Ideologie

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di Marco Tarchi

Fonte: Diorama letterario

Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi.

Le avevano date per morte, o perlomeno tramontate. Incapaci di esercitare sulle menti umane la presa di un tempo, di mobilitare entusiasmi ed energie, di spingere al sacrificio o all’abiezione – come era accaduto nell’arco di più di due secoli, perlomeno dalla nascita dell’Illuminismo in poi. Si pensava che sopravvivessero soltanto in microscopiche nicchie destinate a una lenta progressiva estinzione, dove conventicole di fanatici si intestardivano a celebrare i loro riti fuori dal tempo, a farsi coraggio a vicenda per superare il crescente isolamento, a coltivare rabbiosi e utopici sogni di rivalsa. Insomma, per le ideologie si era intonato il de profundis, in un primo momento in modo ancora circospetto, quasi sottovoce, poi con toni sempre più alti, fino a giungere – dopo la svolta avviata dal memorabile autunno 1989 – ad un coro possente alimentato dai proclami paralleli di politici ed intellettuali (specialmente da quelli che, nell’uno e nell’altro campo, più avevano creduto e fatto credere nella loro benefica insostituibilità e che adesso, con atti di pubblica contrizione più o meno sincera ed esibita, si dichiaravano pentiti e convertiti).

Nata, come tutte le mode culturali del secondo dopoguerra, negli Stati Uniti d’America con il libro del 1960 The End of Ideology, una raccolta di scritti di Daniel Bell, un sociologo che, per dare ulteriore credibilità a quanto sosteneva non esitava a definirsi «socialista in economia, liberale in politica e conservatore nella cultura», la tesi della scomparsa dei sistemi di credenze politico-sociali dall’orizzonte della contemporaneità – che lo stesso Bell avrebbe definito una dozzina di anni dopo, con innegabile acume, «postindustriale», è stata ovviamente a lungo contrastata, spesso con una malcelata irritazione, dai teorici del marxismo e delle sue varie derivazioni. Quando queste ultime hanno subìto la dura replica della storia, ha dilagato senza trovare ostacoli, banalizzandosi fino a diventare un luogo comune spacciato senza ritegno nei salotti televisivi come nelle aule o nei convegni universitari.

In questo percorso, della tesi sono andati smarriti, o sono rimasti sottotraccia, alcuni dei connotati originari fondamentali. Bell infatti aveva sostenuto che ad essere in via di esaurimento erano le vecchie “ideologie umanistiche” sviluppatesi nel corso del diciannovesimo e della prima metà del ventesimo secolo, ma che altre credenze, di raggio più limitato (parochial), ne avrebbero preso il posto. E quella sua intuizione trovava a suo avviso conferma, come sostenne nell’introduzione alla nuova edizione del 2000 della sua più nota opera, nel fiorire di conflitti ispirati a rivendicazioni di carattere etnico e/o religioso che allora si manifestavano soprattutto all’interno degli Stati dell’ex-blocco sovietico (e che, da allora in poi, si sono estesi a molte altre aree del pianeta). Una visione che aveva non poche somiglianze, se non coincidenze, con quella espressa nel troppo spesso mal (o non) letto e frainteso lavoro di Samuel Huntington su Lo scontro delle civiltà.

Se dunque non si può far carico a Bell della distorsione del suo punto di vista, o dell’attribuzione di intenzioni che il suo studio non aveva, questa colpa va attribuita a molti di coloro che sul tema da lui sollevato hanno ricamato, in buona o in mala fede, per diffondere la convinzione che ai nostri giorni i conflitti politici, sociali e culturali che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi abbiano a che fare non più con opposte visioni del mondo ma, più prosaicamente, con divergenze sul modo di risolvere razionalmente problemi di interesse pubblico o con semplici appetiti di potere di individui e/o gruppi mossi da ambizione, avidità o – perché no? – follia o altre patologie psicologiche.

Cavalcando questa lettura, gli scopi che si vogliono raggiungere sono di una duplice natura. Da un lato, si vuol far credere che, una volta lacerato il velo accecante dei “pregiudizi” ideologici, tutte le questioni rilevanti che attraversano le società odierne possano e debbano essere risolte ricorrendo ad argomenti e soluzioni “razionali”, a partire dal paradigma utilitaristico che lega la bontà di ogni azione al rapporto costi/benefici (individuali o collettivi) che la ispira. Dall’altro, si punta a fare dell’”Occidente liberale” il luogo esclusivo di elezione e applicazione di questa razionalità, e quindi a fare dei criteri di ragionamento e di comportamento a questa ispirati il modello unico ideale a cui ogni governo, ogni uomo politico, ogni intellettuale – ma, in fondo, ogni individuo – dovrebbe in qualunque frangente ispirarsi e piegarsi. Detta più sinteticamente e in altri termini, dietro questa apparente negazione del ruolo svolto dalle ideologie nella nostra epoca c’è la precisa volontà di far crescere ulteriormente giorno dopo giorno, con tutti gli strumenti del soft power, l’unica ideologia che la ruling class considera proficua ed ammissibile: l’occidentalismo.

Va detto, ad evitare fraintendimenti, che – pur poggiando su alcuni pilastri indiscutibili, che nella loro essenza derivano dalla “rivoluzione moderna” attivata dalla predicazione illuministica – questa ideologia non presenta la stessa monoliticità e fissità delle ideologie del passato recente, provviste di padri fondatori e “testi sacri”. Nelle espressioni concrete dimostra una capacità di adattamento ed evoluzione notevole, che le permette di declinarsi in forme distinte e persino in taluni casi in apparenza contrastanti, allargando la platea potenziale dei suoi destinatari. Se l’individualismo, l’universalismo, il materialismo e il cosmopolitismo sono i suoi caratteri di fondo irrinunciabili, il repertorio delle sue incarnazioni può variare lungo l’intera vasta gamma di opzioni offerta dalle varianti del liberalismo, dalle versioni più conservatrici alle più progressiste, passando per gli ibridi socialdemocratici. E soprattutto può assumere il travestimento più efficace, presentandosi come un sinonimo di democrazia e innalzando il vessillo delle libertà (formali e individuali) come paravento, pur liquidando contemporaneamente il popolo – quel demos cui la parola attribuisce il kratos – come un mito, un’entità introvabile, una mera finzione, o, peggio, un veicolo di demagogia dietro cui spunta l’ombra dell’autoritarismo. Perché non al popolo, ma all’individuo – che è l’unica entità reale riconosciuta in quest’ottica – questa ideologia attribuisce il primato.

Se si è capaci di identificarla, o meglio di smascherarla, oltrepassando la cortina fumogena delle manipolazioni dei suoi divulgatori, questa ideologia occidentalista – spesso definita, con minore precisione, pensiero unico, pensiero dominante, politicamente corretto – si mostra oggi in tutta la sua aggressività in tutti i campi della vita collettiva. Nelle versioni progressiste è alla base del forte slittamento della “sinistra” dalla difesa dei diritti sociali all’affermazione dei diritti individuali – laddove i primi erano e sono definiti da oggettive condizioni economiche condivise da cospicue frazioni della popolazione, le (un tempo) cosiddette classi subalterne, mentre i secondi si basano sulla pretesa di riconoscimento giuridico di desideri soggettivamente coltivati da minoranze (come nella maggioranza delle rivendicazioni Lgbtq+, dai matrimoni e dalle adozioni omosessuali alla possibilità arbitraria di “cambiare genere” a prescindere dalla propria configurazione cromosomica e, più in generale, biologica). Nelle versioni conservatrici determina sia la progressiva rimozione dei limiti all’espansione planetaria delle grandi concentrazioni economico-finanziarie, con tutte le connesse conseguenze sulle delocalizzazioni industriali, le strategie di dumping, la sostituzione del lavoro umano con l’impiego di macchine guidate dall’”intelligenza artificiale”, e in definitiva il trionfo della logica capitalistica e consumistica più brutale, sia l’adesione incondizionata, a volte supina ma non di rado entusiasta, al progetto di ulteriore rafforzamento dell’egemonia planetaria degli Stati Uniti d’America, che dell’ideologia occidentalista sono la culla, il fulcro e la garanzia.

È in obbedienza agli imperativi di questa ideologia che oggi assistiamo a campagne di propaganda senza precedenti – in apparenza distinte e persino remote, ma di fatto convergenti – volte a vincere ogni residua resistenza al dilagare della way of life occidentalista. Non c’è alcun bisogno di credere, come è tipico di taluni ambienti marginali ed infantilmente estremisti, ad un complotto ordito in segrete stanze per fa trionfare il Nuovo Credo dell’era globalizzata. Come in tutti i casi in cui si è assistito al dilagare di febbri ed infezioni ideologiche, è la saldatura fra presupposti empirici e suggestioni teoriche a fare da veicolo delle convinzioni indotte che via via si impongono. Quando i mezzi d’informazioni impiegano l’arma psicologica del ricatto fondato sulla commozione e sulla compassione per giustificare l’accesso indiscriminato delle masse migratorie in Europa o per fare del conflitto russo-ucraino l’emblema della lotta finale tra il Male e il Bene, oppure si sforzano di giustificare gli atti di vandalismo degli “ecologisti radicali” o degli iconoclasti attivisti della cancel culture, o le pretese di chi, in nome dell’antirazzismo o della “letta contro le discriminazioni”, mira a promuovere un razzismo di segno inverso e ad imporre un senso di colpa generalizzato a tutti coloro che hanno il “difetto” di essere nati con la pelle bianca e di sesso maschile, non ci si può stupire se i loro messaggi trovano ascolto in considerevoli settori della popolazione, specialmente fra i più giovani, che hanno ormai da tempo abbandonato la lettura e la riflessione per concedere a tv e “social” la possibilità di plasmare e deformare le loro menti.
Se questa è la situazione che ci troviamo dinanzi, è bene che quanti non intendono restare inerti a contemplarla e desiderano, invece, combatterla si rendano conto che alle suggestioni dell’ideologia non si può far fronte che con la forza di credenze alternative in grado di reggere il confronto. E che un primo passo indispensabile per ostacolare seriamente la penetrazione sempre più invadente dei dogmi occidentalisti è l’elaborazione di una visione coerente e sistematica che abbia alla sua base i principi simmetrici a quelli proclamati dagli avversari: comunitarismo e visione olistica della società, radicamento nelle identità plurali delle culture che regalano al mondo la ricchezza della sua diversità, richiamo alle tradizioni popolari, riscoperta del Sacro, giustizia sociale, accettazione dell’esistenza di un ordine naturale.

È questa la strada che abbiamo intrapreso quasi mezzo secolo fa e che abbiamo costantemente percorso malgrado gli ostacoli, le incomprensioni, i boicottaggi, le irrisioni e le diffamazioni a cui abbiamo dovuto far fronte. È il motivo per cui, fin dall’inizio, abbiamo valorizzato il contributo di riflessione che ci veniva da chi, come noi, perseguiva gli stessi obiettivi in altri paesi – Alain de Benoist in primo luogo –, senza complessi di inferiorità e senza nascondere, quando ci sembrava necessario, qualche divergenza, ma sforzandoci di promuovere un proficuo interscambio di idee. Ed è anche la ragione che ci ha portato, e ci porta, non solo a rifiutare gli inutili e controproducenti richiami a modelli del passato inadatti al confronto con la nostra epoca, ma anche i compromessi opportunistici con il pensiero dominante. Abbiamo scelto la via metapolitica, e abbandonato quella politica, perché la sapevamo più efficace e libera dalle tentazioni dell’abiura. E, ancora una volta, facciamo appello a coloro a cui giunge la nostra voce perché vogliano condividere questa nostra scelta in vista degli obiettivi comuni, scartando scorciatoie, nostalgie, ipocrisie. Solo così si potrà lanciare una sfida efficace alla sola egemonia ideologica oggi esistente, quella dell’occidentalismo liberale.

(l’editoriale di Diorama Letterario 373)

L’Italia è la Bielorussia della Nato

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Come essere intellettualmente onesti e non essere d’accordo con questo pensiero di Pietrangelo Buttafuoco? (n.d.r.)

QUINTA COLONNA

Segnalazione di Arianna Editrice

Fonte: La Verità

di Pietrangelo Buttafuoco 

O con la Nato o con Putin. Se questo è il bivio, lei da che parte va?

«Quando sei di fronte a una guerra, non puoi che andare ai fondamentali nudi e crudi. La situazione è questa: la Russia muove sullo scacchiere e invade l’Ucraina. Ho ben chiaro chi attacca e chi difende, chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Ma in Italia la cosa che più mi colpisce è l’assenza di un serio dibattito. Tutto è destinato alla propaganda, alla malafede obbligata».

In che senso obbligata?

«Nel senso che a questa propaganda sei costretto ad adeguarti. L’Italia, rispetto alla Nato, è come la Bielorussia per Putin. Solo l’infinita autorevolezza di Draghi, grazie a Dio, gli impedisce di vestire i panni del Lukashenko occidentale. Per il resto, non abbiamo margini di manovra. Ricordiamoci che tra le potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale il nostro Paese è l’unico che non ha potuto imbastire una sua autonomia in assenza di sovranità. La Germania un primato egemonico in economia se l’è costruito, e oggi si avvia al riarmo; lo stesso Giappone ha superato il grande tabù sulle forze armate. L’Italia no».

Dunque non abbiamo la forza per perseguire i nostri interessi nazionali?

«Chi avrebbe mai immaginato che la Turchia sarebbe diventata il protagonista Nato nel continente euroasiatico? Conta molto più dell’Italia e della Francia, è diventato il punto di riferimento degli Stati Uniti. Non avendo problemi di sovranità, i turchi possono fare delle scelte sulla base del loro interesse nazionale, anche assumendo una posizione critica sulle sanzioni. Cosa che a noi è impedito».

Le sanzioni fanno più male a noi che a loro?

«Quando il Fondo Monetario Internazionale dice che l’Italia rischia la recessione senza il gas russo, si incarica, purtroppo, di smentire compassati editorialisti di cui beviamo ogni parola, e autorevoli statisti cui guardiamo sempre con trepidazione e indiscussa fedeltà. Forse seguendo l’esempio di altri con la testa a posto, come Germania e Turchia, cambieremo registro anche noi. A meno che l’ansia di essere la Bielorussia dell’Occidente non ci faccia scantonare».

Anche in passato eravamo definiti un Paese a sovranità limitata. Oggi è peggio di ieri?

«Neppure la democrazia cristiana più cattocomunista dei Dossetti ha mai avuto un atteggiamento di tale sudditanza. Forse anche perché il pontificato dell’Italia di allora aveva un peso che l’attuale non ha. Oggi agli Stati Uniti non importa nulla del Vaticano, sono indifferenti e quasi sprezzanti. Non considerano questo Papa un interlocutore. Purtroppo siamo sempre costretti a ragionare in un ambito angusto: quando alziamo lo sguardo sulla scena internazionale non ci rendiamo conto di come all’estero considerino le vicende italiane».

Parlava della mancanza di dibattito. Intende dire che dinanzi alla linea bellicista dell’appoggio armato agli Ucraini, non è ammesso dissenso?

«Una volta c’era un minimo di confronto. Ma oggi siamo nell’epoca del conformismo compiuto, non ti puoi consentire più margini di discussione eterodossa. Tutto si è trasformato in un immenso bar sport. Hanno passato intere stagioni a inseguire il populismo, quando invece il populismo se lo sono fabbricato nelle cattedrali della rispettabilità istituzionale dell’informazione e della cultura».

La sorprende questo centrosinistra ultra-atlantista?

«Non mi stupisce perché conosco la loro ideologia: quella di avere sempre uno Stato guida cui fare riferimento. È l’ortodossia togliattiana».

E oggi lo Stato guida è l’America di Biden?

«No, è direttamente il «deep state» americano. D’altro canto, in una situazione come questa non possiamo pensare che sia Biden l’eminenza grigia, il cervello fondante. Semmai è la Cia e quelle strutture di sistema che costituiscono l’apparato di potere dell’Occidente».

Il Pd terminale della Cia?

«Intendo dire che, in questa particolare fase della storia, il Pd è il partito unico a tutti gli effetti. Teniamo conto che gli italiani non sono mai stati fascisti, democristiani o comunisti: sono sempre stati italiani. E gli italiani applaudono il re come il presidente della repubblica, erano tutti iscritti al Pnf e poi tranquillamente alla Dc e al Pci. Tutto risponde a un istinto comune, quello del guelfismo nazionale che si identifica con il partito unico delle carriere. In un Paese di uomini o caporali, alla fine i caporali sono sempre loro».

E il Pd dunque rappresenta questo guelfismo?

«Il Pd l’ha perfezionato: oggi è il primo partito di governo, il primo editore, il primo educatore, domina anche mentalmente, è il punto di riferimento dell’alta burocrazia, è il veicolo di carriera dei giovani arrembanti, basta vedere le facce di chi lavora a Palazzo Chigi. Pensa invece al destino da fessacchiotti in cui si ritrovano a vivere quelli di centrodestra nell’attuale maggioranza, dove sui temi fondamentali non vincono mai».

Fino a ieri i punti di riferimento a sinistra erano Angela Merkel e il ticket Joe Biden-Kamala Harris. Oggi il pantheon sembra spopolarsi.

«Vuoi che si spaventino per questo? Questi si sono fatti la villa con i rubli e oggi sono i portabandiera della Nato. Avranno sempre e comunque ragione, essendo loro i padroni della parola e della vetrina. Solo per fare un esempio: è stato il governo Letta quello che ha costruito i rapporti più forti con la Federazione Russa. Ma tutto è dimenticato, perché nel cancellare le tracce sono i più bravi di tutti».

Che succederà se Putin uscirà vincitore in Ucraina, o comunque non sconfitto?

«Già mi vedo le prime pagine dei giornali: cercheranno di convincerci che non possiamo fare a meno dello Zar Putin. E già pregusto il Caffè di Gramellini corretto alla vodka».

Trova analogie tra la gestione della pandemia e la gestione della crisi ucraina, con l’aut aut tra pace e aria condizionata?

«Questo governo ha ereditato dal precedente la logica del Cts e dell’escatologia sanificatrice. Passeremo in un niente dalla mascherina obbligatoria al ventaglio obbligatorio. Con lo stesso giudizio morale, e la stessa ansia di scovare il nemico interno. Sono formidabili nel neutralizzare il dissenso: o ti ridicolizzano, o ti criminalizzano. E alla fine sfoceremo nel solito provincialismo: levata la mascherina, sventoliamo la bandierina (ucraina). Insomma, stanno approfittando di una catastrofe mondiale per regolamentare i conti nel proprio cortile. E sa qual è la cosa davvero
straordinaria?».

Quale?

«Che gli artisti, di solito detentori della sovversione, oggi sono i primi guardiani della fureria: passano le giornate a scrivere tweet con il ditino alzato».

Un’eredità del cortigianesimo?

«Peggio. Il cortigiano si riservava uno spiraglio di crudele ironia. Invece gli intellettuali di regime, i comici di regime, i drammaturghi di regime, non sono genuini creatori di rivoluzione, come poteva essere un Majakovskij. No, questi credono davvero a ciò che dicono».

Ha scritto che gli Stati Uniti vogliono trasformare la Russia nell’Unione Europea. Ce la spiega?

«Per l’Occidente la Russia è un nemico più ostile persino dell’Unione Sovietica, perché decenni di materialismo scientifico non sono riusciti a scalfirne l’identità e lo spirito. La Russia è la prima potenza cristiana sul continente europeo, ha solide tradizioni, a Dio i russi ci credono davvero. Tutto ciò appare preoccupante e odioso per chi guarda il mondo con gli occhi del laicismo e dello scientismo occidentale».

Insomma, dietro il conflitto armato si cela uno scontro di civiltà?

«Da un lato c’è «l’imperium», le potenze imperiali, Stati Uniti compresi: come dice Dario Fabbri, sono i popoli che non prendono l’aperitivo, che hanno spirito combattivo e identità plurali. Dall’altro c’è il «dominium» di noi europei, il tentativo di riunire il mondo ad unica identità, ad un unico progetto. Anziché perdere tempo con la propaganda, dovremmo riflettere su una guerra che mette in discussione la globalizzazione. Noi occidentali siamo convinti di avere la parola definitiva sugli eventi della storia, ma esiste un disegno globale dove potenze spiritualmente fortissime si sono incontrate: Cina, Russia, India, Pakistan».

Che effetto le fa vedere l’Europa in ordine sparso, dal Baltico alla Germania al Mediterraneo, senza una guida?

«Come abbiamo detto all’inizio, torniamo ai fondamentali. Chi sono i due soggetti attualmente egemoni nel mediterraneo, con un ruolo attivo? Quando mi affaccio dalla spiaggia iblea, in Sicilia, vedo passare incrociatori battenti bandiera russa e turca. Noi italiani, invece, possiamo fare tutto: tranne quello che non ci consentono di fare».

a cura di Federico Novella

Non fu uno scontro di civiltà

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/non-fu-uno-scontro-di-civilta-2/

No, non fu uno scontro di civiltà quello che esplose l’11 settembre di vent’anni fa. Non si scontrarono la civiltà islamica e la civiltà cristiana. Fu piuttosto l’attacco barbarico dei fanatici islamisti a un occidente nichilista, ormai separato dalla sua civiltà e dai suoi principi. Scontro d’inciviltà, ritorno di barbarie.

I fanatici che attaccarono il cuore dell’Occidente ‒ non della Cristianità, altrimenti avrebbero colpito altri obbiettivi simbolici ‒ non venivano dall’Islam tradizionale ma si erano formati e istruiti in Occidente e aderivano a una versione ideologica di islamismo. Bin Laden e la sua famiglia ne erano il prototipo. Islamisti di ritorno, come si dice analfabeti di ritorno.

I fanatici radicalizzano l’Islam, lo usano come arma, come droga e come bandiera, applicando alla lettera alcune “sure” feroci del Corano. Il nichilismo occidentale, invece, è la degenerazione della libertà e la deriva della modernità, la libertà come rifiuto del destino, della natura, dei limiti e del sacro e la vita elevata a scopo di se stessa.

È sbagliato, anzi indegno, evocare lo scontro di civiltà per indicare la vendetta dei fanatici accecati dall’odio e dall’ideologia contro il predominio planetario degli Stati Uniti e dei loro alleati o “servi”. Prima di quel feroce attacco c’era stata la guerra del Golfo, e altre invasioni, ingerenze, incursioni, sanzioni che avevano acceso gli animi del fanatismo islamico e avevano risvegliato la Jihad: ma non fu Guerra santa, fu piuttosto rappresaglia e rivendicazione delirante di dominio contro la dominazione americana. La controprova è che nessuna guerra tra i popoli o stati islamici e popoli o stati occidentali poi scoppiò; ma restarono terrorismo e tensione, conflitti locali e insurrezioni, occupazioni e attentati, rappresaglie e bombardamenti. E lo scontro aperto l’11 settembre non unì l’Islam in un solo corpo, ma lo lasciò diviso tra sunniti e sciiti, tra iraniani e sauditi, e una miriade di fazioni ostili tra loro. Non ha mai preso corpo nemmeno un asse tra i paesi leader di area, la Turchia, l’Iran e l’Egitto. Né i paesi islamici si unirono nell’isolare e condannare i terroristi.

Semmai l’11 settembre generò più compattezza difensiva nell’Occidente, perché l’orrore del terrorismo, la paura e l’insicurezza diffusi in Europa come negli Usa li spinsero a sentirsi accomunati come potenziale bersaglio dell’odio islamista. Continua a leggere