La Carta del Carnaro non è la Regola di San Benedetto da Norcia, ma è molto meglio del Manifesto di Ventotene

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TITOLO ORIGINALE: Il punto (di Marcello Veneziani). La carta del Carnaro di d’Annunzio, la costituzione più bella del mondo
Elogio di un documento politico che rappresenta un caposaldo della civiltà solidarista 

 

di Marcello Veneziani 

“LA VERITA'”, 6 settembre 2020

Per carità di patria quest’anno risparmiamoci di ricordare l’8 settembre del 1943, il giorno nefasto della morte presunta della patria. Ma per tirarci su, ricordiamo un altro 8 settembre glorioso, che quest’anno compie giusto cento anni: l’8 settembre del 1920 a Fiume fu promulgata la Carta del Carnaro. Quella si, fu davvero “la più bella Costituzione del mondo”. Per i contenuti, lo stile, la prosa, l’idealità che emanava.

La Carta del Carnaro non fu scritta da insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la Carta del ’48; ma fu scritta da un grande sindacalista come Alceste de Ambris e rivista da un grande poeta-soldato, Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo spirito poetico e lo slancio sindacalista rivoluzionario.

All’articolo 2 della parte generale, scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della Carta: democrazia diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, lavoro produttivo e “sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione”.

È d’Annunzio a parlare nella sua stesura di “perpetua volontà popolare”, di “fato latino”, è lui a evocare il Carnaro di Dante, estremo confine della civiltà latina, e il culto dantesco della lingua; a sostituire il riferimento alla Repubblica con quello più classico alla Reggenza, intesa come “governo di popolo”. Fu lui a richiamarsi ai “produttori” e agli “ottimi”. E fu lui a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus, “le credenze religiose collocate sopra tutte le altre” che avrebbero guidato lo Stato. La forte impronta sociale e popolare della Carta non impediva il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti più nobili.

Nella Carta erano garantite tutte le libertà dei cittadini, il voto universale e la parità dei diritti tra uomo e donna; era poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto della Corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra, mare, operai, impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima era enigmaticamente riservata “alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento”, al “genio ignoto”, all’”uomo novissimo”, a colui che “fatica senza fatica”. Era riconosciuta centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori; era introdotta la figura del Comandante, inteso come il dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un arco di tempo.

Punti fermi erano l’autodecisione dei popoli, la possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà italiana e latina, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella Costituzione “come un’istituzione religiosa e sociale”. Oggi diremmo che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della Carta del Carnaro; fusione tra poesia, trincee e sindacalismo.

Veniva costituita la Lega di Fiume che “univa in un solo fascio le forze sparse di tutti i popoli oppressi della terra”; cercava l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolgeva anche ai paesi islamici: D’Annunzio esaltò il risveglio dell’Islam, “auspice Italia, dispensatrice di diritto e giustizia”.

Il 21 settembre, su La vedetta d’Italia, D’Annunzio scrive queste parole da antenato nobile del populismo antipolitico: “La casta politica che insudicia l’Italia da cinquant’anni non è capace se non di amministrare la sua propria immondizia…Basta! grideremo su la piazza di Montecitorio e su la piazza del Quirinale… Da troppo tempo il popolo attende una parola di vita…Ci siamo levati soli contro l’immenso potere dei ladri, degli usurai e dei falsarii… Loro sono morti. Guardateli in viso, quando seggono al banco del Potere con le braccia conserte e contemplano il soffitto che non crolla. Le vecchie seggiole sono più vive di loro. Affrettiamo l’ora del seppellimento”. Cent’anni dopo stiamo ancora lì…

Tra i sermoni fiumani di D’Annunzio del settembre 1919 sono memorabili L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. L’ultimo discorso di D’Annunzio a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68 e della fantasia al potere, degli hippy, degli indiani metropolitani; un riassunto anticipato di tante rivoluzioni, compresa quella fascista e parallela a quella dei soviet, di cui all’epoca d’Annunzio era ammiratore (sognava un comunismo libertario ma aristocratico, anarchico ma nazionalista). Rispetto al ’68 restano due differenze: i legionari di Fiume venivano dalle trincee e non dal boom economico. E il loro capo spirituale non era un agitatore, un comico o un demagogo. Ma un poeta grande, mitico e inimitabile.

La Carta del Carnaro non fu il sogno proibito di una città-utopia fuori dalla storia e non fu nemmeno il frutto di un’avventura velleitaria di “un eroe disoccupato a caccia di emozioni”, come la liquidò Emilio Gentile. Fu invece la visione più lucida e ardita della politica e della società nel Novecento di combattenti che la guerra l’avevano fatta sul serio.

In una lettera al Vate, De Ambris così sintetizzò la Carta: “Diamo al mondo l’esempio di una Costituzione che in sé accolga tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno, facendo rivivere le più nobili e gloriose tradizioni della nostra stirpe”. Esempio perfetto di rivoluzione conservatrice.

La reggenza del Carnaro dura dall’autunno del ’19 al Natale del 1920, quando verrà cannoneggiata Fiume e poi evacuata dai soldati. Avevano cercato di sedare d’Annunzio prima con le trattative e le promesse – ci provò pure Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, ribattezzato da d’Annunzio il Cagoja – poi Giolitti, tornato premier, fece bombardare Fiume e costrinse il Poeta alla resa. Finì una storia, restò la Carta del Carnaro.

Riforma giustizia, cosa c’è dietro le mosse di Nordio

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I principi liberali di una riforma radicale: ecco le idee che il ministro della Giustizia sta applicando per le sue norme

Pubblichiamo un estratto dal capitolo conclusivo dell’ultimo libro di Carlo Nordio dal titolo “Giustizia” edito da Liberilibri. Il titolo di questo ultimo capitolo è “Principi liberali per una riforma radicale” e spiega quale pensiero c’è dietro la riforma varata ieri, primo passo per un cambiamento radicale del sistema giustizia in Italia.

Chiediamo soccorso all’ottimismo della volontà e proviamo a delineare un sistema che distilli al meglio, o almeno nella misura minima sufficiente, i principi idonei a riportare la giustizia italiana nell’ambito della razionalità e dell’efficienza. […] Questi principi, secondo noi, devono esser conformi alla cultura illuministico-liberale. E per attuarli pienamente è necessaria una nuova Costituzione. […]

La nostra Costituzione è un continuo ripensamento di concetti troppo conservatori per placare i progressisti, troppo arditi per gratificare i conservatori, e troppo confusi per convincere ambedue. E se è vero che questo bilanciamento di interessi si trova in tutti i Paesi, è altrettanto vero che soltanto da noi ha assunto una tale alterazione di equilibri da invertire il rapporto tra regola ed eccezione. L’esempio più clamoroso è costituito dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Se ne fanno in un anno circa 150 mila: quasi tutte hanno coinvolto persone ignare e innocenti, alcune hanno coinvolto anche parlamentari e sfiorato un paio di Presidenti della Repubblica. Dopo essere state sapientemente selezionate e mutilate sono state consegnate alla stampa, con grave danno di immagine anche per persone estranee al processo. Di fronte a questa vergogna è difficile pensare che il primo comma dell’art. 15, che fissa la regola della segretezza delle comunicazioni, non ne costituisca piuttosto l’eccezione: la piccola parte di liberalismo che ornava la nostra Costituzione si è decomposta sotto i colpi di una parte della magistratura esaltata dalla sua missione sacerdotale.

Ma che significa concretamente adottare i principi dell’illuminismo liberale? Significa essenzialmente questo: abbandonare la funesta utopia del cosiddetto Stato etico, che fino ad ora ha condizionato il nostro ordinamento attraverso il connubio di teorie apparentemente incompatibili: il fascismo, il cattolicesimo e il marxismo, concordi nel considerare il cittadino una creatura da istruire e tutelare, per assoggettarlo rispettivamente allo Stato, alla Chiesa e al Partito. […]

Lo Stato liberale non ha queste immaginazioni infantili. Prendendo atto dei limiti e dei difetti della nostra imperfetta natura, non pretende di assicurare la felicità ma soltanto di garantire il diritto a procurarsela, attraverso quella libertà economica, religiosa e culturale, nella cui esplicazione lo spirito umano si realizza secondo le sue aspirazioni e le sue possibilità, con la sola imposizione, doverosa e solidale, di una redistribuzione della ricchezza che inevitabilmente si accumula in misura ineguale nelle persone più dotate nel progettarla, più spregiudicate nel perseguirla, e più egoiste nel mantenerla. E la garanzia dello svolgimento di queste attività in modo libero, pacifico e ordinato, sta proprio nella legge: in quella fondamentale, la Costituzione, e in quelle ordinarie, a cominciare dai codici.

Una volta adottata una Costituzione realmente liberale, si dovrà infatti prendere atto che le nostre leggi sono troppo numerose per essere conosciute, e troppo contraddittorie per essere applicate. Il loro numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, e la loro incertezza è sinonimo di disordine, sciatteria, opinabilità e corruzione. […]

Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere. Siamo anche un po’ ipocriti; contrabbandiamo la nostra accoglienza dei migranti come carità cristiana, mentre si tratta solo di impotenza e rassegnazione davanti alle spregiudicate strategie delle organizzazioni criminali. Abbiamo decretato l’espulsione di decine di migliaia di clandestini, ma di fatto ne abbiamo rispediti indietro una trascurabile minoranza. Abbiamo guadagnato il loro rancore e perso la nostra fiducia. La riforma radicale e per certi aspetti rivoluzionaria di uno Stato liberale si propone di affrancare il cittadino dall’abbraccio soffocante dello Stato, di favorirne l’avvicinamento attraverso una semplificazione dei diritti e dei doveri, e, per quanto riguarda la giustizia penale, attuare il garantismo nella sua duplice funzione: la presunzione di innocenza e la certezza della pena.

Carlo Nordio

Fonte: https://www.nicolaporro.it/riforma-giustizia-cosa-ce-dietro-le-mosse-di-nordio/

Migrazioni e confini nazionali: non solo ONG

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Renato Veneruso

L’emergenza migranti fra doveri di solidarietà umana, diritto del mare e diritto degli Stati al controllo dei propri confini: un sistema multilivello da chiarire e migliorare.

1.​ Per effetto di una serie di provvedimenti delle scorse settimane, il Ministero dell’Interno, di concerto con i Ministeri della Difesa e delle Infrastrutture, e anche a seguito di alcuni interventi formali della Farnesina, ha stabilito disposizioni in forza delle quali non sarà consentito alle navi delle ONG – Organizzazioni Non Governative umanitarie- ( che soccorrono e raccolgono i migranti che cercano di raggiungere le coste italiane a mezzo dei ‘barconi’ salpanti dall’Africa ), di sbarcare i migranti nei porti italiani, eccezione fatta per i ‘fragili’, ossia coloro che presentino riconosciute condizioni di salute e/o personali tali da necessitare immediata assistenza. A seguito di ciò, sembra essersi riaperto il vaso di pandora mediatico delle polemiche, invero allargatesi ben oltre il perimetro nazionale, relative all’ingresso in Italia -e, quindi, in Europa- degli stranieri che utilizzano il liquido confine del Mediterraneo per accedere al territorio della UE – Unione Europea. Al di là della polemica politica, e non restringendo la complessa questione alle sole ONG, appare opportuno provare a ricostruire l’articolato quadro normativo in materia, anche allo scopo di capire chi deve fare cosa.

2.​ Il contesto giuridico attorno al quale la questione ruota è tutt’altro che univoco e chiaro, specie perché le fonti sono multilivello, cioè appartengono a differenti – e a volte anche contrastanti – ambiti ordinamentali, a voler tacere della strutturale difficoltà delle norme di diritto internazionale ad essere efficaci ed effettive quando lo Stato cui si indirizzano si sottragga al principio generale del “pacta sunt servanda”. Occorre distinguere e coordinare, anzitutto, norme di diritto internazionale che disciplinano il salvataggio di naufraghi, spesso indicate come “diritto del mare”, e norme di diritto europeo, in materia di diritto d’asilo. Su tale composito compendio di principi e norme, si innestano poi le prerogative del diritto nazionale.

In materia di diritto d’asilo, le fonti normative di riferimento sono le convenzioni internazionali generali, quali in particolare la Convenzione di Ginevra approvata nel 1951 sotto l’egida dell’ONU, e, per i Paesi europei, le cosiddette Convenzioni di Dublino. L’accordo di Dublino, in particolare, ha ad oggetto l’individuazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità Europea (oggi Unione Europea). È un trattato internazionale multilaterale in tema di diritto di asilo, stipulato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997, poi sostituito con il regolamento di Dublino II (regolamento 2003/343/CE) adottato nel 2003 ed entrato in vigore per tutti i Paesi della Ue (oltre alla Svizzera, Islanda, Liechtenstein ed alla Norvegia), oggi codificato dal  regolamento di Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, in aggiornamento del regolamento di Dublino II, e vigente in tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Danimarca.

Entrato in vigore il 19 luglio 2013 ed in scadenza decennale il prossimo anno, il regolamento di Dublino III si basa sullo stesso principio dei due precedenti regolamenti: di là dai casi di esigenze connesse al ricongiungimento familiare del richiedente (artt. 8-11) o di preesistenza di un titolo di soggiorno o di un visto (art. 12), quando “ilrichiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale” (art. 13).

Tale regola appariva razionale quando fu introdotta nel 1990, allorché i flussi migratori erano limitati ed erano ancora presenti le frontiere fra i paesi Europei (poi apertesi con gli accordi di Schengen) e, a ben vedere, non implica affatto l’interpretazione che ne danno alcuni Paesi UE del Nord Europa, i quali vorrebbero trarne ostacolo giuridico alla ricollocazione degli stranieri comunque entrati nel territorio del primo Stato membro che se ne dovrebbe occupare in via esclusiva rispetto agli altri, con l’effetto che, se una persona che presenta istanza di asilo nel Paese di ingresso, attraversa le frontiere verso un altro Paese dell’UE, deve essere riconsegnata al primo Stato. Niente di tutto ciò appare postulato dalla norma in questione, che indica unicamente quale debba il primo Stato a occuparsi della gestione della domanda d’asilo.

Anche per effetto di tale interpretazione, la Convenzione di Dublino è ormai da più parti riconosciuta come inadeguata per affrontare le sfide poste dall’attuale atteggiarsi del fenomeno migratorio. A tacer d’altro, essa si pone in evidente contrasto con la capacità dei Paesi del fronte meridionale della UE di gestire da soli l’arrivo dall’Africa di decine di migliaia di migranti che di anno in anno cercano di fuggire dall’oppressione politica dei propri Stati di origine o, più semplicemente, dalla povertà e da altre forme di deprivazione economica. A tale riguardo, è di qualche rilievo considerare che la Conferenza sul futuro dell’Europa in materia di immigrazione, conclusasi il 9 maggio 2022, ha formulato, fra le altre, la seguente proposta: “rivedere il sistema di Dublino al fine di garantire la solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità, compresa la ridistribuzione dei migranti fra gli Stati membri, prevedendo eventualmente anche ulteriori forme di sostegno”. (cfr.: “Conferenza sulle sfide in materia di immigrazione”, Documentazione per le Commissioni, Riunioni Interparlamentari, Dossier, 12 maggio 2022, Senato della Repubblica – Camera dei Deputati).

I plurimi tentativi di ottenerne significativa modifica nel senso della redistribuzione sull’intero territorio dell’Unione degli stranieri inizialmente ospitati dagli Stati di approdo, a fronte della indisponibilità a prevedere quote permanenti ed obbligatorie di ricollocazione, ha, infine, avuto almeno parziale soddisfazione, con l’accordo del 22 giugno 2022 che ha previsto sì la relocation, ma su base meramente volontaria, in formale accoglimento dell’invito rivolto dal Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nel ‘Discorso della Presidente sullo stato dell’Unione 2020’: “Salvare vite in mare non è un’opzione. E quei paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione europea (…). Tutti devono farsi avanti e assumersi la propria responsabilità”, in ossequio all’art. 80 del TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, per il quale le politiche relative ai controlli delle frontiere all’asilo e all’immigrazione devono essere governate alla luce dei principi di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati, in più specifica disciplina della previsione di cui all’art. 3 par. 2 del TUE – Trattato sull’Unione Europea, che prevede che la UE garantisce “misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione”, ed agli artt. 67 TFUE, che dispone che l’Unione sviluppi “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi“, e 77 TFUE, con il quale viene precisato che l’Unione sviluppa una politica volta a “garantire il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento delle frontiere esterne” nonché a “instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne”.

Il Patto, nel quale è confluito il nuovoRegolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione proposto dalla Commissione, di cui la Francia ha annunciato la sospensione dopo il caso Ocean Viking, che coinvolge 23 Paesi, tra cui 19 Stati membri e quattro extra Schengen, essendo un accordo di redistribuzione su base volontaria, peraltro relativo non solo ai richiedenti asilo ma anche ai migranti economici, non impone alcun obbligo a chi l’ha sottoscritto e, dunque, appare, nonostante la professata intenzione di dare finalmente corso alla solidarietà fra gli Stati membri, ancora affetto da un approccio meramente casistico con il rischio di dare luogo ad un sistema, ancora una volta, basato su una solidarietà interstatale easimmetrica (cfr. S. De Stefani, “Cosa resta di Dublino”, in Altalex, 26.3.2021).

Così, a titolo esemplificativo, la Germania ha dichiarato disponibilità all’accoglienza per 3.000 migranti, la Francia 3.500, ma, di fatto, i numeri di effettiva ricollocazione sono, allo stato, rimasti pressoché irrisori (secondo i dati divulgati dal Viminale, non smentiti, al 13 novembre 2022, 8 in Francia, 74 in Germania, 5 in Lussemburgo), specie se confrontati con le statistiche di ingresso nei Paesi rivieraschi: in base al ‘cruscotto’ dei migranti, aggiornato quotidianamente dal Ministero dell’Interno, e pubblicamente fruibile sulla pagina web del Ministero stesso, in Italia sono arrivati dal 1 gennaio 2022 al 14 novembre 2022 91.711 migranti, nel 2021 59.069, nel 2020 (anno della pandemia) 32.032, di cui i minori stranieri non accompagnati sbarcati sono stati per l’anno 2020 4.687, per il 2021 10.053, e finora nel 2022, 11.172. Statistiche all’interno delle quali si devono poi ricercare i minori numeri dei richiedenti asilo ed i numeri, ancor più ristretti, di quelli che vedono accolte le proprie istanze in quanto non semplici migranti economici.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che nella larga maggioranza dei casi le operazioni di soccorso ai naufraghi nella zona SAR (Search And Rescue) del Mediterraneo centrale sono condotte dalla Guardia Costiera italiana o da altri mezzi della Marina militare e mercantile, che naturalmente li conducono nei più vicini porti (solitamente siciliani, prevalentemente Lampedusa). La percentuale di ingressi marittimi attribuibili alle navi di soccorso delle ONG riguarda circa il 12% del totale.

Già solo la considerazione di ciò impedirebbe di contestare all’Italia di venire meno al diritto del mare ovvero alle più generali norme umanitarie che impongono di dare soccorso al naufrago, in base al principio PoS – Place of Safety, pur esso codificato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che più dettagliatamente si esamineranno infra, in virtù del quale occorre garantire al naufrago, appunto, un luogo sicuro dove approdare.

Altro è, poi, il destino dei migranti soccorsi, una volta giunti sul territorio nazionale, poiché, in base alla legislazione domestica vigente (costituita dalla l. 189/2002, cd. Bossi-Fini dal nome dei suoi ispiratori, e dalla legge n. 132/2018) lo straniero clandestinamente introdottosi in Italia non ha diritto di restarvi e deve essere rimpatriato nel Paese d’origine, a meno che non dimostri, dopo averne fatto rituale istanza, di essere qualificabile come rifugiato, cioè di provenire da luogo donde è fuggito per sottrarsi a qualsivoglia forma di persecuzione.

È bene precisare al riguardo che non v’è alcuna norma di diritto internazionale che imponga ad alcuno Stato nazionale di dover dare indiscriminato accesso all’interno dei propri confini a chi non ne ha cittadinanza. Soltanto il diritto d’asilo è previsto in materia ma, come noto, esso si basa su presupposti ben specifici, che non sempre ricorrono.

3.​Ciò detto sul piano del diritto d’asilo, occorre svolgere alcune considerazioni ulteriori circa il ruolo e lo statuto giuridico delle ONG e, in particolare, circa l’applicabilità nei confronti delle operazioni da esse compiute dei principi di cui all’art. 98, comma 2 della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – cosiddetta UNCLOS.

Occorre considerare, al riguardo, che la convenzione UNCLOS recepisce all’art. 98, comma 1 un diritto internazionale consuetudinario di lunga data sul salvataggio delle persone in mare, mentre al comma 2 dello stesso articolo, al fine di istituire meccanismi di prevenzione delle sciagure marittime, istituisce per la prima volta delle zone di alto mare sulle quali gli Stati hanno compito di organizzare le operazioni di salvataggio (cd. zone SAR). Ne consegue il dovere dello Stato nella cui zona SAR l’evento si verifica di coordinare il soccorso tramite il proprio MRCC (Maritime Rescue Coordination Center, in Italia la Guardia Costiera) e mettere a disposizione un porto sicuro (secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, come modificata nel 2006, come specificato dal manuale IAMSAR, vol. 2, redatto dalla IMO – International Maritime Organization) (in Italia, la competenza all’individuazione del porto sicuro è affidata al Ministero dell’Interno).

Per effetto di ciò, nel caso in cui le operazioni di carico dei migranti non siano avvenute nella zona SAR di uno Stato (es., l’Italia), e questo non abbia coordinato i soccorsi o comunque non abbia accettato di assistere la nave, il comma 2 dell’art. 98 della convenzione UNLCOS non dovrebbe ritenersi applicabile e, conseguentemente, lo Stato non dovrebbe ritenersi avere obblighi di offrire un porto sicuro per lo sbarco. In questo senso si è espressa la dottrina più accorta: “L’Italia non pare avere obblighi di fornire POS se non nei casi previsti dalla Convenzione SAR, e cioè quando il soccorso avviene in zona SAR italiana, sia coordinato dal nostro MRCC, ovvero l’Italia abbia comunque accettato di assistere la nave” o stipulato accordi ad hoc con altri Stati coinvolti (F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, in Dir. Marittimo, 2020, 351; cfr. altresì ibid., 354 e 357).

Tale profilo di regolamentazione, derivante dalla convenzione di Amburgo e relativo manuale attuativo, deve essere ovviamente coordinato con le norme e i principi generali in materia di tutela dei diritti umani: la soluzione in alcuni casi adottata dall’Italia, di far sbarcare unicamente i passeggeri a rischio, è stata ritenuta ragionevole dalla CEDU nel caso Rackete c. Italia, 25 giugno 2019, n. 32969/19 (ma, come noto, non dalla Cassazione nel medesimo caso Sea Watch – Rackete; cfr. Cass. pen., sez. III, n. 6626/2020; per un commento critico a tale pronuncia, cfr. M. Ronco, “L’esercizio dei poteri discrezionali in materia di libertà, sicurezza e giustizia e l’obbligo di lealtà nel rapporto tra gli organi dello Stato”, in Archivio Penale, 2020, 35-54).

Da quanto risulta, ad esempio, nei casi Geo Barents e Humanity le operazioni di carico dei migranti da parte delle navi ONG non sono avvenute nella zona SAR di pertinenza italiana; per questo motivo è stato ritenuto possibile dalle autorità italiane escludere, almeno inizialmente, la concessione di un porto per lo sbarco di tutto il personale, circoscrivendolo soltanto alle persone in stato di effettivo bisogno.

Anche nel caso in cui la convenzione risulti applicabile sul piano della zona nella quale l’operazione di carico dei migranti è avvenuta, peraltro, la dottrina ha sollevato dubbi in merito all’effettiva applicabilità delle convenzioni SAR e UNCLOS.

Invero, come accennato, tali norme convenzionali si pongono in linea con un diritto internazionale di lunga data che si basa su presupposti applicativi diversi da quelli precostituiti dalle ONG. E infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina (cfr. F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342), nel caso delle operazioni delle ONG:

– manca il presupposto della occasionalità del salvataggio da nave a nave (poiché le navi ONG effettuano tale attività professionalmente);

– manca il fine di applicazione della norma sul salvataggio da nave a nave (poiché il fine non è il rientro dei salvati alle proprie case, tipico del diritto internazionale marittimo, ma la permanenza nello stato di attracco);

– pur non volendo né criminalizzare né generalizzare, è stato revocato in dubbio che il fine del salvataggio sia esclusivamente e unicamente di tipo umanitario (si è, cioè, prospettato che le ONG siano mosse anche da finalità di ritorno d’immagine, con conseguenze in termini di crowdfunding e donazioni, spesso probabilmente provenienti anche da vettori commerciali che incoraggiano il ruolo delle ONG per evitare di doversi trovare davvero in prima persona a effettuare salvataggi)[1].

L’istituto del porto sicuro di cui alla convenzione UNCLOS, in altre parole, deriva da un diritto internazionale consuetudinario ed è concepito in tal senso perché le navi che effettuano soccorso occasionale si presumono non pronte a sostentare per lungo tempo persone a bordo supplementari, mentre le navi ONG si pongono invece proprio il fine di soccorrere e quindi sono organizzate in tal senso. In questa prospettiva, come evidenziato dalla dottrina (F. Munari, op. cit., 344), sussiste un obbligo di controllo di congruità dei mezzi ai fini da parte dello Stato di bandiera[2].

L’invocazione della Convenzione di Amburgo in fattispecie come quelle connesse all’attività delle ONG sembra dar luogo, in altre parole, a una forma di “abuso del diritto” da parte loro. E la circostanza, emersa in alcuni casi, che talune delle navi utilizzate per queste tipologie di operazioni siano formalmente registrate come destinate a funzioni diverse da salvataggio e soccorso sembra confermarlo. Come noto, l’abuso del diritto consiste essenzialmente nell’invocazione strumentale di norme per applicarle a fattispecie diverse dalla ratio delle stesse e dai presupposti tipici di applicazione delle medesime. Il concetto è tipico del diritto europeo (cfr. art. 54 della Carta di Nizza), ma non è estraneo neppure al diritto internazionale propriamente inteso, fermo che naturalmente quest’ultimo investe direttamente i rapporti tra Stati e non tra Stati e operatori.

4. Ciò detto con riferimento al caso in cui le operazioni siano avvenute in zona SAR italiana, diversi sono, invece, i principi applicabili nel caso in cui le operazioni di imbarco dei migranti avvengano al di fuori di tale zona. In tal caso, le responsabilità di assistenza competono allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto (es. la Libia) e, nel caso in cui sia ritenuto un porto non sicuro (in base al decreto interministeriale Esteri-Interni-Giustizia del 4.10.2019, la Libia non è considerato Paese sicuro, mentre lo sono, tra gli altri, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), competono ragionevolmente allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato l’operazione (in tal senso sembra propendere la ricostruzione del Tribunale dei Ministri di Roma, nel caso Alan Kurdi: sul tema cfr. F. Munari, op. cit., 353, 359, 360).

Tali Stati hanno facoltà di chiedere assistenza allo Stato costiero, ma in mancanza di accordi specifici non risultano obblighi di concedere il proprio assenso (ferma l’incertezza della locuzione utilizzata dalla Convenzione “quando le circostanze lo richiedono”). Nel caso in cui la nave contatti strumentalmente uno Stato diverso da quello competente, esso (cd. First RCC) dovrà smistare la pratica allo Stato nella cui zona SAR l’evento è avvenuto o, infine (ad es. laddove esso non disponga di porti sicuri), allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso: essi sono tenuti ad accettare la competenza, ma non viene chiarito che cosa avvenga nel caso in cui di fatto non la accetti e, soprattutto, se lo Stato che ha ricevuto la richiesta -pur essendo incompetente- sia legittimato a spogliarsi della vicenda dopo aver effettuato la comunicazione alle autorità competenti (cfr. Manuale IAMSAR, su cui cfr. F. Munari, op. cit., 337). Secondo la dottrina più autorevole, “La circostanza che MRCC Italia riceva una richiesta di soccorso fuori dalla propria zona SAR non integra altro obbligo per il nostro Paese se non quello, al massimo, di operare come First RCC, non potendosi quindi pretendere dalle persone concretamente coinvolte nella richiesta di soccorso alcun comportamento diverso da quello previsto dalle norme internazionali in capo a chi opera quale First RCC” (F. Munari, op. cit., 352).

Sotto altro profilo, allo Stato di bandiera competono verifiche sulla idoneità delle proprie imbarcazioni a effettuare il servizio alle quali sono preposte e che, pertanto, l’insufficienza dei mezzi che esse approntano rispetto al fine che si propongono rientra nella responsabilità del comandante ma indirettamente anche dello Stato di bandiera.

5. Vi è di più, in quanto lo Stato di bandiera non dovrebbe ritenersi estraneo neppure agli obblighi connessi alla ricezione della domanda d’asilo, secondo la convenzione di Dublino. Infatti, è principio tradizionale di diritto internazionale quello per cui le navi costituiscono una sorta di appendice del territorio di uno Stato, talché non appare peregrino sostenere che la frontiera europea, cui si collega l’obbligo degli Stati di ricevere le domande d’asilo da parte degli interessati, sia stata varcata nel momento in cui il migrante sale a bordo di un mezzo battente bandiera europea e che tale ingresso interrompa il nesso di provenienza da un Paese terzo.

In tali ipotesi, è dunque lecito utilizzare il sistema della ufficiale chiamata in causa dello Stato di bandiera, per la presa in carico della pratica, entro i termini di cui all’art. 21 del regolamento 604/UE/2013. In caso di declinatoria di competenza da parte dello Stato richiesto (una sorta di conflitto negativo di competenza), il regolamento si limita a prevedere una fase di conciliazione di fronte al Comitato ad hoc dell’art. 37, contiguo alla Commissione, che rende un parere non vincolante. Non si forniscono indicazioni sulla tutela giurisdizionale, ma si può ritenere che sia possibile adire la Corte di Giustizia, quanto meno ai sensi dell’art. 259 TFUE.

Occorre tener conto, peraltro, che la fictio iuris della nave come isola flottante o appendice distaccata dello Stato di bandiera non trova appigli testuali univoci nelle convenzioni internazionali. Le norme che più da vicino la richiamano sono gli artt. 91 e 92 della convenzione sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS), ove si afferma che “Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo … Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.

Sulla base di tali principi, la giurisprudenza internazionale ha avuto modo di affermare quanto segue:

A corollary of the principle of the freedom of the seas is that a ship on the high seas is assimilated to the territory of the State the flag of which it flies, for, just as in its own territory, that State exercises its authority upon it, and no other State may do so. … [B]y virtue of the principle of the freedom of the seas, a ship is placed in the same position as national territory; but there is nothing to support the claim according to which the rights of the State under whose flag the vessel sails may go farther than the rights which it exercises within the territory properly so called.  It follows that what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies …” (trattasi dello storico Lotus Case, Corte Internazionale di Giustizia, 1927).

The ship, everything on it, and every person involved or interested in its operations are treated as an entity linked to the flag State” (caso Saiga 2, Tribunale Internazionale del Mare, 1999).

Numerose sono le deroghe a questa fictio per cui la nave sarebbe una propaggine del territorio dello Stato, ma può darsi atto come lo Stato Italiano abbia recepito pienamente il principio tradizionale, mediante l’art. 4 comma 2 del codice penale, il quale – in ossequio al generale principio della territorialità della giurisdizione penale – stabilisce, tra l’altro, che “le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera”).

Merita di essere ricordato, in proposito, un caso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in materia di migranti, in cui è stata riconosciuta la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave che imbarca i migranti in acque internazionali (cfr. CEDU, Grande Chambre, Hirsi Jamaa et al. c. Italia, 2012, parr. 77-82).

In quel caso, si trattava di imbarcazioni italiane che recuperavano migranti in acque internazionali, nel contesto degli accordi con la Libia, e li riportavano in Libia. Fu affermato l’obbligo dello Stato italiano di farsene carico perché imbarcati su navi italiane.  Se il diritto ha un senso, però, dovrebbe valere esattamente il reciproco quando le imbarcazioni battano bandiera di altro Stato e sia l’Italia a far valere il principio stesso.

6.​Se ne ricava conclusivamente un quadro giuridico d’insieme tutt’altro che univoco e concordante ma che, al di là di strumentalizzazioni di parte, non permette di qualificare come radicalmente infondata la pretesa di proteggere i propri confini dall’indiscriminato accesso degli stranieri, in un contesto di assai scarsa considerazione europea del problema che si preferisce nascondere sotto il tappeto degli Stati rivieraschi del Sud, laddove la disciplina dell’ineludibile fenomeno dell’emigrazione dovrebbe essere piuttosto preoccupazione generale dell’intera Europa.

Resta, infine, da considerare una prospettiva radicalmente alternativa di affrontare tale imponente fenomeno migratorio, consistente nella gestione intergovernativa dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di approfondire seriamente la strada della interlocuzione sistematica con i principali Paesi di provenienza dei migranti, al fine di consentirne un maggior sviluppo e permettere ai loro cittadini di realizzare compiutamente la propria esistenza nei propri luoghi natii senza necessità di emigrare per garantirsi una vita dignitosa e, in ogni caso, di regolare i flussi dei migranti e controllarli, in un’ottica finalmente di condivisione europea, che sia improntata alla solidarietà, non solo intraeuropea, ma anche con le Nazioni che patiscono tali emorragie di risorse umane.

È una grande occasione per l’Europa, ancora una volta al bivio fra pulsioni ideologiche suicidarie e soluzioni coraggiose rispettose della dignità di chi migra e di chi accoglie.


[1] “Pur non essendo in discussione gli obiettivi umanitari delle ONG, in molti casi, ai medesimi si aggiungono altre motivazioni, le quali, necessariamente, producono effetti anche giuridici sull’azione delle ONG stesse nel Mediterraneo: alcune di tali motivazioni sono ovvie, e riguardano … l’enorme visibilità mediatica per le ONG scaturenti da operazioni SAR di migranti, e le ricadute sul crowdfunding che tale visibilità determina … Per le ONG di cui trattasi possiamo assumere l’esistenza anche di motivazioni volte a generare ricadute positive in termini di immagine, e di incremento del sostegno a loro favore, che le pongono quindi in una sorta di vantaggio competitivo rispetto ad altre ONG impegnate nell’aiuto ai più deboli: quindi, in senso lato, motivazioni di termini di business in un “mercato” la cui offerta è generata dalle donazioni per scopi caritatevoli (V. J. PARENT, No duty to save lives, no reward for rescue: Is that truly the current state of international salvage law?, in Annual Survey of International & Comparative Law, 2006, 87-91; R.L. KILPATRICK JR. – A. SMITH, The international legal obligation to rescue during mass migration at sea: Navigating the sovereign and commercial dimensions of a Mediterranean crisis, in University of San Francisco Maritime Law Journal, 2015-2016, 141 ss.). Altre motivazioni sono meno ovvie, ma più che plausibili: in particolare, in ambito International Chamber of Shipping si ritiene che le missioni delle ONG nel Mediterraneo svolgano (anche) la funzione di ridurre il rischio per le navi mercantili (e soprattutto per le grandi navi di linea che hanno schedule e costi gestionali molto alti) di subire il coordinamento di un MRCC, con richiesta e obbligo di deviare la rotta per salvare un’unità carica di migranti. Donde l’ipotesi che tra i donors di queste ONG possano anche esservi compagnie di navigazione che “si servono” delle prime per garantirsi la regolarità dei traffici da esse serviti”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 342-343.

[2] “La disciplina giuridica della navigazione pretende una relazione precisa tra modalità costruttive, gestionali e organizzative di una spedizione marittima e lo scopo per la quale essa è destinata a muovere. Tutto ciò impone quindi obblighi dallo Stato di bandiera al comandante della nave, siccome previsti a livello internazionale e necessariamente imposti al primo dal diritto nazionale”. Così, testualmente, F. Munari, “Migrazioni, SAR, ruolo e responsabilità delle ONG, degli Stati e dei funzionari delle competenti amministrazioni nella recente giurisprudenza italiana”, cit., 344.

Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=ca13a5709a&e=d50c1e7a20

Assicurazione casa: si va verso l’obbligo per le catastrofi naturali

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Il mondo scristianizzato si “assicura” contro i castighi divini…(n.d.r.)

Segnalazione di Wall Street Italia

di Pierpaolo Molinengo

Serve un’assicurazione obbligatoria per le catastrofi naturali? Secondo gli esperti sì, dato che meno del 5% delle abitazioni degli italiani è coperta da una polizza contro le catastrofi. Per comprendere meglio la situazione che caratterizza l’Italia, è bene prendere in considerazione un altro dato: il 75% degli immobili è esposto ad un rischio significativo quando si parla di catastrofi.

A mettere nero su bianco questi dati allarmanti è l’Ania, che torna nuovamente a sollecitare l’introduzione di un’assicurazione obbligatoria. Il nostro paese è a rischio: per questo diventa sempre più importante che le famiglie italiane provvedano a proteggere i propri immobili. Lo Stato, anche alla luce delle crescenti difficoltà con i conti, difficilmente potrà intervenire in caso di danni particolarmente gravi, come è spesso accaduto in passato.

Assicurazioni, come si muove il mercato

Le famiglie stanno diventando sempre più sensibili su questo argomento. 11,9 milioni di assicurazioni legate alla casa erano attive a fine marzo 2022: una crescita del 5,9% rispetto allo stesso periodo del 2021. I numeri appaiono ancora migliori se confrontati con lo stesso periodo del 2020, rispetto al quale è stata registrata una crescita del 14,4%. A condizionare il comportamento dei consumatori è stato il clima di generale fragilità causato dalla pandemia e dagli eventi catastrofali, che hanno suggerito a molte persone di utilizzare una maggiore prudenza.

La metà delle assicurazioni – il 49% per essere più precisi – sono delle polizze multirischio. Questo tipo di prodotto, comunque, è in diminuzione di cinque punti percentuali rispetto allo stesso trimestre del 2021. Il 39% delle polizze assicurano il solo rischio incendio (in questo caso la tendenza è in aumento del 5%). Il 10% delle assicurazioni è costituito da polizze globale fabbricati, mentre lo 0,4% sono delle polizze che coprono unicamente il rischio terremoto, senza la copertura dal rischio incendio.

I contratti di assicurazione preferiti

Secondo la ricerca dell’Ania, stanno crescendo le assicurazioni che coprono il rischio terremoto, collegato ai danni da alluvione. Dando un’occhiata, invece, alle somme assicurate, il 47% degli immobili ad uso abitativo sono coperti da polizze globali fabbricati. Il 33% delle assicurazioni è una polizza multirischio, mentre oltre il 19% è monorischio.

Indipendentemente dal tipo di copertura, che si andrà a scegliere, è particolarmente importante che all’interno del contratto sia indicato il valore che si ha intenzione di proteggere. Quando la polizza è a valore d’uso, il risarcimento sarà pari al valore che la cosa ha nel momento in cui è avvenuto il danno. Se, invece, l’assicurazione è a valore a nuovo, l’indennizzo sarà pari al valore di riacquisto della cosa assicurata ha nel momento in cui avviene il danno, senza nessun deprezzamento.

Assicurazione obbligatoria contro le catastrofi

Probabilmente è il momento di una vera e propria svolta. Maria Bianca Farina, presidente dell’associazione delle imprese assicuratrici operanti in Italia, afferma:

“La nostra proposta è di allineare la legislazione italiana a quella di gran parte degli altri Paesi europei. Dotarci finalmente di uno schema assicurativo obbligatorio pubblico-privato contro le catastrofi naturali. L’obiettivo è stimolare la protezione sostenibile dei nostri cittadini e assicurare omogeneità di garanzie fra i Paesi europei”.

Ovviamente questa proposta non piace alle associazioni dei consumatori, che sottolineano che non è possibile obbligare i cittadini a stipulare polizze contro i cambiamenti climatici, anche e soprattutto in considerazione che la cura del territorio e gli interventi contro il dissesto idrogeologico sono a carico dello Stato, che deve garantire la sicurezza delle abitazioni private.

L’inarrestabile ascesa dell’ipocrita morale progressista

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Riceviamo per la pubblicazione questo articolo, che contiene spunti interessanti e di sicura attualità, coi nostri ringraziamenti all’autore (n.d.r.)

di Riccardo Sampaolo

Jean Gabin (1904 – 1976) è stato un grande attore francese, che non ha avuto difficoltà a giganteggiare in molti ruoli che gli sono stati conferiti.

Tra i suoi film è bene ricordare “Il clan degli uomini violenti”, datato 1970.

In tale film Gabin impersona un rude campagnolo, che nonostante una delle figlie gli ricordi che il mondo è cambiato, lui risponde lapidariamente: “Si, ma io no”.

L’uomo di campagna sopracitato, radicato in un suolo, che coltiva la terra  da cui ritrae gran parte del suo sostentamento, è un francese dalle convinzioni solide, pragmatico, poco influenzato, e quindi poco dipendente, dal mondo esterno in rapido aggiornamento.

La risposta più significativa il rude agricoltore la rivolge però a un magistrato, che nel chiedergli la professione, risponde senza esitazioni, proprietario, al che il magistrato sconcertato gli dice che “proprietario” non è una professione, e Gabin precisa, “per me si”; sta tutto qui il nemico attuale della odierna Unione Europea a sfondo progressista, l’uomo proprietario di un luogo e in larga misura autonomo; tale uomo è molto meno dipendente, rispetto ad altri, dallo Stato e dall’opinione pubblica e basa le sue convinzioni non su principi astratti, prima che vengano dimostrati, ma sulla solida esperienza di vita che lo fa diffidare delle mode passeggere del buonismo modaiolo della modernità.

L’ecologismo che fa frequentemente capolino dalle parti di Bruxelles è di matrice chiaramente urbana, ossia nasce nella mente degli uomini delle città, ed ha quasi sempre una profonda ostilità verso il mondo rurale, intriso di senso del sacro e  composta unità familiare. Non è un caso che l’ipotesi, circolata un po’ di tempo fa negli ambienti politici dell’UE, di mettere fuori mercato le abitazioni energeticamente dispendiose, avrebbe colpito prioritariamente i vecchi, ariosi e dimensionalmente generosi manufatti colonici agricoli, a favore delle piccole, anguste ed energeticamente efficienti anonime case cittadine.

L’ecologismo di moda negli ambienti progressisti europei a matrice urbana, punta alla colpevolizzazione dell’uomo e del suo operato, in uno stile fortemente antirurale che vede l’agricoltore come una figura marginale nella migliore delle ipotesi, e quindi non come un riferimento da cui poter ottenere il governo del territorio e cibi salutari; l’ambientalismo urbano e progressista è quindi in larga misura una serie di “buoni propositi” in cui gli adepti, dalle città vogliono intervenire su ciò che gli è esterno, dimenticando che l’urbanesimo è una delle principali cause del degrado ambientale, e il loro stile di vita è solo cosmeticamente allineato con gli elementi base della naturalità.

Mentre l’agricoltore vive sulla terra e della terra, ha come obiettivo il mantenimento della fertilità dei suoli nel corso del tempo, da cui ricava il proprio sostentamento, l’uomo delle città, irreligioso, cosmopolita, progressista, si limita a imporre al bifolco le sue certezze delle buone intenzioni, volendo difendere l’ambiente dal punto di vista delle città, ma non stringendo alcun reale rapporto con la natura, intesa come base da cui ritrarre l’utile per poter vivere. Il capitalismo internazionale dopo aver vinto sul marxismo, ne ha assorbito alcune componenti compatibili con esso, e non sono poche.

Ecco quindi che si fa strada anche grazie alla digitalizzazione, all’urbanesimo, alla liberalizzazione dei rapporti sessuali, al disfacimento della famiglia, un sotterraneo e subdolo attacco alla proprietà diffusa e all’uso dei contanti, per denudare l’individuo, privarlo di “area di protezione” e porlo indifeso alla mercé di uno Stato, che assume atteggiamenti di fastidio verso l’esistenza di un tessuto comunitario dotato di autonomie economiche e valoriali, che ostacolano la riduzione di un popolo a somma di individui standardizzati su cui applicare efficientemente leggi, continuamente sfornate, non tanto per migliorare la qualità della vita di un popolo, ma per orientarlo al perseguimento di principi astratti in linea con il bene del pianeta e dell’umanità; si fa strada in sostanza una dimensione messianica della politica, genericamente rivolta, più che a uno specifico popolo, con le sue caratteristiche, a una indistinta umanità, priva di radici e storia, ma proiettata a comportarsi secondo regole ritenute appropriate dalla elitaria classe dirigente.

La riduzione di un popolo a somma di liberi individui nudi di fronte allo Stato e alla Legge ,(che garantiscono l’efficienza del sistema anche grazie alla montante digitalizzazione dei processi, la quale se da un lato ha il merito di velocizzare e efficientare il sistema, dall’altro rischia di spersonalizzare e inaridire i rapporti umani), non può che passare attraverso l’ attacco alla famiglia, quella che un tempo era considerata la cellula fondamentale della società e oggi rischia di divenire un intralcio alla libera espressione degli individui, presi come sono, dal loro io ipertrofico a guardarsi l’ombelico, e a gareggiare nel mercato dei rapporti affettivi, sempre più votati all’efficienza prestazionale e sempre meno alla profondità relazionale. La famiglia preesiste allo Stato, e nel passato la struttura pubblica è sempre stata piuttosto discreta nell’intromettersi nelle questioni coniugali e affettive, salvo ovviamente i casi di rilevanza penale. Oggi non è più così e lo Stato moderno guarda con sospetto comunità che si autoregolano; gli attuali poteri pubblici anziché considerare la Legge come il perimetro all’interno del quale potersi muovere, tentano di alzare l’asticella, arrivando a concepire la Legge come l’unico strumento regolatore dei rapporti tra persone; da ciò ne deriva ovviamente un altro aspetto tipico della modernità ossia la normazione ossessiva in ambiti un tempo non presi in considerazione.

In Italia il partito più agguerrito nel normare gli aspetti più intimi della vita delle persone è sicuramente stato il Partito Radicale, i cui modesti risultati elettorali non hanno impedito l’imporsi delle sue tematiche anche grazie all’aiuto che ha sempre ricevuto dalle altre e più grandi formazioni politiche, soprattutto della sinistra.

I radicali hanno sempre messo in atto battaglie apparentemente per la liberazione dell’individuo, ma ad una analisi più attenta si evince che la liberazione è avvenuta dai legami comunitari e dalle sensibilità di chi ti stava più vicino, per sostituire ciò, con l’ ossessivo e continuo ricorso a tribunali e leggi sotto l’egida dello Stato.

Lo stesso Marco Cappato, esponente di punta di +Europa, nella sua considerevole esposizione mediatica, non si risparmia di certo nel ricorso ai tribunali per le sue iniziative politiche.

Il risultato di tali azioni porta progressivamente al ridimensionamento di tutti i legami umani intermedi tra la persona e la comunità, e il denudamento dell’individuo così indebolito di fronte allo Stato, definito “il più freddo di tutti i mostri” da Friedrich Wilhelm Nietzsche, per derimere le sue intime questioni, senza il filtro del “dialogo profondo” con i membri della sua comunità.

Una delle prime battaglie radicali, di cuii si può tentare un’analisi, data oramai la piena maturazione dei suoi amari frutti, è sicuramente quella sul divorzio, dato l’oltre mezzo secolo raggiunto di diffusa applicazione.

Orbene come precedentemente ricordato, la famiglia è antecedente alla nascita dello Stato, e questo è un elemento che “il più freddo di tutti i mostri”, nella definizione alla Nietzsche, ha dovuto tenere conto, evitando per molto tempo di mettersi al buco della serratura, se non giustamente, per motivazioni di carattere penale. Tuttavia ad un certo punto della Storia, la decadenza della comunità, l’inurbamento, il declino della religiosità, l’avanzare del femminismo e dell’individualismo, fecero si che i tempi fossero maturi per tentare un intervento dall’alto, su quella che era la cellula fondamentale della società e da lì a breve lo sarebbe stata sempre meno; ecco pronta a partire dunque la macchina divorzista, che si presentava come strumento di scioglimento dei rapporti problematici tra coniugi, ma in realtà si dimostrerà essere qualcosa di ben più sofisticato e deleterio.

Per prima cosa lo Stato e la Legge non si accontenteranno di mediare tra i coniugi, garantendo la parità di trattamento tra i genitori, ma attraverso l’ideazione di artifici giuridici che vanno dall’affido del minore al concetto di casa coniugale, tenderanno a “sostituirsi” ad uno dei genitori (nella maggior parte dei casi al padre), statalizzando di fatto questo ultimo, che a tutti gli effetti diventerà un “concorrente perdente per legge”, estromettendolo dalla piena genitorialità e dalla fruizione della propria abitazione, anche quando di sua esclusiva proprietà.

In cinquant’anni si è verificato in Italia, per mezzo dello Stato e della Legge un vero e proprio scippo della genitorialità maschile, con il colpevole silenzio dei principali media.

L’utilizzo del principio astratto dell’esclusivo/superiore interesse del minore, grondante ipocrisia a livelli altissimi, dato che il massimo interesse del minore è quello di mantenere rapporti con entrambi i genitori, è stato il grimaldello con cui poter giustificare l’opinabilissima disparità di trattamento tra i genitori, come se una persona fosse titolare non di pieni diritti ma residuali; tutto ovviamente perfettamente in linea con il montante femminismo rancoroso della modernità.

Il Sistema divorzista non è neanche scevro da palesi iniquità, grazie all’astuzia giuridica di disgiungere l’affido del minore dalla colpa del naufragio coniugale, facendo verificare l’aberrante  scenario, che il genitore a cui è attribuita la colpa del naufragio familiare possa comunque ottenere l’affido del minore e beneficiare dell’affidamento della casa, anche se proprietario è l’altro.

Nonostante in oltre 50 anni, il divorzismo abbia dimostrato una forte ostilità nei confronti del padre, portata avanti con un impegno degno di miglior causa, il Sistema non si preoccupa delle ombre misandriche che rischiano di calare su di esso, forse confortato dallo spirito femminista dei tempi e dal sostegno, piuttosto acritico dei media conformisti, ma è proprio per questo che le persone è ora che guardino al di là della maschera divorzista e inizino a decifrarne il vero volto, che non è particolarmente rassicurante, soprattutto se si è il genitore marginalizzato dall’Istituto giuridico dell’affido, che guarda caso è quasi sempre di sesso maschile.

Il personaggio impersonato da Jean Gabin, (depurato da tutti gli “eccessi cinematografici”, nel film “Il clan degli uomini violenti”), il padre, proprietario di un vecchio casale di campagna, è il nemico principale del modaiolo progressismo odierno, e nel contempo, una delle poche figure credibili, di quotidiana, ostinata e pervicace resistenza al Sistema Mondialista.

Riccardo Sampaolo per www.agerecontra.it 

“Lo stupido fa male”. L’attacco di Tremonti a Draghi: “Chi di spread colpisce…”

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di Redazione

Negli Stati Uniti un comitato di affari pienamente legale si chiama lobby. In italia, il termine viene spesso associato a consorterie mafiose o a forme para – massoniche o, comunque, a qualcosa di poco chiaro e poco pulito. L’Aspen Institute Italia, presieduta dal Prof. Giulio Tremonti, non è una massoneria ma una lobby di imprenditori del privato e del pubblico, allargata ad intellettuali e politici, che collabora con le Istituzioni. Oggi, come qualche anno fa, Giulio Tremonti è inviso a tutti i poteri forti nazionali ed all’attuale politica, perché dice la verità e non si fa ingabbiare nelle perverse logiche del Pensiero Unico, soprattutto in materia economica. (n.d.r.)

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L’ex ministro dell’Economia molto duro contro il premier dimissionario. E gli rinfaccia la lettera del 2011 al governo Berlusconi

Al professor Giulio Tremonti quella famosa lettera di Trichet e Draghi dalla Bce all’Italia, che portò alle dimissioni dell’allora governo Berlusconi, non è affatto piaciuta. Si capisce. E l’ha detto a più ripetizioni. Oggi, il giorno delle dimissioni del premier, Tremonti è tornato a parlare di quei giorni e ha lanciato più di una dura stoccata a Supermario.

Nel suo intervento a Omnibus su La7, l’ex ministro dell’Economia c’è andato giù duro. Ha criticato l’esperimento di unità nazionale con un capo di governo che è lì proprio perché non eletto. Ha definito l’esecutivo Draghi “discontinuo”. Ha definito “non razionale” il discorso di Draghi al Senato, fatto come se avesse avuto di fronte l’intera legislatura. “La seconda legge di Cipolla dice: ‘lo stupido fa male agli altri senza far bene a se stesso’. E questa legge – assicura Tremonti – si applica a chi (Draghi, ndr) ha letto questa frase: ‘Sono qui perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto’”.

Il professore ha poi virato l’attenzione sulla situazione economica che si prospetta di fronte al futuro dell’Italia. Secondo Tremonti i problemi c’erano prima e ci saranno dopo. Nulla di nuovo sotto il sole, anche se bisognerà fare molta attenzione all’inflazione che rischia di “rovinarti la vita”. “Noi siamo un’economia che trasforma e il buco sull’energia impatta molto sulla nostra industria – insiste – e quindi impatta anche sul lavoro e sull’occupazione”.

Questo tema Tremonti lo usa per togliersi alcuni sassolini dalle scarpe nei confronti di Draghi. “Per capire quello che sarà bisogna capire da dove si viene – dice l’ex ministro – a proposito di compiti a casa: nel maggio del 2011, dopo essere stato dal governo italiano alla Bce, il governatore della Banca d’Italia Draghi scrisse che la gestione del pubblico bilancio era prudente“. Un mese dopo, però, salito al board della Bce, insieme a Trichet invierà “una lettera devastante” che Tremonti non teme di definire un “colpo di Stato“. “I numeri italiani erano relativamente buoni e sotto controllo”, eppure quella lettera ruppe – per favorire Germania e Francia – il principio della solidarietà europea. “Il dramma è stato questo: sulla finanza globale non vennero messe regole. Dissero che non servivano e che il meccanismo funzionava grazie al financial stability board presieduto nel 2009 dal governatore italiano Mario Draghi. Dal 2011 in poi la crisi viene superata in Usa e Ue stampando moneta. Ma in America resta forte la politica, mentre in Europa la politica cede alla Banca centrale. Hanno stampato una quantità astronomica di moneta: quando c’ero io i conti erano in bilion, oggi si fanno in trilion. Che è la cosa più simile ai fantasiliardi di Paperone. È fuori controllo”.

Poi l’affondo finale: “Dal 2012, da Draghi in poi, alla Bce sono state violate le due regole fondamentali dell’euro: il 2% dell’inflazione che da tetto è diventato obiettivo da raggiungere e infatti sono stati così bravi che adesso siamo all’8%; e poi alla Bce era vietato di finanziare i governi e invece noi l’abbiamo trasformata in un edge found piena di titoli tossici. E adesso pagheremo i conti tutti. Perché il sistema sta andando in difficoltà. La bolla speculativa e dell’inflazione è enorme”. Quello che ha fatto oggi la Bce sullo scudo ante-spread, insomma, per Tremonti cambia poco. “La regola fondamentale dell’Ue era la solidarietà. Adesso voglio vedere… la metto così: chi di spread ferisce, di spread perisce”.

Moralità esclusa dal dibattito pubblico: allora ha ragione Mosca?

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2022/06/13/moralita-esclusa-dal-dibattito-pubblico-allora-ha-ragione-mosca/

LE NOSTRE COMUNITÀ HANNO ANCORA IL BUON SENSO E LA RETTA RAGIONE DEI NOSTRI NONNI, MENTRE MEDIA E POLITICI REMANO CONTRO IL DIRITTO NATURALE

La parola “politica” ha una lunga storia ed evoluzione. Dai greci è stata applicata alla città-stato. La definizione generale è “attività circa affari pubblici, concernenti tutti i cittadini di una comunità” (così il Dizionario di Teologia Morale del Cardinale Roberti e di Monsignor Palazzini, vol. 2, ed. Effedieffe).

Nella vita quotidiana la politica denota un certo metodo di comportamento, modo di agire con prudenza, avvedutezza, competenza, onestà, trasparenza, in vista del raggiungimento del fine, che è il bene comune, che, come sottolineava Papa Pio XII, deve avere un’attuazione duratura.

La teologia morale ci insegna, anche, che la politica deve essere propugnatrice dell’ordine. Lo Stato, ma anche il singolo Comune devono servire alla perfezione della persona umana, e non viceversa. Prima la virtù dell’uomo e poi la potenza del Paese. Importantissimo, specialmente al giorno d’oggi, è che non possono esserci fini contrari alla morale, tanto quanto non può esistere una doppia morale, una per la vita privata e un’altra per la vita pubblica. Si parla di principi fondamentali propri della Dottrina Sociale della Chiesa. Non appare anomalo che nessuno l’abbia richiamata nel suo programma per queste ultime elezioni amministrative la cui affluenza si è scandalosamente attestata ad appena il 20%?

E’ necessario, dunque, fare due esempi, perché ieri quasi 900 municipi italiani sono stati chiamati a rinnovare le amministrazioni cittadine.

Il principio di legalità è fondamentale per il corretto agire del politico, al fine del bene comune. C’è disaffezione verso la politica moderna, ma in tutto il Belpaese ci sono centinaia di migliaia di candidati. Il giorno prima del voto, la Commissione Antimafia, presieduta dal grillino Nicola Morra, ha reso noti i nomi di 18 “candidati impresentabili”.

Noi – ha spiegato Morra – ci basiamo su criteri giuridici che rinviano ad atti processuali e investigativi già avviati e definiti“. E all’agenzia Agi del 10/06/22 ha dichiarato che “c’è un numero cospicuo di ‘impresentabili’ e sono emerse alcune situazioni a mio avviso imbarazzanti”. La tempistica di queste affermazioni è alquanto ad orologeria rispetto alle elezioni amministrative di ieri. Non si poteva agire prima? Parlando da garantista, ritengo che queste elezioni siano “viziate” ab origine, almeno nei comuni ove sono state ravvisate le “situazioni imbarazzanti”, legate a presunte collusioni, estorsioni ed altri reati contro la pubblica amministrazione che sarebbero riconducibili ai clan, da Nord a Sud.

Il principio di moralità. E’ cronaca di questi ultimi giorni quella delle sfilate dei Gay Pride, spesso osceni e contrari al pubblico pudore, ma anche blasfemi contro la Santa Vergine Maria, Gesù e la Chiesa. Come sempre, a reagire sono i cattolici seri, non i tiepidi baciapile al bisogno elettorale. Moralità e legalità vanno a braccetto perché patrocinare manifestazioni che oltraggiano la Religione è un reato, purtroppo non perseguito da una Magistratura che va riformata, a partire dai suoi vertici nel CSM e il Referendum pare venire a pennello per finirla con le correnti sinistre, che fanno ciò che gli pare. Non fa parte della storia della civiltà europea chiamare diritti quelli che sono i desideri di alcuni. Né, tantomeno, assecondarne quelli riguardanti i minori o, addirittura i feti, autorizzandone la vendita, come al supermercato.

Altrimenti, non ci possiamo lamentare se molti europei, non per forza cattolici, guardano con simpatia alla posizione del Patriarca di Mosca Kirill, che, in un sermone del marzo di quest’anno, ha esplicitamente parlato di una battaglia contro i valori degenerati dell’Occidente, rappresentato dalle parate del gay pride, tanto da spingerlo a paragonare il matrimonio tra persone dello stesso sesso a quelle approvate nella Germania nazista. Sarà un test vedere quanti sindaci, schierati con noi prima delle elezioni, saranno altrettanto coerenti nel vietare manifestazioni oscene e blasfeme, dimostrando che le nostre comunità hanno ancora il buon senso e la retta ragione dei nostri nonni.

 

‘Ndrangheta al Nord: il regalo dello Stato ai clan calabresi

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Segnalazione di Mario Spezia

Mandati al confino nei piccoli centri del Settentrione, gli uomini delle ‘ndrine replicano riti e strutture di potere dei piccoli paesi d’origine. Oggi gli amministratori pubblici e la ricca borghesia aprono le porte ai clan. E la metastasi si estende

di Claudio Cordova

Invaso, colonizzato, depredato: sono solo alcuni degli aggettivi che vengono utilizzati per definire il Nord in relazione alla presenza della ‘ndrangheta e delle mafie in generale. Da Roma in su, la criminalità organizzata fa i soldi veri. Un po’ perché l’economia che conta, nel nostro Paese, si svolge nelle grandi città e non nel depresso Meridione. Un po’ perché, per anni, su quei territori, le organizzazioni malavitose hanno potuto agire quasi indisturbate. Ricreando le stesse dinamiche della casa madre.

L’ultima inchiesta

Appena qualche giorno fa, 13 ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.I.P. del Tribunale di Milano nei confronti di altrettanti soggetti. Alcuni di loro sarebbero contigui a storiche famiglie ‘ndranghetiste originarie di Platì radicatesi tra le province di Pavia, Milano e Monza Brianza nonché nel Torinese.

Le cosche della Locride, soprattutto (ma non solo), in quei territori hanno riproposto il modus operandi dell’entroterra calabrese. Dalle estorsioni all’infiltrazione nei lavori pubblici, passando per gli investimenti tipici – grande distribuzione, edilizia, slot machine – e persino la guardiania.

«Ti ammazzo come i cani»

Fa specie, con riferimento all’ultima inchiesta sulla famiglia Barbaro, leggere le intercettazioni: «L’ho presa e l’ho messa sul tavolo (l’arma, ndr) … gli ho detto … vedi che ti ammazzo … come ai cani ti ammazzo … e me ne sono andato». Così si esprimeva, intercettato, Rocco Barbaro, 30 anni, arrestato assieme al padre Antonio, 53 anni, nell’inchiesta della Guardia di finanza di Pavia e del pm della Dda milanese Gianluca Prisco. Non ci troviamo nei “classici” luoghi di ‘ndrangheta. Ma al Nord.

Incensurato ma pericoloso

Nonostante la sua «formale incensuratezza», scrive il gip sulla posizione di Rocco Barbaro, «la pericolosità dell’indagato è emersa chiaramente nell’analisi della presente indagine» come «costante coadiutore del padre Antonio nella gestione del narcotraffico e nelle attività criminali ad esso strumentali (armi ed estorsioni)».

Terra di conquista

Il Nord, quindi, da decenni, è la zona prediletta dalle cosche per fare investimenti, ma anche per condizionare la vita economica e sociale. La borghesia lombarda, quella piemontese o ligure, si sono “vendute” con una facilità forse maggiore rispetto a quanto accaduto in CalabriaComuni sciolti per infiltrazione mafiosa, appalti truccati, sanità condizionata attraverso gli uomini giusti nelle Asl. Ma anche sangue e omicidi.

Fin dagli anni ’70, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investivano ingenti capitali nel Nord Italia. In particolare nella zona di Milano, dove spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa sei mesi una sanguinaria faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi.

E parte dall’omicidio del boss scissionista Nunzio Novella, avvenuto nel Milanese, la maxi-inchiesta “Crimine-Infinito” che, circa 15 anni fa, svelò a tutta Italia come la ricca Brianza, ma non solo, fosse un’importante e potente succursale. Della Locride quanto della Piana di Gioia Tauro o di centri chiave nella storia delle ‘ndrine, come Guardavalle.

Personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ’ndrangheta al Nord gliela fornisce.

Il Nord come la Calabria

Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da tradizione della ’ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi” piegati alle esigenze dei clan. Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto.

Le attività criminali dei clan spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni) a quelli relativi a traffici di stupefacenti e armi. Una lista a cui aggiungere anche gli omicidi di appartenenti a organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e/o il controllo di attività economiche. In particolare di ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina e autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, di demolizione auto e commercio rottami, di trasporto).

Un mucchio di soldi per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore. E per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari. Il passo precedente è stato però quello di occupare l’Italia: nel senso letterale del termine. E questo avviene grazie a una delle (tante) scelte sbagliate mosse contro le cosche. Pensando di poterle affrontare solo sotto il profilo repressivo.

La colonizzazione

Tra i primi a occuparsene, lo storico Enzo Ciconte, che, da decenni, tenta di studiare il fenomeno sotto il profilo storico, ma anche sociale. Ebbene, la ‘ndrangheta non ha “scelto” il Nord. Almeno non all’inizio. Col tempo ha capito che fare affari lì era più conveniente, forse anche più “facile”. Ma l’arrivo (e quindi la colonizzazione) di quelle ricche aree del Paese avviene grazie a un “favore” fatto dallo Stato alle cosche: «Tale scelta è relativamente recente perché matura a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono al Nord non per scelta, ma perché inviati al confino da una legge dello Stato» scrive Ciconte nel suo libro Ndrangheta.

Insomma, con il crescente aumento dei crimini della ‘ndrangheta (e delle mafie in generale) nei territori meridionali, la strategia dello Stato è quella di eradicare le organizzazioni criminali. Ancora dallo studio di Ciconte: «In quegli anni si fece avanti l’idea che, per recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine, fosse necessario adottare la misura del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di origine». Una scelta clamorosamente sbagliata.

Gli abbagli dello Stato

Del resto, che la strategia dello Stato contro le mafie, oggi come ieri, sia stata spesso fallimentare è ormai nei fatti. Basti pensare che, all’articolo 416 bis del Codice Penale, quello che punisce le associazioni mafiose, la parola ‘ndrangheta entra solo pochi anni fa, nel 2010. Per anni la criminalità organizzata calabrese viene e verrà sottovalutata. Considerata una mafia stracciona, di serie B.

Ancora dal libro di Ciconte: «Ci furono abbagli nei confronti della ‘ndrangheta molto clamorosi. È stata considerata come una società di mutuo soccorso o espressione diretta e filiazione del brigantaggio. La ‘ndrangheta si presentò come una variante del ribellismo meridionale, come una delle espressioni del riscatto calabrese e come una necessità dettata dal bisogno di sostituire uno Stato lontano, inesistente e disattento».

Nessuno, tranne i sindaci dei comuni dove arrivarono i soggiornanti, si accorse della pericolosità di quelle presenze o previde gli effetti che avrebbero potuto determinare. Scrive ancora Ciconte: «I sindaci si opposero, ma le loro proteste non furono ascoltate dai governi dell’epoca. E così, nella sottovalutazione più generale, la ‘ndrangheta mise piede in quei territori».

Nel libro-conversazione con Antonio NicasoLa malapianta, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, afferma: «Per molti anni la ‘ndrangheta, ma anche le altre organizzazioni criminali infiltrate in Lombardia sono state sottovalutate. Nel 1989 l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri ne negò l’esistenza e due anni dopo il procuratore generale Giulio Catellani fece la stessa cosa, sostenendo che nel distretto di Milano non c’erano sentenze passate in giudicato per il reato di associazione mafiosa».

La ‘ndrangheta sottovalutata

Solo negli ultimi anni, dopo la strage di Duisburg in particolare, si è iniziato a parlare in maniera più strutturata della ‘ndrangheta. Anche maxiprocessi come l’attuale “Rinascita-Scott” continuano ad avere poco appeal per i media nazionali. A fronte di quanto ancora tirino i “brand” di Cosa nostra e camorra. Nonostante la criminalità organizzata calabrese abbia, probabilmente, indirizzato alcuni snodi cruciali della storia d’Italia, la prima relazione organica della Commissione Parlamentare Antimafia sulla ‘ndrangheta arriva solo nel 2008 con la presidenza di Francesco Forgione.

In quel testo, Forgione parla di “mafia liquida”, mutuando il concetto di “società liquida” di Zigmunt Bauman. E sottolinea come una grossa mano alla ‘ndrangheta, paradossalmente ed inconsapevolmente, ma di certo con poca lungimiranza, è stata data proprio dallo Stato italiano, negli anni ’50. In quegli anni i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, vengono inviati nelle regioni del Centro e del Nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie e o strade di grande comunicazione.

«Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia» –  scrive Forgione nella relazione del 2008.

Il paradosso

Se il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse o impedisse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno. E così le riunioni di ‘ndrangheta iniziano a tenersi nei luoghi del soggiorno obbligato. Sono questi i primi passi per ricreare al Nord le medesime dinamiche della casa madre.

Buccinasco, ma anche Bardonecchia, oppure Volpiano e Leinì, diventano luoghi simbolo dell’infiltrazione ‘ndranghetista al Nord. E, oggi, comandano quelli di sempre: dai Saffioti ai Marando, passando per i D’Agostino, i Crea, gli Alvaro, i Mancuso, i Bonavota, i Barbaro, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara, i Vrenna, gli Ursino-Macrì. E, ovviamente, soprattutto a Milano città, casati storici come i De Stefano o i Piromalli. Ma tutto nasce in quegli anni.

Ancora dalla relazione della Commissione Parlamentare Antimafia: «Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante».

Dapprima fu una necessità, poi una scelta. Che ci porta all’attualità: la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere più sedi. Quella principale, in Calabria, le altre nei comuni del Centro-Nord dell’Italia oppure nei principali Paesi stranieri, snodi fondamentali per i traffici di droga. E in queste sedi si riprodurrà la stessa struttura organizzativa presente in Calabria.

Fonte: https://icalabresi.it/fatti/ndrangheta-nord-il-regalo-dello-stato-ai-clan-calabresi/

 

Draghi: riforma o dissoluzione dello stato?

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Con l’avvento di Draghi, l’Italia si è scoperta paese leader in Europa e potenza geopolitica mondiale. Con la fine dell’era Merkel ed un Macron probabilmente prossimo al congedo, emerge Draghi, quale demiurgo mediatico della nuova Europa. Questa immagine virtuale è del tutto falsa e perfino tragicomica, ma è tuttavia idonea a legittimare nella politica italiana il processo riformatore messo in atto da una ristretta cabina di regia presieduta da Draghi, leader di un governo acquiescente, in virtù della espropriazione delle funzioni del Parlamento.

Il G20 di Roma, come tutti quelli che lo hanno preceduto, si è risolto in una scenografia mediatica senza alcuna decisione rilevante tra i grandi della terra. L’unico fatto politico degno di nota emerso dal G20, è la riaffermazione del primato americano sull’Occidente e la ricompattazione degli alleati europei nel contesto del multilateralismo geopolitico a guida americana. Biden ha infatti dichiarato nel suo colloquio con Draghi: “Stai facendo un lavoro straordinario qui! Dobbiamo dimostrare che le democrazie possono funzionare e che possiamo produrre un nuovo modello economico. Ci stai riuscendo”.

Draghi è dunque delegato da Biden a realizzare un nuovo modello di sviluppo neoliberista in Italia e in Europa. L’impianto delle riforme da attuare in Italia, in base alle condizionalità poste dalla UE con il varo del NGEU ne è la conferma.

Giustizia: una riforma lesiva dello stato di diritto

La prima riforma messa in atto dal governo Draghi è stata quella della giustizia. Una riforma della giustizia penale destinata ad incidere sulla struttura del sistema giudiziario, che tuttavia non ha suscitato dibattiti e contrapposizioni di rilievo in una politica ufficiale, ormai estranea alla realtà del paese e omologata alle direttive di una elite tecnocratica eurodiretta.

Sono note le inefficienze della giustizia italiana, specie riguardo alla durata dei procedimenti. Pertanto, nell’intento di velocizzare i processi, è stata introdotta come causa di improcedibilità il superamento dei termini di durata massima dei procedimenti penali. L’improcedibilità scatta qualora il giudizio d’appello non si concluda entro 2 anni e quello di cassazione entro 1 anno. Tali termini possono essere prorogati rispettivamente di 1 anno per l’appello e di 6 mesi per la cassazione, per gravi delitti e giudizi complessi. Ulteriori proroghe sono stabilite nei procedimenti per delitti riguardanti il terrorismo, eversione dell’ordinamento costituzionale, associazione mafiosa e altri reati di particolare gravità. Vengono inoltre ampliate le possibilità di accedere a riti alternativi, quali il patteggiamento e il giudizio abbreviato.

Si vuole istituire una giustizia rapida, spesso a discapito dei diritti fondamentali dei cittadini, quali il diritto alla difesa, con rilevanti lesioni ai principi dello stato di diritto.

La riforma Cartabia inoltre delega al Parlamento l’indicazione delle priorità dei reati da perseguire. Questa norma fa venir meno nei fatti l’obbligatorietà dell’azione penale, principio fondamentale nel nostro ordinamento. Vi è la concreta possibilità che l’orientamento politico di un governo possa prevaricare l’indipendenza della magistratura. Nulla esclude poi che in futuro una maggioranza governativa possa servirsi dell’arma giudiziaria a fini repressivi, allo scopo cioè di tacitare, se non di criminalizzare le opposizioni scomode.

Una giustizia rapida, secondo l’orientamento del governo Draghi e conformemente alle direttive della UE, avrebbe l’obiettivo di favorire gli investimenti e la crescita. L’ispirazione ideologica della riforma è evidente: la ragione economica, in un sistema neoliberista, prevale sui principi dello stato di diritto.

Riforma fiscale: verso l’imposizione patrimoniale

La legge di bilancio ha stanziato un fondo di 8 miliardi all’anno per ridurre la pressione fiscale. Sono state messe in campo 3 opzioni: ridurre le aliquote IRPEF relative al “cuneo fiscale nel lavoro e le aliquote marginali effettive”, agire sul sistema delle detrazioni per i redditi di lavoro dipendente, ridurre l’IRAP per i redditi d’impresa.

Secondo l’indirizzo seguito dalla Commissione finanze, la riduzione delle aliquote riguarderebbe il ceto medio, quei redditi cioè che si attestano tra i 28.000 e i 55.000 euro, lo scaglione oggi corrispondente all’aliquota del 38%, che potrebbe essere ridotta fino al 34%. Beneficerebbero quindi del taglio IRPEF i redditi medio – alti che costituiscono il 21,2% della platea dei contribuenti. Resterebbero pertanto esclusi dai benefici i redditi medio – bassi fino a 28.000 euro. L’iniquità di tale misura è evidente, in quanto l’effetto del beneficio sarebbe di maggiore consistenza per i redditi più alti. Infatti, mentre i contribuenti con reddito pari a 41.000 euro usufruirebbero di uno sconto di 500 euro, coloro che si collocano oltre i 75.000 euro godrebbero di una riduzione di 1.000 euro.

E’ stato più volte ribadito che il sistema fiscale debba ispirarsi al principio della progressività. Occorre però rilevare che l’imposta progressiva oggi grava esclusivamente sui redditi da lavoro, sia dipendente che autonomo. Redditi da capitale, imposta societaria (IRES), redditi fondiari, sono invece assoggettati ad imposte proporzionali, che nell’ultimo decennio hanno beneficiato di cospicue riduzioni di aliquote. Pertanto, si deve dedurre che il carico fiscale è stato sopportato in misura sempre più gravosa dai lavoratori, a vantaggio delle classi più abbienti, che hanno usufruito di benefici fiscali assai rilevanti.

Secondo le direttive della riforma Draghi, il governo metterà mano alle imposte sostitutive. E’ quindi prevedibile un aggravio della flat tax sul lavoro autonomo dei contribuenti minimi (5-10%), della cedolare secca sugli affitti (10-21%), dell’imposta sui premi di produttività (10%), dell’imposta sugli interessi sui titoli di stato (12,50%), onde adeguarle al primo scaglione d’imposta del 23%. In coerenza con tale principio, verrebbe però ridotta l’aliquota sui redditi finanziari, oggi al 26%, anche se tale ribasso produrrebbe un minor gettito di 1,4 miliardi. I grandi investitori commossi ringraziano!

Il taglio delle tasse per 8 miliardi, non sarà comunque adeguato per favorire una crescita stabile, né sarà sufficiente a colmare lo squilibrio di 5 punti tra il cuneo fiscale e contributivo che grava sui lavoratori italiani rispetto alla media UE. Non sarà raggiunto nemmeno l’obiettivo del superamento dell’IRAP, che grava sui fatturati delle imprese, il cui gettito è pari a 12 miliardi. E’ prevista solo una riduzione delle aliquote.

Questa manovra è comunque transitoria, in vista di riforme strutturali che coinvolgeranno il fisco italiano nei prossimi anni. La filosofia che informa l’impianto di una riforma imposta dalla UE, prevede il progressivo trasferimento della pressione fiscale dai redditi finanziari e di impresa al patrimonio immobiliare. In questo contesto si inquadra la riforma del catasto patrocinata da Draghi (e che figura tra le condizionalità del NGEU), che comporterà la revisione degli estimi catastali, al fine di adeguarli ai valori di mercato. La riforma del catasto produrrà inevitabilmente rilevanti aggravi delle imposte patrimoniali sugli immobili (IMU), valutabili per oltre il 60%. Draghi ha annunciato che tale riforma non comporterà aggravi fiscali fino al 2026. Si rileva comunque che tale riforma, che prevede l’istituzione di un sistema fiscale improntato alla tassazione patrimoniale, è in coerente continuità con la politica del governo Monti.

L’imposta patrimoniale è per sua natura una forma di tassazione straordinaria, a cui storicamente si è fatto ricorso in fasi emergenziali. L’imposta patrimoniale è stata introdotta in altre epoche quale strumento di politica fiscale che avesse la finalità di contrastare le concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi e in impieghi spesso improduttivi. Mediante l’imposta patrimoniale si sono infatti realizzate politiche di redistribuzione del reddito e di riequilibrio delle diseguaglianze sociali. Non a caso, l’imposizione patrimoniale era parte integrante dei programmi di politica sociale della sinistra del secolo scorso.

Ma è ormai definitivamente tramontata l’epoca del dominio di classe dei detentori delle rendite fondiarie, dei latifondi, dei padroni delle ferriere. Infatti l’imposizione patrimoniale è oggi parte integrante delle politiche neoliberiste imposte dal FMI, dall’OCSE, dalla UE. Il patrimonio immobiliare in Italia, è in larga parte detenuto dal ceto medio, quale forma di impiego del risparmio, consolidatosi per varie generazioni.

E’ peraltro una pura illusione, l’idea secondo cui con l’imposta patrimoniale e l’imposta di successione si andrebbero a colpire i grandi patrimoni e si possano combattere le diseguaglianze. Le classi dominanti, mediante l’uso e l’abuso dello strumento societario, il trasferimento dei capitali nei paradisi fiscali, il ricorso a pratiche di occultamento dei patrimoni su scala globale, sono del tutto immuni da tali forme di tassazione. La funzione dell’imposta patrimoniale, nel contesto di un sistema neoliberista è quella di trasferire il prelievo sul risparmio e sui patrimoni dei cittadini, al fine di smobilitare i capitali investiti nel comparto immobiliare per farli affluire nei mercati finanziari. La classe dominante persegue dunque una logica di accaparramento selvaggio della ricchezza a danno dei popoli.

Mediante l’imposizione patrimoniale, gli stati dovranno reperire le risorse finanziarie necessarie per realizzare la rivoluzione digitale ed energetica. I relativi costi sono imputati agli stati e quindi ai popoli. Le trasformazioni previste dal Grande Reset, sono state progettate dal World Economic Forum (WEF) di Davos, non dagli stati.

Riforma previdenziale: il ritorno della Fornero

La riforma previdenziale si renderebbe necessaria in base ad un ineludibile imperativo morale. La attuale insostenibilità del sistema previdenziale italiano, finirebbe per penalizzare i “senza quota” (giovani e non con impieghi precari e/o sottopagati), che sarebbero costretti a lavorare fino a 70 anni, con la prospettiva di percepire assegni pari al 50% dello stipendio. Le vecchie generazioni, usufruendo dei “privilegi” del welfare, avrebbero sottratto le risorse a quelle nuove. Al conflitto sociale del ‘900, si vuole sostituire quello generazionale, con l’effetto di istaurare l’ennesima guerra tra poveri. Il governo eurocratico di Draghi, sull’onda dell’emergenza sia sanitaria che previdenziale, vuole ripristinare, dopo l’abolizione di quota 100 e la transizione di quota 102 per il solo 2022, la famigerata legge Fornero.

La riforma pensionistica, prevista tra le condizionalità del NGEU, è stata imposta all’Italia sulla base dei dati OCSE sulla spesa pensionistica italiana che tuttavia si discostano dalla realtà. Il sistema pensionistico italiano è stato già oggetto di progressivi tagli con la riforma Dini, con i correttivi del governo Prodi e infine con la riforma Fornero nel 2011; tutte riforme imposte da direttive europee. Innanzitutto, si rileva che i dati di spesa dell’INPS sono compresivi della spesa per l’assistenza, che invece negli altri paesi è a carico della fiscalità generale. Secondo i dati di Eurostat del 2019, la spesa pensionistica italiana è pari al 16% del Pil, superiore cioè a quella della Germania (12%), della Francia (14,8%), della Spagna (12,7%). Tali dati però sono stati elaborati al lordo della imposizione fiscale sulle pensioni che è assai differenziata tra i paesi. Infatti, ad esempio, su una pensione di 1.500 euro, in Germania il carico fiscale è di 60 euro, mentre in Italia ammonta a 600 euro. Poiché l’imposizione fiscale, in termini di spesa pubblica costituisce una partita di giro, l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil, al netto del fisco (che grava per 1/4 del reddito), è del 12%, in linea quindi con l’Europa.

Nel 2020 la spesa pensionistica è stata di circa 215 miliardi, mentre le entrate contributive sono state di circa 200 miliardi. Il deficit dell’INPS è di circa 15 miliardi. Ma se si tiene conto del fatto che sulle pensioni è stato effettuato un prelievo fiscale di 53 miliardi, è facile comprendere che, con una pressione fiscale più ridotta, la gestione previdenziale sarebbe attiva. L’allarmismo mediatico è quindi infondato.

Non sarà rinnovata quota 100. Si è riscontrato il fallimento di quota 100 riguardo all’obiettivo di creare nuova occupazione. Quota 100 avrebbe solo favorito una riduzione del costo del lavoro delle imprese: a fronte di 3 pensionamenti ha fatto riscontro una assunzione. Il tasso di sostituzione è stato dello 0,40. Il 40% non sembra però una percentuale fallimentare, dato che nella Pubblica Amministrazione è rimasto in vigore il blocco delle assunzioni e non sono stati indetti nuovi concorsi. Nel corso della pandemia sono stati infatti richiamati in servizio medici anziani, data la carenza di personale sanitario dovuta alla mancanza di nuovi assunti. Negli ultimi 10 anni sono emigrati 10.000 giovani medici, data la mancanza di sbocchi professionali in Italia!

L’impatto della legge Fornero, ripristinata dal governo Draghi, si rivela devastante per le nuove generazioni. Il sistema contributivo puro applicabile per gli assunti dal 1996 e la diffusione generalizzata del precariato, con occupazione discontinua e sottopagata, determineranno l’innalzamento dell’età pensionabile a 70 anni, con assegni oltre che dimezzati. Inoltre, l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro è oggi tardivo, il turnover dei lavoratori di età media è sempre più precoce, a causa della rapida obsolescenza di tante figure professionali, dovuta alla continua avanzata del progresso tecnologico.

Da un report pubblicato su “La Repubblica” del 25/10/2021, emergono dati allucinanti circa il futuro dei “quota zero”. Secondo una simulazione che prende come base lavoratori che oggi hanno 25,30,35 e 40 anni, con stipendi con l’incremento annuale dell’1,5% e una crescita del Pil dello 0,3% annuo, emerge che ad una età pensionabile tra i 68 e i 72 anni i futuri pensionati percepirebbero assegni tra 55% e il 64% dell’ultimo stipendio. Tale simulazione è stata però effettuata sulla ipotesi di una carriera continuativa. Se invece la carriera è discontinua o la fuoriuscita è precoce, la pensione si ridurrebbe fino al 45% e sarebbe erogata solo dopo i 70 anni.

Gli effetti della Fornero comporterebbero inoltre ulteriori e progressivi innalzamenti dell’età pensionabile in base al parametro ISTAT sulla speranza di vita, coefficiente destinato ad aumentare. Infine, qualora la pensione non superi la soglia di 2,8 volte l’assegno sociale, non sarà possibile il pensionamento anticipato, mentre nei casi in cui non lo superi di 1,5 volte, non sarà erogato nemmeno l’assegno di vecchiaia e l’età pensionabile sarà innalzata di 4 anni. In conclusione, si andrà in pensione tra i 71 e i 77 anni. Questo sistema imposto dalle direttive europee, può produrre solo giovani precari, lavoratori sottopagati, esodati precoci e grandi masse di pensionati sotto la soglia di povertà.

L’impostazione delle riforme previdenziali susseguitesi fino ad oggi, ha una precisa matrice ideologica. Nell’economia neoliberista infatti, il progressivo smembramento dello stato sociale, si renderebbe necessario al fine di liberare risorse per la crescita. Ma è stata proprio la politica di austerity, in attuazione del patto di stabilità della UE, a determinare, oltre che un incremento della povertà conseguente alla devastante contrazione della spesa pubblica, anche il calo verticale degli investimenti e dei consumi e quindi l’avvento della recessione economica e della deflazione.

In tema di spesa previdenziale, gli squilibri del sistema sono emersi proprio a causa della bassa crescita. La depressione economica è stata inoltre una delle principali cause del calo della natalità nel nostro paese. Dal 2011 il Pil italiano registra una crescita inferiore al 9%, mentre la Germania è cresciuta di quasi il 30%, la Francia del 19%, la Spagna del 16%. Si rileva inoltre che in Italia il tasso di rivalutazione del montante contributivo è agganciato al Pil e quindi, in assenza di crescita, le pensioni hanno registrato ulteriori, rilevanti decurtazioni.

La precarietà e la compressione salariale hanno contribuito in misura rilevante a decrementare il montante contributivo. La mancata crescita è da imputarsi anche alla carenza di domanda interna, dovuta al basso livello retributivo dei lavoratori italiani. L’Italia è l’unico paese europeo in cui i lavoratori guadagnano meno di 30 anni fa. Tra il 1990 e il 2020 i salari medi sono aumentati in Germania del 33,7%, in Francia del 31,1%, mentre in Italia il calo è stato del 2,9%. Nel 1990 i salari medi italiani erano al 7° posto in Europa, nel 2020 sono precipitati al 13° posto. Secondo i dati dell’OCSE, nel periodo pandemico tra il 2019 e il 2020, la contrazione salariale, in Francia del 3,2% e in Spagna del 2,9%, in Italia è stata del 6%, dovuta alle ore non lavorate e alla perdita di occupazione.

Il governo Draghi non è davvero innovativo, è solo la reincarnazione del governo Monti .

Verso la dissoluzione dello stato?

Le riforme di Draghi hanno come finalità la trasformazione strutturale dello stato. Si vuole infatti realizzare un processo evolutivo di riforme di stampo neoliberista che comportino la progressiva estraneazione dello stato dalla società civile. Allo stato sovrano subentrerà uno stato di stampo neoliberista, le cui strutture siano funzionali alle strategie di trasformazione messe in atto dalle oligarchie economiche e finanziarie globali. L’azione del governo Draghi non mira alla riforma dello stato ma alla sua dissoluzione.

In tale contesto è del tutto risibile millantare come un successo del G20 di Roma l’aver imposto ai giganti del web e dell’e-commerce una minimum tax del 15% a favore degli stati in cui vengano realizzati i loro profitti. Saranno invece i popoli a sostenere i costi della ristrutturazione economica digitale ed ambientale su scala globale. Afferma a tal riguardo Diego Fusaro: “Mi siano concesse alcune riflessioni rapsodiche intorno al G20 che si è svolto in questi giorni a Roma. A partire dall’essenza stessa del G20, esso è il ritrovo periodico nel quale il padronato cosmopolitico sans frontières e i suoi maggiordomi governativi senza anima si danno convegno in località di volta in volta diverse e con un obiettivo molto chiaro: fare il punto sulla loro agenda e sui loro interessi di classe al di là dell’interesse nazionale dei ceti medi e delle classi lavoratrici, al di là delle specifiche sovranità nazionali. Come sappiamo lo stato nazionale, al tempo della globalizzazione in cui sovrano è soltanto il mercato, diventa semplicemente uno strumento nelle mani dei gruppi dominanti, diventa una nuova forma di gestione dell’economia globale per il mezzo dei governi locali. Vorremmo dirlo con Michel Foucault, lo stato neoliberale è quello che governa non il mercato bensì per il mercato”.

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