Il poliamore: un diritto civile?

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Più si è, meglio è. Anche in amore. Pare esserne convinto il giudice newyorkese Karen May Bacdayan che, per la prima volta nella storia, ha conferito legittimità giuridica ad una relazione poliamorosa. Per poliamore s’intende una relazione, sia affettiva che sessuale, tra più persone consenzienti. In altri termini, si tratta di un triangolo amoroso o di un quadrilatero o di un’altra figura piana con più lati, dove ogni lato ha rapporti con uno o più lati e tutti i lati approvano.

La storia è questa e riguarda tre uomini. Scott Anderson e Markyus O’Neill vivevano insieme in un appartamento di New York.  Robert Romano, “marito” di Anderson, invece risiedeva altrove. Anderson nel 2021 muore. O’Neill, allora, volle subentrare nel contratto di locazione secondo quanto disposto da un regolamento della città di New York il quale dispone che in caso di morte di un inquilino a cui è intestato il contratto, il proprietario non può sfrattare «né il coniuge superstite dell’inquilino deceduto né un altro membro della famiglia dell’inquilino deceduto che ha convissuto con l’inquilino». Il proprietario dell’appartamento non volle riconoscere a O’Neil il diritto di rinnovare l’affitto perché non era «membro della famiglia non tradizionale», ossia della “famiglia” arcobaleno.  O’Neil aveva invece dichiarato che si sentiva «membro della famiglia» dato che anche lui aveva una relazione con Anderson.

Il giudice ha dato ragione a O’Neil, sostenendo che l’esistenza di questo triangolo amoroso «non dovrebbe respingere automaticamente la richiesta di O’Neill di non essere sfrattato». La May Bacdayan aggiunge in modo significativo: «Perché una persona deve impegnarsi con un’altra persona solo in determinati modi prescritti per poter godere della stabilità dell’alloggio dopo la partenza di una persona cara? Tutte le relazioni non tradizionali devono comprendere o includere solo due persone primarie?». Citando poi una sentenza che aveva attinenza al caso e che riguardava la successione di un contratto di locazione di una coppia gay e la sentenza Obergefell v. Hogdes che ha aperto alle “nozze” gay, il giudice ammette che tali sentenze riconoscono «solo relazioni bipersonali». Ma poi aggiunge: «Quelle decisioni, tuttavia, aprono la porta alla considerazione di altri costrutti relazionali; e, forse, è giunto il momento di prenderle in considerazione».

Il ragionamento è semplice: perché l’unica relazione riconosciuta dal diritto dovrebbe essere bipersonale e non tri-tetra-penta personale? Chi lo dice che l’amore è solo a base due? Il riconoscimento delle coppie gay – questo il ragionamento del giudice che, è proprio il caso di dirlo, ha dato i numeri – ha fatto comprendere che non può essere l’orientamento sessuale il discrimen per distinguere ciò che è legittimo da ciò che non lo è. Ma allora se l’orientamento sessuale non fa problema in termini di legittimità giuridica, perché lo dovrebbe fare il numero? Se “love is love”, lo è anche e forse soprattutto se gli amanti sono più di due. Il discorso non fa una grinza perché la premessa è erronea, dato che l’amore che non nasce da vincoli di sangue o di amicizia non può che essere esclusivo, altrimenti non esprimerebbe donazione totale per l’altro.

Dicevamo che è la prima volta nella storia che un giudice si esprime a favore di una relazione poliamorosa. Ma non è la prima volta che una relazione tra più di due persone riceve un placet formale da un’autorità pubblica. Nel febbraio dello scorso anno i media avevano raccontato di come un giudice della California avesse, non tanto riconosciuto una relazione poliamorosa, ma una relazione poligenitoriale, ossia avesse riconosciuto che papà di due bambini fossero tre uomini. Una sorta di riconoscimento indiretto del poliamore. Inoltre un paio di anni fa, il Consiglio comunale di Somerville, sempre negli Usa, qualificò la polyamorous relationships come forma legittima di partnership domestica: «un’entità formata da persone» anziché «un’entità formata da due persone», si legge nell’ordinanza del Consiglio. La decisione dell’amministrazione comunale fu presa perché all’epoca, in piena emergenza Covid, alcune persone si erano lamentate che non potevano andare a far visita ai propri partner negli ospedali, dato che l’accesso era consentito solo ai familiari e ad un convivente.

Il poliamore è alla fine una delle innumerevoli manifestazioni del pluralismo culturale – più plurale di così! – e del pensiero liquido che però, quando vuole ricevere autorevolezza, non ripudia le vesti formali della legge che lo cristallizza e lo definisce.

La mia vita appartiene a me?

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Come molti sapranno la Corte costituzionale ha recentemente bocciato il referendum sull’abrogazione pressoché totale dell’art. 580 cp che vieta l’omicidio del consenziente. L’associazione Luca Coscioni, promotrice tra gli altri di questo referendum, ha coniato uno slogan, fra i molti, per sostenere la raccolta firme: “La mia vita appartiene a me”.

Il significato di questo slogan, di uso comune da tempo, non è condivisibile almeno per due motivi. Il verbo “appartenere” significa “essere di legittima proprietà di qualcuno” oppure far parte di una famiglia, di un gruppo sociale o essere incluso in un luogo oppure, infine, “spettare, essere di competenza, riguardare”. Appare evidente che i radicali hanno scelto come accezione la prima: la vita è di mia proprietà, io ho la legittima proprietà sulla mia vita. Ma non esiste un legame di proprietà tra la persona e la vita semplicemente perché non esiste la persona e un qualcosa chiamato “vita” sui cui esercito un diritto di proprietà, bensì esiste solo la persona vivente. Sul piano naturale non si dà persona se non vivente: l’aggettivo, che è anche participio presente di vivere, è coessenziale alla persona, è condicio sine qua non dell’esistenza del concetto di persona. Non si può predicare l’una senza l’altra, sul piano naturale. C’è piena coincidenza dei due termini.

Un’obiezione a quanto sin qui detto potrebbe essere la seguente: la prospettiva promossa dai radicali sottintende un Io che ha la proprietà sul corpo vivente. Ma anche in questo caso il corpo non è di proprietà della persona. La persona è sinolo di materia e forma, ossia dell’unione-fusione strettissima del principio immateriale chiamato “anima” che informa la materia, cioè il corpo. I due principi sono distinti intellettivamente, ma, finché la persona è viva, sono una realtà unica, inscindibile. Da ciò deriva che io sono la mia anima e il mio corpo. Io sono anche il mio corpo e non ho il mio corpo.

La visione radicale invece risente di alcuni influssi platonici dove il corpo è visto come una tomba, un carcere dell’anima da cui si deve liberare. La liberazione, per Marco Cappato & Co., deve avvenire quando il corpo da luogo ameno e funzionale diventa un carcere a seguito della malattia, della sofferenza, della disabilità, etc. L’eutanasia è quindi liberazione da un corpo percepito come una catena che ci lega ad una vita segnata solo dalla sofferenza. Una visione che poi è influenzata anche da prospettive culturali fortemente antimetafisiche e dunque empiriste ed utilitariste: il corpo viene reificato, cosificato e quindi si può predicare su di esso un diritto di proprietà. Uno sguardo svilente sulla persona perché la sua corporeità, parte integrante della sua persona, viene ridotta a pura materia la quale, guastandosi, è bene rifiutarla, scartarla, cestinarla, separarsene a forza con l’eutanasia. Quindi il corpo è solo una cosa che quando si danneggia e non val più la pena ripararla si può anche buttare proprio perché il vero Io, entità solo spirituale, vanta su di esso pieno dominio, pieno possesso. In breve l’Io abita il corpo che è la casa di sua proprietà, ma quando questa casa va in rovina si può anche decidere di abbandonarla. Anche il nostro ordinamento giuridico ripudia l’idea che si possa predicare un diritto di proprietà sul corpo dato che, ad esempio, è vietata la compravendita di organi.

Ma vi è almeno un secondo motivo per cui è errato affermare “La mia vita appartiene a me” e questo motivo riguarda Dio. Scrive Tommaso d’Aquino: «soltanto Dio è essere per essenza, mentre tutte le altre cose sono esseri per partecipazione» (Summa contra Gentiles, III, c. 66). Dunque l’unico modo per avere l’essere è partecipare all’essere, che non può che derivare da Dio. Questa derivazione avviene tramite la creazione, cioè la chiamata dal nulla. Per la persona umana ciò significa che Dio crea ciascuna anima che, sempre per Sua volontà, informa la materia umana, già data, al momento del concepimento. Dunque la relazione tra Dio e l’uomo è la relazione tra Creatore e creatura. Potremmo quindi dire che noi siamo proprietà di Dio? In senso stretto, nemmeno in questo caso. Sia perché la proprietà, come già accennato, è predicabile solo in riferimento alle cose e la persona umana non è una res. Sia perché la relazione tra Creatore e creatura è molto più salda e profonda di quella esistente tra proprietario e bene oggetto di proprietà. Il Creatore chiama dal nulla e dona l’essere. In questo senso e tornando al verbo usato nello slogan dei radicali, noi apparteniamo a Dio, nel senso che partecipiamo all’essere ricevuto da Lui, abbiamo parte dell’essere da Lui donato. In questa prospettiva la nostra vita – per usare un termine adoperato nello slogan – appartiene a Lui e non solo a motivo della creazione, ma anche per il fatto che Dio costantemente ci mantiene nell’esistenza. È solo grazie alla Sua volontà che noi persistiamo nell’esistenza, altrimenti scompariremmo nel nulla. Anche in questo senso dobbiamo dire che la nostra vita appartiene a Lui perché dipende, per continuare ad esistere, da Lui.

Chiaramente queste riflessioni sono assolutamente incomprensibili dalla maggioranza delle persone e quindi non condivisibili. Lo slogan dei radicali ha molta più presa delle presenti argomentazioni perché sintetizza in modo efficace un percepito comune che vede l’uomo come signore assoluto della propria vita, come titolare di un diritto di libertà che si espande all’infinito fino al dominio completo sulla propria esistenza, tanto completo che può decretarne anche la fine.

Fonte: https://www.corrispondenzaromana.it/la-mia-vita-appartiene-a-me/

Sarà abolito l’aborto negli Stati Uniti?

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Forse la Corte Suprema degli Stati Uniti potrà mandare in soffitta la famigerata sentenza Roe vs Wade del 1973 che legalizzò l’aborto in tutto il Paese, a cui seguì nel 1992 un’altra storica sentenza dello stesso tenore: Planned Parenthood v. Casey. Ma, come vedremo, la prudenza è doverosa per più motivi.

La Corte è stata chiamata a vagliare una decisione della 5th Circuit Court of Appeals con sede a New Orleans che riteneva incostituzionale la legge del 2018 del Mississippi la quale prevede la possibilità di vietare l’aborto dopo la 15esima settimana di gestazione. Sui media per ora sta circolando solo la prima bozza di proposta di voto della Corte per cancellare la due sentenze appena citate, a cui forse sono già seguite altre bozze. Questo documento – redatto dal giudice Samuel Alito a febbraio, ma diventato di dominio pubblico solo in questi giorni–- ha ricevuto il placet di altri quattro giudici repubblicani che siedono presso la Corte: Clarence Thomas, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. I giudici democratici, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan, pare che stiano elaborando una contro-bozza. Il presidente della Corte suprema John Roberts non si sa che decisione prenderà al riguardo.

C’è da appuntare che raramente nella storia della Corte un documento così riservato è stato pubblicato anzi tempo. Pare proprio che questa fuga di notizie sia stata architettata da qualcuno per danneggiare l’iniziativa dei giudici conservatori. Infatti ora, prima di arrivare al verdetto finale atteso tra un paio di mesi, ci sarà tutto il tempo per aizzare le piazze, per mobilitare i media e soprattutto per votare al Congresso una norma, già annunciata da Biden, che legittimi l’aborto in tutto il Paese, vanificando così un’eventuale pronuncia della Corte contro l’aborto.

Ma veniamo al contenuto della bozza, evidenziandone solo alcune parti per motivi di spazio. Innanzitutto il documento di certo non pecca in quanto a chiarezza: «Riteniamo […] che la Costituzione non attribuisca il diritto all’aborto. Roe e Casey devono essere annullate. È tempo di dare ascolto alla Costituzione e l’autorità di regolamentare l’aborto deve essere restituita al popolo e ai suoi rappresentanti eletti». Ciò a voler dire che, se anche la Corte buttasse nel cestino queste due sentenze, l’aborto non diventerebbe automaticamente reato in tutta la Nazione, ma “semplicemente” la sua disciplina verrebbe demandata ai parlamenti dei singoli stati, parlamenti che, ad oggi, hanno dovuto legiferare in materia rispettando i vincoli giuridici presenti nelle sentenze Roe e Casey. E quindi alcuni stati probabilmente continuerebbero a legittimare l’aborto pienamente, altri lo permetterebbero ma prevedendo alcuni vincoli e altri ancora, forse, lo vieterebbero in toto.

Nel testo della bozza si possono sottolineare anche altre affermazioni dinamitarde per il mainstream attuale: «Roe aveva terribilmente torto sin dall’inizio. Il suo ragionamento è stato eccezionalmente debole e la decisione ha avuto conseguenze dannose. E lungi dal portare a una soluzione nazionale sulla questione dell’aborto, Roe e Casey hanno acceso il dibattito e approfondito la divisione». Sul tema della divisione sociale provocata dalla legittimazione dell’aborto la bozza insiste ancora: «Roe non è certo riuscita a porre fine alla divisione sulla questione dell’aborto. Al contrario, Roe ha ‘infiammato’ una questione nazionale che è rimasta amaramente divisiva nell’ultimo mezzo secolo. […] L’incapacità di questa Corte di porre fine al dibattito sulla questione non avrebbe dovuto sorprendere. Questa Corte non può tendere ad una soluzione permanente di una polemica nazionale che genera rancori semplicemente dettando un accordo e dicendo al popolo di andare comunque avanti. Qualunque sia l’influenza che la Corte può avere sull’atteggiamento della gente, [questa influenza] deve derivare dalla forza delle nostre argomentazioni, non da un tentativo di esercitare il ‘crudo potere giudiziario’». Insomma, per Alito e i suoi colleghi, la Corte suprema che decise dei casi Roe e Casey impose la propria decisione ad un’intera Nazione non con la forza delle idee, ma con la forza dell’ideologia. E infatti un’altra critica riguarda l’irrigidimento della disciplina normativa statuale su questa materia provocata dalla Roe vs Wade: «Negli anni precedenti [a Roe v. Wade], circa un terzo degli Stati aveva liberalizzato le proprie leggi, ma Roe ha interrotto bruscamente quel processo politico. Ha imposto lo stesso regime fortemente restrittivo all’intera Nazione e ha di fatto demolito le leggi sull’aborto di ogni singolo Stato».

Alito poi insiste che il presunto diritto ad abortire non fa parte del portato culturale statunitense, né è presente nella tradizione giuridica americana: «la conclusione inevitabile è che il diritto all’aborto non è profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della Nazione», anche perché esiste «una tradizione ininterrotta di proibire penalmente l’aborto [… ] dai primi giorni della Common law fino al 1973. […] Fino all’ultima parte del 20° secolo, nella legge americana non c’era nessun puntello per avvalorare un diritto costituzionale ad abortire. Zero. Nessuno. Nessuna disposizione costituzionale statale aveva riconosciuto un tale diritto».

La bozza poi afferma giustamente che la distinzione presente in Roe vs Wade tra feto che può sopravvivere o non sopravvivere una volta nato «non ha senso». Ma proseguiamo: il parere, anticipando una possibile obiezione degli avversari, afferma che non è inusuale che la Corte sconfessi se stessa e ribalti certi orientamenti da lei assunti nel passato. Ed efficacemente cita alcuni propri pronunciamenti sulla segregazione razziale. Inoltre il giudice Alito tiene a precisare che non ci può essere fissismo giuridico da parte della Corte riguardo ad un tema su cui, in questi decenni, la sensibilità sociale è cambiata ed è cambiata in favore della vita: «La Corte ha mandato in cortocircuito il processo democratico, impedendo di parteciparvi ad un gran numero di americani che hanno dissentito in vari modi da Roe». Da qui la conclusione: «Roe e Casey rappresentano un errore che non può essere lasciato in piedi».

Il giudice Alito, inoltre, sa bene che questa decisione entrerà in rotta di collisione con il politicamente corretto: «Non possiamo permettere che le nostre decisioni siano influenzate da condizionamenti esterni come la preoccupazione per la reazione del pubblico al nostro lavoro. Non pretendiamo di sapere come reagirà il nostro sistema politico o la nostra società alla decisione odierna di annullare Roe e Casey . E anche se potessimo prevedere cosa accadrà, non ci potremmo permettere che questa conoscenza influenzi la nostra decisione».

La conclusione è chiarissima: «Riteniamo che Roe e Casey debbano essere annullate. La Costituzione non fa alcun riferimento all’aborto e nessun diritto del genere è implicitamente tutelato da alcuna disposizione costituzionale».

Questi sono solo alcuni estratti della bozza, composta da ben 93 pagine. Come accennato, la decisione definitiva arriverà tra circa due mesi e in questo lasso di tempo tutto potrà ancora accadere.

Le contraddizioni della Corte costituzionale in materia di eutanasia

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Come molti ben sapranno, la Corte costituzionale di recente ha bocciato il quesito referendario dei Radicali sull’abrogazione quasi totale dell’art. 579 cp che sanziona l’omicidio del consenziente. L’avvocato Filomena Gallo, storica leader dell’associazione radicale Luca Coscioni, subito dopo la sentenza ha messo in luce una contraddizione evidente che potremmo così esprimere: se noi abbiamo una Corte costituzionale che nel 2019 ha chiesto al Parlamento di legittimare il suicidio assistito, non si vede perché quella stessa Corte oggi ha buttato nel cestino le legittimazione dell’omicidio del consenziente. È su questa contraddizione che i Radicali puntano per far passare in futuro una norma che consenta l’eutanasia anche attraverso la modalità dell’omicidio del consenziente. E, purtroppo, hanno ragione a credere che una simile legge prima o poi passerà.

Infatti già oggi esistono le premesse per varare in futuro una normativa di tal specie. Da anni la giurisprudenza, tramite un’errata interpretazione di una parte dell’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), ha già sdoganato il suicidio tramite il rifiuto di trattamenti salvavita. Questo orientamento prevalente è stato fatto proprio dalla legge 219/17 che permette non solo il rifiuto di trattamenti salvavita da iniziare, ma anche di quelli già in essere tra cui quelli che, per essere interrotti, necessitano dell’intervento del medico (si configura quindi un primo caso legittimato di omicidio del consenziente). Inoltre la legge 219 permette di abusare delle terapie antalgiche per fini eutanasici. Terza premessa che ci porterà all’abrogazione parziale del reato di omicidio del consenziente: come accennato la Consulta a più riprese chiese al Parlamento di varare una norma che legittimasse il suicidio assistito, cosa che sta avvenendo con il disegno di legge Bazoli-Provenza.

Dunque se già abbiamo e stiamo già avendo normative eutanasiche non si vede il motivo per cui dovremmo scampare alla legittimazione dell’omicidio del consenziente. Accettato il principio dell’assassinio o del suicidio per motivi pietistici (non per motivi pietosi, perché la pietà è altra cosa dal pietismo), si devono accettare tutte le modalità di attuazione di questo stesso principio. Permettere solo alcune modalità – suicidio solo tramite il rifiuto di trattamenti salvavita o tramite preparato letale, assassinio solo per mezzo dell’interruzione di presidi vitali o per mezzo di oppiacei – apparirebbe irragionevole, contraddittorio.

È ciò che è accaduto puntualmente ad esempio con la legge sull’aborto, sulla fecondazione artificiale e sul divorzio. Accettare il principio che si può uccidere il bambino nel ventre della madre ha portato non solo all’accettazione dell’aborto chirurgico, ma anche a quello chimico, semplicemente perché l’aborto in pillole configura una diversa applicazione dello stesso principio. Accettare il principio che si può produrre un bambino in provetta ha portato all’accettazione non solo delle tecniche di fecondazione extracorporea omologa, ma anche a quelle eterologhe, all’abbattimento del limite di tre embrioni per ogni ciclo, all’accesso a queste tecniche anche di coppie fertili (e in futuro alla legittimazione dell’utero in affitto), perché tutte modalità di applicazione del medesimo principio. Accettare il principio che si può sciogliere il vincolo matrimoniale (questo l’intento, perché poi nella realtà i matrimoni validi rimangono indissolubili) ha portato a restringere il tempo per chiedere separazione e divorzio perché mera e differente declinazione di quello stesso principio. Dunque l’accettazione di un certo principio porta all’espansione di quello stesso principio tramite modalità sempre più numerose e differenti.

Proviamo a tradurre queste riflessioni in termini propri della filosofia del diritto ed in altri attinenti alla storia del diritto. La ratio di una legge chiede di perfezionarsi, perché la natura di qualsiasi ens, legge compresa, tende al suo perfezionamento. Se infatti la natura è fine, la natura di una legge tenderà ad essere sempre più se stessa, ad attualizzarsi sempre più conformemente alla propria forma giuridica. Questo comporterà che la sua ratio esigerà di trovare sempre nuovi modi per incarnarsi, esigerà una sua progressiva espansione. Ecco perché – e così transitiamo alla seconda riflessione ora di carattere storico-giuridico – i paletti che molti parlamentari hanno tentato di inserire nell’articolato di una legge ingiusta al fine di limitarne l’iniquità sono saltati tutti, proprio perché erano in contraddizione con la ratio medesima della legge la quale nel suo intrinseco dinamismo ha portato all’eliminazione di qualsiasi barriera contenitiva. È come mettere in una gabbia fatta di balsa un feroce leone: la natura del leone porterà a distruggere queste fragili sbarre (ci eravamo occupati di questo argomento su queste stesse colonne circa un anno e mezzo fa).

E dunque la ratio eutanasica presente in alcune decisioni giurisprudenziali, nella legge 219 e nel ddl Bazoli-Provenza chiede di attuarsi, di concretarsi anche tramite l’omicidio del consenziente. Poiché, date le premesse non si possono che accettare le conseguenze, è necessario capovolgere i presupposti etici e giuridici che ispirano la Corte Costituzionale per avviare una reale difesa dell’ordine naturale violato o debolmente e incoerentemente difeso.

Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema di “suicidio assistito”

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PREMESSA: l’articolo è interessante e le critiche sono condivisibili. Il problema di fondo è che la rivista La Civiltà Cattolica e i gesuiti sono conciliari, quindi appartengono alla religione nata col Conciliabolo Vaticano II, che non fu un Concilio della Chiesa ma, appunto, un conciliabolo della Contro-Chiesa, che occupa i Sacri Palazzi. (n.d.r.)

Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Ha fatto molto parlare di sé l’articolo dal titolo La discussione parlamentare sul ‘suicidio assistito’ a firma di padre Carlo Casalone apparso sull’ultimo numero della rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica (Quaderno 4114, a. 2022, vol. I, pp. 143-156). L’articolo è problematico per più motivi, che in questa sede non possiamo analizzare in modo esaustivo, ma in primis perché appoggia il varo della proposta di legge dal titolo Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Ma procediamo con ordine esaminando gli aspetti più critici di questo articolo.

Casalone innanzitutto giudica positivamente la legge 219/2017: «Pur non mancando elementi problematici e ambigui, essa è frutto di un laborioso percorso, che ha consentito di raccordare una pluralità di posizioni divergenti». Dopo aver elencato le condotte legittimate dalla legge, Casalone conclude: «Il combinato disposto di questi elementi convalida la differenza, etica e giuridica, tra “lasciar morire” e “far morire”: il quadro delineato permette di operare rimanendo al di qua della soglia che distingue il primo dal secondo». Dunque secondo il gesuita la legge 219 non permetterebbe l’eutanasia. Ma le cose non stanno così. La legge permette la pratica dell’eutanasia omissiva e commissiva. In merito a quest’ultima tipologia la legge consente l’interruzione di terapie salvavita e di mezzi di sostentamento vitale quali l’idratazione e l’alimentazione assistite (tralasciamo qui per motivi di spazio la quaestio se tali mezzi possano configurare terapie, perché nulla muterebbe sul piano morale). Dunque consente l’uccisione di una persona innocente.

Passiamo ad un altro passo problematico dell’articolo: «Come la sentenza n. 242/2019, il testo riconosce non un diritto al suicidio, ma la facoltà di chiedere aiuto per compierlo, a certe condizioni». La sentenza a cui fa cenno Casalone è quella pronunciata dalla Corte costituzionale che ha legittimato l’aiuto al suicidio in presenza di alcune condizioni. L’attuale progetto di legge (Pdl) ricalca da vicino la struttura di questa sentenza. Ora c’è da dire che sia la sentenza che il Pdl attribuiscono un diritto all’aiuto al suicidio, non una mera facoltà. Sia la sentenza che la legge prevedono la necessaria e quindi doverosa realizzazione di alcune condotte in capo ai medici al verificarsi di alcune condizioni. Però nella sentenza, a differenza del Pdl, i medici possono astenersi dall’assumere queste condotte eccependo l’obiezione di coscienza: «Quanto, infine – si legge nella sentenza – al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (un altro errore dell’articolo è ritenere che nella sentenza non vi fosse presente l’obiezione di coscienza). Dunque se è presente l’obiezione di coscienza vuol dire che esiste, parallelamente, un obbligo verso cui eccepire questo istituto, altrimenti non avrebbe senso obiettare se, a monte, non ci fosse un dovere. E se c’è un dovere di eseguire X, vuol dire che in capo al paziente esiste un corrispettivo diritto di esigere X, diritto che se non verrà soddisfatto dal medico obiettore dovrà comunque essere soddisfatto da qualche altro medico. Dunque, come già accennato, sia nella sentenza che nel Pdl esiste il dovere di attuare la richiesta di assistenza al suicidio da parte del paziente, ma nella sentenza il medico può ricorrere all’obiezione di coscienza, nella legge non è presente questa possibilità. Ma anche laddove verrà inserita, l’aiuto al suicidio rimarrà comunque un diritto da riconoscersi in capo al paziente e la struttura ospedaliera dovrà trovare un medico non obiettore per soddisfare l’esercizio di questo diritto.

Veniamo ora ad un altro passo, forse il più significativo, che merita di essere censurato (tralasciandone altri, tra cui una sezione in cui pare fondarsi l’illeceità morale del suicidio in primis sul concetto di relazione, come se la persona originasse la sua dignità dalla relazione con gli altri). L’articolo così continua: «Non c’è dubbio che la legge in discussione, pur non trattando di eutanasia, diverga dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti. La valutazione di una legge dello Stato esige di considerare un insieme complesso di elementi in ordine al bene comune, come ricorda papa Francesco: “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte, lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società”». Dunque da una parte Casalone precisa che la ratio della legge è incompatibile con la dottrina cattolica, ma su altro fronte pare qualificarla come male minore frutto di un compromesso tra visioni differenti in senso alla società: un doveroso punto di equilibrio dato che viviamo in una società pluralista.

Perché male minore? Quali mali maggiori eviteremmo votando questa legge? Casalone ne indica più di uno. Il primo riguarderebbe un appoggio al referendum radicale sull’omicidio del consenziente: «La domanda che si pone è, in estrema sintesi, se di questo PdL occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. […] L’omissione di un intervento rischia fortemente di facilitare un esito più negativo». Il ragionamento (erroneo) è il seguente: affossiamo questa legge e verrà approvato il referendum radicale sull’omicidio del consenziente. Se invece l’appoggiamo, nel nostro ordinamento chi vorrà morire userà del suicidio assistito e non sentirà il bisogno di avere anche una legge sull’omicidio del consenziente. Le cose non stanno così. Innanzitutto si danno casi in cui la persona non può fisicamente darsi la morte (v. i tetraplegici) e quindi, per morire, chiederebbe che qualcuno la uccida (omicidio del consenziente). In secondo luogo e in modo più pregnante, appoggiare una legge sul suicidio assistito significa appoggiare anche una futura legge di matrice referendaria sull’omicidio del consenziente, perché la ratio è la medesima. Dire sì all’aiuto al suicidio significa dire sì alla possibilità di uccidere l’innocente, così come avviene nell’omicidio del consenziente. In altri termini, varare una legge sul suicidio assistito significa accettare il principio di disponibilità della vita. Accettato questo principio non si vede il motivo di rifiutare una legge sull’omicidio del consenziente che configurerebbe solo una diversa modalità di applicazione di questo stesso principio. In estrema sintesi: se sei a favore dell’aiuto al suicidio favorisci l’omicidio del consenziente.

Una breve riflessione su questa frase appena citata: “si possa cercare di renderla [la legge] meno problematica modificandone i termini più dannosi”. Una norma che legittima l’aiuto al suicidio sarebbe una norma intrinsecamente malvagia e mai potrebbe essere votata, perché legge ingiusta. Non è lecito votare una legge ingiusta – anche nel caso fosse “meno problematica [rispetto ad una versione precedente] modificandone i termini più dannosi” – perché votare a favore significa approvare e mai si può approvare l’ingiustizia, mai si può approvare il male, seppur minore, perché è comunque un male (sul punto mi permetto di rimandare a T. ScandroglioLegge ingiusta e male minore. Il voto ad una legge ingiusta al fine di limitare i danni, Phronesis, Palermo, 2020, testo in cui si analizza anche il n. 73 dell’Evangelium vitae, numero che erroneamente si chiama in causa in casi come questi per legittimare il voto ad una legge ingiusta).

Casalone poi così prosegue: “Tale tolleranza sarebbe motivata dalla funzione di argine di fronte a un eventuale danno più grave”. Tradotto: votare una legge meno ingiusta di un’altra, ossia votare una legge sul suicidio assistito meno iniqua rispetto a quella attualmente in esame in Parlamento, è atto di tolleranza. Errato: la tolleranza significa non volere direttamente un certo effetto – anche provocato da terzi – quindi sopportarlo, subirlo. Votare a favore di una legge ingiusta all’opposto significa volere direttamente questa legge ingiusta. Io posso lecitamente tollerare il male compiuto da un altro per un bene maggiore – ad esempio per evitare danni più gravi – ma quando sono io a compiere il male, seppur minore, è errato usare il verbo tollerare. Se uccido un innocente per salvarne 100, io non tollero l’assassinio di quella persona, io voglio l’assassinio di quella persona.

L’articolo di La Civiltà cattolica poi aggiunge: “Il principio tradizionale cui si potrebbe ricorrere è quello delle «leggi imperfette», impiegato dal Magistero anche a proposito dell’aborto procurato”. Non comprendiamo esattamente a cosa l’autore dell’articolo si riferisca quando collega l’espressione “leggi imperfette” all’aborto procurato, ma, nonostante ciò, possiamo dire che la locuzione “leggi imperfette” è spendibile solo per le leggi giuste che possono essere più giuste, ossia per le leggi perfettibili. La gradualità della perfezione è predicabile solo nell’ambito del bene, non del male. Una legge meno ingiusta di un’altra non è una legge migliore di un’altra, ma meno peggiore, non è una legge con un maggior grado di perfezione, non è una legge imperfetta.

Casalone così prosegue: «Per chi si trova in Parlamento, poi, occorre tener conto che, per un verso, sostenere questa legge corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo». L’illeceità del votare a favore questa legge prima di risiedere nella collaborazione formale all’aiuto al suicidio – la legge diviene strumento per compiere questa azione intrinsecamente malvagia – risiede nel voto stesso: votare a favore significa approvare e mai è lecito approvare l’ingiustizia.

L’articolo così continua: «Per altro verso, le condizioni culturali a livello internazionale spingono con forza nella direzione di scenari eticamente più problematici da presidiare con sapiente tenacia». Quindi un altro motivo per approvare questa legge sarebbe quello di giocare d’anticipo: in giro per il mondo alcuni Paesi hanno approvato o stanno approvando leggi sul suicidio gravemente ingiuste, noi facciamoci furbi e, votando una legge meno ingiusta, anticipiamo chi, qui in Italia, vorrebbe imitarli. In parole povere, compiamo noi oggi il male minore per evitare che altri compiano domani un male maggiore. Ma anche in questo caso vale un principio di base della morale naturale già ricordato: non si può compiere il male minore per evitare un male maggiore, perché pur sempre di male si tratta. Non si può compiere il male a fin di bene. Paolo VI nell’Humanae vitae scriveva: «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (14). Agire diversamente significherebbe scadere nell’utilitarismo, nel proporzionalismo.

Infine così il padre gesuita chiude l’articolo: «La latitanza del legislatore o il naufragio della PdL assesterebbero un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni, in un momento già critico. Pur nella concomitanza di valori difficili da conciliare, ci pare che non sia auspicabile sfuggire al peso della decisione affossando la legge». Un ulteriore danno che l’approvazione della legge permetterebbe di schivare sarebbe quello del vulnus alla credibilità delle istituzioni. In questo caso, addirittura il principio di proporzione proprio dell’utilitarismo non sarebbe rispettato: metteremmo sul piatto della bilancia le vite delle persone uccise con l’aiuto al suicidio e sull’altro piatto della bilancia la credibilità delle istituzioni. Persino il vero utilitarista non potrebbe che riconoscere che le vite umane valgono più della credibilità delle istituzioni.

In conclusione, l’articolo de La Civiltà Cattolica risulta gravemente erroneo sul piano dei principi della morale naturale e cattolica apparendo antitetico all’insegnamento del Magistero in tema di eutanasia e manifesta una ignoranza o perlomeno una pessima interpretazione delle sentenze e delle leggi richiamate nel medesimo articolo.

Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema
di “suicidio assistito”

“Clima” per imporre l’agenda abortista

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Segnalazione di Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Dal primo al 12 novembre si svolgerà a Glasgow la conferenza annuale dell’Onu sui cambiamenti climatici, chiamata Cop-26. Una coalizione di più di 60 organizzazioni pro-aborto ha scritto una lettera ad Alok Sharma, presidente della conferenza sul clima Cop26, chiedendo al Regno Unito di modificare i criteri di ammissibilità al finanziamento per il clima, che ammontano a ben 11,6 miliardi di sterline, facendo ricomprendere anche progetti per sovvenzionare la cosiddetta salute riproduttiva. In altre parole, le organizzazioni pro-choice chiedono che un po’ di soldi destinati al clima finiscano per finanziare aborto, contraccezione e sterilizzazione.

Prontamente un portavoce del Foreign, Commonwealth and Development Office ha dichiarato: «Il Regno Unito è un leader globale sia nell’uguaglianza di genere che nella lotta ai cambiamenti climatici. È evidente che sostenere le donne, anche attraverso la pianificazione familiare e l’istruzione delle ragazze, aiuta le comunità ad adattarsi e ad essere più resilienti ai cambiamenti climatici. Ecco perché ci stiamo assicurando che i nostri finanziamenti internazionali per il clima rispondano alle questioni di genere e stiamo usando la nostra presidenza Cop26 per invitare gli altri a fare lo stesso».

Bethan Cobley , direttore dell’organizzazione abortista MSI Reproductive Choices, ex Marie Stopes International, ha voluto precisare “che ciò che vogliono veramente” le comunità più colpite dall’emergenza climatica “è l’accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva, in modo che possano scegliere quando o se avere figli”. Sulla stessa frequenza d’onda la prof.ssa Susannah Mayhew, della London School of Hygiene & Tropical Medicine, la quale afferma che c’è una connessione tra clima e accesso alla contraccezione e aborto: «le persone che sono state colpite dai cambiamenti climatici e che hanno scarso accesso a servizi sanitari di qualità, comprendono tale connessione molto più di noi». Insomma pare proprio che milioni di donne africane vogliano abortire a causa del surriscaldamento del pianeta.

Ma dopo due occidentali, diamo la parola ad un africano, ad un addetto ai lavori: Obinuju Ekeocha, fondatore e presidente di Culture of Life Africa. Di fronte a queste argomentazioni Ekeocha ha così obiettato: «Se parliamo di aborto, beh, non credo che nessun paese occidentale abbia il diritto di pagare per gli aborti in un paese africano, soprattutto quando la maggior parte delle persone non vuole l’aborto… In tal caso, allora, diventerebbe una forma di colonizzazione ideologica». Ekeocha ha poi ricordato che i programmi di pianificazione familiare delle organizzazioni internazionali inviano in Africa circa 2 miliardi di preservativi all’anno, al costo di 17 milioni di dollari, denaro che potrebbe essere destinato all’accesso al cibo a prezzi accessibili, a fonti di acqua pulita, all’assistenza sanitaria e all’istruzione.

Di parere diverso è il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) che usa come pretesto il tema del cambiamento climatico per sdoganare l’aborto in tutto il mondo. L’UNFPA ha pubblicato un documento dal titolo “Cinque modi in cui il cambiamento climatico danneggia donne e ragazze”. Nel quinto modo si legge: «Come ha dimostrato il COVID-19, le emergenze deviano le risorse sanitarie per contrastare la minaccia sanitaria più recente e li distraggono dai servizi ritenuti meno essenziali. Le emergenze dovute ai cambiamenti climatici diventeranno più frequenti, il che significa che i servizi per la salute e per i diritti sessuali e riproduttivi potrebbero essere tra i primi a essere ridotti». Con agghiacciante candore il documento, ricordando la devastazione del ciclone Idai che colpì il Malawi nel 2019, riporta la testimonianza del dott. Treazer Masauli, che lavora presso l’ospedale del distretto di Mangochi: «Abbiamo dovuto utilizzare un elicottero per raggiungere aree non accessibili su strada per fornire servizi di salute sessuale e riproduttiva, come i preservativi, metodo di pianificazione familiare e per la prevenzione dell’HIV e delle malattie sessualmente trasmissibili». Il lettore ha capito bene: i soccorritori si sono alzati in volo in elicottero per distribuire preservativi agli abitanti che erano feriti, assetati, affamati, infreddoliti, che annaspavano nell’acqua, avevano la casa distrutta e piangevano i propri cari perché morti. Non portavano acqua, cibo, beni di prima necessità e medicinali, bensì preservativi e pillole abortive.

Il documento dell’UNFPA così prosegue: «I raccolti andati persi a causa del cambiamento climatico possono anche influenzare la salute sessuale e riproduttiva. Uno studio ha scoperto che dopo uno shock come l’insicurezza alimentare, le donne tanzaniane che lavoravano nell’agricoltura si sono rivolte al sesso transazionale per sopravvivere, il che ha contribuito a tassi più elevati di infezione da HIV/AIDS». Tradotto: le donne impoverite dai mancati raccolti dovuti ad un sedicente cambiamento climatico sono finite nella tratta internazionale della prostituzione. Da lì gravidanze indesiderate e malattie veneree. Conclusione: le donne, causa il clima che sta cambiando, hanno bisogno di aborto e contraccezione. Straordinari quelli dell’UNFPA: invece di preoccuparsi di trovare risorse per tamponare i danni provocati dai raccolti mancati, per incentivare le donne a rimanere in patria a lavorare e per disincentivare la tratta delle schiave del sesso, si preoccupano di fornire loro strumenti abortivi e contraccezione dato che si prostituiscono, finendo così per incentivare la prostituzione stessa dato che in tal modo diventerà più sicura per le donne.

Conclusione: il clima è solo un pretesto per diffondere ancor di più il credo abortista nel mondo.

Fonte: https://scholapalatina.lt.acemlna.com/Prod/link-tracker?redirectUrl=aHR0cHMlM0ElMkYlMkZ3d3cuY29ycmlzcG9uZGVuemFyb21hbmEuaXQlMkZjbGltYS1wZXItaW1wb3JyZS1sYWdlbmRhLWFib3J0aXN0YSUyRg==&sig=CYcpVyuf9jDZxWm6SfuKmirwpaT25gNe3Ln76XtG6QQM&iat=1634126750&a=650260475&account=scholapalatina%2Eactivehosted%2Ecom&email=WGByPjZY3AMGHbnlPw2cQTpxdzkQNl9LgdxZ9pnzLRY%3D&s=7fe708e192b517c76cb9155f667678b1&i=619A653A15A6238