Mediterraneo: epicentro del conflitto tra civiltà e barbarie atlantica

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Siamo alle soglie di un’epoca di transizione. La guerra tra USA e Russia in Ucraina, con la relativa crisi energetica, così come la pandemia, a cui ha fatto seguito l’incipit della quarta rivoluzione industriale e della transizione ambientale, sono eventi destinati a sconvolgere gli equilibri geopolitici preesistenti e con essi, il modello economico – politico neoliberista globale. L’area mediterranea, già emarginata nel contesto geopolitico mondiale, è destinata ad assumere un ruolo di protagonista nel futuro nuovo ordine mondiale multipolare, scaturito dal declino dell’unilateralismo americano.
Dopo la fine del bipolarismo della Guerra fredda, le sponde mediterranee del sud e dell’est, oltre ad essere sconvolte dalle guerre mediorientali e dai conflitti delle “primavere arabe”, sono divenute l’epicentro delle migrazioni di massa provenienti dall’Africa e dall’Asia. Il fenomeno migratorio è del tutto connaturato al modello di sviluppo neoliberista globale, che prevede la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Pertanto, le migrazioni di massa, comprese le tragedie del mare, sono eventi che si inseriscono in un contesto socio – economico mondiale, in cui i paesi più arretrati vengono deprivati delle migliori risorse umane necessarie al loro sviluppo e i paesi più avanzati importano masse di lavoratori a basso costo al fine di comprimere i salari e rendere più competitive le loro economie nel mercato globale.
Con l’avvento della UE, l’asimmetria economica, culturale e politica tra l’Europa del nord e quella del sud si è accentuata. Allo sviluppo del nord Europa, ha fatto riscontro il depauperamento e la subalternità dell’Europa mediterranea e all’accentuarsi del sottosviluppo dei paesi del Nord Africa. Si è dunque determinata una scala gerarchica dello sviluppo e del potere politico tra il nord e il sud europeo in base ai parametri del sistema economico neoliberista.
Del resto, in virtù del primato dell’asse franco – tedesco in Europa, la UE è sempre stata concepita come una unificazione che avesse il suo baricentro economico e politico nell’Europa carolingia, con relativa marginalizzazione dell’area mediterranea e dei suoi rapporti con il MENA (Medio Oriente – Nord Africa). L’Europa ha sempre denunciato una grave carenza di visione strategica, nel concepire il Mediterraneo un’area integrata nelle logiche ideologiche e strategiche dell’Occidente, prima nel bipolarismo tra Oriente e Occidente scaturito dalla Guerra fredda e in seguito all’interno della divaricazione tra il Nord capitalista e il Sud sottosviluppato del mondo, sancita dall’ordine mondiale unilateralista americano.
La guerra russo – ucraina ha inciso profondamente anche nei rapporti di supremazia interni all’Europa. Con la fine della interdipendenza economica ed energetica tra la UE e la Russia, la Nato ha assunto il controllo politico e strategico dell’Europa, con il declassamento della potenza tedesca e la devoluzione della leadership europea all’Anglosfera britannico – scandinava e dei paesi baltici, con la Polonia assurta a prima potenza militare europea. Il baricentro strategico dell’Europa si è spostato a nord est, con il declassamento del Mediterraneo ad area marginale europea, anche a seguito del disimpegno americano nel MENA.
I mutamenti strategici della Nato in chiave russofobica, potrebbero favorire una maggiore libertà di azione dei paesi dell’Europa mediterranea, nella prospettiva di fuoriuscita dalla condizione post storica di irrilevanza geopolitica in cui oggi appare confinata. La subalternità europea alla Nato è sempre stata funzionale ai disegni imperialisti americani di estendere il proprio dominio assoluto nel Mediterraneo, concepito come lago atlantico. Ben altra configurazione geopolitica esso è invece destinato ad assumere nell’incipiente mondo multipolare. Attraverso il Mediterraneo transita il 28% delle forniture di idrocarburi del mondo ed il “Mare nostrum” è divenuto lo snodo strategico per l’accesso al Mar Rosso e all’area dell’Indo – Pacifico.
Il Mediterraneo è dunque destinato ad assumere il ruolo geopolitico di Medioceano, come ben descritto da Salvo Ardizzone nel suo saggio “Medioceano e Medio Oriente: appunti per un teatro cruciale”: “Il Mediterraneo è sempre stato area di scambi, mare di commerci e traffici per eccellenza ma, da alcuni anni, è evoluto a Medioceano, bacino allargato alle coste atlantiche del Maghreb e della Penisola Iberica a Occidente, fino al Corno d’Africa attraverso il Mar Rosso a sud-est, connessione fra l’area indo-pacifica e l’Atlantico. Di recente amputato del Mar Nero e delle crescenti connessioni con la Russia e l’Asia Centrale dal conflitto ucraino ma, a seguito di esso, elevato ad area di confronto-scontro fra Unipolarismo egemonico e Multipolarismo”.
Il Mediterraneo sarà infatti un’area di confronto tra gli USA e le potenze emergenti del BRICS, da cui dipende anche il suo destino di lago atlantico o di Medioceano. L’Occidente ha concepito il Mediterraneo come l’area dello “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington, quale necessario conflitto per affermare il primato americano nel mondo. In realtà, il conflitto è assai più profondo e non è solo bellico, ma anche culturale ed esistenziale per i popoli dell’area: tra globalismo e sovranità degli stati, cosmopolitismo e identità dei popoli, tra individualismo e comunitarismo, tra materialismo e fedi religiose.

Il pluriverso mediterraneo scomparso

Il Mediterraneo evoca un insieme di tradizioni storico – culturali che sono parte integrante della nostra identità, una sensibilità, una estetica, una concezione della vita e dell’uomo quali valori unificanti dei popoli dell’area.
Le radici storiche della nostra civiltà hanno origine nell’area mediterranea. Il Mediterraneo fu certo teatro di guerre e contrapposizioni tra Islam e Cristianesimo, ma tuttavia fu anche epicentro del connubio tra civiltà diverse, di scambi commerciali e terreno di confronto culturale, religioso, scientifico. L’area mediterranea rappresentò un pluriverso di civiltà, il cui incontro / scontro contribuì alla evoluzione e all’arricchimento dei valori culturali e religiosi dei popoli. Affermò intorno al 1100 Fulcherio di Chartres, nella sua “Historia Hierosolymitana”: “Ora, noi che fummo occidentali, siamo diventati orientali. Chi fu latino o franco, in questa terra è diventato galileo o palestinese. Chi fu cittadino di Reims o di Chartres, ora è diventato cittadino di Tiro o di Antiochia. Ormai ci siamo dimenticati dei nostri luoghi natii: la maggior parte di noi non li ha mai visti, o addirittura mai sentiti nominare. C’è chi già possiede le proprie case e i propri servi come se fossero cose tramandategli in eredità, e c’è anche chi ha preso in moglie non una compatriota, ma una siriana, un’armena e talvolta addirittura una saracena”.
In questo mondo multietnico, aperto alla integrazione tra i popoli, si generò un processo di assimilazione tra due culture: quella islamica, erede delle culture greco – giudaiche e quella europea, dall’identità romano – cristiana. Questa moltitudine di popoli, civiltà, fedi religiose diverse e contrapposte, diede vita ad una particolare simbiosi identitaria identificabile con quel pluriverso mediterraneo, la cui memoria storica oggi è quasi scomparsa. L’era della globalizzazione ha ridotto il Mediterraneo ad una entità geografica, identificabile dalle masse dell’Occidente con le suggestioni virtuali orientalistiche e con l’immagine mediatica dei villaggi turistici.
La disgregazione del Mediterraneo ha origini lontane. Tra l’800 e il ‘900 il MENA fu oggetto delle conquiste coloniali europee e tale dominio si accentuò con la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Il processo di frantumazione del MENA si perpetuò anche in epoca post – coloniale, in concomitanza della Guerra fredda: la Turchia e i paesi del Golfo Persico furono integrati nell’Occidente americano, mentre Egitto, Libia, Siria e Algeria aderirono al blocco sovietico. Aggiungasi, che la fondazione dello stato di Israele generò uno stato di guerra permanente nell’area mediorientale.
Ma fu soprattutto la trasformazione della Nato da alleanza strategica difensiva ad apparato militare aggressivo a determinare un’insanabile frattura tra l’Occidente e il mondo islamico che coinvolse il Mediterraneo, le cui opposte sponde divennero teatro di un conflitto geopolitico ancora in corso. Il nuovo atlantismo si affermò sulla scorta di disegni strategici espansionisti americani su scala globale. Con gli attentati dell’11 settembre, gli USA intrapresero una strategia aggressiva di “guerra al terrorismo” che, oltre alle guerre “preventive” in Afghanistan e Iraq (a cui fecero seguito le aggressioni alla Libia e alla Siria), comportò un espansionismo politico ed economico che si estese anche all’area mediterranea. L’Europa, già emarginata nello status post – storico di irrilevanza geopolitica, divenne, con il moltiplicarsi delle basi Nato sul proprio territorio, una piattaforma strategica per l’espansionismo americano, estesosi, oltre che nel MENA, anche ai confini con la Russia, che, ritenendosi assediata e minacciata nella sua sicurezza dall’Occidente, ha poi invaso l’Ucraina.
Le “primavere arabe”, quale strategia della Nato volta alla destabilizzazione degli stati islamici del MENA, sono fallite. Anzi hanno costituito l’occasione propizia per l’inserimento di nuovi attori dalle mire espansionistiche nell’area mediterranea, quali la Turchia, la Russia, gli Emirati arabi. L’estromissione dell’Europa dall’area è ormai un dato di fatto. La sola Francia mantiene una presenza neocoloniale nei paesi del Sahel e parzialmente in quelli del Maghreb, sempre più osteggiata dai popoli dell’area e contrastata dall’espansionismo in Africa di Russia, Turchia e Cina.

Al disimpegno americano nel MENA, ha fatto riscontro la creazione di una nuova alleanza filoccidentale tra Israele e alcuni stati arabi in funzione anti iraniana, denominata “Patto di Abramo”. E’ stata costituita infatti, una nuova Nato mediorientale, in conformità del mutamento della strategia americana nella geopolitica mediorientale, che prevede l’implementazione di un dominio americano indiretto nel MENA. Questa nuova Nato mediorientale è comunque destinata a sfaldarsi, data la diversificazione delle strategie politiche delle potenze del MENA. Israele e la maggioranza dei paesi arabi sono contrari alle politiche sanzionatorie messe in atto dagli USA nei confronti della Russia e l’Arabia Saudita ha concluso rilevanti accordi economici con la Cina.
L’espansionismo americano concepisce il Mediterraneo come un lago atlantico. Ma il mondo multilaterale avanza. E potranno anche ricomporsi le fratture interne al Mediterraneo, a condizione però che l’Europa possa assumere un ruolo autonomo dalla Nato nell’area. Così si espresse Danilo Zolo al riguardo nel suo saggio “La questione mediterranea”: “Ma tutto questo può diventare possibile solo a un’ultima condizione: che l’Europa, ritrovate le sue radici mediterranee, si mostri capace di erigersi a soggetto internazionale, dotato di una forte identità culturale e politica e perciò libero dai vincoli dell’atlantismo e aperto alla collaborazione con il mondo islamico e al confronto con le potenze asiatiche emergenti. Queste sono le condizioni di un rilancio dell’unità, della originalità e della grandezza civile del Mediterraneo che possono essere ragionevolmente pensate come un’ <alternativa>”.

Il divario economico incolmabile tra l’Occidente e il MENA

Tra le sponde nord e sud del Mediterraneo esiste una evidente asimmetria economica e tecnologica. I paesi europei della sponda nord detengono l’80% del Pil complessivo dell’area mediterranea. E tale divario nello sviluppo ha costituito il pretesto per i progetti di colonizzazione economica del MENA da parte dell’Occidente. Il fenomeno migratorio ne è una tragica conseguenza. Il debito dei paesi arabi nei confronti della UE è aumentato a dismisura negli ultimi decenni.
Alla fine del XX° secolo fu avviato un programma di partenariato economico e per la politica di sicurezza tra la UE e i paesi del MENA, denominato “processo di Barcellona”. Tali accordi avrebbero dovuto condurre all’integrazione economica dell’area mediterranea, con la prospettiva di creare una Zona di libero scambio. Tuttavia tali progetti fallirono, data l’impossibilità per i paesi arabi, dalle economie troppo deboli, di sostenere la competitività con le economie dei paesi più avanzati della UE. Tali forme di cooperazione, nel contesto del sistema neoliberista globale si sono sempre rivelate un capestro i paesi sottosviluppati. Comportano inevitabilmente un indebitamento insostenibile e quindi l’imposizione da parte del FMI di manovre di aggiustamento strutturale che conducono fatalmente i paesi meno sviluppati al default.
Occorre inoltre rilevare che il MENA è afflitto anche dalla dipendenza alimentare dal nord del pianeta, che peraltro si è gravemente accentuata con la guerra russo – ucraina. La UE ha adottato da sempre politiche protezionistiche nel settore agricolo nei confronti del MENA. L’agricoltura dei paesi del sud europeo è da decenni falcidiata dalla concorrenza selvaggia del mercato mondiale, eppure, impone paradossalmente un regime protezionistico alle importazioni dal sud del Mediterraneo.
Il dialogo e la cooperazione tra i popoli del nord e del sud del mondo sono oggi impossibili, dato il differenziale di potenza economica e politica tra l’Occidente e gli stati sottosviluppati. Ma, con l’affermarsi del multilateralismo e la dedollarizzazione dell’economia mondiale, tale divario potrà senz’altro ridursi e il Mediterraneo, trasformatosi in Medioceano, potrebbe divenire assai determinate nella costituzione di un nuovo ordine mondiale. Solo infatti in un ordine multilaterale, in cui a tutti i popoli viene riconosciuta pari dignità, potrà esserci tra gli stati dialogo, cooperazione, pacificazione.

Decostruire il fondamentalismo atlantico

Le due sponde del Mediterraneo sono oggi separate da un abisso socio – culturale incolmabile. Il dialogo è reso impossibile dal fatto che l’Europa si identifica con i valori dell’Occidente. Pertanto, considerando l’Occidente l’incarnazione di valori universali e irrinunciabili, quali i diritti del’uomo, lo Stato di diritto, la liberaldemocrazia, il libero mercato globale, sulla base di tale primato, gli USA e la UE pretendono di imporre i propri valori ai paesi islamici, come a tutto il mondo. L’Occidente americano è dunque da considerarsi un nuovo eurocentrismo atlantico, che, quale civiltà superiore, si ritiene legittimato alla colonizzazione culturale, economica e politica del mondo islamico. In virtù della sua autoreferenza, l’Occidente americano impone al mondo il suo sistema ideologico – politico con sanzioni, propaganda mediatica e guerre umanitarie. Tra l’altro, l’Occidente americano vuole esportare con le armi un sistema democratico ormai degenerato in oligarchia finanziaria e tecnocratica e pertanto assai lontano dal modello originario della democrazia rappresentativa.
Tra le sponde del Mediterraneo è in atto da decenni un conflitto politico – ideologico in cui si contrappongono le modernità occidentale e i paesi islamici, la cui cultura si è rivelata incompatibile con il processo di globalizzazione cosmopolita e neoliberista imposto dall’unilateralismo americano. Anzi, la civiltà islamica si è rivelata un elemento di resistenza al dominio globale della superpotenza americana.
Due visioni del mondo in conflitto, che si rivelano inconciliabili in quanto gli USA sono una potenza geneticamente unilaterale, incapaci di concepire “l’altro da sé”. Un mondo composto da una molteplicità di culture e identità differenziate è per gli USA inconcepibile. All’ordine mondiale unipolare fondato sui diritti dell’uomo, dovrebbe subentrare un mondo multipolare basato sul primato dei diritti dei popoli. In un ordinamento in cui l’uomo, anziché essere considerato un’entità astratta, secondo i dettami dell’ideologia liberale, ma come in individuo appartenente e partecipe di una comunità strutturata su valori culturali, politici e religiosi identitari, potrebbero essere maggiormente tutelate le liberà individuali, i diritti delle minoranze e delle classi subalterne. Allo stesso modo, nel contesto geopolitico, il primato dei diritti dei popoli, conferirebbe pari dignità a tutti gli stati e pertanto si affermerebbe un ordine che garantisca la sovranità e l’indipendenza degli stati e salvaguardi le loro identità culturali, affrancando i popoli più deboli e meno sviluppati dalla schiavitù del debito, che costituisce oggi il principale strumento del dominio occidentale.
Nel Mediterraneo si sono scontrati due fondamentalismi contrapposti. Quello islamico è infatti un fenomeno sorto come reazione esasperata al fondamentalismo del mercato, dei diritti umani, del “destino manifesto”, quale valore identitario degli USA di origine veterotestamentaria. Occorre dunque che l’Europa decostruisca il fondamentalismo dei “valori occidentali” imposto dalla occupazione americana del secondo dopoguerra. Per istaurare un dialogo occorre che ad entrambi gli interlocutori venga riconosciuta pari dignità. Attraverso il dialogo con i popoli del MENA, l’Europa potrebbe ritrovare e riconoscere se stessa, riappropriandosi della propria memoria storica, riscoprire le sue radici identitarie (in primis il cristianesimo), le origini della sua cultura premoderna. Secondo quanto afferma Franco Cassano nel suo saggio “Necessità del Mediterraneo”: “Dal divieto dell’usura al forte rilievo dato ai doveri di assistenza agli altri membri della comunità, l’Islam può essere una sponda importante per decostruire un gioco che è alla base del fondamentalismo dell’Occidente, il solipsismo dell’individualismo radicale, l’apologia di un soggetto totalmente sradicato da qualsiasi legame sociale, un’idea della libertà sempre più anomica, costruita sul modello del consumatore più che su quello del cittadino”.
Dal dialogo con l’Europa gli stessi paesi islamici potrebbero ricavare idee e progetti per creare un modello di sviluppo e modernizzazione compatibile con la propria identità culturale onde far emancipare le loro società dalle attuali condizioni di arretratezza e sottosviluppo che hanno costituito un humus assai fertile per la proliferazione del fondamentalismo islamico.
L’Europa dovrebbe dunque effettuare una decostruzione del fondamentalismo americanista che ha determinato la dissoluzione progressiva della sua identità culturale. Ossia, dar luogo ad una rivoluzione culturale al suo interno, per assumere un ruolo da protagonista nell’era del mondo multipolare ormai alle porte. Il fondamentalismo atlantico è in una fase di declino irreversibile e la UE, mai esistita come entità geopolitica autonoma dalla Nato, è in via di progressiva dissoluzione. Così si esprime al riguardo Serge Latouche nel suo saggio “La voce e le vie di un mare dilaniato”: “Tuttavia, è proprio vero che l’Europa può rinnegare la sua progenie e sciogliere il legame di solidarietà con il “mostro” che essa stessa ha generato? A dispetto delle rivalità e degli antagonismi di ogni sorta, l’Europa resta profondamente complice e solidale con gli Stati Uniti. Per affermare e rafforzare la sua differenza, l’Europa dovrebbe ricollegarsi alle sue radici premoderne e precapitaliste, come la visione mediterranea, e ritrovare la sua parentela con il suo versante orientale e ortodosso che è sempre rimasto ai margini. Queste due Europe, del sud e dell’est, confinano con l’altro: il vicino, il medio, l’estremo Oriente e, soprattutto, confinano con il mondo musulmano nelle sue varianti turca, persiana, curda, mongola, berbera e araba. Gli scambi incessanti, anche violenti, e le complicità di ogni sorta hanno preservato sempre (o almeno per lungo tempo) queste parti d’Europa dall’autismo dell’Europa atlantica che sconfina nella dismisura americana”.
Questa Europa, oggi scristianizzata e ridotta a periferia atlantica, dovrà fuoriuscire dall’Occidente e, onde liberarsi dal dominio dell’Anglosfera oggi imperante nella UE, dovrà riscoprire la sua vocazione mediterranea per poi proiettarsi nel Medioceano.
Non si riscontrano tuttavia ad oggi segni premonitori di una possibile resurrezione dell’Europa dal baratro atlantico della post storia in cui è precipitata. Ma chi farà riemergere dall’oblio secolare il pluriverso mediterraneo?

Nota: I saggi di Danilo Zolo “La questione mediterranea”, di Franco Cassano “Necessità del Mediterraneo” e di Serge Latouche “La voce e le vie di un mare dilaniato” sono stati pubblicati nel libro di AA. VV. “L’alternativa mediterranea” a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo, Feltrinelli 2007.

Le sanzioni non funzionano. La Russia cresce più di Germania ed UK

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L’avevamo scritto e detto più volte: le sanzioni non funzionano, ma indeboliscono gli europei che le pagano…(n.d.r.)

Le stime per 2023 e 2024 del Fondo Monetario Internazionale

 

Lo dice il Fondo Monetario Internazionale. La Russia crescerà effettivamente più velocemente della Germania, Germania che, nell’immaginario collettivo, viene considerata la potenza economica dell’Europa. Gli analisti del FMI hanno pubblicato le previsioni secondo le quali nel corso di quest’anno l’economia russa crescerà più di quella tedesca, mentre quella britannica si contrarrà.

Le sanzioni non funzionano. La Russia cresce più di Germania ed UK

La Yellen, segretario al tesoro americano, aveva predetto la devastazione dell’economia russa. In tanti pensavano al crollo del Rublo. E invece?

Invece le sanzioni occidentali sembra non abbiano sortito gli effetti sperati, se non quelli di aver creato ancor più prolemi ai Paesi che le hanno pensate e messe in opera. Così i blocchi del gas, ora del petrolio, non hanno minimamente intaccato o quantomeno non lo hanno segnato, l’economia di Putin.

Anche i russi si aspettavano una crisi economica più profonda. Qualcuno pensava ad un calo del PIL  di oltre il 10% per il 2022, mentre invece ha chiuso al 2,2%. Gli analisti prevedevano un calo del pil 2023 del 2,5% mentre ora il FMI parla di crescita di almeno lo 0,3% un dato che è in linea con le nazioni europee, addirittura meglio in alcuni casi

Insomma, il crollo che ci si aspettava non c’è stato. Ma come mai?

La risposta inizia con due storie economiche distinte: la prima, su ciò che sta accadendo all’interno della Russia; e la seconda, sui legami della Russia con il mondo esterno.

Le sanzioni occidentali erano progettate per fare pressione su Mosca sia a livello nazionale che internazionale; l’idea era di “ostacolare” l’economia interna della Russia e le sue relazioni commerciali. Le restrizioni includevano misure per tagliare fuori la banca centrale russa dal sistema finanziario internazionale, bloccandone l’accesso a miliardi di dollari in attività estere, e per espellere il settore bancario privato del paese dal cosiddetto sistema SWIFT che le consentiva di effettuare transazioni con controparti globali.

La ricaduta è stata quasi immediata. I russi ordinari, preoccupati per i loro risparmi quando le notizie sulle sanzioni hanno fatto notizia, hanno fatto la fila fuori dagli sportelli automatici all’inizio di marzo, affrettandosi a ritirare tutto il denaro che potevano nel timore che le banche potessero crollare.

Ma le prove ora mostrano che la Russia ha sperimentato una sorta di ripresa interna nella seconda metà del 2022. E il paradosso è che la guerra stessa ha contribuito a guidare l’inversione di tendenza.

Mentre la spesa per vari altri programmi domestici è diminuita di circa un quarto e alcune industrie hanno subito enormi perdite , l’economia di guerra nazionale si è espansa notevolmente.  Ha più che compensato la differenza.

I picchi di produzione in tutto il settore della difesa hanno fatto sì che le statistiche complessive per l’industria russa non fossero così catastrofiche come ci si sarebbe potuto aspettare. Nonostante le sanzioni internazionali, la produzione industriale nei primi 10 mesi del 2022 è diminuita solo dello 0,1%. E ora dovrebbe crescere.

Se il quadro interno è stato sostenuto dalle spese di guerra, oltre i suoi confini la Russia ha continuato a commerciare relativamente liberamente, e per decine di miliardi di dollari, anche se le sanzioni hanno reso più difficile per le aziende russe fare affari con controparti straniere.

Ci sono due ragioni principali per questo: la capacità della Russia di convincere i principali partner commerciali a ignorare le sanzioni occidentali; e le vaste e varie risorse naturali della Russia.

La Russia continua a detenere posizioni dominanti nei mercati mondiali del petrolio e del gas. È anche il più grande esportatore mondiale di fertilizzanti. E per molti paesi, abbandonare improvvisamente le forniture russe si è rivelato troppo costoso, qualunque sia la loro opinione sulla guerra in Ucraina.

L‘India, ad esempio, ha notevolmente aumentato il suo consumo di petrolio russo. In effetti, si stima ora che l’India importi 1,2 milioni di barili di petrolio russo ogni mese, 33 volte i livelli visti un anno prima, secondo i dati di Bloomberg .

E poi la Turchia, continua a commerciare con Mosca. A dicembre, ad esempio, ha importato 213.000 barili di gasolio russo al giorno , il massimo almeno dal 2016.

Anche le importazioni in Russia si sono dimostrate più resilienti di quanto suggerirebbero i titoli sulle sanzioni, poiché Mosca approfondisce le sue relazioni con paesi come Cina e Turchia. Le importazioni in Russia dalla Turchia , ad esempio, a dicembre si sono attestate a nord di 1,3 miliardi di dollari, più del doppio rispetto ai livelli dell’anno precedente.

E nella stessa Europa, anche se il continente si affretta a porre fine alla sua dipendenza dall’energia russa, i leader hanno deciso che non potevano semplicemente chiudere il rubinetto allo scoppio della guerra. Il gruppo di campagna sul clima Europe Beyond Coal stima che, nonostante la guerra, i paesi dell’Unione Europea abbiano speso più di 150 miliardi di dollari – esatto, miliardi – in combustibili fossili russi dall’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.

Insomma,  quasi un anno dall’inizio della guerra, e nonostante un’azione senza precedenti da parte dell’Occidente, l’economia russa non è crollata affatto e nessun indicatore ci porta in quel contesto di negatività neanche nell’immediato futuro.

03 febbraio 2023  LEOPOLDO GASBARRO

Fonte: https://www.nicolaporro.it/economia-finanza/economia/le-sanzioni-non-funzionano-la-russia-cresce-piu-di-germania-ed-uk/

La sottile linea rossa: dopo Kabul la NATO non può permettersi di perdere anche Kiev

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di Pepe Escobar

Fonte: Come Don Chisciotte

Cominciamo con il Pipelineistan. Quasi sette anni fa, avevo mostrato come la Siria fosse l’ultima guerra del Pipelineistan.

Damasco aveva rifiutato il progetto – americano – di un gasdotto Qatar-Turchia, a vantaggio di Iran-Iraq-Siria (per il quale era stato firmato un memorandum d’intesa).

Ne era seguita una feroce e concertata campagna “Assad deve andarsene”: la guerra per procura come strada per il cambio di regime. La situazione era peggiorata esponenzialmente con la strumentalizzazione dell’ISIS – un altro capitolo della guerra del terrore (corsivo mio). La Russia aveva bloccato l’ISIS, impedendo così un cambio di regime a Damasco. Il gasdotto favorito dall’Impero del Caos aveva morso la polvere.

Ora l’Impero si è finalmente vendicato, facendo esplodere i gasdotti esistenti – Nord Stream (NS) e Nord Steam 2 (NS2) – che trasportavano o stavano per trasportare il gas russo ad un importante concorrente economico dell’Impero: l’UE.

Ormai sappiamo tutti che la condotta B di NS2 non è stata bombardata, né perforata, ed è pronta a partire. Riparare le altre tre linee danneggiate non sarebbe un problema: una questione di due mesi, secondo gli ingegneri navali. L’acciaio dei Nord Stream è più spesso di quello delle navi moderne. Gazprom si è offerta di ripararle, a patto che gli Europei si comportino da adulti e accettino severe condizioni di sicurezza.

Sappiamo tutti che questo non accadrà. Nulla di tutto ciò viene discusso dai media della NATO. Ciò significa che il Piano A dei soliti sospetti rimane in vigore: creare una voluta carenza di gas naturale che porti alla deindustrializzazione dell’Europa, il tutto come parte del Grande Reset, ribattezzato “La Grande Narrazione.”

Nel frattempo, il Muppet Show dell’UE sta discutendo il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia. La Svezia si rifiuta di condividere con la Russia i risultati della losca “indagine” intra-NATO su chi ha fatto esplodere i Nord Stream.

Alla Settimana dell’energia russa, il Presidente Putin ha riassunto i fatti.

L’Europa incolpa la Russia per l’affidabilità delle sue forniture energetiche, anche se riceveva l’intero volume acquistato in base a contratti fissi.

Gli “orchestratori degli attacchi terroristici del Nord Stream sono coloro che ne traggono profitto.”

La riparazione delle condotte del Nord Stream “avrebbe senso solo nel caso in cui ne fossero garantiti il funzionamento e la sicurezza.”

L’acquisto di gas sul mercato spot causerà una perdita di 300 miliardi di euro per l’Europa.

L’aumento dei prezzi dell’energia non è dovuto all’Operazione Militare Speciale (OMS), ma alle politiche dell’Occidente.

Tuttavia, lo spettacolo dei Dead Can Dance deve continuare. Mentre l’UE si vieta da sola di acquistare energia dalla Russia, l’eurocrazia di Bruxelles aumenta il suo debito con il casinò finanziario. I padroni imperiali ridono a crepapelle per questa forma di collettivismo, mentre continuano a trarre profitto utilizzando i mercati finanziari per saccheggiare e depredare intere nazioni.

Il che ci porta al punto cruciale: gli psicopatici straussiani/neo-conservatori che controllano la politica estera di Washington potrebbero – e la parola chiave è “potrebbero” – smettere di armare Kiev e avviare negoziati con Mosca solo dopo che i loro principali concorrenti industriali in Europa saranno falliti.

Ma anche questo non sarebbe sufficiente, perché uno dei principali mandati “invisibili” della NATO è quello di capitalizzare, con qualsiasi mezzo, le risorse alimentari della steppa pontico-caspica: stiamo parlando di 1 milione di km2 di produzione alimentare, dalla Bulgaria fino alla Russia.

Judo a Kharkov

La SMO si è rapidamente trasformata in una CTO (Counter-Terrorist Operation) “soft”, anche senza un annuncio ufficiale. L’approccio senza fronzoli del nuovo comandante generale con piena carta bianca dal Cremlino, il generale Surovikin, alias “Armageddon,” parla da sé.

Non c’è assolutamente nulla che indichi una sconfitta russa lungo gli oltre 1.000 km del fronte. La ritirata da Kharkov potrebbe essere stata un colpo da maestro: la prima fase di una mossa di judo che, ammantata di legalità, si è sviluppata in pieno dopo il bombardamento terroristico di Krymskiy Most – il ponte di Crimea.

Guardiamo alla ritirata da Kharkov come ad una trappola – come ad una finta dimostrazione di “debolezza” da parte di Mosca. Questo ha portato le forze di Kiev – in realtà i loro referenti della NATO – a gongolare per la “fuga” della Russia, ad abbandonare ogni cautela e a darsi da fare, avviando persino una spirale di terrore, dall’assassinio di Darya Dugina al tentativo di distruzione del Krymskiy Most.

In termini di opinione pubblica del Sud globale, è già stato stabilito che il Daily Morning Missile Show del generale Armageddon è una risposta legale (corsivo mio) ad uno Stato terrorista. Putin potrebbe aver sacrificato (solo per un po’) un pezzo della scacchiera – Kharkov: dopo tutto, il mandato dell’OMU non è quello di non perdere terreno, ma di smilitarizzare l’Ucraina.

Mosca ha persino vinto dopo Kharkov: tutto l’equipaggiamento militare ucraino accumulato nell’area è stato lanciato in continue offensive, con l’unico risultato di impegnare l’esercito russo in un tiro al bersaglio senza sosta.

E poi c’è il vero colpo di scena: Kharkov ha messo in moto una serie di mosse che hanno permesso a Putin di dare scacco matto, attraverso una CTO “soft”, ma pesante di missili, riducendo l’Occidente collettivo ad un branco di polli senza testa.

Parallelamente, i soliti sospetti continuano a girare senza sosta la loro nuova “narrativa” nucleare. Il Ministro degli Esteri Lavrov è stato costretto a ripetere ad nauseam che, secondo la dottrina nucleare russa, un attacco nucleare può avvenire solo in risposta ad un’offensiva “che metta in pericolo l’intera esistenza della Federazione Russa.”

L’obiettivo degli psicopatici assassini di Washington – nei loro sogni erotici – è quello di indurre Mosca ad usare le armi nucleari tattiche sul campo di battaglia. Questo è stato un altro fattore che aveva spinto ad affrettare i tempi dell’attacco terroristico al ponte di Crimea, dopo che i piani dell’intelligence britannica erano stati elaborati da mesi. Tutto ciò si è risolto in un nulla di fatto.

La macchina isterica della propaganda straussiana/neoconservatrice sta freneticamente, preventivamente, attaccando Putin: è “messo all’angolo,” sta “perdendo,” sta “diventando disperato” e quindi lancerà un’offensiva nucleare.

Non c’è da stupirsi che l’orologio del giorno del giudizio, creato dal Bulletin of the Atomic Scientists nel 1947, sia ora posizionato a soli 100 secondi dalla mezzanotte. Proprio “alle porte dell’Apocalisse.”

Ecco dove ci sta portando un gruppo di psicopatici americani.

La vita alle porte dell’Apocalisse

Mentre l’Impero del Caos, della Menzogna e del Saccheggio è pietrificato dal sorprendente doppio fallimento di un massiccio attacco economico/militare, Mosca si sta sistematicamente preparando per la prossima offensiva militare. Allo stato attuale, è chiaro che l’asse anglo-americano non negozierà. Non ci ha mai provato negli ultimi 8 anni e non ha intenzione di cambiare rotta adesso, nemmeno incitato da un coro angelico che va da Elon Musk a Papa Francesco.

Invece di fare come Tamerlano e accumulare una piramide di teschi ucraini, Putin ha invocato eoni di pazienza taoista per evitare soluzioni militari. Il Terrore sul ponte di Crimea potrebbe aver cambiato le carte in tavola. Ma i guanti di velluto non sono stati tolti del tutto: La routine aerea quotidiana del generale Armageddon può ancora essere vista come un avvertimento – relativamente educato. Anche nel suo ultimo, storico discorso, che conteneva un duro atto d’accusa contro l’Occidente, Putin ha chiarito di essere sempre aperto ai negoziati.

Tuttavia, Putin e il Consiglio di Sicurezza sanno bene perché gli Americani non possono negoziare. L’Ucraina sarà anche solo una pedina del loro gioco, ma è pur sempre uno dei nodi geopolitici chiave dell’Eurasia: chi la controlla, gode di una maggiore profondità strategica.

I Russi sanno bene che i soliti sospetti sono ossessionati dall’idea di mandare all’aria il complesso processo di integrazione dell’Eurasia, a partire dalla BRI cinese. Non c’è da stupirsi che importanti istanze di potere a Pechino siano “a disagio” con la guerra. Perché questo è molto negativo per gli affari tra la Cina e l’Europa attraverso diversi corridoi trans-eurasiatici.

Putin e il Consiglio di Sicurezza russo sanno anche che la NATO ha abbandonato l’Afghanistan – un fallimento assolutamente miserabile – per puntare tutto sull’Ucraina. Quindi, perdere sia Kabul che Kiev sarebbe il colpo mortale definitivo: ciò significherebbe lasciare il XXI secolo eurasiatico tutto a favore del partenariato strategico Russia-Cina-Iran.

I sabotaggi – dai Nord Streams al Krymskiy Most – fanno capire il gioco della disperazione. Gli arsenali della NATO sono praticamente vuoti. Ciò che resta è una guerra del terrore: la sirianizzazione, anzi l’ISIS-izzazione del campo di battaglia. Gestita da una NATO cerebralmente morta, combattuta sul terreno da un’orda di carne da cannone con in più mercenari provenienti da almeno 34 nazioni.

Mosca potrebbe quindi essere costretta ad andare fino in fondo – come ha rivelato il sempre freddo Dmitry Medvedev: ora si tratta di eliminare un regime terroristico, smantellare totalmente il suo apparato politico-sicurezza e poi facilitare l’emergere di un’entità diversa. E se la NATO continuerà a bloccarla, lo scontro diretto sarà inevitabile.

La sottile linea rossa della NATO è che non può permettersi di perdere sia Kabul che Kiev. Eppure ci sono voluti due attentati terroristici – in Pipelineistan e in Crimea – per imprimere una linea rossa molto più netta e bruciante: la Russia non permetterà all’Impero di controllare l’Ucraina, costi quel che costi. Questo è intrinsecamente legato al futuro del Partenariato della Grande Eurasia. Benvenuti nella vita alle porte dell’Apocalisse.

Fonte: www.strategic-culture.org
Link: https://strategic-culture.org/news/2022/10/12/the-thin-red-line-nato-cant-afford-to-lose-kabul-and-kiev/
Scelto e tradotto da Markus per www.comedonchisciotte.org

La Turchia (paese della NATO) bombarda i cristiani in Siria

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Chiesa assira distrutta dalle bombe turche nel nord-est della Siria
 
Colpito il villaggio di Tel Tamr, gravi danni alla chiesa di Mar Sawa, già nel mirino dell’Isis nel 2015. Danni anche alle abitazioni e alle infrastrutture dell’area. Vescovo accusa: violenze frutto delle “ambizioni espansionistiche” di Ankara che vuole “svuotare la regione dei cristiani”. 
 
Damasco (AsiaNews) – L’esercito turco ha colpito il villaggio cristiano assiro di Tel Tamr, nel governatorato siriano di Hassaké, nel nord-est in un’area a maggioranza curda, distruggendo una chiesa (nella foto). Già in passato le operazioni militari oltre-confine sferrate da Ankara contro i curdi – almeno questa la motivazione ufficiale – avevano causato vittime e danni anche fra i cristiani in Siria e Iraq. Uno degli ultimi episodi risale ad aprile, quanto un raid lanciato nell’ambito dell’operazione di primavera “Claw Lock” ha causato una vittima fra i cristiani [un assiro di 26 anni di nome Zaya] e la distruzione di case e chiese. Ed è forte il timore che le politiche del presidente turco Recep Tayyip Erdogan possano provocare ulteriori danni e devastazioni. 
 
Attivisti e pagine social hanno rilanciato immagini e video dell’ultimo attacco contro i cristiani in Siria da parte dell’esercito turco, avvenuto il 30 maggio scorso nel silenzio dei media e della comunità internazionale. Secondo alcune testimonianze, le forze turche e fazioni siriane vicine ad Ankara del Syrian National Army (Sna) hanno colpito il villaggio di Tel Tamr, causando danni materiale alla chiesa di Mar Sawa, già nel 2015 colpita dai miliziani dello Stato islamico (SI, ex Isis) durante il sequestro di 250 cristiani dai villaggi di Khabur. 
 
Alcune fonti locali parlano di pesanti danni alle abitazioni, investite dal “bombardamento indiscriminato”. Colpita anche la rete elettrica della zona, oltre alla vegetazione e alle strade, alcune delle quali impraticabili. Mar Maurice Amseeh, arcivescovo siro-ortodosso di Jazira e dell’Eufrate, definisce le operazioni turche frutto di un “ambizioni espansioniste” oltre il confine, con lo “scopo” di “svuotare la regione dei cristiani”. Egli ha lanciato un appello perché le chiese – e i luoghi di culto in generale – siano risparmiami dal conflitto. 
 
Nel nord-est della Siria, nell’area che confina con Turchia e Iraq, si è registrato negli ultimi anni un progressivo svuotamento della componente cristiana, causato dalle violenze dei jihadisti dell’Isis prima e dall’esercito turco oggi. Le campagne di Tel Tamr, meglio noto come il bacino di Khabur, un tempo accoglievano più di 12mila persone distribuite su 32 villaggi. Secondo le stime attuali il numero è calato a circa un migliaio di persone. In queste settimane l’area è oggetto di pesanti e quotidiani bombardamenti dei turchi, che hanno alimentato ancor più il panico fra i residenti.
 
L’escalation militare giunge in un periodo di crescente malcontento tra i turchi per l’impennata del tasso di inflazione e l’aumento dei prezzi, in particolare per vitto e alloggio. Una operazione di primavera, come avvenuto in passato, era ampiamente preventivata anche dagli stessi membri del Pkk (il Partito curdo dei lavoratori), ma la sua portata è vista da molti come un tentativo di Erdogan – unito all’attivismo sul piano internazionale – di distrarre l’opinione pubblica dalle crescenti difficoltà economiche interne. Altri ancora pensano sia un modo per alimentare malanimo verso i curdi e il partito democratico filo-curdo Hdp, che lotta in questa fase contro una possibile chiusura per l’accusa di (presunti) legami col Pkk. In una nota un portavoce definisce “ipocrita” lanciare una offensiva contro civili nel Kurdistan mentre Ankara vuole mediare da protagonista la pace fra Mosca e Kiev, per guadagnare consenso interno e internazionale. 
 
 

Siria: dopo la guerra e le sanzioni, ora la siccità (provocata dalla Turchia)

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Segnaliamo un articolo sulla siccità che colpisce la parte settentrionale della Siria. L’articolista indica tra le cause i “cambiamenti climatici” e accenna solamente al sistema di dighe volute dalla Turchia per il controllo delle risorse idriche. La nota introduttiva del blog Ora pro Siria invece parla chiaramente delle responsabilità turche. Le conseguenze ricadono drammaticamente sul popolo siriano (e non solo sui Curdi), già duramente provato dalla guerra e dalle sanzioni volute in entrambi i casi da potenze straniere.
 
Il fiume Eufrate in secca, il disastro incombe sulla Siria
 
L’accusa rivolta alla Turchia apparsa ieri su France Culture : “Per molti anni i turchi hanno costruito dighe che consentono loro di controllare il flusso che scorre a valle. Negli ultimi mesi hanno ridotto di circa l’80% il volume d’acqua che normalmente arriva in Siria e del 50% dalle stazioni di pompaggio di acqua dolce alla popolazione. “
 
Per millenni l’Eufrate ha costituito l’arteria vitale per le popolazioni della Mesopotamia occidentale, ha dissetato, irrigato campi, contribuito a creare civiltà e imperi. Ora si sta prosciugando inesorabilmente in alcuni suoi tratti e milioni di persone in Siria e in Iraq non hanno più acqua per bere e mandare avanti l’agricoltura e l’allevamento di bestiame.
 
I cambiamenti climatici, il ciclo delle siccità, le temperature sempre più alte stanno portando via tutte le forze al «Grande Fiume» biblico. La sua portata è ai minimi storici – 150/200 metri cubi d’acqua al secondo contro i 600 metri cubi del secolo scorso – e, tra i contadini siriani e iracheni delle pianure che attraversa, vi è un senso di disperazione e disarmo. Senza l’Eufrate, anche per loro non c’è più vita.
 
Particolarmente grave è la situazione in Siria, dove cinque milioni di persone dipendono totalmente dalle acque del fiume e dei suoi affluenti. Sono concentrate nel Nord-Est del Paese, un tempo considerato il «granaio siriano», trasformatosi poi in un campo di mattanza della guerra civile: da queste parti i miliziani del sedicente Stato islamico (l’Isis) hanno conquistato Raqqa, per poi lanciarsi nella marcia attraverso l’Iraq fino a Mosul, proclamata nel 2014 capitale del Califfato nero e ripresa solo nel 2017 da soldati iracheni e miliziani filo-iraniani, sostenuti in quell’occasione, anche dagli Stati Uniti. In Siria invece erano stati i curdi a guidare la controffensiva contro i seguaci dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi. … Molti sono pronti a scommettere che vi è un filo che lega i fatti della guerra di allora – in realtà mai terminata – ai problemi di oggi dell’Eufrate, non afflitto soltanto dai cambiamenti climatici.
 
Il fiume nasce dalle montagne circostanti l’Ararat e la Turchia ne controlla il flusso iniziale, attraverso un sistema di dighe e laghi artificiali, prima che il corso d’acqua passi in Siria e poi in Iraq, dove si unisce al Tigri per sfociare infine nel Golfo Persico. Il sospetto che Ankara abbia un po’ chiuso i rubinetti per assetare i nemici curdi – magari in vista di qualche nuova offensiva militare – esiste ed è dichiarato apertamente. Ankara nega qualsiasi responsabilità ed anzi si lamenta di soffrire degli stessi problemi di siccità.
Sta di fatto che le immagini dell’Eufrate trasmesse in questi giorni sono sconvolgenti, sebbene l’allarme sulla lenta agonia del grande corso d’acqua siano state lanciate da tempo. Le riprese televisive girate dall’alto, in territorio siriano, dall’emittente televisiva asiatica Wion-News mostrano quello che era uno dei più possenti fiumi dell’Asia occidentale (ed anche il più lungo con i suoi quasi 2.800 chilometri di percorso) ridotto in alcuni tratti ad un piccolo torrente che si apre a fatica la strada tra lastre di fango indurito e corrugato. Le case che, prima si trovavano sulla riva, compaiono incongruamente a chilometri di distanza dall’acqua, nel mezzo del nulla, circondate da un deserto di polvere.
 
Secondo i funzionari locali della Fao (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) il 75 per cento dei raccolti del 2021 è andato distrutto in Siria, con punte del 90 per cento. Ora è il tempo dell’aratura della terra e della semina e i contadini rimasti non sanno cosa fare: se indebitarsi ulteriormente per comprare semenze e fertilizzanti, rischiando di trovarsi nell’estate del 2022 senza nulla in mano, ancora più poveri, affamati e assetati di prima, o se andarsene anche loro, aggiungendosi a quella metà della popolazione siriana già sfollata all’interno o all’esterno della patria. La maggior parte ha già deciso e abbandonato la propria casa.
 
I villaggi – sempre dalle riprese della Wion-News – appaiono vuoti, tranne qualche famiglia sparpagliata qua e là. Si tratta di una terra dove un tempo abitavano molti cristiani. A Um Gharqan vi era, fino a inizio secolo, una comunità prospera che viveva di agricoltura e allevamento grazie alle acque del fiume Khabour, un affluente dell’Eufrate, famoso nel XX secolo per le sue inondazioni, ed ora completamente essiccato. «Giuro su Dio che era il Paradiso ed ora è diventato sinonimo d’inferno», spiega, in un servizio televisivo, una signora assiro-cristiana mentre indica un canale – diventato uno scolo dove si accumula l’immondizia – che prima portava l’acqua a campi di grano, di cotone, di orzo, a frutteti lussureggianti, a pascoli per gli animali. La donna mostra sul suo cellulare una vecchia foto della chiesa del villaggio, avvolta dal verde di alberi imponenti: la chiesa è stata distrutta nel 2014 dai miliziani dell’Isis, ed attorno alle macerie vi è ora un paesaggio lunare che si estende per chilometri fino all’orizzonte.
 
 
Foto: le cause (in Turchia) e gli effetti (in Siria e in Iraq)

L’alba di un nuovo Medio Oriente

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Segnalazione di Redazione Il Faro sul Mondo

di Salvo Ardizzone

Il radicale ribaltamento della situazione in Medio Oriente, già in corso da tempo e reso più celere dall’accordo sul nucleare iraniano, ha subito una nuova brusca accelerazione con la scesa in campo della Russia. Per comprendere la portata di eventi destinati a ridisegnare tutta l’area, ed avere ripercussioni globali, occorre fare un passo indietro alle radici degli equilibri di forza che hanno cristallizzato per un tempo lunghissimo quel quadrante a beneficio, più che di Stati, di centri di potere che ne hanno tratto utili immensi.

Il legame stretto che ha unito le enormi riserve energetiche del Golfo alle Major Usa del petrolio, ha determinato un interesse primario delle Amministrazioni che si sono succedute a Washington a tutelare quei petrostati, e più d’ogni altro l’Arabia Saudita. Un legame antico, reso “speciale” dai colossali interessi che ha coinvolto, creatosi oltre sessant’anni fa.

Allora, dopo aver espulso la tradizionale influenza inglese, tutta l’area era sotto il controllo Usa, che con un colpo di Stato, nel ’53, si erano liberati dallo scomodo primo ministro iraniano Mossadeq, reinsediando Reza Pahalavi e facendone il proprio gendarme nel Golfo.

Sembrava una situazione destinata a durare in eterno, ma la Rivoluzione Islamica del ’79 segnò la rottura di quegli equilibri consolidati, segnando la nascita di un forte polo di resistenza all’imperialismo Usa e di contrapposizione alla corrotta dinastia saudita.

Aggressioni in Medio Oriente

Gli eventi che nei decenni successivi si sono succeduti (l’aggressione dell’Iraq all’Iran, la prima e la seconda guerra del Golfo solo per rimanere ai più eclatanti), sono tutti figli del tentativo di mantenere l’assoggettamento dell’area da parte di Washington e Riyadh, eliminando l’unico vero ostacolo, appunto la Rivoluzione Islamica. E quando tutti sono falliti, si è pensato di colpirla con le sanzioni, per indebolirla e isolarla.

Ma la Storia non rimane ferma e le situazioni maturano: l’Amministrazione Obama, portatrice di interessi diversi da quelli dei centri di potere che sostenevano le precedenti, s’è mostrata assai meno incline ad assecondare Riyadh e le lobby ad essa legate. Per il Presidente americano il Medio Oriente era un pantano da cui gli Usa avevano ben poco da guadagnare e già nella campagna elettorale del 2007 si era dato l’obiettivo di districarsi da Iraq e Afghanistan.

Era ed è più che mai convinto che le sorti di potenza globale per gli Usa si decidano nel Pacifico, nella contrapposizione con la Cina. Praticamente una bestemmia per Riyadh, che ha visto nel progressivo allontanamento di Washington e nell’attenuarsi del suo ombrello protettivo un pericolo mortale, in questo pienamente accomunata da Tel Aviv.

Di qui le contromisure: scalzare Governi scomodi o comunque non allineati sostituendoli con altri manovrabili e spezzare quell’area di naturale collaborazione che si stava consolidando dall’Iran al Libano, attraverso Iraq e Siria. Ecco nascere il fenomeno delle “Primavere”, subito cavalcate e indirizzate; di qui il fiorire di conflitti per procura in quelle aree, sia per destabilizzare Stati considerati ostili o comunque non “amici”, che per suscitare zone di crisi in cui invischiare gli Usa impedendone il disimpegno.

Avvento delle Primavere

Ma le cose non sono andate così; dopo anni durissimi (ormai sta scorrendo il quinto), malgrado tutti gli sforzi per sviarla, la Storia ha continuato la sua strada. A parte il destino delle “Primavere”, che meritano un discorso tutto a parte, gli Stati sotto attacco non sono affatto caduti. Inoltre, presa in un pantano irrisolvibile e con in testa altre priorità, l’Amministrazione di Washington s’è mostrata sempre più svogliata nel sostenere il gioco via via più pesante dei suoi storici “alleati” locali: Arabia Saudita, appunto, ma anche Israele.

Quest’ultimo, con cieca arroganza e totale ottusità politica, non ha mancato occasione per scontrarsi con Obama (che, gli piacesse o no, era alla guida del suo tradizionale protettore d’oltre Atlantico) e compattare i suoi nemici, moltiplicando le provocazioni, le aggressioni, i crimini. Un insperato e stupefacente capolavoro politico per i suoi avversari.

È in questo clima che è maturato e ha preso il via l’accordo sul nucleare iraniano, evento di rilevanza storica perché infrange il muro dietro cui si voleva isolare Teheran, e per questo fino all’ultimo avversato invano da sauditi e israeliani.

L’accordo fortemente voluto da Washington non deve stupire. In esso non c’è nessuna resipiscenza per 40 anni di aggressioni ed ingiustizie, quanto il calcolo che l’Iran è indispensabile per la stabilizzazione del Medio Oriente, evitando il completo ed irreversibile collasso delle aree di crisi, come auspicato dagli “alleati” (Turchia, Arabia Saudita ed Israele), che le hanno create per spartirsene le spoglie. Nell’ottica dell’Amministrazione Obama, rinunciato ad un’egemonia Usa sulla regione (ormai impossibile), voleva però impedire che un’unica altra potenza la controlli.

Il disegno Usa in Medio Oriente

Da questo disegno discende tutta l’ambiguità e la contraddizione dell’operato Usa, soprattutto nei confronti dell’Isis, creato a tavolino per destabilizzare l’area e poi ingigantitosi e sfuggito al controllo. Washington sa bene che, spazzato via quel “nemico” tutt’altro che irresistibile (malgrado l’immagine che continuano a darne i media), si otterrebbe la stabilizzazione dell’Iraq ed a seguire della Siria; ma in questo modo si favorirebbe l’unità di un’area di collaborazione da Iran a Libano cementata ora da anni di lotte comuni; proprio quella che, quand’era ancora in embrione, è stata il bersaglio della destabilizzazione del Golfo.

Ed ecco la ridicola attività simbolica della coalizione internazionale a guida Usa che dovrebbe combatterlo, una forza che a volerlo avrebbe potuto incenerirlo in poche settimane, e che da più d’un anno fa poco o nulla. Di qui le resistenze a fornire ciò che serve all’Iraq per difendersi e il malumore nel constatare che quello Stato, un tempo un semplice vassallo, comincia a far da sé con gli aiuti (veri) di Teheran e di Mosca.

Ed ecco tutte le contraddittorie ambiguità sulla Siria, che è e resta il nodo dei problemi in Medio Oriente. In quel pantano sanguinoso, nella distorta logica avvalorata dai media, s’è giunti al paradosso di voler distinguere fra i tagliagole dell’Isis, cattivi perché sfuggiti al controllo di chi li manovrava, e quelli di Al-Nusra, ufficialmente affiliati ad Al-Qaeda ma “buoni” perché controllati da Riyadh. Secondo questa logica distorta, che Arabia Saudita, Turchia e Qatar, col pieno avallo e appoggio degli Usa, armino, finanzino ed aiutino in ogni modo bande di assassini ufficialmente prezzolati, perché destabilizzino uno Stato sovrano per poi spartirlo, sarebbe lecito quanto giusto.

Inserimento della Russia

Il fatto è che la posizione ambigua tenuta da Washington ha generato un colossale vuoto di potere, ed in quel vuoto s’è inserita la Russia, che è una storica alleata della Siria e di interessi in Medio Oriente ne ha eccome. La base navale di Tartus, i nuovi legami con l’Iran, il ruolo nella ricostruzione dell’area che diverrà il terminale della Via della Seta cinese, sono solo alcuni. Poi la possibilità di avere carte in mano da scambiare con Washington nell’altra area di crisi che a Mosca sta a cuore: l’Ucraina. Un intervento che ha sparigliato le carte, suscitando le inviperire reazioni di chi ha visto il proprio gioco irrimediabilmente compromesso, perché, in nome di un ulteriore paradosso sostenuto da tanti osservatori interessati, il fatto che un Governo legittimo sotto attacco chieda sostegno ad un alleato farebbe scandalo, quello che non c’è ad armare i terroristi che lo attaccano.

Sia come sia Putin ha rotto gli indugi e sta dando l’assistenza chiesta da Damasco. In buona sostanza sta fornendo cospicui aiuti militari e con l’aviazione sta colpendo le bande di assassini senza fare quelle distinzioni comprensibili solo alla luce degli interessi di chi la Siria voleva distruggerla per poi spartirsela.

L’intervento ha dato una fortissima accelerazione alla risoluzione delle crisi (peraltro già avviata); malgrado le strenue proteste dei sauditi e degli Stati nel loro libro paga (Francia in testa), non passerà molto che le famigerate bande del “califfo” verranno distrutte e con loro gli altri tagliagole che infestano Siria ed Iraq.

La completa sconfitta Usa

Anche Washington ha protestato con forza, ma nella realtà l’intervento di Putin ali Usa sta bene. Il Medio Oriente era già perduto per gli Usa e neanche considerato più prioritario; così i tempi sono stati solo accelerati. E piuttosto che esserne completamente esclusa, a Washington fa comodo che al centro ci sia la Russia, con cui ha molto da scambiare per la soluzione del problema ucraino e per le sanzioni inferte per la Crimea.

Per Riyadh è il crollo totale del disegno di mantenere potere e privilegi come sempre, in cui tanto aveva investito. È l’ennesimo fallimento che s’aggiunge a una pericolosa crisi finanziaria ed alla sciagurata aggressione allo Yemen, che si sta trasformando in un disastro; insieme potrebbero minare le stesse fondamenta del Regno.

La Turchia, frustrata nei sogni megalomani di Erdogan e con una guerra civile ritrovata con il Pkk che rischia di internazionalizzarsi, coinvolgendo le altre formazioni curde.

Israele è completamente solo, attorniato da nemici che lui stesso ha compattato; adesso può attendere solamente che la soluzione delle crisi che ha contribuito largamente ad attizzare indirizzi su di lui tutte le forze della Resistenza.

È un Medio Oriente allargato assai diverso che sta emergendo rapidamente. Un’area finalmente liberata da antichi imperialismi oppressivi: quello Usa, quello sionista e quello del Golfo. Un’area che dopo anni e anni di lotte sta conquistando il suo autonomo cammino di sviluppo.

In tutto questo spicca la totale assenza dell’Europa, che pure tanti interessi avrebbe ad essere presente, anche solo politicamente. L’ennesima dimostrazione d’inconsistenza, di pochezza e d’inutilità, di Istituzioni tali solo sulla carta. È l’ennesima manifestazione di totale sudditanza di Stati privi di sovranità o, più semplicemente, di una politica che non sia miope egoismo o totale asservimento.

Fonte: https://ilfarosulmondo.it/lalba-di-un-nuovo-medio-oriente/

Assad contro l’Europa: “Ha sostenuto il terrorismo”

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“Dobbiamo iniziare con una semplice domanda: chi ha creato questo problema? Perché ci sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: a causa del terrorismo sostenuto dall’Europa – e ovviamente dagli Stati Uniti, dalla Turchia e da altri – ma l’Europa è stata il principale attore nella creazione del caos in Siria. Quindi, quello che viene fatto torna indietro”. Il presidente siriano, Bashar al Assad, risponde così a una domanda di Monica Maggioni sulla questione migratoria che investe l’Europa e che è riconducibile alla crisi siriana. L’intervista è stata trasmessa sui canali social della presidenza siriana e in serata è stata disponibile su RaiPlay“. Continua a leggere

Il genocidio dei cristiani armeni riconosciuto dagli Usa, non senza polemiche turche e fake news

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L’EDITORIALE DEL VENERDI

di Matteo Orlando

La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha riconosciuto ilgenocidio armeno. Attraverso una votazione storica l’organo
rappresentativo nordamericano ha approvato una risoluzione che riconosce uno dei più gravi genocidi della storia, perpetrato dai musulmani turchi nei confronti dei cristiani armeni.
La risoluzione, approvata con 405 voti a favore e 11 contrari, prevede la “commemorazione del genocidio armeno” e “il rifiuto dei tentativi (…) di associare il governo degli Stati Uniti alla negazione del genocidio armeno”.
Il governo turco ha reagito con rabbia. Il ministro degli Esteri, Mevlut Çavusoglu, ha assicurato che “è una vendetta per aver rovinato i piani americani in Siria “. E ha aggiunto che “questa vergognosa decisione di sfruttare la storia per scopi politici è nulla per il nostro governo e il nostro popolo”. Il presidente-sultano turco Erdogan, da parte sua, ha affermato che “l’accusa è un grande insulto”.
Già nell’aprile 2015 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione che chiedeva alle autorità turche di riconoscere il genocidio armeno. Continua a leggere

Siria, siglato un accordo tra Assad e i curdi per respingere l’offensiva turca

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Le forze curde si sono accordate con la Russia per consentire all’esercito governativo siriano di entrare in due località chiave nel nordest della Siria per respingere l’offensiva turca in corso nell’area. L’intesa è stata raggiunta grazie alla mediazione di Mosca. Le truppe di Damasco sono pronte quindi a entrare a Manbij e a Ayn Arab (Kobane in curdo), rispettivamente a ovest e a est dell’Eufrate.

Da https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/siria-siglato-un-accordo-tra-assad-e-i-curdi-per-respingere-loffensiva-turca_9761873-201902a.shtml

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