Sistemi democratici, dall’Estremo al Vicino Oriente

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Israele come la Cina: riconoscimento facciale per il controllo dei palestinesi
 
L’esercito con la stella di David avrebbe promosso un programma di ampia portata basato sulle nuove tecnologie. I soldati armati di smartphone hanno scattato migliaia di fotografie, avviando una vera e propria gara interna. Per Breaking the Silence sono metodi di sorveglianza “altamente invasivi” che mostrano una “digitalizzazione” dell’occupazione. 
 
Gerusalemme (AsiaNews) – Un programma di ampia portata finalizzato all’identificazione dei palestinesi in Cisgiordania, con riconoscimento facciale e uso delle nuove tecnologie sul modello applicato da tempo dalla Cina, utilizzando il pattugliamento del territorio dei soldati. Secondo quanto emerge da una inchiesta approfondita del Washington Post i militari, armati non di fucile ma di telecamere, avrebbero scattato foto degli abitanti della cittadina di Hebron, lanciando una vera competizione per raccoglierne il più possibile. 
 
Il progetto è iniziato almeno due anni fa e si basa sull’utilizzo degli smartphone con sistemi di riconoscimento facciale e una tecnologia chiamata “Blue Wolf”, con raccolta di fotografie e dati incrociati con un database già presente negli archivi di Israele. L’applicazione, spiegano gli esperti, avvisa il soldato nel caso in cui gli individui debbano essere trattenuti in base alle informazioni preliminari disponibili su di loro.
 
Durante le fasi di creazione dell’archivio fotografico digitale, i soldati hanno fotografato migliaia di palestinesi, gareggiando fra loro sul numero delle immagini scattate ogni giorno. Un militare, interpellato dal quotidiano Usa dietro anonimato, spiega che l’unità alla quale apparteneva lo scorso anno aveva il compito specifico di “scattare il maggior numero di foto possibili” utilizzando vecchi smartphone dell’esercito. Secondo gli attivisti di Breaking the Silence (Bts), ong israeliana di ex militari e riservisti che denuncia quelli che considera abusi dello Stato ebraico nei Territori occupati, l’opera di schedatura poteva contare anche su un’ampia rete di telecamere per il riconoscimento facciale. Essa operava integrando il sistema a circuito chiuso noto come Hebron Smart City che, a detta di un ex militare, appare in grado di tracciare i palestinesi anche all’interno delle loro case.
 
La rete di sorveglianza include inoltre l’applicazione “White Wolf”, usata dai funzionari della sicurezza negli insediamenti in Cisgiordania per fornire informazioni e identificare i palestinesi prima del loro ingresso nelle colonie per motivi di lavoro. “Le persone si preoccupano delle impronte digitali – ha spiegato l’ex soldato al Post – ma questo sistema [digitale] è molto più elaborato e preoccupante”.
 
Secondo gli attivisti di Bts, il nuovo sistema utilizza metodi di sorveglianza “altamente invasivi” basati sulla tecnologia di riconoscimento facciale, per essere in grado di “monitorare i movimenti dei residenti palestinesi in tempo reale”. Queste rivelazioni sono solo l’ultimo esempio della “digitalizzazione” dell’occupazione. “Mentre qui in Israele, e in tutto il mondo occidentale, vi è un acceso dibattito sul grado in cui i governi sono autorizzati a usare la tecnologia per entrare nelle nostre vite – conclude la nota – quando si tratta di palestinesi, non vi è alcuna discussione”.
 
 

Pandora Papers e il Vicino Oriente

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Segnalazione Centro Studi Federici

L’articolo che segnaliamo riguarda il coinvolgimento di personaggi e organizzazioni del Vicino Oriente nello scandalo dei Pandora papers, tra cui l’organizzazione ebraica che mira a giudaizzare Gerusalemme est e in particolare il quartiere cristiano nella Città Vecchia (cfr https://www.centrostudifederici.org/gravissima-vicenda-minaccia-quartiere-cristiano-gerusalemme/ )
 
Escono nomi mediorientali dal vaso di Pandora
 
Nello scandalo dei Pandora papers, la nuova inchiesta giornalistica su migliaia di società che in tutto il mondo evadono il fisco nei paradisi fiscali, sono coinvolte figure di primo piano anche del Medio Oriente (e di Paesi al collasso).
 
Dall’enorme mole di documenti raccolti nell’inchiesta giornalistica chiamata Pandora Papers, svelata il 3 ottobre, stanno emergendo i nomi di personaggi celebri che hanno collocato i propri patrimoni al riparo dal fisco, nei circuiti dell’economia offshore. L’inchiesta è stata realizzata da un consorzio investigativo di 600 giornalisti che hanno raccolto informazioni di diverse società di servizi finanziari con base nei paradisi fiscali e rivela nomi e operazioni di centinaia tra uomini di Stato e politici, personaggi sportivi e artisti di ogni parte del mondo. Compreso il Medio Oriente.
Spicca tra questi il nome del re di Giordania, Abdallah II. Dai documenti risulta che il sovrano hashemita ha creato una rete di società extraterritoriali, «nascondendo» un impero immobiliare che va dalla California a Washington, a Londra. Dato che la Giordania sta attraversando una fase economicamente molto difficile e riceve ingenti aiuti internazionali, anche a sostegno dei molti rifugiati presenti nel Paese e per attenuare l’impatto della pandemia, le rivelazioni sulle ricchezze di re Abdallah non sono passate inosservate. La Casa reale ha dichiarato che le proprietà di lusso sono private e che non intaccano il bilancio pubblico del Paese. Negli elenchi dei Pandora Papers è in compagnia di altri regnanti del Golfo: dall’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, a Mohammed Al Maktoum, emiro di Dubai, oltre all’ex primo ministro del Bahrein, Khalifa Al Khalifa.
 
Più di 500 nomi israeliani
In Israele i riflettori sono puntati su Nir Barkat, il più ricco politico del parlamento israeliano (partito Likud), già sindaco per dieci anni di Gerusalemme fino al 2018. Dai documenti emerge che Barkat, una volta eletto membro della Knesset nel 2019, avrebbe dovuto vendere o cedere le proprietà a una persona estranea alla sua famiglia, secondo il codice etico del parlamento. Invece, i documenti rivelano che trasferì le azioni di diverse società al fratello Eli, oltre a svelare che è proprietario di azioni di una società non registrata in Israele, ma in un paradiso fiscale. Barkat ha dichiarato di essere vittima di attacchi politici e di avere sempre pagato le imposte dovute nel suo Paese.
Significativo il coinvolgimento nello scandalo anche di un’organizzazione dell’estrema destra religiosa, Ateret Cohanim, impegnata nella colonizzazione ebraica della parte orientale e palestinese di Gerusalemme. Risulta che, attraverso società di comodo registrate nelle Isole Vergini, ha acquistato proprietà immobiliari nei quartieri dove i palestinesi sotto occupazione non accettano quasi mai di trasferire ad israeliani le loro proprietà.
 
Scandalo libanese
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, globalmente la perdita fiscale causata da questi «paradisi» va dai 500 ai 600 miliardi di dollari all’anno. Una cifra enorme, sottratta ai sistemi fiscali di numerosi Paesi. Il caso più eclatante è quello del Libano, che, come Stato, sta affondando nei debiti, ha dichiarato default nel marzo 2020, ha visto crollare il valore della sua moneta e la maggior parte della popolazione finire sotto la soglia di povertà.
Risulta dai Pandora Papers che ben 346 società libanesi hanno occultato fondi su conti offshore, attraverso il Trident Trust, specializzato nelle domiciliazioni di società all’estero. Si tratta in assoluto del Paese al mondo con il maggior numero di imprese coinvolte. Sono perciò libanesi una parte considerevole degli 11 miliardi di dollari nascosti in paradisi fiscali come Cipro, le Seychelles e isole dei Caraibi.
 
Il neo primo ministro, Najib Mikati (musulmano sunnita), l’uomo più ricco del Libano grazie a società di telecomunicazioni, in carica da meno di un mese, è tra i personaggi coinvolti, insieme a Riad Salameh (cristiano maronita), da 28 anni a capo della Banca centrale libanese, all’ex primo ministro Hassane Diab e al banchiere Marwan Kheireddine. La società libanese è segnata più di altre da forti diseguaglianze: lo conferma un rapporto dell’Onu, secondo cui i miliardari detengono la stessa ricchezza del 62 per cento della popolazione. I primi ministri degli ultimi anni hanno fatto tutti parte di questa élite e l’immagine della classe dirigente del Paese dei cedri, già del tutto screditata, appare così ancora di più a pezzi. (f.p.)
 
 

Il Vicino Oriente sotto una cattiva stella

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Il blog oraprosiria ha segnalato un interessante articolo per comprendere meglio i retroscena della guerra alla Siria.
 
La ‘Grande Israele’: la guerra alla Siria come parte del processo di espansione territoriale israeliana.
 
Il seguente documento relativo alla formazione della “Grande Israele” costituisce la pietra angolare di potenti fazioni sioniste all’interno dell’attuale governo Netanyahu, del partito Likud, nonché all’interno dell’establishment militare e dell’intelligence israeliani .
Il presidente Donald Trump ha confermato senza mezzi termini il suo sostegno agli insediamenti illegali di Israele (ivi compresa la sua opposizione alla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, relativa all’illegalità degli insediamenti israeliani nella West Bank occupata). Inoltre, spostando l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme e permettendo l’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati e non solo, il presidente degli Stati Uniti ha fornito una approvazione di fatto del progetto “Greater Israel” (Grande Israele) come formulato nell’ambito del Piano Yinon.
Tenete a mente: questo progetto non è strettamente un progetto sionista per il Medio Oriente, esso è parte integrante della politica estera degli Stati Uniti, ovvero l’intento di Washington di fratturare e balcanizzare il Medio Oriente. La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele ha lo scopo di innescare l’instabilità politica in tutta la regione.
Secondo il padre fondatore del sionismo Theodore Herzl, “l’area dello Stato ebraico si estende: “Dal ruscello dell’Egitto fino all’Eufrate”. Secondo Rabbi Fischmann, “La Terra Promessa si estende dal fiume dell’Egitto (il Nilo) fino all’Eufrate, includendo parti della Siria e del Libano”.

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Rassegna stampa sulle scuole cristiane nel Vicino Oriente

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TERRA SANTA – Palestina, la religione cristiana entra fra le materie per la maturità scolastica
La decisione raggiunta dopo 13 anni di dibattiti. Approvato un testo ministeriale. A Betlemme, i ragazzi sono entusiasti. Prima la prova era solo interna, non riconosciuta a livello statale
Betlemme (AsiaNews) – Ai prossimi esami di maturità, gli studenti cristiani e musulmani affronteranno fianco a fianco una prova ognuno sulla propria religione. Per la prima volta, la religione cristiana è nelle materie ufficiali del “tawjihi”, l’esame finale per i ragazzi del liceo (12ma classe). Lo racconta fra Marwan Di’Des, francescano e direttore della Scuola di Terra Santa di Betlemme.  Nei Territori palestinesi l’anno scolastico è iniziato il 29 agosto (per la gioia dei più piccoli e il rammarico dei ragazzi del liceo, commenta ridendo fra Di’Des). Per il 2018-19, gli studenti cristiani dell’ultimo anno affronteranno una materia in più all’esame nazionale: “Educazione cristiana”. La decisione è il frutto di 13 anni di dibattito e lavori. Per la prova, il ministero palestinese dell’Istruzione ha approvato un libro di testo redatto con la collaborazione di tutte le chiese (“chiese”, ndr) in Palestina. Negli anni precedenti, l’esame riguardava solo l’islam, nonostante entrambe le religioni siano obbligatorie. “La questione è di giustizia sociale: se il ragazzo musulmano può fare un esame ufficiale, perché non il cristiano?”, commenta fra Di’Des. “È un grande risultato perché in Terra Santa siamo meno del 2%. Questa minoranza assoluta che riesce ad avere un esame statale per la propria religione è un successo importante. È anche il segno che l’Autorità riconosce il nostro ruolo pedagogico.” (…) L’eguaglianza fra ragazzi musulmani e cristiani è un tema vivo per la scuola di Betlemme, dove il 67% degli studenti è cristiano e il resto musulmano. (…)

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