IL DIVORZIO E’ LA VILTA’ DI COLUI CHE FUGGE DINANZI ALLE DIFFICOLTA’

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Segnalazione BastaBugie
La legge sul divorzio ha dato una facile via d’uscita da ogni responsabilità… ma con danni incalcolabili ai singoli e alla società nel suo complesso
di Pierfrancesco Nardini

«Al massimo puoi sempre divorziare». Questa frase sentita in un film la si prende come spunto perché, se ci si pensa, racchiude la sintesi dei tempi che viviamo sull’argomento matrimonio.
Il divorzio divenuto logica normalità della vita. Se ho sete, bevo. Se sono stanco, mi riposo. Se sono innamorato della mia fidanzata, mi sposo. Se va male, divorzio. Logico, no?
Il personaggio che dice questa frase (per incoraggiare lo sposo!) mica gli parla della giustezza della sua scelta, mica gli ricorda l’amore che ha per la sposa, mica gli rammenta i sogni da loro fatti nei mesi passati, no! Gli dice, in pratica, che tanto al massimo divorzieranno e si libereranno facilmente di qualsiasi problema…

RIMETTERE INSIEME I COCCI
È talmente normale pensare al divorzio come una soluzione che non ci si pone oramai più la domanda se si possano rimettere insieme i cocci, se si possa risolvere il problema.
È proprio vero che la possibilità del divorzio ha inciso sulla mentalità delle persone. Ha inciso, diciamo così, sul loro modo di pensare che è cambiato in modo inconscio. Immagazzinato il file, anche senza pensarci in modo consapevole, c’è questa spia nella mente che sempre più automaticamente fa pensare a questo, non si prende più in considerazione l’altra possibilità, quella di combattere per il proprio matrimonio, affrontando la crisi.
La presenza del divorzio, insomma, ha dato alle persone una facile via d’uscita che rende veloce e (s’illudono) indolore la fine di ogni problema.
È stato giustamente detto che, se una persona vive in una stanza e se l’arreda come più gli piace, ma ha una porta aperta che gli permette di uscirne quando vuole, al primo momento in cui questa stanza non gli piacerà più, uscirà subito, non proverà prima ad aggiustarla (cambiare colori alle pareti, i mobili, ecc…), come invece farebbe se la porta aperta (via d’uscita facile) non ci fosse. Questo vale per matrimonio e divorzio.
Qui non ci si sofferma sulla sempre maggiore superficialità delle relazioni ai giorni nostri, frutto di più cose, che si ripercuote però sui rapporti di coppia e sulla capacità di capire la profondità dei propri sentimenti. Quel che qui si vuol sottolineare è come oramai il divorzio sia entrato appieno nella normale e quotidiana prassi della vita, sia diventato qualcosa di comunemente accettato e abituale, tale da non esser più messo in discussione, ahinoi anche da molti che si dicono cattolici.

UNA CONVINZIONE NATA DALL’ABITUDINE
Se c’è qualcosa che è difficile scardinare dalla mente delle persone, è una convinzione nata dall’abitudine. Se, cioè, una persona si abitua a qualcosa nella propria vita, dopo qualche tempo, giusto o sbagliato che sia quel comportamento, la sua capacità di giudizio sul quella cosa è dominata dall’abitudine.
In conclusione leggiamo queste interessanti parole di Chesterton: “La prima cosa da dire su questi riformatori è che per loro il matrimonio è un discorso senza capo né coda. Non sanno cosa sia, o cosa significhi; essi non vi danno un’occhiata nemmeno quando vi ci si trovano dentro. Semplicemente si liberano della fatica più vicina (…) non hanno la minima idea di quanto sia vasta l’idea che stanno attaccando. (…). Non esiste forse peggior consiglio di quello di liberarsi dalla fatica più vicina (…) sarebbe a dire ‘rosicchia la prima cosa che ti capita a tiro’. L’uomo, come il topo, tende a scardinare ciò che non comprende e, dato che ha sbattuto contro un ostacolo, non importa che questo ostacolo sia il pilastro portante che sostiene il tetto sopra la sua testa (…). Ci accorgeremo di come la grande massa di uomini e donne moderni, che scrivono e parlano del matrimonio, stiano rosicchiandolo ciecamente come un esercito di topi. (…) I ratti sono sempre pronti ad abbandonare la nave che affonda: esiste una nave (fuor di metafora: la famiglia), grande o piccola non fa differenza, che non va abbandonata anche quando si pensa stia affondando. (…) Ogni filosofia dell’amore che non dia conto della sua ambizione di stabilità, come delle sue esperienze di fallimento, è destinata a fallire.”

Titolo originale: Il divorzio, ovvero la viltà che fugge dinanzi alle difficoltà
Fonte: I Tre Sentieri, 18 novembre 2022

IL GRANDE DANTE ALIGHIERI E LA MALAFEDE DI CHI LO VORREBBE CENSURARE

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di Matteo Castagna

Fanno riflettere le proposte di vietare lo studio di Dante nelle scuole, con il pretesto che il pensiero dantesco sarebbe omofobo, antisemita e persino islamofobo. È evidente che l’avversione per le opere dantesche celi qualcos’altro. Forse le parole di Dante danno fastidio perché scuotono ancora le coscienze, perché sollevano il velo dell’ipocrisia e dell’ignoranza, e perché si scagliano contro i falsi messaggi che attirano gli uomini con l’ingannevole prospettiva di farli essere pienamente liberi, ma dietro ai quali è in realtà occultato l’obiettivo di instillare nella società modelli di vita egoici e talora contrari alla natura umana.

Di fronte ai discorsi fatti da coloro che vorrebbero eliminare lo studio di Dante dai programmi scolastici (e questo vale in generale anche per tutte le valide espressioni della cultura) non è possibile reagire dicendo “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, perché quelle istanze ‒ che hanno il sapore di un moderno tentativo di censura ‒ vanno respinte con forza e al contempo devono sollecitare una profonda riflessione sull’omologazione di pensiero che da più parti si vorrebbe imporre. Gli attacchi alla cultura e soprattutto alle opere di alto valore morale, come insegna la storia, celano sempre obiettivi contrari alla legge divina e, per conseguenza, alla dignità umana. E, dunque, quale miglior conclusione lasciare a Dante, nel VII centenario dalla morte, come monito alla nostra gente: Avete il novo e l’l vecchio Testamento e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte… (V canto del Paradiso (74-81) )

Daniela Bianchini, del Centro Studi Livatino, analizza in maniera estremamente semplice e chiara la figura di Dante Alighieri, quale militante politico cattolico:

Egli puntò il dito con coraggio contro i mali della società, contro la degenerazione dei costumi e di una politica non orientata al bene comune, bensì al perseguimento di interessi personali. Attingendo alla morale naturale prima ancora che a quella cristiana, egli ebbe il merito di denunciare la corruzione dilagante, mostrandone le conseguenze infauste, in una visione comunitaria – di evidente ispirazione cristiana ‒ per cui la salvezza non può essere raggiunta attraverso un percorso solitario di redenzione, necessitando piuttosto dell’ impegno di tutti, nella consapevolezza della comune appartenenza a Dio, quali figli.

Nelle opere dantesche vi è l’esortazione a uscire dall’angusta prigione dell’egoismo per riscoprire la pienezza di una vita vissuta in pace e in armonia col prossimo, nell’interiorizzazione di quella che per i cristiani prende il nome di carità e che, per usare una categoria “laica”, è oggi più comunemente conosciuta come solidarietà. Dalle opere dell’Alighieri si coglie un aspetto rilevante della laicità: il suo stretto rapporto con l’impegno politico, a cui tutti i cristiani sono da Dio chiamati. Esso discende dall’essenza stessa del concetto di laicità, e nel corso dei secoli si è caricato di molti significati ed accezioni, non sempre correttamente riconducibili alle sue radici storiche. Nella visione dell’Alighieri, questo concetto viene sviluppato a partire dall’originario significato del termine, partendo dall’evangelico dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, ossia, da una parte, dalla necessaria distinzione fra la sfera temporale e quella spirituale e, dall’altra ‒ conseguentemente ‒ dalla limitazione dell’agire umano che, in quanto legato all’ambito temporale, non può superare certi confini. Esistono principi intoccabili del diritto naturale e divino che non possono essere oggetto di voto senza correre il rischio di sovvertire l’identità del popolo, che, in sè, è un atto inaccettabile. 

In Dante si trova la giusta consapevolezza che ogni uomo è peccatore e come tale è limitato e imperfetto: su queste basi si sviluppa il suo pensiero sul rapporto fra il potere temporale ed il potere spirituale, e sull’ importanza di non mostrarsi passivi – con un evidente richiamo al monito presente negli Atti degli Apostoli ‒ innanzi ai mali della società, come dimostra anche la condanna degli ignavi, di cui al canto III dell’Inferno (vv. 22-69).

L’Alighieri all’età di trent’anni iniziò la sua attività politica, caratterizzata dalla convinta difesa dell’autonomia comunale contro ogni tipo di ingerenza esterna. Egli ricoprì incarichi importanti, fu membro del Consiglio Speciale del Popolo, del Consiglio dei Savi per l’ elezione dei Priori e del Consiglio dei Cento (il più importante organo amministrativo del Comune), fino ad essere eletto Priore, la massima carica di governo della città. Tuttavia i suoi avversari politici, i Neri, per riprendere il potere in città lo accusarono ingiustamente di baratteria (per usare categorie attuali, di corruzione, truffa e peculato), e per questo egli subì due processi e fu condannato in contumacia.

Dante ha mostrato gli effetti disastrosi cui conduce una politica non incentrata sulla giustizia, destinata a decadere in demagogia. La mente corre a quella «nave sanza nocchiere in gran tempesta» del canto VI del Purgatorio (v. 76), che fa tuttora riflettere, dopo sette secoli, sui pericoli cui va incontro una società priva di una guida capace di governare nel rispetto di Dio, della libertà e dell’equità sociale. Egoismo, avidità, idolatria del potere e della ricchezza, sovvertimento dell’ordine naturale: sono questi i mali che finiscono con l’affliggere una società smarrita.

Laicità e partecipazione politica sono temi strettamente legati, come si ricava dall’episodio del tributo, dalla Lettera ai Romani o dalla Prima Lettera di Pietro, e interessanti spunti si ritrovano nella Divina Commedia.

Si pensi al canto III dell’Inferno, noto per il riferimento a colui che fece per viltade il gran rifiuto, espressione su cui molto è stato scritto, ma che in questa sede cede il passo agli altri protagonisti del canto: le anime degli ignavi, costrette, nell’applicazione di un rigoroso contrappasso, a inseguire un’insegna bianca priva di significato. Per queste anime, di cui nel mondo non è rimasto ricordo, Dante mostra un atteggiamento che va oltre il rimprovero e il disappunto morale, tanto che li colloca nell’Antinferno, non senza offrire al lettore un’esplicita motivazione. Gli ignavi, infatti, essendo vissuti sanza ‘nfamia e sanza lodo, insensibili a ogni forma di interesse politico o religioso, sono stati addirittura respinti dall’inferno, per timore che potessero diventare motivo di vanto e di compiacimento per gli altri dannati, così che, nel luogo loro assegnato dopo la morte, ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte (Inf.,III,v.48). Vien da chiedersi, oggi, quanti si siano definiti e definiscano “moderati” proprio perché, in realtà, ignavi?

Severo è dunque il giudizio dell’Alighieri per coloro che in vita si sono sottratti agli impegni e alle responsabilità naturalmente legate all’esistenza umana e al vivere sociale, disprezzando il grande dono del libero arbitrio fatto da Dio all’uomo quale più alta testimonianza del suo amore e della sua fedeltà.

Dante vede in una vita priva di slanci e di partecipazione, in una vita passiva incentrata sulla mera coltivazione dei propri interessi e del proprio comodo, il rifiuto e il disprezzo non solo di quel prezioso dono – fonte di tutte le libertà ‒ ma anche della stessa natura umana:fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, dirà poi Dante per bocca di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno (vv. 119-120); a insistere sul fatto che l’uomo, dotato da Dio di libertà e di ragione, è tenuto a vivere pienamente e a mettere a frutto quanto ricevuto.

Come Dante ha più volte ribadito, non bisogna abituarsi alla corruzione, alle ingiustizie, ai soprusi come se fossero accessori naturali del vivere sociale: l’uomo ha il diritto di essere felice e per fare questo deve combattere contro la cupidigia, ossia contro tutti quei vizi e quei mali che affliggono la società ed ostacolano il cammino verso la felicità terrena e, cosa più importante, verso la beatitudine celeste. Una società fondata sull’egoismo e sull’individualismo non può portare buoni frutti, non può garantire un sano sviluppo di tutti e di ciascuno, ma può soltanto contribuire ad accrescere separazione ed indifferenza, ossia i germi dell’odio e dei conflitti.

Dante ha avuto il coraggio di dire a voce alta che esistono dei confini invalicabili che l’uomo non deve superare e che ogni sua azione determina una conseguenza, nel bene o nel male.

La sua attualità è legata soprattutto alla trasmissione dell’universale messaggio di fede, onestà e di giustizia che zampilla dalle sue opere e in particolare dalla Divina Commedia. In un mondo, quale quello attuale, con particolare riferimento al panorama europeo, dove vi è la tendenza sempre più forte alla superficialità, al consumismo, all’individualismo, dove le quotidiane relazioni umane sono sempre più spesso sostituite dalle relazioni “virtuali” – a testimonianza, non di rado, dell’incapacità di entrare veramente in relazione con l’altro ‒ è importante, soprattutto per i più giovani, tornare a leggere pagine cariche di valori, di umanità, di esortazione a non perdersi dietro false felicità e di non rinchiudersi nella gabbia dell’egoismo, ma di coltivare il rispetto per l’altro, nel perseguimento della pace e della giustizia nella verità, per essere sempre inclusivi in essa, ma divisivi nei confronti degli errori e dei peccati.