IL RAFFORZAMENTO DEL PROPOSITO DI SUICIDIO INTEGRANTE ISTIGAZIONE AL SUICIDIO PUNIBILE AI SENSI DELL’ART. 580 C.P.
Segnalazione del Centro Studi Livatino
di Carmelo Leotta
Il 12 luglio scorso è stata depositata la sentenza della Corte di assise di appello di Catania – di cui i media hanno dato ampia notizia a seguito dell’udienza del 28 giugno – che, ribaltando il giudizio di primo grado, ha condannato Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit Italia, per il delitto punito dall’art. 580 c.p. (istigazione e aiuto al suicidio) per aver rafforzato il proposito di suicidio di una donna, capace di intendere e di volere, affetta da depressione e da sindrome di Eagle, non sottoposta a cure di sostegno vitale. L’intento suicidario era portato a compimento dalla donna a Zurigo presso la clinica Dignitas, il 27.3.2019.
1. Il thema decidendum: la condotta di rafforzamento del proposito di suicidio rilevante ai sensi dell’art. 580 c.p. Pur non essendosi ancora formato il giudicato sulla vicenda, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania, a prescindere dal riferimento specifico al fatto di cronaca qui non oggetto di commento, si rivela di profondo interesse nella discussione penalistica sul fine-vita dal momento che fornisce una serie di preziosi criteri per accertare l’efficacia causale di condotte “comunicative” di convincimento rivolte da una terza persona ad un soggetto che, avendo già precedentemente contemplato tale possibilità, infine decide e mette in atto il suicidio proprio a seguito del contatto con il “rafforzatore”. La sentenza, in verità, si presta anche a talune critiche, di cui pure si dirà, allorquando tratta del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., limitandosi a individuare nell’autonomia individuale l’oggetto di tutela della fattispecie di istigazione al suicidio.
2. Il giudizio di primo grado. Il giudizio di primo grado si svolge dinnanzi al g.u.p. di Catania che, con sentenza del 10.11.2021 assolve l’imputato dall’accusa di istigazione al suicidio di G.B., L’istigazione si sarebbe realizzata, nell’ipotesi accusatoria, con plurime condotte messe in atto dall’imputato che intratteneva con la paziente rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica, a far data dal 2017 e fino al decesso, inducendola altresì ad iscriversi alla sezione italiana di un’associazione di diritto svizzero il cui scopo è quello di diffondere una cultura per la morte dignitosa, di cui lo stesso imputato era (come è tuttora) presidente. Il g.u.p catanese assolveva l’imputato ritenendo che le condotte contestate fossero sprovviste di una effettiva capacità di influenzare la decisione della donna, in particolare in considerazione del fatto che l’imputato era stato contattato dalla paziente quando già aveva maturato il proprio proposito di suicidio affinché le fornisse informazioni circa l’associazione di cui egli era presidente. Dal punto di vista strettamente fattuale il giudice delle prime cure valorizza a sostegno della propria decisione in particolare i seguenti elementi: la irreversibilità della patologia della paziente; la sua capacità di autodeterminazione (su cui si erano espressi i c.t. del P.M.); il fatto che la stessa si fosse procurata autonomamente la documentazione richiesta dalla struttura dove avvenne il suicidio e che si fosse fatta accompagnare da una propria conoscente in aeroporto per andare in Svizzera (dunque, senza l’intervento diretto dell’imputato), peraltro mentendo sulla ragione del suo viaggio.
3. L’appello del P.M. e la riforma della sentenza di assoluzione. Il P.M. siciliano chiede la riforma della sentenza di prime cure, posto che il g.u.p. non avrebbe correttamente valutato l’efficacia causale delle condotte contestate rispetto all’effetto finale di decisione e messa in atto del suicidio da parte della G.B. La Corte di assise di appello di Catania, accogliendo l’appello del P.M., all’esito di rinnovazione dibattimentale, in riforma della sentenza appellata, condanna l’imputato (peraltro escludendo la concessione delle attenuanti generiche) per avere «fornito un contributo causale idoneo a rafforzare il proposito suicidario di una persona affetta da patologie non irreversibili, seppur dolorose ma trattabili, sfruttando la fragilità e vulnerabilità della donna per convincerla, in maniera definitiva, a porre fine alla sua vita». Come si legge in sentenza, «la formazione della volontà della G. di porre fine alla propria vita non è stato il frutto di un percorso di autodeterminazione della donna: la stessa, sebbene capace di intendere e d volere, è stata rafforzata nel proprio intento suicidario dall’operato dell’odierno imputato avendo lo stesso influito in maniera determinante nel processo psichico di un soggetto vulnerabile che non aveva ancora deciso in maniera autonoma di porre fine alla propria esistenza in quanto il suo proposito suicidario, già in essere, non era ancora definitivo».
La decisione depositata lo scorso 12 luglio ripercorre i temi di maggior interesse riferiti alla fattispecie di istigazione al suicidio punita dall’art. 580 c.p. che può essere integrata, come noto, sia da una condotta di determinazione sia da una condotta di rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio. L’art. 580 c.p., che contempla altresì, quale terza ipotesi delittuosa, l’autonoma condotta di aiuto al suicidio, sanziona pertanto, tre distinti comportamenti (determinazione, rafforzamento, aiuto) che hanno in comune l’intervento del terzo, a titolo materiale o morale, nell’altrui suicidio, senza che il fatto integri il più grave delitto di omicidio del consenziente.
Nel caso di specie il fatto contestato all’imputato sarebbe consistito, come si è sopra evidenziato, nel rafforzamento del proposito di suicidio già in precedenza manifestato dalla persona offesa. La condotta di rafforzamento può dirsi integrata solo a fronte di un obiettivo contributo alla maturazione della decisione definitiva del suicida, accompagnato, sul piano soggettivo, dalla prefigurazione dell’evento come conseguenza della propria condotta e dalla consapevolezza dell’obiettiva serietà del proposito della persona offesa.
4. I criteri di accertamento del delitto di istigazione al suicidio realizzato nella forma del rafforzamento dell’altrui intento suicidario. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento penalmente rilevante è, invero, piuttosto complesso; il rafforzamento, infatti, viene realizzato con condotte “comunicative” che perlopiù si estrinsecano in un “dire” e che, sul piano degli effetti, operano su di un piano psichico, tuttavia presupponendo, diversamente dalle condotte di determinazione, la previa e autonoma esistenza di un’intenzione suicidaria, necessariamente non definitiva, su cui si innesta un impulso esterno che segna, appunto, il passaggio, nel suicida, dalla possibilità alla decisione di morte. La Corte, al fine di vagliare la rilevanza penale della condotta di rafforzamento, individua taluni criteri particolarmente calzanti, che possono essere così catalogati:
a) l’esistenza di uno stato iniziale di incertezza della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio;
b) la vulnerabilità della persona offesa, originata (ad es.) dalla sua sofferenza fisica e psichica che la rende esposta alle interferenze di soggetti terzi. Il giudizio sulla vulnerabilità deve tenere conto della sussistenza di un eventuale stato depressivo in capo alla persona offesa e in genere delle implicazioni psicologiche generate dalla sofferenza fisica, come pure degli effetti della patologia depressiva sulla percezione del dolore causato dalla patologia fisica (c.d. “somatizzazione”);
c) la consapevolezza, da parte dell’autore della condotta di rafforzamento, sia dello stato di incertezza iniziale della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio sia della sua condizione di vulnerabilità;
d) la possibilità di inferire la consapevolezza sulla condizione di vulnerabilità della persona offesa dalla conoscenza (da parte dell’imputato) delle condizioni di sofferenza/malessere del malato, senza che sia necessario, per l’autore della condotta di rafforzamento, il possesso di competenze mediche;
e) il carattere non neutro e non asettico con cui sono rese le informazioni sulle procedure di suicidio assistito all’estero;
f) la perduranza e la quantità delle comunicazioni con cui si esorta il futuro suicida a vincere le resistenze alla propria decisione, anche «esprimendo pensieri negativi e sottolineando gli aspetti peggiori della sua vita» che, rivolti ad un interlocutore sofferente e affetto da depressione, accentuano «il senso di inutilità della sua esistenza»;
g) la formulazione e la comunicazione alla persona offesa di un giudizio positivo sul piano etico riferito alla scelta di suicidio e la prospettazione del suicidio assistito quale unica forma di sollievo delle sue sofferenze;
h) il tono dissacrante o spregiativo con cui l’autore della condotta rafforzativa connota gli argomenti contrari al suicidio (legati, ad es., alla fede religiosa della persona offesa).
Non integra, invece, condotta penalmente rilevante il fatto di limitarsi a «fornire informazioni per realizzare il proposito già definitivo […] di ricorrere al suicidio assistito». Quanto al giudizio di valore secondo cui la morte sia preferibile ad una vita sofferente, si tratta – afferma la Corte – di «principio che di per sé non è censurabile in tale sede soltanto se è frutto di una libera scelta, non se viene propinato ad un soggetto, quale era la G.A. [persona offesa] vulnerabile e che aveva qualche resistenza a mettere in atto l’intento suicidario».
Non escludono la responsabilità per istigazione al suicidio:
– il fatto che, a valle di una condotta di rafforzamento, i successivi contatti con la persona offesa siano sporadici e abbiano solo un contenuto informativo;
– la circostanza che l’ultimo contatto con la persona offesa avvenga diversi mesi (nel caso di specie, sei mesi) prima del decesso;
– la dichiarazione, resa dalla persona offesa, che la decisione «“è solo sua”, quasi avesse la necessità di dimostrare che la scelta era stata presa autonomamente»;
– la manifestazione a terzi, da parte del suicida, del desiderio di morire avvenuto in tempi antecedenti al contatto con l’autore della condotta di rafforzamento;
– l’irremovibilità della decisione di suicidio, provata ad. es. dall’assenza di tentennamenti, nel momento in cui l’atto anticorservativo è portato a compimento.
In particolare, l’irrilevanza, al fine di escludere la responsabilità, di una eventuale distanza temporale tra l’ultimo contatto del “rafforzatore” con il suicida e la morte di questi trova ragione nel fatto che l’efficacia causale della condotta oggetto di scrutinio non deve valutarsi rispetto all’evento finale del suicidio, bensì rispetto alla maturazione definitiva della decisione di morire della persona offesa. E’ pur vero che trattandosi di fatti psichici, l’individuazione del momento preciso in cui l’aspirante suicida assume la decisione definitiva di morte non è semplice; a tal fine, appare ragionevole, come in effetti si evince dalla sentenza in commento, valorizzare comportamenti materiali della vittima (in sentenza si rinviene l’espressione «fattiva determinazione»), quali, nella vicenda di G.A., furono il reperimento della documentazione necessaria per accedere alla clinica svizzera e la fissazione dell’appuntamento presso la stessa clinica.
L’attenzione con cui la Corte siciliana fornisce un catalogo di criteri per valutare l’integrazione della condotta di rafforzamento punita dall’art. 580 c.p. risponde adeguatamente all’esigenza di ponderare, nel caso concreto, l’efficacia causale delle condotte comunicative rivolte nei confronti dell’aspirante suicida, il quale ha già considerato, eventualmente anche esternando tale ipotesi con terzi, ma non ancora deciso in via definitiva, di ricorrere al suicidio. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento comporta uno scrutinio delicato non solo per la difficoltà di valutare comportamenti che esplicano la loro efficacia sulla psiche del soggetto passivo, ma anche perché la condotta censurata si pone al confine con una mera manifestazione di pensiero avente come contenuto un giudizio positivo sull’atto di suicidio. Tale manifestazione di opinione merita, in verità, di essere fortemente criticata su di un piano morale e giuridico dal momento che il suicidio in sé e per sé rappresenta l’atto definitivo e irrevocabile con cui il soggetto esprime un giudizio pratico di immeritevolezza sulla conservazione del proprio essere. Il suicidio, pertanto, è sempre contrario alla dignità umana. Ancorché una manifestazione di pensiero che associ un valore positivo al suicidio sia quindi deprecabile perché pregna di un grave disvalore con immediate ricadute anche giuridiche, essa non può ancora meritare lo stigma penale. Da qui origina, pertanto, la difficoltà, ai fini della individuazione della tipicità delle condotte punite come istigazione al suicidio dall’art. 580 c.p., di tracciare la linea di confine tra una mera manifestazione di opinione, non ancora punibile, seppur contraria alla dignità della persona, e una condotta, invece punibile, perché effettivamente attivante (nel caso di condotta di determinazione) o incentivante (nel caso di condotta di rafforzamento) una volontà anticonservativa di una vittima vulnerabile.
Posto il problema in questi termini, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania ha il pregio di fornire una serie di utili strumenti per valutare quando le “parole”, collocate in un certo contesto, che tiene conto anzitutto delle caratteristiche della vittima, abbiano innescato un suo processo decisionale definitivo in vista della morte.
Ciò detto, la decisione in commento presenta, tuttavia, come si dirà, talune non marginali criticità nella parte in cui individua essenzialmente nell’autodeterminazione individuale il bene protetto dalle norme incriminatrici che puniscono l’istigazione al suicidio.
5. Quale bene protegge la norma che punisce l’istigazione al suicidio ?
La Corte di assise di appello di Catania ripercorre, in apertura, la ratio di incriminazione della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), che segnalano il persistente riconoscimento da parte dell’ordinamento del «valore fondamentale di rilevanza collettiva» assegnato alla vita umana. Tali previsioni incriminatrici si pongono all’esito di una «scelta per così dire di compromesso, per cui – pur non riconoscendo espressamente un cd. “diritto al suicidio”, in quanto scelta negatrice del fondamentale principio del rispetto e della promozione della vita, e perciò non tutelata dall’ordinamento – si esclude la punibilità del tentativo di suicidio, poiché giuridicamente privo di offensività erga alios (trattandosi di fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a proprio danno), ma vengono punite tutte quelle condotte esecutrici, agevolatrici, istigatrici o rafforzative del proposito suicidario altrui».
La sentenza dà atto che il principio ora richiamato ha subìto nel tempo una rilettura giurisprudenziale nell’ambito del fine-vita, in particolare a partire dalle decisioni dei casi Welby ed Englaro che, come noto, hanno segnato un’enfasi in chiave auto-deterministica del diritto al rifiuto delle cure, anche quanto queste siano necessarie alla conservazione della vita.
Venendo a trattare della ratio di incriminazione delle tre autonome ipotesi delittuose contemplate dall’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio, determinazione e rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio), la Corte di assise di appello individua l’offesa delle tre condotte nel «danno sociale che proviene dall’intervento di terzi nel suicidio di una persona, senza che il fatto assuma l’aspetto dell’omicidio del consenziente. Ciò è espressione – continua la sentenza – della qualificazione, nel nostro ordinamento, del suicidio quale fatto moralmente e socialmente dannoso, che cessa di essere penalmente indifferente quando a cagionarlo, concorra, insieme con l’attività del soggetto principale (il suicida), anche un’altra forza individuale estranea. Proprio detto percorso costituisce, appunto, quel rapporto tra persone che determina l’intervento preventivo-repressivo del diritto contro il terzo, poiché proprio da quest’ultimo proviene l’elemento che determina l’evento dannoso, concretizzando ciò che sarebbe stato relegato alla sfera intima del suicida».
Fin qui, a parte il riferimento al concetto di “danno sociale” che, in verità, non è appropriato perché oscura la dimensione personalistica del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., la sentenza in commento esclude con chiarezza la configurabilità di un diritto individuale al suicidio.
Nel seguito, tuttavia, la stessa sentenza ripercorre in termini piuttosto affrettati i princìpi in materia dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nei precedenti Pretty (2002), Hass (2011) e Gross (2013), i quali, come noto, si sono occupati dell’ammissibilità dei limiti posti dagli Stati all’accesso a pratiche di suicidio assistito. Prendendo le mosse dalla decisione più risalente (Pretty c. Regno Unito), la Corte siciliana, pur menzionando alcuni passaggi di quella sentenza, omette, ad es., di richiamarne almeno due nodi fondamentali in cui i giudici europei espressamente escludono che il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU possa ricomprendere anche il diritto alla morte per mano di terze persone o con l’assistenza di un’autorità pubblica (cfr. Pretty c. U.K., par. 40) e in cui ribadiscono il dovere per gli Stati di adottare ogni atto o misura preventiva per salvaguardare l’incolumità individuale
Con riferimento, poi, al precedente Hass c. Svizzera, è pur vero, come si legge nella sentenza catanese, che la Corte EDU fa discendere dall’art. 8 CEDU il diritto individuale a decidere quando e in che modo mettere fine alla propria vita, a condizione che il soggetto sia in grado di orientare liberamente la propria volontà; tuttavia, l’arresto Hass pure afferma (precisazione omessa nella sentenza depositata lo scorso 12 luglio) che la pretesa al suicidio assistito non sia giuridicamente azionabile, in quanto non è un diritto ad una prestazione da parte dello Stato o all’intervento del terzo.
Soprattutto nella ricostruzione del diritto vivente interno in materia di fine vita, la Corte di assise di appello non offre una lettura adeguata della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, che, nel giudizio incidentale promosso nell’ambito del processo milanese contro Marco Cappato, ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 c.p. Tale decisione, diversamente da quanto affermano i giudici siciliani, non ha introdotto, infatti, un diritto al suicidio assistito per le persone affette da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili, sottoposte a trattamento di sostegno vitale e capaci di formulare personalmente la richiesta di suicidio: qualora ricorrano tali quattro condizioni, la sentenza della Consulta del 2019, dichiarando l’incostituzionalità parziale della sola norma incriminatrice (tra le tre dettate dall’art. 580 c.p.) dell’aiuto al suicidio, si è limitata a prevedere una causa di non punibilità nei confronti del sanitario che, nel contesto di una sua adesione volontaria e libera alla richiesta del malato, lo aiuti nel darsi la morte. Dalla sentenza n. 242 non discende, infatti, alcun obbligo di intervento anticonservativo per il sanitario, a riprova del fatto il suicidio assistito non costituisce una pretesa individuale che il malato possa far valere nei confronti di terzi. Proprio a tal proposito si legge nella pronuncia della Consulta: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».
A fronte di queste premesse, l’arresto catanese finisce per travisare la stessa oggettività giuridica delle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p. Si legge in sentenza: «Il quadro fin qui tracciato spinge ad evidenziare, alla luce di quanto positivizzato anche nella l. 219/2017, che il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. non è la vita in quanto valore superindividuale e non disponibile come risalenti orientamenti pretendevano di sostenere. Il bene giuridico che viene in rilievo nel caso dell’istigazione è, infatti, la libertà di autodeterminazione del soggetto: non si vuole evitare che si sviluppi un proposito suicidario ma si vuole garantire che questo avvenga in maniera del tutto autonoma e libera da condizionamenti esterni. Proprio in caso di condizionamento esterno l’evento morte non sarebbe causa di una scelta libera del suicida ma conseguenza di un comportamento volontario e cosciente di un altro soggetto volto a causarne, mediante suicidio, la morte: in caso di istigazione al suicidio, il suicida non è più un soggetto attivo, bensì un soggetto passivo della decisione altrui».
Una siffatta ricostruzione del bene giuridico protetto dall’art. 580 c.p. (e specificamente delle norme dettate da tale articolo che incriminano l’istigazione al suicidio nelle due ipotesi di determinazione e di rafforzamento dell’intento di suicidio), disattende del tutto le indicazioni della Corte costituzionale. Come da quest’ultima chiarito con l’ord. n. 207 del 2018, infatti, «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».
D’altronde se il bene protetto dalla norma incriminatrice dell’art. 580 c.p. fosse esclusivamente l’autodeterminazione individuale non si giustificherebbe più, a ben vedere, né l’incriminazione, dettata dallo stesso art. 580 c.p., dell’aiuto al suicidio, né quella dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. che sanzionano fatti in cui non vi è intromissione da parte di un soggetto terzo nel processo decisionale del suicida.
La sentenza in commento, pertanto, pur lodevole per lo sforzo di fornire all’interprete un catalogo articolato di criteri per valutare la consumazione della condotta di rafforzamento dell’intento di suicidio punita dall’art. 580 c.p., finisce per fraintendere, forse all’esito di una lettura affrettata dei precedenti di Strasburgo e, soprattutto, delle due decisioni costituzionali relative al caso Cappato (n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019), l’oggettività giuridica dello stesso art. 580 c.p. che, invero, non svolge la funzione di garantire che la scelta individuale di suicidarsi sia compiuta in un contesto di libertà morale del suicida, in nome dell’autodeterminazione individuale, ma tutela piuttosto la vita del soggetto esposto al rischio di suicidio, inibendo le condotte materiali e morali di terzi che agevolino su di un piano o sull’altro il compimento dell’atto suicida. È, dunque, senz’altro il diritto alla vita (e non l’autodeterminazione individuale) il bene protetto dall’articolo in questione.