Piano Mattei, sovranisti finti e altre prese in giro

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di Elena Basile

Fonte: Elena Basile per Arianna Editrice

La parola inglese accountability rende bene il significato di quel che è stato perso nella vita politica italiana. Potrebbe essere tradotta con una perifrasi: “assumersi la responsabilità e dare conto del proprio operato”.
Al cittadino appare chiaro che i politici, le istituzioni, persino i giornalisti e gli operatori culturali sono liberi da un tale fardello essenziale alla civiltà liberale e democratica.
Gli esempi potrebbero essere tanti. I giornalisti che avevano previsto il crollo economico della Russia e un cambio di potere a Mosca pontificano sulla probabile sconfitta militare della Russia, per nulla imbarazzati dalle loro precedenti errate previsioni. Romanzi premiati e pompati dal mercato non rispondono a volte ad alcun requisito letterario, ma le macchine della pubblicità, i critici, le case editrici e gli amichetti continuano indisturbati a distruggere la cultura. Il governo della destra “sovranista” di Meloni attua un programma in politica estera e in Europa che avrebbe potuto essere del Pd e del centrosinistra. Gli elettori restano fedeli nella sconcertante convinzione che la presidente non ha alternative se vuole restare al potere.
Le decisioni sono prese altrove. La finanza, le grandi multinazionali tirano i fili delle marionette politiche. Le indagini sociologiche serie hanno illustrato come il presidente degli Stati Uniti sia eletto grazie all’accordo di tali poteri forti.
Non c’è nulla di automatico e deterministico. L’azione umana è piena di imprevisti. Ma, come l’assenza di partecipazione alla politica se non per interessi settoriali e la stessa astensione dal voto dimostrano, si è rotto quel filo che fino agli anni 80 ha legato società civile e istituzioni.
Prendiamo la politica mediterranea. Diplomatici e nuovi pennivendoli si affannano a illustrare il cosiddetto Piano Mattei. Senza pudore si utilizza un nome mitico. Enrico Mattei si rivolta nella tomba. Il grande imprenditore, che ha pagato con la propria vita il coraggio di perseguire l’interesse nazionale contro quello delle “sette sorelle”, il fine politico che ha creduto nel bene comune di Stati mediterranei e africani, viene strappato alla memoria collettiva e strumentalizzato per le carnevalate odierne. La presidente del Consiglio (ma Draghi o altri di centrosinistra non avrebbero fatto diversamente) si genuflette alle richieste militari ed economiche statunitensi, rinuncia agli interessi commerciali italiani nei rapporti con Pechino, elemosina senza ottenere una politica del Fmi diversa nei confronti della Tunisia, e nomina senza alcun pudore Enrico Mattei per riferirsi al piano energetico tra Italia e l’Africa fornitrice di energia. Nessun giornalista o economista si dà la pena di spiegare come mai decenni di politica mediterranea europea (dal processo di Barcellona 1995 all’Upm 2008) siano falliti nonostante gli sforzi di partnership egualitaria, di codecisione, di approccio olistico e non settoriale. Qualche brillante collega addirittura sostiene che la Nato, data la menzione del Fianco Sud nel prolisso e illeggibile comunicato finale a Vilnius, aprirà le porte a una cooperazione differente con i Paesi nordafricani. Mattei, a partire dal 1958, aveva stipulato con l’Urss accordi energetici favorevoli allo sviluppo economico italiano contro l’oligopolio delle multinazionali. Il governo italiano strumentalizza il suo nome mentre si lega mani e piedi all’energia statunitense venduta a caro prezzo e a frammentate fonti di approvvigionamento con dittature di umore instabile.
Il cittadino ,nel leggere alcuni giornali, prova un terribile senso di presa in giro. Mieli realizza buoni programmi televisivi, recentemente una ricostruzione storica della rivoluzione cubana. Ci propina tuttavia articoli in cui racconta la fine dell’accordo sul grano come una decisione unilaterale del lupo cattivo. Dimentica di elencare le condizioni previste dall’accordo e non realizzate a partire dalla mancata revoca delle sanzioni sui pezzi di ricambio delle macchine agricole russe fino alla negata adesione della banca russa agricola al sistema di pagamenti Swift. Tace sulle percentuali di grano esportate (80% ai Paesi europei, 3% agli africani) che secondo l’Oxfam non risolverebbero i problemi dei Paesi emergenti, ma contribuirebbero a limitare l’inflazione di generi alimentari nei Paesi ricchi.
Quanti intellettuali e rappresentanti istituzionali si prestano a questi giochi in malafede con appelli moralistici a favore dei Paesi emergenti smarrendo la visione oggettiva di quanto accade sulla scena internazionale? La sensazione sconcertante è che le élite al potere in Europa e i loro ‘cani da guardia” abbiano venduto l’anima e che la politica come l’economia e la cultura siano soltanto tecnica. Viviamo ormai in un eterno Barbie, film di visualità sublime privo di contenuti e con uno script demenziale.

L’attuale società post-moderna è la sintesi dei fallimenti delle rivoluzioni

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI per https://www.informazionecattolica.it/2021/11/15/lattuale-societa-post-moderna-e-la-sintesi-dei-fallimenti-delle-rivoluzioni/

di Matteo Castagna

A DIFFERENZA DELL’EGUALITARISMO LA COMUNITA’ DI DESTINO COSTITUISCE IL PRINCIPIO VITALE DI OGNI SOCIETA’

La società attuale, detta post-moderna, può essere vista come la sintesi dei fallimenti delle rivoluzioni condotte nei secoli precedenti contro la civiltà tradizionale, che era una comunità gerarchica ed organica, diretta da autorità provenienti da Dio, che al netto degli errori umani, perseguiva il bene comune nell’armonia fra Trono e Altare.

Noi cattolici crediamo che la vita delle società sia sottomessa ad un certo numero di leggi immutabili. La cosiddetta “comunità di destino” è la prima di queste leggi. Se scompare, i raggruppamenti umani cadono in preda alla sclerosi e all’anarchia. Essa esiste quanto gli uomini condividono spiritualmente o materialmente la stessa esistenza, per gli stessi fini e con gli stessi rischi.

Ha due forme distinte:

a) la somiglianza. C’è comunità di destino tra un operaio della Fiat e uno della Renault, tra due contadini di regioni diverse, tra il marinaio che conduce una rotta e quello che ne persegue un’altra. Costoro appartengono alla stessa classe sociale, fanno gli spessi lavori e conducono, più o meno, lo stesso genere di vita. I loro destini si assomigliano;

b) la solidarietà reciproca. Se a un lavoratore di una certa categoria capita una disgrazia, gli operai che operano in un’altra non ne saranno direttamente toccati. Se prendiamo due lavoratori dello stesso settore con ruoli differenti, essi vivranno, nel bene o nel male, seguendo destini non solo simili ma solidali.

Questa comunità di destino tra esseri che, attraverso la loro diversità di situazione e vocazione, rimangono strettamente dipendenti gli uni dagli altri, conferisce ai raggruppamenti umani il loro carattere organico. La famiglia è la comunità organica per eccellenza. Ben più che i legami di sangue, è l’interdipendenza dei destini, nella differenza ed armonia dei ruoli stabiliti dalla natura, che costruisce l’unità familiare, così come quella delle categorie lavorative. Il socialismo, declinato in ogni sua forma, oggi definibile come globalismo, tende all’egualitarismo assoluto, che, essendo innaturale, genera divisione e conflitto. La comunità di destino esige la solidarietà organica, ovvero l’esistenza di legami vitali tra gli uomini. Essa è il barometro della vitalità e della stabilità della società, che, invece, il modello liberal-capitalista mette a repentaglio in nome dell’egoismo assoluto e dell’ assolutizzazione disumana del profitto.

La crisi della post-modernità non è forse la deriva delle ideologie socialista e liberale, che è giunta al punto di implodere e che cerca in maniera subdola e, talvolta, tirannica, di risolvere il problema attraverso una transumana rimodulazione della sua alleanza strategica, già fallita dopo la Seconda Guerra Mondiale?

Al contrario della lotta di classe e dell’egoismo assoluto, che sono i figli degeneri del socialismo e del liberalismo, la comunità di destino presenta vari vantaggi che influiscono felicemente sulla vita sociale. Favorisce l’amore che è l’anima di ogni unità sociale. E’ chiaro che noi amiamo più più facilmente l’essere che vive al nostro fianco e condivide le nostre gioie e le nostre preoccupazioni, che non un estraneo, magari imposto dalla società liberal-socialista proprio al fine di distruggere la comunità di destino, in nome di un egualitarismo inesistente, impossibile perché innaturale e forzato perché che crea solo conflitti.

La comunità di destino verte a neutralizzare l’egoismo, piegandolo al servizio del bene comune, mentre l’interdipendenza crea, quasi automaticamente l’aiuto scambievole. Quando La Fontaine scrive che “se il tuo vicino viene a morire, è su di te che cade il fardello” presuppone l’esistenza di destini solidali. Gustave Thibon (1903-2001, nella foto qui sotto), in Diagnosi (1940), aveva ben compreso e scritto tutto questo: “Uno stato sociale è sano nella misura in cui tende a diminuire la tensione tra l’interesse e il dovere, è malsano nella misura in cui tende ad aggravarla“.

La soppressione della comunità di destino, voluta dal globalismo e dal mondialismo, distrugge il senso solidale dell’aiuto comunitario, distrugge i legami sociali, abbandona a se stesse le masse umane esponendole a tutti i risucchi di un egoismo senza contrappeso. Queste situazioni vengono, d’altronde, fin troppo confermate dallo spettacolo della società attuale, che ha ucciso Dio, dissolto la Patria e trasformato la famiglia, sciogliendo quella continuità vivente tra gli individui nello spazio e le generazioni nel tempo. Gli uomini disuniti come automi e privi di quella gerarchia che è principio naturale, ma odiato dal liberal-socialismo, disperdono i loro sforzi e producono solo opere di corto respiro, senza legame e senza unità. E’ in epoche come il Medioevo, in cui le differenze sociali e i privilegi erano portati alla loro suprema espressione, che gli uomini hanno vissuto con la massima profondità la loro comunità di destino. L’invidia, tipica dello spirito social-comunista distrugge l’armonia della comunità di destino, che è l’antidoto all’egualitarismo.

Tutto quanto è local, invece, favorisce la società di destino in una vera presa di coscienza del “noi” e del superamento dell’ “io”, figlio della cultura liberale. In tutti i campi, l’attaccamento al dato sensibile precede e condiziona l’amore dello spirituale e dell’universale. Perciò la comunità di destino è in grado di rispondere concretamente alle Sacre Scritture, laddove si dice: “Chi non ama suo fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede?“.

Drago I Re d’Italia

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Viva il Re, è tornato il Regno d’Italia. Dopo settantacinque anni ingloriosi e rissosi di repubblica, l’Italia è tornata allo splendore della Monarchia. Non c’è stato bisogno di un nuovo referendum, è bastato il suo nome, il suo ritorno in Patria, poi l’intrigo di corte del ciambellano fiorentino e l’acclamazione del Parlamento con poche defezioni ha fatto il resto.

Drago I, al secolo Mario Draghi, è ormai il nuovo sovrano d’Italia. Presidente del consiglio a tempo indeterminato, Presidente della Repubblica in pectore, Presidente dell’Europa in fieri. È venuta in Italia perfino Angela Merkel a fare le consegne a lui, prima di andarsene dopo il suo lungo regno germano-europeo.

Cani e gatti, sinistra e lega, renziani, berlusconiani e grillini si sono stretti intorno a lui. E lui è disceso tra i sudditi, si è fatto premier, ha concesso la sua augusta persona alle sorti del suo paese d’origine. È stato incoronato in Quirinale dalla Queen Mother, Mattarella, sempre più confinato nel ruolo di Regina Madre, in attesa di quiescenza.

Prima di lui eravamo passati da una fase di transizione, che potrebbe definirsi la Contea, dal suo predecessore il Conte Giuseppi II, successore di se stesso, in versione progressista, dopo il suo primo mandato da Giuseppi I in versione populista. Ma non c’è stato il tradizionale rito di passaggio della campanella, perché con Draghi abbiamo fatto un salto di grado e di status. Draghi è stato incoronato e da allora regna, come i Savoia, per grazia di Dio e volontà della nazione. Però trattandosi di un’epoca atea e apatriottica, regna per grazia dell’Europa e volontà delle fazioni.

Sua Maestà Drago Draghi ha il carisma della sovranità, è super partes, si esprime con grazia regale e stile sobrio,  è autorevole e clemente, essenziale ed elegante nella comunicazione, e tratta i partiti come baronie bizzose ma prone alla Corona.

Nessuno osa contestare il suo Regno, perfino l’opposizione lo invoca al Quirinale, implorando che lui conceda poi la grazia del voto. Acclamato come Re Covery, dal cospicuo fondo che dovrà gestire, Sua Maestà Draghi è riuscito a immunizzare un paese riottoso servendosi di un Generale di sua Fiducia, Figliuolo, come ha voluto graziosamente battezzarlo. Il vaccino susciterà  dubbi di durata ed efficacia ma di sicuro ha inoculato nel paese la fiducia nella monarchia draghiana. Ora l’Italia attende che il Sovrano dispensi ai sudditi, tramite il suddetto Recovery, i benefici necessari per risollevarsi e riprendere il cammino.

Di Draghi non oseremo dire nulla, lungi da noi l’idea di oltraggiare la Corona e vilipendere il Sovrano. Ci limitiamo perciò a esercitare la nostra critica su due aspetti riflessi che ci sembrano rilevanti.

Il primo riguarda il governo della Corona. Nonostante sia guidato dal Sovrano Eccellentissimo in persona, al di sopra di ogni critica e di ogni dubbio, quello che fu presentato come il Governo dei Migliori, in realtà è un governuzzo di cabotaggio medio, come se ne videro già tanti ai tempi delle repubbliche. A una più attenta analisi e valutazione, possiamo dire che i suoi ministri si dividono in tre fasce: Abili, Inabili e Mediocri. Gli abili, naturalmente, sono nei dicasteri più prossimi alla Corona, in particolare nei dicasteri economici. Gli inabili sono purtroppo in alcuni dicasteri chiave, come gli Interni, gli Esteri, la Salute. I restanti sono Mediocri. Ma la media dei ministeri è nella media dei precedenti, e il risultato generale è la mediocrità.

L’altro aspetto, forse più grave, riguarda l’intera politica che col Regno di Drago I è passata alla semiclandestinità, a un’ingloriosa irrilevanza e marginalità. Sarà per lo splendore regale di Drago I, ma i partiti sono oscurati, a volte oscurantisti, e si bisticciano tra loro per guadagnare briciole di visibilità, mossi da capricci infantili.

I partiti sono ormai ridotti a feudi, signorie, ducati senza giurisdizione né sovranità, ormai esautorati dal regno unito draghiano. E i loro rappresentanti al governo trovano visibilità solo se accettano un ruolo alla corte di Re Draghi: vedi il Marchese del Grillo, al secolo Di Maio, il Visconte demizzato Franceschini, il Duca della Lega Giorgetti, il Baronetto del Cavaliere, Sir Brunetta, il Camerlengo della Sinistra ospedaliera, Speranza, più altri nobili e cortigiane delle varie conventicole.

Non potendo decidere, la politica bamboleggia tra temi falsi o secondari: le leggi in materia sessuale e omosessuale, le scomuniche sul fascismo e ai no vax, le proroghe dei pass o dei tamponi, il voto ai sedicenni, i redditi di parassitanza, più vari ius, eccetto lo ius primae noctis, riservato alla Corona. Non incide più, e perciò si limita ai giochi, ai trastulli, ai vizi di corte.

Ma tutti tengono a far sapere che sono con il Re e per il Re, più realisti del Re e più draghisti del Drago. Europeisti, governisti, lealisti. Siamo entrati ormai nella dragosfera, da qualunque parte voi entriate.

C’è chi ipotizza di attribuire al Re il potere assoluto, ovvero l’assommarsi di tutti i poteri: Capo dello Stato e a interim capo del governo, e a interim Capo della Commissione europea. Senza limiti temporali, settoriali o territoriali. Un impero. Sempre sperando che lui non si annoi e non se ne vada di nuovo fuori dall’Italia. Acclamato ormai come Sovrano del Regno Unito, non resta che alzarsi in piedi e intonare God save the King. E Dio salvi gli italiani dal ridicolo servilismo, maschera antica dei cinici più infidi.

MV, Panorama (n.43)

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/drago-i-re-ditalia/

 

Amministrative, i tre mali del centrodestra (o quattro?)

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IL COMMENTO POST ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2021

di Giuseppe De Lorenzo

È inutile nasconderselo: le elezioni amministrative 2021, che già iniziavano sotto cattivi auspici, sono andate persino peggio del previsto. Al di là del premio di consolazione – la Calabria e, forse, qualche Comune che la coalizione riuscirà a conservare – il centrodestra viene stracciato al primo turno a Milano e Napoli, a Torino parte in svantaggio e a Roma, probabilmente, soccomberà al ballottaggio (mai dare nulla per scontato, ma all’alba del giorno dopo, questa è la proiezione).

I tre motivi della disfatta

L’analisi della sconfitta non può prescindere da tre elementi di riflessione. I tre vicoli ciechi che hanno eroso una squadra, fino a poco tempo fa, col vento in poppa e dai quali non è detto sia possibile uscire.

1. L’incapacità di offrire una classe politica all’altezza, unita alla paura di amministrare. Un fattore abbastanza sorprendente soprattutto nel caso della Lega, che tradizionalmente aveva nel buongoverno locale un suo punto di forza. L’indisponibilità di big da giocarsi nelle metropoli, in realtà, è stata solo uno dei fattori in gioco: sicuramente, a spingere verso la scelta di candidati estranei ai partiti e oggettivamente deboli e impreparati, sono stati il timore di raccogliere sfide pericolose come banco di prova nazionale (Roma), le liti e le fratture interne alla coalizione e la costituiva difficoltà del messaggio sovranista a penetrare nei grandi centri urbani (Milano). Anche se – valga come monito a quelli di scuola giorgettiana – non hanno scaldato i cuori degli elettori nemmeno candidati tutt’altro che radicali, come i borghesissimi Luca Bernardo nel capoluogo lombardo e Paolo Damilano sotto la Mole.

2. È indubbio, tuttavia, che sulla disillusione dei sostenitori della coalizione – è il secondo spunto – abbia pesato la sostanziale irrilevanza politica dei sovranisti. Gli uni (Fdi), in quanto ancorati a una scelta d’opposizione coerente quanto si vuole, ma alla fine improduttiva: il partito di Giorgia Meloni ha un’indiscutibile forza critica, però è inevitabilmente marginale rispetto alle decisioni che contano e che esso deve limitarsi a subire. Gli altri (il Carroccio), nonostante avessero scelto di entrare nell’esecutivo di Mario Draghi proprio “per incidere”.

La realtà è che anche l’ala moderata o governista, alimentata dai presidenti delle Regioni del Nord e capitanata da Giancarlo Giorogetti, non ha portato a casa nulla: non l’apertura delle discoteche, non i tamponi gratis per il green pass, non la propulsione alla produzione di vaccini italiani, mentre l’abbandono dei lockdown duri derivava prevalentemente da un’intima convinzione di Draghi, il quale di sicuro non si concepisce come un uomo chiamato a gestire un Paese fermo. Giorgetti, per adesso, ha solo l’onere di affrontare le crisi industriali al Mise. Un ministero che appariva un grande riconoscimento alla Lega e che, a ben vedere, potrebbe essere stato un trappolone. Nel frattempo, Draghi & company preparano un’imboscata fiscale già nel cdm odierno. Tutto ciò ha suscitato una sensazione di disempowerment e di scoramento nell’elettorato d’area: la gente ormai ha capito che, comunque vadano le elezioni, non cambierà nulla.

3. Questo ci porta al terzo, più buio vicolo cieco: l’inagibilità politica. Un centrodestra a trazione sovranista finirebbe in un cul de sac, quand’anche vincesse le elezioni 2023. Da un lato, resterebbe esposto, com’era già successo ai gialloverdi nel 2018-2019, alle imboscate dei mercati finanziari e dell’élite europea. Dall’altro, sarebbe comunque vincolato in partenza agli impegni sottoscritti col Pnrr e modellati sulla base delle “raccomandazioni” dell’Ue all’Italia. Cercare di sottrarsi alla tenaglia significherebbe, con ogni probabilità, perdere l’accesso alle fonti di finanziamento del debito pubblico e le risorse garantite dal Next generation EU.

Noi di “Christus Rex” aggiungeremmo un quarto motivo: la mancanza più assoluta di un orizzonte valoriale metapolitico chiaro e condiviso da tutto il centrodestra. Ricordiamo che Salvini faceva incetta di voti quando parlava da cattolico e proponeva principi con solide radici cristiane, senza timore di andare controcorrente. Ci sarà ancora posto, nel centrodestra, per incidere come cristiani? Crediamo che nei fatti, nelle aperture anche alle persone maggiormente rappresentative di quest’area conservatrice e tradizionalista, della quale si sente orfano di rappresentanza almeno un milione di “tradizionalisti” anonimi, si possa e si debba ragionare. Se si annacqua il tutto per paura del politicamente corretto e del Pensiero Unico, il centrodestra è destinato, a nostro avviso, a continue debacle. Le linee siano chiare fin da principio, senza tentennamenti, ricordando che, anche in politica, come nella vita, nella morale, nell’etica, due + due fa sempre e solo quattro. (N.d.R.)

Come scrivemmo già su questo blog, il Recovery fund commissaria la destra per i decenni a venire. Il che, peraltro, rende quanto mai incerte le geometrie parlamentari del 2023, fermo restando che, per formulare ipotesi, è necessario scoprire chi arriverà al Quirinale. Ad esempio, se Draghi restasse a disposizione di un incarico a Palazzo Chigi, mettereste la mano sul fuoco sul fatto che Forza Italia s’imbarcherebbe in un’impresa con leghisti e meloniani, anziché riproporre una grande coalizione, ovvero una conventio ad excludendum contro i sovranisti?

Era ieri, quando il caos immigrazione metteva il turbo alla Lega di Matteo Salvini. Eppure, è come se fosse passata un’eternità.

Giuseppe De Lorenzo, 5 ottobre 2021

Fonte: https://www.nicolaporro.it/amministrative-i-tre-mali-del-centrodestra/

 

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I sovranisti distratti

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QUINTA COLONNA

di Franco Cardini

Fonte: Franco Cardini

IN MERITO ALLA “CARTA DEI VALORI EUROPEI”, OVVERO IL MANIFESTO DEI “SOVRANISTI”. I SOVRANISTI DISTRATTI, OVVERO LA SOVRANITÀ RIVENDICATA. GUARDANDO ALTROVE

Il “Manifesto”, così com’è, appare inficiato da due errori di fondo e compromesso da due omissioni che – volontarie o involontarie che siano – sono gravissime.
Due errori.
Primo errore: l’accettazione acritica dell’idea giacobina di “nazione”. La Natio è un valore antichissimo, che insiste sui legami tra un popolo, la lingua che esso parla, le tradizioni delle quali vive e il territorio nel quale esso è insediato. Ma la Nation è un concetto astratto di conio giacobino, inteso a sostituire quando è stato introdotto la fedeltà dei popoli ai loro troni e ai loro altari, cioè alla loro storia concreta. La “Nazione” è nata alla fine del Settecento per spazzar via i popoli e le tradizioni. Nell’Europa del futuro, accanto allo “stato-nazione” che ormai esiste in tutte le contrade del continente – ma che è vecchio al massimo di circa due secoli e mezzo, in certe aree (quali quella italica, germanica, iberica e balcanica) ancora meno – dovranno essere valorizzate le antiche e profonde realtà (“nazioni negate”, e magari “lingue tagliate”) che al livello di “stato-nazione” non sono mai pervenute: la castigliana, l’andalusa, la catalano-provenzale-occitana, la basca, la gallega, la bretone, la normanna, la borgognone-piemontese, l’alsaziano-lorenese, la bavarese, la svevo-alamanna, la veneta, la sarda, la siculo-sicana, l’italica nelle sue varie espressioni e declinazioni storico-dialettal-latitudinarie, la boema, la croata, l’illirica, la macedone e così via. Se la futura compagine unitaria politica europea (perché politica dovrà anzitutto essere e proclamarsi) dovesse darsi un sistema bicamerale – il che è materia di discussione – a un Congresso “degli stati-nazione” – dovrebbe accompagnarsi un Senato “dei popoli e delle culture” su una base territoriale differente e complementare rispetto al primo.
Secondo errore: spazziamo via una volta per tutte l’equivoco (nato sulla base di una superficiale e semicolta volontà di affermazione “antirazzistica” e “anti-antisemita”) della “civiltà giudaico-cristiana”. La confessione giudaico-cristiana nacque e si sviluppò nei primi secoli dell’Era Volgare come espressione di quegli ebrei che, volendo mantenere intatta la fede mosaica, intendevano tuttavia affermare che il Messia era già comparso nel mondo, ed era identificabile in Gesù di Nazareth. Tale confessione non esiste più. La fede cristiana affonda senza dubbio le sue radici nella legge ebraica e nella sua tradizione, che i cristiani giudicano “intrinseca” al cristianesimo (parere non giudicato reversibile dagli ebrei), così come ebraismo e cristianesimo sono giudicati “intrinseci” rispetto al messaggio di Muhammad dai musulmani (parere che ebrei e cristiani non giudicano reversibile). La civiltà europea si è fondata sulla base di un cristianesimo che aveva ormai metabolizzato l’ebraismo accogliendo al suo interno anche l’eredità ellenistico-romana, cui nel corso del primo millennio e anche di parte del secondo dell’Era Volgare si aggiunsero altre tradizioni etniche. Alcune porzioni dello spazio europeo accolsero poi i momenti distinti (dalla Puglia alla Sicilia alla penisola iberica a quella balcanica) anche la legge musulmana, mentre in esso rimasero radicate numerose comunità musulmane. La compagine europea del futuro, che sarà politicamente parlando laica e che riconoscerà e valorizzerà al suo interno le tradizioni religiose, dovrà fondarsi sulla sua identità abramitica comune a cristianesimo, islam ed ebraismo come sull’identità ellenistico-romana arricchita dagli apporti etnici celtico, germanico, slavo e uraloaltaico che le proviene dalla sua stessa storia.
Prima omissione.
L’Europa del futuro dovrà esprimere in modo esplicito l’opzione per una configurazione politica e istituzionale che l’Unione Europea non ha mai né saputo né voluto esprimere, rinunziando con ciò a proporsi quale Patria europea comune a tutti i popoli. L’Europa del futuro dovrà al contrario proporsi come Grande Patria Europea (il Grossvaterland, si direbbe in tedesco), includente al suo interno sì le “patrie” nate dallo sviluppo degli “stati-nazione” (i Vaterländer), ma anche gli Heimatländer. Le lunghe vicende di un continente segnato da diversità profonde e anche da passate ostilità reciproche (si è parlato non già di un “continente”, bensì di un “arcipelago” europeo da condursi a una unità – e pluribus unum – che rispetti e valorizzi tuttavia le diversità interne) escludono una formula futura fondata su un qualunque impossibile centralismo e consigliano di evitare la via di un federalismo “all’americana” o “alla tedesca”, insufficiente a rappresentare in modo adeguato le molte “terre profondamente e intimamente natali” (gli Heimatländer) in forza delle quali ciascuno di noi non è soltanto francese, o tedesco, o spagnolo, o italiano e così via, ma anche – e profondamente – castigliano, o bretone, o renano, o tirolese, o slovacco. Solo un assetto non già federalistico, bensì confederale, potrà rispondere adeguatamente a questa realtà e a queste istanze. Qualora volessimo indicare approssimativamente un modello, penseremmo alla Confederazione Elvetica. Sono di questo tipo le istanze che consigliano di procedere i popoli europei verso la costituzione di una compagine politica definibile come Confederazione degli Stati Europei (CSE).
Seconda omissione.
Il confronto con l’istituzione politico-militare della NATO e con l’atlantismo: la prima, la NATO, una compagine da rivedere e riformare profondamente sulla base di un patto al quale la CSE potrebbe anche aderire a patto ch’esso si fondasse sull’effettiva parità e indipendenza politica dei suoi membri anziché – come oggi si presenta – quale organo attivo dell’egemonia statunitense sui popoli europei con ciò ridotti a una “sovranità unilateralmente limitata” e a una grave subordinazione di fatto, lesiva dei loro diritti e della loro dignità. Il secondo, l’atlantismo, una sinistra ideologia politica nata sulla base della “guerra fredda” tra USA e URSS con i rispettivi satelliti e che oggi va rifiutata decisamente per essere sostituita da un’Europa che non ha nemici preconcetti ma che punta a un suo protagonistico ruolo nella promozione e nel mantenimento della pace e dell’equilibrio mondiale fondato sul conseguimento della giustizia sociale tra i popoli e della salvaguardia ecologica e ambientale. Un equilibrio del quale la nostra Grande Patria Europea sia protagonista e non vassalla.

I sovranisti nell’era Draghi

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QUINTA COLONNA

di Marcello Veneziani

Come sarà il sovranismo nel tempo di Mario Draghi alla guida di un governo per metà sostenuto e per metà osteggiato dai sovranisti? Ne uscirà sano, con le ossa rotte o rafforzato? Partiamo da un doppio paradosso. Il primo è che hanno fatto bene sia Salvini che Meloni a scegliere le rispettive strade. Non siamo mai stati avari di critiche o compiacenti con loro, ma tutto sommato è stata una scelta saggia per entrambi. Non potendo ottenere il voto anticipato, con Draghi si può puntare ad avere almeno due risultati: far cadere il governo grillo-sinistro che era una calamità innaturale, aggravata da un illusionista vanesio come collante, scongiurando che fosse quella banda inadeguata a gestire il piano del recovery; e avviare una stagione di decantazione in cui viene a cadere la demonizzazione dei sovranisti e si forma un governo bilanciato dalla presenza di forze del centro-destra. Scommessa rischiosa ma andava fatta.

Dall’altra parte, la Meloni ha ben capito che entrando nel governo avrebbe avuto un raggio minimo d’incidenza per via dei numeri ancora esigui del suo partito (avrebbe avuto un ministero di serie b e un paio di sottosegretari) e avrebbe perduto la ghiotta occasione di brillare da sola all’opposizione. Dunque, facile, accorta e lineare la sua scelta di starne fuori.

La divergenza tra Lega e Fratelli d’Italia, anche se non è tattica ma effettiva e competitiva, per chi vede l’insieme con lungimiranza, è utile alla causa comune perché riflette la divaricazione dell’opinione pubblica sovranista e consente di recuperare con l’una i consensi perduti dall’altro; e di ricompattarsi poi. Già quando Salvini scelse la via della spericolata alleanza coi grillini si separò dagli alleati ma poi li ritrovò dopo l’esperienza di governo. Insomma, per i sovranisti è stata positiva la doppia opzione, marciando divisi per poi unirsi quando si andrà al voto. Il sovranismo è sempre al 40 per cento dei consensi, con qualche travaso fra le due forze; aggiungendo l’apporto di Forza Italia e dei centristi resta la maggioranza in pectore del paese.

L’altro paradosso investe invece Draghi al governo. Considerando la sua storia, la sua provenienza, il suo stesso discorso d’investitura, Draghi è l’antitesi del sovranismo. È l’uomo dell’Europa, dell’euro, della finanza transnazionale, del predominio dell’economia sulla politica, della cessione di sovranità all’Unione Europea. Insomma il contrario di un sovranista. Lo ha ben detto Magdi Allam in una lettera aperta a Draghi, a cui non ha fatto sconti nel nome dell’amor patrio e della sovranità.

Ma, ferme restando tutte le inquietudini che genera la premiership di Draghi, c’è da fare un discorso realista e disincantato. Se fosse rimasto Conte e il suo governo col partito più omogeneo all’establishment europeo, il Pd, avremmo avuto una variante furba, doppiogiochista, ingannevole della stessa subalternità all’Europa. E saremmo stati esposti ancor più al rischio di sprecare le risorse dei prestiti ricevuti tra mance, regalie, redditi e bonus, col risultato di trovarci presto indebitati in modo inverosimile senza aver reso produttivi gli investimenti, ma solo puramente assistenziali (a scopo clientelare ed elettorale). A questo punto, anziché andare a trattare con l’Europa mandandoci i parvenu e gli inservienti, proni a tappetino pur di salvaguardare se stessi, meglio andarci con uno dei soci fondatori del club, uno dei leader più ascoltati e accreditati per i ruoli precedentemente coperti. Uno che, a differenza dei Gentiloni, dei Gualtieri &C., non rappresenta un partito di sinistra, ma è una personalità di spicco del nostro paese e dei vertici dell’eurocrazia. Al rischio di una troika straniera è preferibile un alto commissario interno come Draghi.

I rischi ci sono tutti, guai a esultare; ma val la pena correrli considerando l’alternativa. E se un domani alle elezioni dovesse vincere, come ancora le proiezioni dicono, l’alleanza imperniata sui sovranisti, avere un garante e un contrappeso come Draghi al Quirinale potrebbe essere forse l’unico modo per poter avere un governo attento alla sovranità e all’interesse prioritario nazionale e popolare, senza entrare in conflitto con l’Europa.

Naturalmente sono ipotesi, il cammino è impervio, le variabili possono essere tante e imprevedibili. Però tra le insidie e le incognite che si aprivano comunque sul nostro domani, quella con Draghi a Palazzo Chigi e forse dopo al Quirinale, può essere un rischio calcolato a fronte di un progetto politico. Intanto è tornata un po’ di serietà nelle istituzioni, un po’ di sobrietà e di senso dello stato; meno vanterie, meno narcisismi, meno raggiri della popolazione con annunci irreali, potenze di fuoco e giochi d’artificio.

Si deve però considerare anche un’altra ipotesi: che alla lunga si sgonfi il fenomeno sovranista, che i due leader perdano vigore con Draghi al governo e col clima più soft che si respira. Ma questo sarebbe accaduto con almeno pari probabilità, anche nel caso avesse continuato il governo giallorosso. Perché un movimento che galvanizza in permanenza il suo elettorato nella prospettiva dell’ordalia elettorale, l’attesa messianica del giudizio divino e liberatore delle urne, alla lunga si logora se poi non si va mai a votare.

Qui si lascia lo scenario generale per spostare il focus sui movimenti sovranisti: se mettessero a frutto questo periodo di decantazione per selezionare strategie, ranghi, classi dirigenti, per studiare e mettere a fuoco linee, contatti, relazioni, allora sì che potrebbero presentarsi al voto con le carte in regola per governare l’Italia. Raccomandazione inutile, visto come abitualmente si muovono. Tutto resta così imponderabile: che il sovranismo sopravviva a Draghi, che gli succeda al governo, o viceversa che imbocchi la via del tramonto e dell’assimilazione, stemperandosi in quella vaga area del centro-destra. Su tutto veglia minaccioso il demone della pandemia.

MV, Il Borghese (aprile 2021)

Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/i-sovranisti-nellera-draghi/

E’ arrivato il tempo della rivolta?

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di Matteo Castagna

Gianluca Castro scrive su “Il Talebano” di oggi: “Mi domando – razionalmente – quali siano le aspettative di chi preconizza un seguito popolare alle spontanee ribellioni di Napoli e dintorni di queste ore. Potremmo già azzardare a definire tali rivolte come parzialmente spontanee perché, accanto a pochi cittadini che sono scesi in piazza a gridare la loro rabbia verso le restrizioni di De Luca, la visibilità se la sono presa coloro che si sono infiltrati nella mischia e si sono resi protagonisti di episodi di guerriglia urbana. Continua Castro: “La rivolta (quella vera) dei gilet gialli francesi che ha bloccato un’intera nazione, durata mesi con l’assalto a Parigi dei ministeri e repressa nel sangue non ha forse insegnato niente? Una protesta strutturata e presente ai quattro lati della Francia, più volte interamente bloccata, scatenatasi contro le riforme economiche ultraliberali di Macron, si è consumata nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica internazionale, attenta a occuparsi solo dei temi scelti da chi gestisce la regia dell’informazione mondiale. Che tipo di speranze possono avere ora qualche centinaio (o migliaio) di giovani napoletani e campani che si oppongono a coprifuoco e confinamento di fronte ai milioni di pandementi, presenti in tutta Italia, terrorizzati ad hoc sulla pericolosità dei contagi dalla banda di Governo?

Dobbiamo stare molto attenti in questo periodo. Forse non a caso Mattarella, nel silenzio generale, ha convocato per l’ 11 novembre il Comitato di Difesa con un ordine del giorno controverso, in cui si correla il Covid con la protezione dal terrorismo. E’ sul sito della Presidenza della Repubblica, per cui pubblico e accessibile a tutti. Ad alcuni ricorda copioni già visti in passato, laddove il disagio sociale e le teste calde sono già parcheggiati all’interno di alcuni gruppi politici degli opposti estremismi al fine di essere monitorati e controllati con maggior facilità e potrebbero essere pronti a infiltrarsi nelle proteste per cavalcarle ai fini della loro visibilità, guidati da una manina oscura (ma non troppo), che ne manovra e paga i capi ma ne usa i militanti ingenui ed ignari come carne da macello per la repressione. Il tutto potrebbe essere prodromico ad una strategia della tensione che potrebbe trovare terreno fertile nella fragilità di questi giorni drammatici. Noi di “Christus Rex” non ci facciamo strumentalizzare e seguiamo gli eventi, ma non saremo mai al servizio di organizzazioni volte a finalità opache, con mezzi altrettanto nebulosi. Noi stiamo con le persone serie, per il bene comune e l’amore per la Patria per amor di Dio, stigmatizzando eventuali iniziative personali. Ciò non significa che staremo immobili. E’ necessario che le opposizioni parlamentari compiano azioni decise seguendo una linea chiara e condivisa a tutela delle nostre imprese, dei lavoratori, delle libertà individuali. Non si può essere tiepidi, in questo momento, anche per non dare il pretesto a formazioni extraparlamentari di fomentare inutile violenza e pericoli per la stabilità delle Istituzioni. Vorremmo meno selfie, meno gattini e più decisione nei provvedimenti. Vorremmo vedere alzare le barricate e guidare le piazze da voi e non da improbabili leader.

Sì, perché, sempre come dice Gianluca Castro, “la strada scelta dalle elites mondiali dovrebbe essere evidente per tutti: resettare l’economia e la società (almeno in quella parte di mondo definita ‘Occidente’) per imporre nuovi modelli di riferimento. Ecco quindi, come, dopo l’imposizione del culto laico immigrazionista caro alle bande di arcobalenati ‘restiamoumanisti’, voluto allo scopo di importare mano d’opera a basso costo (l’esercito industriale di riserva come lo definiva Karl Marx) per cancellare gli antieconomici benefit garantiti dallo Stato Sociale – frutto di decenni di conquiste e sacrifici di tutti i lavoratori – arrivare la ‘pandemia’ giunta dalla Cina e con essa il pretesto per distruggere le basi dei rapporti umani alla base della socialità.Casualmente è proprio il ‘modello cinese’ quello usato per combatterlo, mentre le susseguenti, automatiche, ipotesi di complotto non fanno altro che intorbidare le acque. Dalle accuse ai cinesi di essere mangiatori di topi e pipistrelli a quella di rappresentare uno Stato ‘comunista’ abbiamo assistito a un florilegio di esternazioni – a ogni livello – di desolante superficialità”. Continua a leggere

Salvini faccia sintesi nel Sovranismo italiano!

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di Matteo Castagna (pubblicato su Informazione Cattolica di oggi)

I globalisti, ovvero le sinistre hanno brindato alla vittoria delle elezioni regionali. Eppure, se si vanno a vedere i numeri non sembrerebbe che per i partiti che si riconoscono nel “deep State” la situazione sia propriamente quella prospettata da Di Maio e Zingaretti. Il fronte sovranista, infatti, governa 14 Regioni su 20 e centinaia di comuni, confermandosi largamente maggioritario nel Paese.

Fa tenerezza vedere i grillini esaltarsi della vittoria del “sì” al referendum costituzionale quando il consenso è stato, per loro, impietoso, relegandoli ad avere, quasi sostanzialmente, una rappresentanza parlamentare che, però, risale alle elezioni del 2018.

Mario Mieli, sul Corriere della Sera, ha osservato che la destra in Italia è viva e vegeta nonché che dispone del partito di maggioranza relativa e di un leader che, piaccia o non piaccia, è l’artefice principale di questa fiducia da parte degli italiani. Non possiamo nascondere che vi siano dei problemi, che non vanno osservati ma affrontati. Un grande partito, con degli alleati, deve sapersi assumere l’onere e l’onore dell’esercizio del potere di decidere cosa va e cosa non va, nonché quali persone siano le migliori a dover interpretare il prossimo futuro, sapendo che si vince in squadra.

Un cambio di passo in senso pragmatico verso l’Europa è auspicabile, come auspicato da Giancarlo Giorgetti, laddove questo non significhi mandare a finire in quel che fu Fiuggi per Fini un sovranismo ancora in fase embrionale. Significa, semmai, due cose: andare a definire almeno nei suoi tratti fondamentali, questo benedetto sovranismo e renderlo credibile a governare il Paese, soprattutto attraverso una classe dirigente preparata, nel rispetto delle diverse anime e identità. A Salvini l’arduo compito di fare la sintesi, non certo di farsi da parte, come qualche sprovveduto o rosicone desidererebbe, facendo il gioco, più o meno consapevole, dei globalisti. Sarebbe auspicabile che si comprendesse che il fondamento su cui costruire trova solidità autentica e duratura solo attorno a principi fondamentali e addirittura, ancestrali, post-ideologici che in Occidente, ed in particolare in italia vedono nella cristianità la base di partenza. E’ proprio perché “non possiamo non dirci cristiani” che questa frase è stata fatta propria anche da autorevoli atei ed è la base da riconoscere anche e soprattutto da parte di chi non è cattolico, ma intellettualmente e culturalmente onesto. Le nostre radici classico-cristiane non sono contestabili. Basta guardarsi attorno per capire che sono, oggettivamente, la nostra primaria Identità. Partire da qui sarebbe importante per un processo fondativo da costruire tra uomini e donne che sono certamente peccatori, ma non per forza debbono essere impenitenti. Continua a leggere

Una religione sinistra

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QUINTA COLONNA

Fonte: Tempi

Dal ddl Zan al Black Lives Matter, è la sinistra liberal e radicale a lavorare alla ridivinizzazione della politica, cioè a invertire la distinzione introdotta dal cristianesimo fra secolare e trascendente

A lavorare alla ridivinizzazione della politica, cioè a invertire la distinzione introdotta dal cristianesimo fra secolare e trascendente, non è la cosiddetta destra sovranista, ma la cosiddetta sinistra globalista nelle sue due versioni: quella liberal-democratica e quella radicale. E chiediamo subito scusa per il ricorso allo stereotipo destra-sinistra, che da troppo tempo inquina il discorso politico e ideologizza scelte che dovrebbero essere pragmatiche. Salvini, Orban e i partiti che sostengono l’attuale governo polacco si muovono nella logica dell’Ancien Régime: cercano la legittimazione della propria autorità politica nel servizio a quella spirituale che caratterizza le radici dei loro paesi e nell’utilizzo dei simboli che la esprimono. Dalla parte dell’autorità spirituale non incontrano un riscontro unanime, e nel caso dell’Italia è evidente piuttosto un rigetto da parte della gerarchia ecclesiastica compensato solo in parte dall’adesione di una rilevante fascia di laicato.   Continua a leggere

Arrivano i soldi ma lo Stato non c’è

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di Marcello Veneziani

Tutta la commedia intorno ai soldi europei, tutta la pantomima dei premier e degli eurocrati, tutte le promesse di rilancio ruotano intorno a un asse che non c’è: lo Stato. Dov’è lo Stato che dovrebbe pompare sangue al paese, ai paesi, ai popoli, all’economia stremata dopo la pandemia? Dov’è lo Stato-Cuore che dovrebbe rimettere in moto la società, dare ossigeno ai settori boccheggianti, colpiti dall’emergenza, incentivare l’iniziativa e la ripresa, aiutare i bisognosi e coloro che possono poi far fruttare gli aiuti, renderli produttivi? Lo avete visto voi, in questi anni, in questi mesi, lo identificate in qualcosa, in qualcuno, in un ceto? Non dico statisti, ma almeno apparati, procedure funzionanti, sistema consolidato.

Manca lo Stato con la sua gerarchia e la sua solida intelaiatura e vengono fuori le task force, ovvero le task-farse, fabbricate direttamente a Forcella. Solo fumo per poi gestire il potere indisturbati. Manca lo Stato e a occuparsi della redistribuzione sociale ed economica dovrebbe essere il ceto politico meno attrezzato e meno formato al senso dello Stato di sempre, quel circo equestre di grillini più fondi di magazzino della sinistra. Avete presente?

Non solo in Italia, ma in Europa, lo Stato è diventato da anni un participio passato. Lo Stato ci manca ormai da tempo come idea, come cultura, come struttura, come motore, come classe dirigente, come scuola di pubblica amministrazione, come statisti. Il paradosso europeo è che da decenni pensiamo la società con lo Stato ridotto ai minimi termini, un modesto agente che lavora per un’impresa di pulizie e vigilanza al servizio di una società chiamata Capitale o Mercato Globale. Lo Stato fu smantellato nella mente e nei cuori, oltre che nelle prerogative e nelle strutture, perché i paesi e i popoli non hanno confini, perché il mercato non ha confini, perché viviamo nella società globale, perché il turboliberismo è stato per anni l’ideologia travestita da non-ideologia che ha dominato e ha trovato negli statalisti di ieri, la sinistra marxista e socialista di un tempo, i suoi nuovi guardiani. Continua a leggere

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