo conservatore o sovranista, social-riformatore e perfino rivoluzionario-conservatore. Ma se guardate alla realtà anziché al pozzo nero dei vostri desideri, la destra è quella, sono quelli i suoi punti fermi che la oppongono al politically correct dell’ideologia global. A me non dispiace una destra con quei connotati ma ho la preoccupazione opposta: quei temi sono troppo grandi, sensibili e toccano l’animo umano per ridurli solo a merce elettorale, slogan e gesto volgare. Vanno dunque salvati, lo scrissi in un libro intitolato proprio Dio patria e famiglia, dalla loro banalizzazione strumentale. Continua a leggere
di Marcello Veneziani
Se ne andò presto, Giovannino, a 60 anni, dopo una vita travagliata, tra campo di concentramento, carcere sotto il fascismo e sotto l’antifascismo, più una caterva di libri tradotti in tutto il mondo, di film assai popolari che rappresentarono quell’Italia favolosa del dopoguerra, e di avventure a mezzo stampa, come il suo impertinente Candido che ebbe un ruolo decisivo nella disfatta del fronte popolare socialcomunista alle elezioni del ’48.
Giovannino morì il 22 luglio del ’68 ma fece in tempo a scrivere il suo ultimo don Camillo dedicato ai giovani d’oggi. Il libro uscì postumo e segnava lo stridente contrasto tra il vecchio comunista Peppone (che l’anticomunista Guareschi aveva reso simpatico con la sua prorompente umanità), il coriaceo don Camillo e un giovane contestatore zazzeruto, che viaggiava in moto con borse borchiate e sfrangiate e un giubbotto nero con teschio e scritta “Veleno”. Che diventa per Guareschi il soprannome del ragazzo e anche la metafora della Contestazione. Giungono in paese a Brescello anche “i cinesi” che sconvolgono le geometrie ideologiche dell’italo-stalinista Peppone e spiazzano pure quelle religiose del parroco. Guareschi collega la contestazione all’avvento della società dei consumi. Per lui l’antagonismo tra i due fenomeni è solo occasionale, apparente, non sostanziale. Il consumismo divora il piccolo mondo antico e le vecchie fedi, ma cattura Peppone che lascia la bici e gira in spider rossa. Il consumismo è l’habitat del sessantotto. Continua a leggere
di Marcello Foa
Fonte: aldogiannuli
Il mondo contemporaneo è caratterizzato da un dibattito acceso sul ruolo e il futuro dell’informazione: informazione vista sempre come una componente strumentale della modernità, dato che diatribe come quella accesasi sulle cosiddette fake news erano essenzialmente incentrate sulle loro conseguenze a fini elettorali. L’informazione è, in ogni caso, un campo di battaglia dove ogni contendente è interessato a mettere in gioco le sue strategie più raffinate; un ruolo molto spesso sottaciuto è quello giocato, in questo contesto, dagli spin doctor, gli esperti di comunicazione legati al potere politico che, muovendosi nella linea d’ombra tra la comunicazione istituzionale e quella personale dei leader, esercitano un peso determinante nell’orientamento dell’opinione pubblica. Continua a leggere
di Stanley L. Cohen*
Fonte: Comedonchisciotte
“I torti che ci sforziamo di condannare e di punire sono stati così premeditati, così malvagi e così devastanti, che una civiltà non può tollerare che essi vengano ignorati, perché non potrebbe sopravvivere alla loro reiterazione”
Con queste autorevoli parole, Robert H. Jackson, Procuratore Capo per gli Stati Uniti, aveva aperto i lavori del Tribunale per i Crimini di Guerra a Norimberga, Germania, subito dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Incaricato di accertare la colpevolezza di esponenti di spicco dell’esercito, della politica e dell’apparato giudiziario per le violazioni alle leggi internazionali... comprendenti crimini di guerra, crimini contro l’umanitàe contro le leggi di guerra…il tribunale aveva validato il principio della responsabilità personale per il genocidio nei confronti degli Ebrei e di altre etnie, che erano state considerate, dallo stato tedesco, una minaccia alla propria, dichiarata, supremazia razziale, religiosa e politica.
Sebbene questi reati si fossero manifestati in forme diverse, la loro efferatezza derivava, in realtà, da un pensiero collettivo condiviso, che considerava tutti quelli destinati ad essere soppressi dallo stato non solo (esseri) inferiori, ma indegni della vita stessa… uomini, donne e bambini, giovani e vecchi, ridotti a poco più di oggetti di grottesca derisione, la cui sola esistenza contaminava il concetto nazionale di supremazia della razza.
Non ci sono più segreti sulla campagna di terrore scatenata dal Terzo Reich, mentre invadeva nazioni e scatenava una violenza internazionale mai vista prima di allora. Neppure sono mai stati soggette ad un serio dibattito le sue modalità di guerra totale, sia verso i militari, che contro i civili. Anche se qualcuno ha scelto di contestare il numero delle vittime o di rielaborare gli esatti strumenti della persecuzione, nessuno storico serio dubita del ruolo avuto dai carri bestiame, dai ghetti e dai forni crematori nello sforzo cosciente di zittire le diversità della vita, mentre la maggior parte del mondo guardava altrove. Continua a leggere
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