Pensioni, nel 2024 quota 103 con alcune variabili

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Giulia Schiro

A partire da oggi, mercoledì 3 gennaio, i pensionati stanno ricevendo l’assegno di gennaio, che sarà più sostanzioso grazie alla rivalutazione legata a quella che viene comunemente definita inflazione prevista. In base ai calcoli dell’Istat, la percentuale di rivalutazione delle pensioni per il 2024 è stata fissata al 5,4%. Gli assegni conterranno anche l’adeguamento alle nuove aliquote Irpef in vigore appunto da questo mese.

Nel dettaglio, le pensioni pari o inferiori a 4 volte il minimo, cioè fino a 2.272,76 euro, saranno rivalutate del 100%, come stabilito nel decreto firmato dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e dalla ministra del lavoro Maria Elvira Calderone: l’aumento effettivo nel caso della rivalutazione piena sarà dunque pari al 5,4% dell’assegno. Se, ad esempio, la pensione è di 1.500 euro lordi mensili, moltiplicandoli per 5,4% si riceveranno 1.581 euro lordi al mese, quindi un aumento di 81 euro.

Per le pensioni più alte, invece, la percentuale scende man mano che aumenta l’importo.
Nello specifico, le pensioni da 4 a 5 volte il minimo, il cui assegno va da 2.271,76 a 2.839,70 euro, saranno rivalutate dell’85%. L’aumento effettivo in questo caso è di 4,59%. Ad esempio, una pensione di 2.500 euro, moltiplicata per 4,59%, diventerà di 2.614 euro, sempre lordi mensili, con un aumento di 114 euro.
Le pensioni da 5 a 6 volte il minimo, da 2.839,70 a 3.407,64 euro, avranno una rivalutazione del 53%, con un aumento pari al 2,862%. Esempio: pensione da 3.000 euro x 2,862% = 3.085,86, con un aumento di +85 euro.
Le pensioni da 6 a 8 volte il minimo, che variano da 3.407,64 a 4.543,52 euro, saranno rivalutate del 47%, con un aumento del 2,538%. Esempio pratico: pensione da 4.000 euro x 2,538% = 4.101,52 euro, con un aumento di 101 euro.
Le pensioni da 8 a 10 volte il minimo, da 4.543,52 a 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 37%, con un aumento pari al 1.998%. Esempio: una pensione da 5000 euro x 1,998% = 5.099,9 euro, quindi un assegno più ricco di quasi 100 euro.
E infine, le pensioni oltre 10 volte il minimo, con un assegno che supera i 5.679,40 euro, avranno una rivalutazione del 22%, con un aumento effettivo del 1,188%. Esempio: pensione da 6000 euro x 1,188% = 6.071, quindi 71 euro in più.
L’aliquota di quest’ultimo scaglione rappresenta la novità più rilevante riguardante la rivalutazione delle pensioni contenuta nella legge di bilancio 2024: per le pensioni di importo elevato, quindi esclusivamente per la classe di importo superiore a 10 volte il trattamento minimo Inps, viene fissata l’aliquota di rivalutazione del 22% invece che del 32% come nel 2023.

Come ogni anno, anche a fine 2024, l’inflazione attesa sarà confrontata con quella effettiva. Se, come avvenuto nel 2023, l’aumento del costo della vita reale dovesse essere diversa da quella prevista sarà versato un conguaglio (una tantum) nella pensione di gennaio 2025 pari alla differenza fra i due valori: se positiva ci saranno soldi in più, se negativa, purtroppo, soldi in meno.

La rivalutazione delle pensioni post rimodulazione aliquote Irpef

Un altro piccolo aumento nel 2024 arriverà grazie alla rimodulazione delle aliquote Irpef (passate da 4 a 3). La riforma Irpef avvantaggerà ovviamente anche i pensionati (al pari dei lavoratori), visto che l’imposta sul reddito delle persone fisiche viene corrisposta da chiunque abbia un reddito. In questo caso il calcolo è meno semplice, così come l’aumento relativo, perché si tratta sostanzialmente di un accorpamento dei primi due scaglioni. Non esisterà più la fascia 15.000-28.000 euro di reddito, che viene unita a quella fino ai 15.000 euro. Il nuovo schema è il seguente: prima fascia fino a 28.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 23% di Irpef; seconda fascia da 28.000 a 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 35% di Irpef; terza fascia al di sopra dei 50.000 euro di reddito lordo annuale, che verserà il 43% di Irpef.

Per chi ha un reddito annuo lordo di 25.000 euro, il vantaggio fiscale sarà di 200 euro annui e salirà a 260 per i redditi superiori a 28.000 euro. Per chi ha un reddito complessivo superiore a 50.000 euro dovrebbe essere previsto un taglio lineare alle detrazioni da 260 euro che dunque vanificherà (sopra questa soglia) gli effetti della riforma, mentre i lavoratori con un reddito sotto i 15.000 euro potrebbero beneficiare di un incremento delle detrazioni dei redditi da lavoro (da 1.880 euro a 1.955 euro).

Vie di uscita anticipata più strette nel 2024

Ma la nuova legge di Bilancio non incide solo sulla rivalutazione degli importi delle pensioni, ma anche sulle possibilità d’uscita anticipata, per cui il Governo Meloni ha stabilito una vera e propria stretta, tanto che, in base alle stime, si prevede un dimezzamento delle uscite con anticipi e scivoli.

Nel dettaglio, è stata confermata Quota 103 (composta da 62 anni di età e 41 di contributi) e, nel corso dell’anno appena cominciato, potranno lasciare il lavoro anche i nati nel ’62 che raggiungeranno i 62 anni, a condizione anche di conquistare i 41 anni di attività.
Ma i lavoratori di questa classe rischiano in larga maggioranza di dover attendere di fatto il 2025 per poter lasciare effettivamente il lavoro, perché le finestre mobili fanno slittare in avanti di 7 o 9 mesi (rispettivamente per i dipendenti privati e pubblici), rispetto ai 3 e 6 mesi previsti nel 2023, la conquista del primo assegno dal momento della maturazione dei requisiti.
Solo i lavoratori privati che raggiungono le condizioni richieste nei primi 5 mesi, o nei primi 3 mesi se pubblici, potranno uscire nell’anno. Non basta. Chi andrà via con questa formula dovrà accettare anche il calcolo interamente contributivo del trattamento e non più il sistema misto (retributivo per gli anni sino al 31 dicembre 1995 o al 31 dicembre 2011 se si avevano almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), con penalizzazione dell’importo anche fino al 20 per cento. I nati nel ’61, invece, sono potuti andare via fin dall’anno appena chiuso, perché i 62 anni richiesti li hanno già conquistati nei mesi scorsi. Ma se non dovessero aver raggiunto i 41 anni di contributi, anche per loro la prospettiva è quella dei nati nel ’62. E questo vale anche per le classi di età precedenti.
Inoltre, la misura del trattamento non potrà superare i 2.272 euro lordi mensili (quattro volte il trattamento minimo Inps) sino al compimento dell’età di 67 anni.

Con il 2024 entrano nell’area di accesso all’Ape sociale i nati del 1961 (oltre che quelli degli anni precedenti che si dovessero trovare in una delle situazioni previste dalla formula nel corso dell’anno appena cominciato), ma non tutti potranno utilizzare lo strumento. L’aumento del requisito dell’età da 63 a 63 anni e 5 mesi fa sì che potranno effettivamente chiedere l’Ape sociale i nati nel ’61 che compiono gli anni fino a luglio. I nati nei mesi successivi potranno conquistare l’assegno solo dal 2025. Riguarda, come nel passato, coloro che si trovano in condizioni di disagio: disoccupati, coloro che assistono familiari disabili, persone con invalidità pari almeno al 74% e chi, con 36 anni (o con 30) di contributi, svolge lavori gravosi (come, per esempio, operai edili, autisti di mezzi pesanti, badanti, infermieri ospedalieri, maestre d’asilo, macchinisti, addetti alle pulizie). Sono stati esclusi però gli appartenenti alle 23 ulteriori categorie di lavoratori che svolgono attività gravose inserite nel biennio 2022-2023, come i professori di scuola primaria, i tecnici della salute, le estetiste e via di seguito. E sono state cancellate le riduzioni contributive per edili e ceramisti.
Non basta: è stata introdotta l’incumulabilità totale della prestazione con i redditi di lavoro dipendente o autonomo a eccezione del lavoro occasionale entro un massimo di 5.000 euro annui. Resta fermo che l’assegno non potrà superare l’importo massimo fino a 1.500 euro lorde mensili, senza tredicesima e senza gli adeguamenti dovuti all’inflazione, fino alla pensione di vecchiaia a 67 anni.

Anche Opzione Donna subisce una nuova stretta: l’età minima sale da 60 a 61 anni, con uno sconto di un anno per figlio fino a un massimo di due. Dunque, potranno utilizzare la via di uscita (uscita anticipata ma pensione ricalcolata con il metodo contributivo, con una penalizzazione tra il 20 e il 25 per cento) le donne dipendenti e autonome con almeno 59 anni (se con due figli), 60 (se con un figlio) e 61 (senza figli) al 31 dicembre 2023, purché abbiano anche almeno 35 anni di contributi e rientrino in una delle seguenti categorie: invalide per almeno il 74%, disoccupate (licenziate o dipendenti di aziende in stato di crisi) o caregiver. Quest’ultime poi al momento della richiesta e da almeno sei mesi, devono dimostrare di assistere il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità. Per le lavoratrici dipendenti il posticipo dalla data di maturazione dei requisiti è di almeno 12 mesi.
Il risultato è che potranno utilizzare questa via d’uscita le lavoratrici che potevano utilizzarla anche nel 2023: le nate dal 1962 al 1964, con 59-61 anni a fine 2023. Dunque, la platea delle candidate sarà anche più ristretta di quella comunque limitata dell’anno passato.

Alla fine, il solo canale che è stato confermato in tutte le sue caratteristiche è il canale precoci che permette di andare in pensione anticipatamente con 41 anni di contributi ai lavoratori dipendenti e autonomi, che abbiano lavorato prima dei 19 anni per almeno 12 mesi. Potranno lasciare il lavoro coloro che, a prescindere dall’età anagrafica, abbiano cominciato a lavorare entro il 1983. Sempre che rientrino nelle categorie dell’Ape sociale.

Come riporta la relazione tecnica della legge di Bilancio 2024, l’anno prossimo dovrebbero accedere a Quota 103 circa 17 mila persone, a Opzione donna 2.200 e all’Ape sociale 12.500 per un totale di circa 31.200 uscite anticipate. Circa la metà rispetto alle 60 mila prospettate nel 2023.

Tassa sugli extraprofitti a rischio di incostituzionalità

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Segnalazione Wall Street Italia

di Valentina Magri
11 Settembre 2023 12:26

Si apre una settimana clou per la tassa sugli extraprofitti. A partire da domani, 12 settembre, inizieranno le audizioni in Parlamento per discutere eventuali modifiche alla tassa, contenuta nel decreto legge asset di agosto. Facciamo il punto.

Le audizioni sulla tassa sugli extraprofitti

Innanzitutto, ci saranno numerose audizioni alle Commissioni Ambiente e Industria del Senato nell’ambito dell’esame del decreto asset, a partire da mezzogiorno di domani. Sulla tassa sugli extraproditti interverranno Abi, Assopopolari e Federcasse. Tra gli auditi anche Ance, Asstra, Agens, Anav, Confetra, Confartigianato, Cna e i sindacati Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

La corsa agli emendamenti

Come annunciato da Giancarlo Giorgetti agli imprenditori riuniti a Cernobbio una settimana fa, la tassa sugli extraprofitti “migliorerà” e i cambiamenti sono già in via di definizione. Sempre questa settimana scadrà il termine per gli emendamenti al decreto asset.

Sul tavolo la proposta di Forza Italia, di cui si è fatto portavoce il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Quest’ultimo a fine agosto ha fatto notare che, per come è stata strutturata, la tassa sugli extraprofitti colpirà anche i rendimenti delle obbligazioni, comprese pertanto quelle governative. L’imposta indeducibile del 40% si aggiunge alla preesistente imposta del 26% sugli strumenti finanziari, che sono così soggetti a una doppia tassazione. In questo modo, lo Stato Italiano scoraggia le banche dall’acquistare i suoi titoli di Stato e comprende nella definizione di “extraprofitti” anche la remunerazione ai sottoscrittori delle sue obbligazioni, lasciando intendere che li paga troppo, quando quelli acquistati tempo fa, con i tassi vicini allo zero, avevano rendimenti molto bassi. Il ministro Tajani, intervistato sempre da “Il Sole 24 Ore”, si era detto preoccupato e aveva auspicato:

“Bisogna scrivere bene la norma affinché produca un effetto positivo sui conti dello Stato senza creare problemi al nostro sistema economico-finanziario e al bilancio dello Stato”.

In sostanza, Forza Italia punta a specificare chiaramente che la tassa sugli extraprofitti è una misura una tantum e non replicabile in futuro. Inoltre, intende escludere dalla tassazione i titoli di Stato nei portafogli delle banche e rendere deducibile la tassa al 50%. Infine, vuole che la tassa tenga conto delle specificità delle banche più piccole, che rischiano di essere penalizzate rispetto ai grandi colossi bancari.

I rischi di incostituzionalità della tassa sugli extraprofitti

Vi sono poi i dubbi dei tecnici del Senato su possibili rischi di costituzionalità, “in particolare con gli articoli 3 e 53, qualora non si tenga adeguatamente conto della effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi del prelievo o si creino distorsioni fiscali irragionevoli”.

Inoltre, i tecnici di Palazzo Madama mettono in dubbio se il margine d’interesse delle banche tassato sia un “idoneo indice di effettiva capacità contributiva”, paventando altresì il rischio di un’alterazione del nesso fra imposizione fiscale e capacità contributiva, fra l’altro nell’ambito della medesima categoria di contribuenti, con possibile sindacato negativo di costituzionalità”.

Qualora la norma che introduce la tassa sugli extraprofitti fosse dichiarata incostituzionale dopo che il Governo ha incassato e speso il relativo gettito, dovrebbe restituire i soldi alle banche, peggiorando i saldi.

Nessun problema lato costituzionalità invece per il carattere “straordinario” della tassa; la presenza di “circostanze che possono esser considerate eccezionali”; la “temporaneità” e la “finalità solidaristica” del prelievo che giustificherebbero una imposizione “soggettivamente differenziata”.

Infine, i tecnici mettono in guardia da un possibile effetto boomerang della tassazione sugli extraprofitti, per cui le banche potrebbero rivedere la loro politica dei tassi d’interesse per ridurre l’imposizione fiscale a loro carico, peggiorando sia il loro conto economico, che le entrate fiscali per lo Stato Italiano.

Pensioni 2024, il tema è sempre più caldo. Le nuove ipotesi

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Segnalazione Wall Street Italia

di Pierpaolo Molinengo
Pubblicato 21 Luglio 2023 • Aggiornato 22 Luglio 2023 08:29

Un tema caldo dell’estate continua ad essere quello delle pensioni e della riforma dell’intero sistema previdenziale italiano. Oggi come oggi, secondo l’ultima rilevazione dell’Istat (che è aggiornata al 31 gennaio 2021), in Italia sono presenti oltre 16 milioni di pensionati, che in un modo o nell’altro percepiscono complessivamente 23 milioni di euro.

Quando si parla di pensioni, è importante anche sottolineare che il nostro paese, in questo momento, è al centro di una congiuntura negativa, innescata dal sovrapporsi di tre diversi fattori:

  • la bassa natalità;
  • l’invecchiamento, anche lavorativo, della popolazione;
  • uno dei tassi più bassi di occupazione dell’Unione europea.

La particolare situazione che si è venuta a creare nel nostro paese ha fatto sì che crescesse la preoccupazione legata alla spesa previdenziale, che è destinata ad aumentare nel corso dei prossimi anni. Secondo una recente stima del Centro Studi di Unimpresa, il costo totale delle pensioni dovrebbe salire a quasi 318 miliardi nel 2023. Continuerà a crescere nel corso dei prossimi quattro anni. La spesa previdenziale, almeno teoricamente, dovrebbe seguire il seguente andamento.

  • 2023: 317,9 miliardi, pari al 15,8% del Pil;
  • 2024: 340,7 miliardi, pari al 16,2% del Pil
  • 2025: 350,9 miliardi, pari al 16,1% del Pil
  • 2026: 361,8 miliardi, pari al 16,1% del Pil

Andando a vedere quanto peseranno in futuro le pensioni, risulta difficile per il governo Meloni aprire, in qualche modo, un discorso legato alle pensioni anticipate. Ma vediamo quali sono le ipotesi presenti sul tavolo.

Pensioni, le ipotesi

Quali Quote saranno adottate nel corso del 2024? Capire quale strada possa essere intrapresa dalla riforma previdenziale diventa sempre più difficile. Il problema maggiore è costituito dalle risorse, che in qualche modo il governo dovrebbe riuscire a reperire per poter superare, almeno in parte, la Legge Fornero nel corso dei prossimi anni.
Sul tavolo delle ipotesi, in questi giorni, ha fatto capolino Quota 96, che potrebbe essere riservata ai lavoratori impegnati in attività gravose e usuranti. Si parla di Quota 41 contributiva e di proroga di Quota 103.

Quota 103, si parla di una proroga

Quota 103, che prevede l’uscita dal mondo del lavoro al compimento dei 62 anni con almeno 41 anni di contributi, è destinata a finire il 31 dicembre 2023. Una delle ipotesi messe sul tavolo è che questa opzione possa essere prolungata per tutto il 2024. Si ipotizza di andare a ritoccare leggermente la misura. Per il momento questa sembra essere una soluzione percorribile.

Ricordiamo a quanti dovessero decidere di andare in pensione con Quota 103, questa misura non è cumulabile con qualsiasi altra attività lavorativa, anche se è svolta all’estero. L’unica eccezione prevista è la possibilità di svolgere un lavoro autonomo occasionale entro il limite massimo di 5.000 euro lordi ogni anno.

Pensioni: Quota 41 contributiva

L’obiettivo della Lega è quello di aprire la strada, prima della fine della legislatura, ad una Quota 41 in forma secca. La misura, almeno nelle intenzioni, prevederebbe la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età raggiunta.

Purtroppo, però, questa misura risulta essere particolarmente costosa. Si parla di una spesa prevista per il primo anno di almeno 4 miliardi di euro. Questo è il motivo per il quale si starebbe pensando ad un Quota 41 temporanea, che prevede il ricalcolo contributivo dell’assegno. Questa operazione porterebbe ad una riduzione del 10-15% della spesa prevista.

Ricordiamo che già adesso è presente una Quota 41, a cui possono accedere i lavoratori che, al 31 dicembre 1995, potevano far valere almeno 12 mesi di versamenti antecedenti al compimento del diciannovesimo anno d’età: stiamo parlando dei cosiddetti lavoratori precoci. I disoccupati, i caregiver e gli invalidi civili con oltre il 745 di invalidità hanno la possibilità di accedere a questa misura.

Pensioni: la nuova Quota 96

Una delle tante ipotesi che stanno circolando in queste ore è Quota 96. Questa misura darebbe la possibilità di andare in pensione a 61 anni con 35 di contributi. Potrebbero, però, accedere a questa misura solo determinate categorie. Tra i possibili beneficiari ci sarebbero i lavoratori impegnati in attività usuranti e gravose.

Quota 96 non è una novità assoluta nel panorama italiano, perché era già stata in vigore nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 ed il 31 dicembre 2012. All’epoca era possibile andare in pensione al raggiungimento almeno dei 60 anni, mentre i contributi non potevano essere inferiori a 35 anni. In altre parole significava andare in pensione a 61 anni e 35 di contributi o 60 anni di età e 36 di contributi

I prossimi passi e le scadenze da rispettare

Quali sono i prossimi passi della riforma previdenziale? Per il 26 luglio è stato fissato un tavolo tecnico dedicato alla flessibilità di uscita dal mondo del lavoro. I successivi incontri tra il governo e le parti sociali dovrebbero arrivare a settembre, quando si dovranno affrontare i temi legati ai trattamenti pensionistici delle donne e della previdenza complementare. Di questi argomenti se ne parlerà tra il 5 ed il 18 settembre.

Al termine di queste riunioni il governo deciderà come muoversi sulle pensioni.

Inflazione e caro vita erodono i depositi nei conti correnti

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Segnalazione di Wall Street italia

di Pierpaolo Molinengo
9 Giugno 2023

Diminuiscono le somme depositate sui conti correnti dalle famiglie. I risparmiatori sono sempre più condizionati dalle scelte effettuate dalla Banca Centrale europea, che ha letteralmente frantumato il potere d’acquisto.

L’inflazione e l’aumento dei tassi hanno costituito, senza dubbio, un mix perfetto che sta letteralmente spazzando via la ricchezza accumulata nel corso di questi anni dai risparmiatori. In estrema sintesi, questo è quanto emerge dalla recente ricerca realizzata da Fabi (Federazione Autonoma Bancari Italiani), “L’inflazione e la forbice dei tassi d’interesse: i rialzi della Bce e i vantaggi delle banche”. 

I prezzi che aumentano sempre di più, i prestiti sempre più onerosi e la continua perdita del potere d’acquisto sono alcuni dei meccanismi che stanno minando dalle fondamenta il tesoretto costruito nel corso degli anni dagli italiani.

Solo per avere un’idea, nel periodo compreso tra dicembre 2021 e marzo 2023, il saldo totale dei conti correnti delle famiglie e delle imprese è calato di oltre 61 miliardi di euro, passando dai 2.076 miliardi a 2.015 miliardi. Nell’arco dei tre mesi compresi tra dicembre 2022 e marzo 2023 il saldo negativo sui conti correnti è stato pari a 50 miliardi di euro.

Conti correnti sempre più vuoti

Le famiglie per far fronte alle spese devono sempre di più utilizzare i risparmi depositati sui conti correnti. Cos’è che sta determinando questa forte emorragia di risparmi?

Nel corso degli ultimi due anni le famiglie e le imprese sono state obbligate a far ricorso ai salvadanaio per far fronte al caro vita e all’inflazione, che come riporta Fabi nel suo report “non solo hanno invertito la tendenza al risparmio delle famiglie, pressoché prossima allo zero nei primi cinque mesi (in media pari allo 0,2% da gennaio a maggio) e con tassi di decrescita crescenti nel restante semestre, ma hanno dunque cominciato a erodere le riserve accumulate dal sistema produttivo italiano (per una percentuale pari all’1,4% ovvero 4,4 miliardi di euro), privo ormai di risorse finanziarie da devolvere agli investimenti”.

Se si vanno ad analizzare le giacenze sui conti correnti, tra il mese di dicembre 2021 e marzo 2023 sono stati saccheggiati qualcosa come 61 miliardi di euro: fondi utilizzati per far fronte ai danni economici subiti per l’inflazione e il ridotto potere d’acquisto.

Si utilizzano sempre di più i risparmi

Le famiglie e le imprese fanno sempre uso di quanto depositato sui conti correnti per far fronte alle spese quotidiane. Il report Fabi mette in evidenza che “il saldo complessivo di depositi e conti correnti a dicembre 2021 era di 2.076,8 miliardi di euro, contratto a 2.065,5 miliardi già a dicembre del 2022, per poi diminuire ulteriormente a scarsi 2.000 miliardi alla fine del primo trimestre del 2023”.

Un vero e proprio allarme rosso sui conti correnti delle famiglie viene registrato nel corso del primo trimestre 2023: in questo periodo diventa quanto mai difficile per i consumatori far fronte alla sfrenata risalita dei prezzi con la propria capacità reddituale. Per poter tenere il passo con l’aumento dei prezzi devono continuare ad erodere pesantemente la liquidità depositata sui conti correnti. Secondo Fabi, a fine marzo dell’anno in corso, i depositi delle famiglie si contraggono del 2,14% – raggiungendo il valore di 1.149 miliardi di euro – e quello delle imprese di un 7,56%, attestandosi a scarsi 390 miliardi.

Le conseguenze

I risparmi continuano a diminuire per far fronte al caro vita e all’inflazione. Sicuramente la prima conseguenza di questa situazione è il rischio che le famiglie non abbiano da parte un gruzzoletto sufficiente a far fronte a delle spese impreviste.

Secondo Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, il protrarsi di questa situazione potrebbe avere una conseguenza pesante:

vedere aumentare le disuguaglianze sociali. Il potere d’acquisto degli stipendi, purtroppo, è tornato indietro di 25 anni. La soluzione va quindi cercata nel rinnovo dei contratti collettivi di lavoro, alcuni scaduti anche da più di cinque anni, con importanti aumenti economici. Chi ha liquidità sul proprio conto corrente è particolarmente colpito perché i suoi soldi valgono sempre meno. Per questo è fondamentale che le banche, che hanno beneficiato dell’aumento del costo del denaro, adesso restituiscano alla clientela una parte di quei benefici alzando i tassi d’interesse sui conti correnti. Sono argomenti importanti per la collettività e ne parleremo da lunedì 12 giugno, al nostro congresso nazionale, quando avremo l’occasione di confrontarci con gli amministratori delegati di tutti i più importanti gruppi bancari italiani e con i rappresentanti dell’Abi.

Bce verso la fine dei rialzi ai tassi? Previsioni e scenari

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Segnalazione Wall Street Italia

di Luca Losito
9 Giugno 2023 

Francoforte tirerà dritto ancora un po’ sugli aumenti dei tassi nel contrasto all’inflazione, anche se pare che l’era restrittiva possa avere vita breve. Vediamo nell’analisi quali possono essere le prossime mosse della BCE e gli scenari che potrebbero prospettarsi nell’Eurozona.

Le mosse della BCE

Secondo numerosi esperti, non siamo ancora giunti al picco ma il rialzo dei tassi ufficiali da parte della Banca centrale europea si avvia verso la fine. La maggior parte degli analisti nella riunione del 15 giugno prevede un altro rialzo di 25 punti base, mentre nel meeting del 27 luglio si attende uno stop.

Ma non è detto che si tratti della fine del ciclo rialzista. Considerato che le decisioni sui tassi producono effetti sul mercato dopo sei-nove mesi, l’istituto di Francoforte potrebbe prendersi una pausa – probabilmente tutta l’estate – per saggiare l’impatto delle misure fin qui adottate. Anche perché, se è vero che per statuto la Bce ha come obiettivo quello di portare l’inflazione in prossimità del 2%, quindi meno di un terzo rispetto a oggi, è pur vero che nuove strette rischiano di aggravare il ciclo economico, avvicinando il Vecchio Continente verso la recessione.

Al momento in cui scriviamo l’Eurozona è appena scivolata in recessione tecnica (ovvero due trimestri di fila a crescita sottozero). Secondo le stime Eurostat, infatti, il pil europeo si è contratto nel passaggio tra il 2022 e il 2023: -0,1% nel quarto trimestre dell’anno scorso, -0,1% nel primo di quest’anno. Siamo ancora ben distanti dalla recessione, che scatta nel momento in cui c’è una variazione tendenziale superiore al -1% su base annua, ma è un primo campanello d’allarme a cui prestare attenzione per non sprofondare in una vera e propria crisi economica.

Gli scenari futuri

Il primo banco di prova è per fine mese, quando verrà pubblicato il dato sull’inflazione nell’Eurozona.

Allora si capirà se il rimbalzo registrato dai prezzi ad aprile rispetto a marzo è stato un episodio limitato o se, invece, davvero il trend discendente che aveva caratterizzato il semestre precedente si è fermato. Le ultime stime della Bce sono per un’inflazione intorno al 3% a fine anno (5,3% nell’intero 2023), con un ritorno all’obiettivo del 2% intorno a metà 2025.

Quanto ai dati italiani l’inflazione, salita quasi al 9% nel 2022, scenderà al 6,5 nel 2023 e si porterà al 2% nel 2025, secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia. Tutto questo nella consapevolezza che siamo calati in uno scenario in continua evoluzione, all’interno del quale ogni previsione rischia di avere un corto respiro. Secondo gli analisti di Berenberg, l’inflazione “potrà scendere sotto il 3% nel quarto trimestre (di quest’anno, ndr), con volatilità sui dati mensili”, ma sempre che non vi siano nuove tensioni particolari in campo geopolitico.

Gli impatti sui mutui e sui risparmiatori

Dunque, l’estate potrebbe portare con sé la fine dei rialzi ai tassi d’interesse in Europa.

Un fatto positivo sia per i mutuatari attuali (a tasso variabile) e quelli futuri (senza distinzioni), sia per chiunque acceda a un mutuo o finanziamento.

Una frenata che potrebbe far riaccelerare gli investimenti della aziende e che potrebbe aiutare l’economia dell’Eurozona, dando un nuovo impulso a una crescita che al momento è di fatto bloccata (secondo la stima flash preliminare di Eurostat il PIL è cresciuto dello 0,1% nella zona euro nel primo trimestre del 2023).

La view di Lagarde

Interessante a supporto dell’analisi sono le ultime dichiarazioni di Christine Lagarde.

“Le pressioni inflazionistiche nell’area euro rimangono alte, e non ci sono prove chiare che l’inflazione di fondo abbia raggiunto il picco. L’inflazione al netto di energia e alimentari è scesa al 5,3% a maggio dal 5,6% di aprile. Gli ultimi dati disponibili suggeriscono che gli indicatori delle pressioni inflazionistiche di fondo rimangono elevati e, sebbene alcuni mostrino segni di moderazione, non vi è alcuna chiara evidenza che l’inflazione di fondo abbia raggiunto il picco. Siamo pienamente impegnati a combattere l’inflazione e siamo determinati a raggiungere il suo tempestivo ritorno al nostro obiettivo a medio termine del 2%. I nostri aumenti dei tassi si stanno trasmettendo con forza alle condizioni di finanziamento delle imprese e delle famiglie, come si può vedere dall’aumento dei tassi sui prestiti e dal calo dei volumi dei prestiti. Allo stesso tempo, iniziano a concretizzarsi tutti gli effetti delle nostre misure di politica monetaria”.

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di Redazione Wall Street Italia

di Simone Borghi

A più di un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, mercati e investitori si chiedono come cambierà lo scenario nei prossimi mesi. Scontato dire che molto dipenderà dagli sviluppi del conflitto sia sul campo di battaglia che sul lato diplomatico. A questo proposito, gli esperti si dividono tra coloro che temono una guerra prolungata con un peggioramento della situazione geopolitica e quelli che credono in una de-escalation ancora possibile.

Innanzitutto, c’è da dire che i mercati non amano l’incertezza e ciò si visto dall’andamento dei listini a cavallo dei periodi di guerra e tensione geopolitiche. Ad apprendere dalla storia dell’ultimo secolo, la maggiore volatilità dei mercati è sempre stata dovuta all’incertezza del clima politico ed economico che precede l’esplosione di un conflitto importante. Gli investitori, infatti, non temono tanto le guerre quanto piuttosto la mancanza di controllo sugli eventi in corso.

A giudicare da quanto sta accadendo ai mercati globali in questo momento, che sono praticamente tornati sui livelli pre-conflitto, ci sono le premesse per supporre che anche il conflitto tra Russia e Ucraina determini conseguenze borsistiche coerenti a quanto avvenuto nella storia. Le ondate di volatilità che si sono viste sui listini sono una delle caratteristiche chiave del clima dei mercati nelle fasi subito precedenti o appena iniziali di un conflitto e storicamente tale clima si è sempre disteso a conflitto in corso i listini tornano invece a crescere. La storia insegna che le borse non “disdegnano” le guerre, ma la domanda che ci poniamo tutti è quando finirà il conflitto Russia-Ucraina.

Gli effetti di un prolungamento della guerra

La guerra senza fine potrebbe esacerbare la crisi energetica. È quello che pensano gli esperti di S&P Global Ratings, secondo cui c’è un rischio significativo che il conflitto militare tra Russia e Ucraina si protragga, esacerbando la crisi energetica dell’Europa, mentre i tassi d’interesse nei mercati sviluppati potrebbero essere costretti a salire ancora più bruscamente rispetto allo scenario di base, per mitigare le crescenti pressioni inflazionistiche. Ciò potrebbe portare a una recessione più profonda del previsto in Europa e, in misura minore, negli Stati Uniti, con un concomitante aumento della disoccupazione.

Considerando l’aumento dei rischi e la loro potenziale attuazione, S&P Global Ratings ha sviluppato uno scenario negativo, con una probabilità che si verifichi pari a uno su tre. In Europa, lo scenario negativo vedrebbe prezzi energetici elevati e razionamenti. La Bce sarebbe costretta a seguire la Fed a causa del deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, alimentando l’inflazione importata. Dal punto di vista borsistico, questo porterà al perdurare del clima di incertezza, che ai mercati proprio non piace, con ritorno di volatilità nel caso la situazione geopolitica peggiori.

Gli effetti di una de-escalation del conflitto

Uno scenario di de-escalation è quello invece prospettato dagli analisti di Barclays, i quali ritengono che qualsiasi forma di cessate il fuoco tra la Russia e l’Ucraina potrebbe ridurre la pressione sui mercati europei del gas, oltre che su quelle aziende che hanno un’esposizione più ampia alla Russia.

Guardando oltre, la storia degli ultimi cento anni ci insegna che il più delle volte i mercati reagiscono con grande forza alla fine di eventi dal grave impatto socio-economico. Il rimbalzo che solitamente si innesca a fine guerra viene dato dalla tempestività degli investitori nel modificare gli asset economici dalla fase bellica all’investimento post-bellico. Ed è tutta qui che si gioca la partita della ricostruzione.

Nei principali conflitti della storia i mercati azionari hanno impiegato circa 15 sedute per riprendersi. L’equilibrio dei mercati e le prospettive di ripresa sono in mano a tutte queste dinamiche, che gli investitori, anche nel caso del conflitto in corso, non possono ignorare.

Inflazione, quanto costa all’anno agli italiani?

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di Alessandra Caparello

L’inflazione è alle stelle e solo nel mese di dicembre 2022, in Italia, i prezzi sono cresciuti dell’11,6% rispetto al dicembre dell’anno precedente, un valore a cui non si assisteva dalla prima metà degli anni Ottanta. La realtà, però, è che per molti risparmiatori l’inflazione è salita fino al 18,3% e i costi, in termini assoluti, fino a 363 euro in più al mese, 4 mila euro in più in un anno.

A fare i calcoli è Moneyfarm, società di gestione del risparmio con approccio digitale, che ha utilizzato l’indicatore di “inflazione effettiva” per affrontare la questione più urgente, oggi, per le finanze personali delle famiglie italiane.

I calcoli di Moneyfarm

Partendo dagli ultimi dati Istat sull’aumento dei prezzi nel 2022 e incrociandoli con la fotografia 2021 dei consumi di 52 diversi profili di famiglie e di consumatori, Moneyfarm ha stimato, con il supporto di Smileconomy, l’inflazione effettiva.

A dicembre 2022 l’inflazione misurata da Istat è stata in aumento dell’11,6% rispetto al dicembre 2021, ma per i 52 profili tracciati l’inflazione effettiva va dall’11,5% al 18,3%, poiché i consumi effettivi delle famiglie esaminate “battono” l’indice dei prezzi al consumo medio del paniere Istat. Ragionando in termini assoluti, dai calcoli di Moneyfarm emerge che l’inflazione costa alle famiglie da 188 a 363 euro in più al mese, che, su base annua, significa tra i 2 mila e i 4 mila euro in più.

Considerando questa cifra, per poter continuare a mantenere il proprio stile di vita e neutralizzare gli effetti di un aumento dei prezzi eccezionalmente alto, una famiglia italiana dovrebbe risparmiare tra il 10% e il 15% delle sue entrate (“tasso di risparmio antidoto”).

Pertanto le famiglie che, prima del 2022, risparmiavano meno hanno dovuto rinunciare ad alcuni consumi o attingere ai propri risparmi per mantenere inalterati i propri consumi. Attualmente, però, gli italiani risparmiano mediamente il 7% del loro reddito, quindi non sarebbero in grado di affrontare una nuova ondata di inflazione nel 2023. Andrea Rocchetti, head of investment advisory di Moneyfarm, ha commentato:

“Purtroppo ancora il 35% degli italiani fatica a comprendere gli effetti dell’inflazione, come emerge dall’ultimo rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane. Considerando che a livelli di inflazione come quelli attuali non si assisteva dagli anni Ottanta e che le implicazioni sulla gestione delle finanze personali delle famiglie sono notevoli, è fondamentale che gli operatori del risparmio si impegnino sul fronte dell’educazione finanziaria. Le conoscenze degli italiani risultano carenti sia quando si tratta di concetti basilari – per esempio il concetto di ‘diversificazione’, compreso da appena un italiano su due – sia quando si vanno a indagare gli strumenti o i rischi finanziari. Questa situazione rende ancora più indispensabile rivolgersi a un consulente finanziario per ragionare su una gestione efficiente dei propri risparmi”.

L’inflazione del 2022 non è democratica: ecco chi perde di più

L’indagine di Moneyfarm inoltre rivela che tra le 52 tipologie di consumatori analizzate, sono i disoccupati ad avere l’inflazione effettiva più elevata, al 18,3%. Quando il capofamiglia è disoccupato l’inflazione agisce come una tassa occulta di 241 euro al mese su una spesa media mensile che alla fine del 2021 era di 1.319 euro al mese. Una tassa che, in assenza di aiuti e di bonus, significa probabilmente dover tagliare ulteriormente i consumi per la famiglia.

Quando il capofamiglia è un lavoratore dipendente, invece, l’inflazione effettiva è del 13,1% e la spesa mensile aggiuntiva ammonta a 308 euro.

Chi è disoccupato spende, in proporzione, molto di più in beni essenziali come energia e prodotti alimentari: le due voci con maggiore aumento dei prezzi. Chi invece può contare su entrate stabili come i lavoratori dipendenti, spende in modo più bilanciato, su più voci di consumo, e risulta quindi meno colpito dall’inflazione.

Se si guarda ai nuclei familiari, sono i single ad avere la peggio, con un’inflazione effettiva del 16,8% e una spesa aggiuntiva mensile di 208 euro, ma per gli anziani soli la situazione è purtroppo ancora peggiore: 17,6% l’inflazione effettiva e 188 euro la spesa aggiuntiva mensile. All’estremo opposto si collocano le coppie con due figli, con un’inflazione effettiva del 13%.

Oltre a categorie occupazionali e nuclei familiari, Moneyfarm ha preso in esame anche la dimensione territoriale in cui vivono le famiglie, da cui è emerso che l’inflazione effettiva è più alta nelle aree metropolitane, dove raggiunge il 16,2% e comporta una spesa aggiuntiva di 309 euro al mese. Mentre le famiglie che vivono in piccoli comuni (sotto i 50.000 abitanti), hanno un’inflazione effettiva al 13,9%. A livello regionale, la Liguria (13,9%) è in cima alla classifica delle regioni con inflazione effettiva più alta, con un incremento mensile di spesa di 277 euro. In fondo alla classifica troviamo invece la Provincia Autonoma di Trento, dove il dato è più basso di oltre due punti percentuali (11,5%).

Rischio recessione più lontano per l’Europa. E anche l’Italia crescerà

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di Luca Losito

La situazione economica dell’Europa potrebbe essere migliore di quanto previsto nei mesi scorsi e la recessione più lontana. E anche l’Italia dovrebbe restare sul trend positivo. I dati positivi emersi dall’analisi pubblicata oggi dalla Commissione europea, oltre alle ultime decisioni prese per aumentare la competitività dell’Europa rispetto a Stati Uniti e Cina, lasciano ben sperare per il futuro. Vediamo il tutto nell’analisi.

Le previsioni per l’Europa

In particolare, Bruxelles si aspetta una crescita nella zona euro dello 0,9% nel 2023 (rispetto a una previsione nell’autunno scorso dello 0,3% e rispetto a una espansione dell’economia che nel 2022 è stata del 3,5%). L’economia europea potrebbe evitare una contrazione nel primo trimestre, dopo averla evitata anche nel quarto trimestre dell’anno scorso. Le ragioni sono un calo del prezzo del gas, un recupero della fiducia e una tenuta del mercato del lavoro, spiega l’esecutivo comunitario.

La ripresa dell’Italia

Buone nuove anche per l’Italia, dove l’espansione dell’economia sarà dello 0,8% nel 2023 e dell’1% nel 2024. Mentre il dato di quest’anno registra un forte aumento rispetto alla previsione di novembre (0,3%), la stima per l’anno prossimo rimane pressoché stabile. L’inflazione è prevista del 6,1% quest’anno e del 2,6% l’anno prossimo. La Banca centrale europea ha già annunciato nuovi rialzi del costo del denaro nei prossimi mesi (attualmente il tasso di riferimento è al 3%).

La sfida globale

Nel frattempo si lavora per rilanciare l’Europa sul piano macroeconomico. Le nuove previsioni giungono mentre l’establishment comunitario si interroga sulla crisi di competitività dell’economia europea, principalmente a causa dello sconquasso energetico. I Ventisette si sono riuniti la settimana scorsa per discutere dei modi per contrastare la concorrenza non sempre leale di Stati Uniti e Cina. Tra le altre cose, hanno deciso di allentare le regole sugli aiuti di Stato, promuovere i progetti di interesse comune, e rendere più efficiente l’uso del denaro comunitario.

Insomma, il quadro globale è complesso e il Vecchio Continente sta cercando la strada migliore per ripartire. Il rebus più grande da risolvere è quello energetico, superato quel problema si potrà tornare a correre più velocemente.

Multe, cosa succede se non si pagano?

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Segnalazione Wall Street Italia

di Alessandra Caparello

Quante volte è capitato di vedersi recapitare multe stradali. La prima domanda che ci si pone è come evitare di pagarle. Cerchiamo di fare il punto.

Una volta ricevuta una multa, si può osservare se la sua notifica presenta dei vizi formali o sostanziali. In tal caso, si può contestare il provvedimento facendo ricorso dinanzi al giudice o al prefetto. In alcuni casi, infatti, possono essere commessi degli errori, e il soggetto ha il diritto di contestare la contravvenzione.

Come ed entro quando pagare una multa

In linea generale, si può pagare una multa entro 5 giorni da quando si è ricevuto il verbale, ottenendo così uno sconto del 30% sul minimo edittale (ossia sull’importo indicato in verbale).

Chi paga entro 60 giorni deve versare la sanzione in misura ridotta, pari cioè al minimo edittale (è l’importo indicato sul verbale), oltre i 60 giorni invece si paga la sanzione in misura piena, pari al quadruplo del minimo edittale.
Cosa succede se non si paga la multa stradale

Se l’ente titolare del credito (ad esempio il Comune) rileva il mancato pagamento della multa, procede alla cosiddetta iscrizione a ruolo dell’importo. In pratica, scatta la procedura di riscossione coattiva, che può prendere due strade:

  1. notifica al debitore di un’ingiunzione fiscale direttamente da parte del Comune;
  2. trasmissione del ruolo al cosiddetto Agente per la riscossione esattoriale.

Entro due anni da quando il ruolo è stato dichiarato esecutivo, parte la cartella esattoriale in cui vengono indicate le somme da versare comprensive degli interessi che nel frattempo sono maturati. In tal caso con la notifica della cartella esattoriale, all’automobilista che ha commesso l’infrazione sarà richiesto il pagamento della multa con aggiunte le sanzioni e i relativi interessi e le spese di notifica. Questi ultimi vengono calcolati del 10% per ogni sei mesi di ritardo nel pagamento della sanzione.

Fermo amministrativo dell’auto

In caso di mancato pagamento della cartella esattoriale nei termini di legge, il concessionario della riscossione può disporre il fermo dei veicoli intestati al debitore, tramite iscrizione del provvedimento di fermo amministrativo nel Pubblico Registro Automobilistico (PRA). Il fermo amministrativo è un atto con il quale le amministrazioni o gli enti competenti (Comuni, Inps, Regioni, Stato, ecc.), tramite i concessionari della riscossione, “bloccano” un bene mobile del debitore (o dei coobbligati) iscritto in pubblici registri (ad esempio autoveicoli) , al fine di riscuotere i crediti non pagati che possono riferirsi a tributi o tasse (può trattarsi di un credito di varia natura, ad esempio, un mancato pagamento Iva, Irpef, bollo auto, Ici, ecc.) oppure a multe relative ad infrazioni al Codice della Strada.

Dopo l’iscrizione del fermo la disponibilità del veicolo è limitata fino a quando il debitore non salderà il proprio debito e il concessionario della riscossione non provvederà, d’ufficio, alla cancellazione del fermo. Il veicolo, infatti:

  • non può circolare: se circola è prevista la sanzione;
  • non può essere radiato dal PRA: non può essere demolito od esportato;
  • anche se viene venduto, con atto di data certa successiva all’iscrizione del fermo, non può circolare e non può essere radiato dal PRA.

Inoltre, se il debitore non paga le somme contestate, il concessionario della riscossione potrà agire forzatamente per la vendita del veicolo.

Multe e rottamazione delle cartelle esattoriali

Da quest’anno è partita in via ufficiale la rottamazione delle cartelle esattoriali, introdotta dalla Legge di Bilancio 2023. La rottamazione prevede la possibilità di pagare in forma agevolata i debiti affidati in riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022, anche se ricompresi in precedenti “rottamazioni” che risultano decadute per mancati pagamenti. Chi aderisce alla definizione agevolata potrà versare solo l’importo dovuto a titolo di capitale e quello dovuto a titolo di rimborso spese per le eventuali procedure esecutive e per i diritti di notifica. Non saranno invece da corrispondere le somme dovute a titolo di sanzioni, interessi iscritti a ruolo, interessi di mora e aggio.

Per quanto riguarda i debiti relativi alle multe stradali o ad altre sanzioni amministrative (diverse da quelle irrogate per violazioni tributarie o per violazione degli obblighi contributivi), l’accesso alla misura agevolativa prevede invece che non siano da corrispondere le somme dovute a titolo di interessi (comunque denominati, comprese pertanto le c.d. “maggiorazioni”), nonché quelle dovute a titolo di aggio.

 

Embargo russo in arrivo. Quali conseguenze su benzina e diesel?

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Segnalazione Wall Street Italia

di Gianmarco Carriol

Mancano poco più di sette giorni al 5 febbraio 2023, giorno in cui scatterà l’embargo all’importazione di prodotti petroliferi lavorati da Mosca. Il prezzo del diesel è già schizzato sopra 1,9 euro al litro nelle stazioni di servizio italiane, arrivando a 2,5 euro in alcune località. L’Europa sospenderà l’importazione di prodotti raffinati per un totale di circa un milione di barili al giorno, metà dei quali diesel a basso zolfo.

L’Ue non è sorpresa da questo scenario, in quanto già a maggio il think tank norvegese Rystad Energy aveva lanciato l’allarme sulle carenze del mercato europeo dipendente dalla Russia. La domanda totale di diesel e gasolio europea si posiziona tra i 6 e i 7 milioni di barili al giorno, per cui in caso di bando l’impatto sulla domanda dovrebbe essere del 7-8%. L’Europa ha acquistato prodotti raffinati dall’India, dal Medio Oriente e dalla Cina a un costo maggiore.

L’Italia ha importato diesel dalla Russia solo per il 5% fino a giugno 2022, poi ha azzerato la quota. Il paese ha 13 impianti che lo rendono praticamente autonomo: a fronte di un consumo interno di prodotti raffinati pari a 55 milioni di tonnellate, ne raffina quasi 71, mentre la capacità produttiva teorica arriva a 88 milioni di tonnellate.

Inoltre, la dipendenza dal gasolio russo è stata interrotta con la risoluzione del caso Priolo. Il potenziale problema potrebbe arrivare dalle offerte di acquisto estere, come quelle della Germania che dipende al 30% dal gasolio russo e con capacità di raffinazione ridotta (83 milioni di tonnellate), potrebbe orientarsi sull’Italia per le sue offerte di acquisto, causando uno shock alla disponibilità sul mercato interno.

Il problema resta a livello europeo, dove diversi esperti hanno evidenziato l’assenza di una strategia sul petrolio e sul potenziamento della capacità di raffinazione. I consumatori di tutto il continente, che hanno già registrato un aumento dei prezzi dell’energia negli ultimi mesi, rischiano di dover pagare anche un nuovo aumento sul diesel, con tutte le conseguenze su trasporti e prezzi dei beni scambiati.

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