La CIA e il “cavallo di Troia” ucraino

Condividi su:

di Antonio Landini

Fonte: cese-m.eu

Dal 1948 al 1990 la CIA si è avvalsa di figure di spicco dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, accusata di aver collaborato con il Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, per cercare di destabilizzare l’Ucraina e mettere in crisi l’Unione Sovietica. Un’operazione segretissima, denominata Aerodynamic, che può aiutare a comprendere gli avvenimenti dei nostri giorni.

In un passaggio chiave del lungo discorso alla nazione del 24 febbraio 2022, data in cui ha avuto inizio la cosiddetta “Operazione Speciale” in Ucraina, Vladimir Putin ha affermato: «I principali Paesi della NATO, al fine di raggiungere i propri obiettivi, sostengono in tutto i nazionalisti estremisti e neonazisti in Ucraina». Il presidente russo ha, quindi, sottolineato che il fine dell’operazione militare «è proteggere le persone che sono state oggetto di bullismo e genocidio da parte del regime di Kiev per otto anni. E per questo ci adopereremo per la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina». In sostanza, il Cremlino ha accusato l’Occidente, e in primis gli Stati Uniti, di aver agito con il preciso intento di destabilizzare l’Ucraina, appoggiando e finanziando movimenti ultranazionalistici e, allo stesso tempo, di favorire la formazione di un governo filoccidentale. In pratica, un colpo di Stato. È chiaro il riferimento alle proteste di Euromaidan che nel febbraio del 2014 hanno provocato la caduta del governo, democraticamente eletto, del Presidente Viktor Janukovyč. Ma è davvero così?

I fantasmi di Euromaidan

Oggi, in relazione ai tragici avvenimenti di Maidan, sappiamo che le manifestazioni di protesta, nate in maniera spontanea (come reazione alla decisione di Janukovyč di rimandare la firma dell’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea) sul finire di novembre del 2013, videro la partecipazione iniziale di vari movimenti politici liberali prima di essere monopolizzate e radicalizzate da forze di estrema destra ultranazionalistiche come Pravyj Sektor (Settore Destro) – alleanza di diversi gruppi nazionalisti ucraini e dell’Assemblea Nazionale Ucraina-Auto Difesa Nazionale Ucraina (UNA-UNSO) formatisi proprio all’inizio delle proteste – e Svoboda (Unione Pan-Ucraina “Libertà”), partito fondato nell’ottobre del 1991 con il nome di Partito Social-Nazionalista di Ucraina su posizioni di stampo neonazista (il nome fu cambiato in Svoboda nel febbraio 2004). In un articolo apparso sulla rivista progressista “Salon” dal titolo Ci sono davvero neonazisti che combattono per l’Ucraina? Beh, sì ma è una lunga storia, a firma Medea Benjamin e Nicolas Davies, gli eventi sono stati sintetizzati in questo modo: «Il partito neonazista ucraino Svoboda e i suoi fondatori, Oleh Tyahnybok e Andriy Parubiy, hanno giocato ruoli di primo piano nel colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti nel febbraio 2014. L’assistente segretario di Stato Victoria Nuland e l’ambasciatore americano Geoffrey Pyatt hanno menzionato Tyahnybok come uno dei leader con cui stavano lavorando nella loro famigerata telefonata trapelata prima del colpo di Stato, anche se hanno cercato di escluderlo da una posizione ufficiale nel governo post-golpe». E poco dopo: «Mentre le proteste precedentemente pacifiche a Kiev lasciavano il posto a scontri con la polizia e a violente marce armate… i membri di Svoboda e la nuova milizia di Settore Destro, guidata da Dmytro Yarosh, combattevano contro la polizia, guidavano le marce e razziavano un’armeria…». In sostanza, verso la metà di febbraio, i militanti di queste formazioni erano diventati i veri leader delle proteste. C’è da chiedersi pertanto che tipo di transizione politica ci sarebbe stata in Ucraina se avessero prevalso le proteste pacifiche e, soprattutto, quanto differente sarebbe stato il governo se questo processo non violento avesse potuto fare il suo corso senza le interferenze degli Stati Uniti e la posizione radicale della destra ultranazionalista ucraina. E invece è stato proprio il fondatore di Settore Destro (Yarosh), dopo aver rigettato l’accordo del 21 febbraio, che era stato negoziato dai ministri degli esteri francese, tedesco e polacco con Yanukovych, e prevedeva lo scioglimento del governo e la possibilità di indire nuove elezioni entro l’anno, a rifiutarsi di abbandonare la piazza e abbassare le armi. Al contrario, si è messo alla testa della marcia contro il Parlamento che è finita in un bagno di sangue quando cecchini, appostati sui palazzi circostanti, hanno aperto il fuoco (i morti sono stati oltre cento tra i manifestanti e la polizia). Evento che ha fatto precipitare la situazione e provocato il rovesciamento del governo.

Ucraina, un obiettivo sensibile

La ricostruzione degli eventi fatta da Benjamin e Davies si basa su dati oggettivi e riscontri reali come la famosa telefonata tra Victoria Nuland, Assistente del Segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, e l’ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt (fu intercettata dai servizi segreti russi e poi divulgata tramite il canale Youtube), che gli stessi interessati non hanno mai smentito; ma siamo ben lungi dall’aver un quadro completo degli eventi. Molti altri aspetti restano oscuri o di difficile interpretazione. Basti pensare alla difficoltà di appurare chi fossero i tiratori scelti che hanno aperto il fuoco. In assenza di una inchiesta governativa capace di fare luce sulla vicenda, il governo ucraino post-Janukovyč si è limitato ad accusare la polizia dell’ex presidente, sebbene quest’ultimo abbia sempre affermato di non aver mai dato l’ordine di sparare sui manifestanti. Che la cosa sia più complessa lo si comprende da diverse inchieste giornalistiche da cui emergerebbe come entrambi gli schieramenti avessero a disposizione fucili di precisione e molte immagini li immortalano mentre prendono la mira e fanno fuoco. Le conseguenze di quel drammatico cambio di regime provocarono, nei mesi successivi, forti tensioni tra la maggioranza ucraina e la popolazione russofona (concentrata perlopiù nel sud-est del paese), seguite dall’inizio della crisi in Donbass (e la decisione del Consiglio di Stato della Repubblica di Crimea di indire un referendum che ha sancito l’annessione alla Russia). Crisi che si è trascinata drammaticamente fino ai nostri giorni nel modo che tutti noi conosciamo. Al momento, quantificare la reale portata storica delle interferenze statunitensi sui fatti di Maidan e l’appoggio fornito da questi alle forze ultranazionalistiche ucraine non è possibile. Sarà necessario attendere a lungo (sempre che ciò avvenga) prima di poter consultare documenti ufficiali in grado di fare luce sugli eventi. È fuori di dubbio, tuttavia, che storici e analisti avevano già sottolineato la complessità del “caso ucraino” e che le prospettive future non erano per nulla rosee. Nel suo celebre Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Samuel Huntington, uno dei massimi esperti di politica estera americani, ha scritto nel 1996: «L’Ucraina… è un Paese diviso, patria di due distinte culture. La linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa attraversa infatti il cuore del Paese, e così è stato per secoli. In passato, l’Ucraina ha fatto parte ora della Polonia, ora della Lituania, ora dell’Impero austro-ungarico. Un’ampia parte della sua popolazione aderisce alla Chiesa uniate, che segue il rito ortodosso ma riconosce l’autorità del Papa». Sul piano storico, afferma Huntington, gli ucraini occidentali hanno sempre parlato ucraino ed esibito un atteggiamento fortemente nazionalista, mentre la popolazione della parte orientale del Paese è in netta prevalenza di credo ortodosso e parla russo. Agli inizi degli anni Novanta, i russi ammontavano a circa il 22 per cento e i madrelingua russi al 31 per cento dell’intera popolazione. Nel 1993 nella maggioranza delle scuole primarie e secondarie le lezioni erano tenute in lingua russa. Un caso a parte è la Crimea. La sua popolazione era costituita per la maggioranza da russi, avendo fatto parte della Federazione russa fino al 1954, quando Chruščëv la concesse all’Ucraina. Le differenze tra queste due “anime” del Paese si manifestano negli atteggiamenti delle rispettive popolazioni: alla fine del 1992 un terzo dei residenti in Ucraina occidentale, a fronte del dieci per cento di quelli che abitavano nella capitale, mostravano sentimenti antirussi. Che l’Ucraina fosse un Paese diviso, e per tale ragione facilmente destabilizzabile, lo si comprende leggendo un documento della CIA, datato 1966, oggi reso pubblico: «Il processo di russificazione ha raggiunto in Ucraina orientale, soprattutto nelle città, un livello superiore a quello ottenuto da Mosca in ogni altro territorio dell’Urss, ma i sentimenti sciovinisti sono ancora molto forti nella campagne e nelle regioni occidentali lontane dai confini sovietici… Nel caso di una disintegrazione del controllo centrale sovietico, il nazionalismo ucraino potrebbe riaffiorare alla superficie e costruire un punto di riferimento per la nascita di un movimento organizzato di resistenza anti-comunista». Un’analisi precisa che, per quanto sia stata elaborata alla metà degli anni Sessanta, dimostra tutta la sua attualità alla luce di quanto avvenuto recentemente. E che i servizi segreti americani fossero sempre interessati a sondare il campo lo si percepisce da un altro documento – questa volta elaborato nel 2008 e poi pubblicato su Wikileaks – da cui emerge come «gli esperti sostengono che la Russia è preoccupata per le forti divisioni che esistono in Ucraina riguardo all’eventualità di entrare a far parte della NATO, a causa della nutrita componente etnica russa che è contraria all’adesione e che potrebbe portare a forti opposizioni, violenze o nel peggiore dei casi, alla guerra civile». Dal file si evince che gli americani sono consci che per la Russia la “questione ucraina” è un problema sensibile, che li potrebbe costringere a un intervento (militare?). Decisione che, tuttavia, non sono per nulla intenzionati a prendere. Questi due documenti dimostrano che la CIA ha monitorato gli eventi nel Paese, consapevole che avrebbero potuto essere uno strumento – una sorta di cavallo di Troia – con cui indebolire e destabilizzare l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, prima, e la Russia di Putin, poi. Non può essere una mera coincidenza il fatto che quel “nazionalismo ucraino”, paventato nel documento del 1966, si sia puntualmente materializzato nel 2014 con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ma c’è di più.

Al soldo di Washington

La vasta mole di documenti resi pubblici dal governo americano grazie al Nazi War Crimes Disclosure Act del 1998 ha permesso di appurare come l’amministrazione a “Stelle e Strisce” abbia permesso ai suoi servizi segreti (prima il CIC e poi la CIA) di appoggiare e finanziare organizzazioni ultranazionalistiche e filonaziste ucraine in chiave antisovietica per l’intero corso della Guerra Fredda, ed esattamente dal 1948 fino agli inizi degli anni Novanta. Di che cosa stiamo parlando? E, in particolare, quali figure e organizzazioni furono cooptate? Vale la pena approfondire la questione perché di strettissima attualità. Dall’esame della documentazione resa pubblica emerge il ruolo dell’OUN-B, l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini di Stepan Bandera, che durante la Seconda guerra mondiale aveva collaborato con i nazisti (non va dimenticato che nei giorni di Euromaidan i manifestanti di Svoboda marciavano proprio sotto il vessillo dell’OUN-B). Cosa sappiamo di questa organizzazione? L’OUN fu fondata nel 1929 da ucraini occidentali della Galizia orientale che chiedevano una nazione indipendente ed etnicamente omogenea. Il nemico giurato era la Polonia che in quel periodo controllava la Galizia orientale e la Volhynia. Nel 1934 l’OUN si rese protagonista dell’assassinio del ministro degli interni polacco Bronislaw Pieracki. Tra coloro che vennero arrestati e condannati per l’omicidio figuravano Bandera e Mykola Lebed, figura che ci interessa direttamente per i rapporti che ha avuto con la CIA nel dopoguerra. Il tribunale li condannò a morte, ma la sentenza fu poi tramutata in prigione a vita. Non passarono molto tempo dietro le sbarre: Bandera fu liberato nel 1938 (Lebed riuscì a fuggire l’anno successivo), dopodiché entrò in trattativa con il Terzo Reich che gli garantì fondi e permise a ottocento dei suoi uomini di essere addestrati alla guerriglia. Poi nel 1940 l’organizzazione si scisse in due: da una parte l’OUN-M (il cui leader era Andriy Atanasovych Melnyk), collocato su posizioni più moderate, e dall’altra la ben più radicale OUN-B di Bandera. Quando nel giugno del 1941 ebbe inizio l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, le forze dell’OUN-B ammontavano a circa settemila uomini, organizzati in “gruppi mobili” che si coordinavano con le truppe tedesche. Quindi, il colpo di scena. Il 5 luglio, le autorità, temendo che Bandera e l’OUN avessero intenzione di autoproclamare un’Ucraina indipendente per mezzo di una rivolta armata, lo arrestarono e lo condussero a Berlino (dopo una serie di interrogatori fu rilasciato ma obbligato a rimanere nella capitale tedesca). Sarà riarrestato nel gennaio del 1942 e condotto nel campo di concentramento di Sachsenhausen come prigioniero politico, godendo comunque di uno status speciale. In Germania il leader di OUN-B continuò a gestire il movimento. Lo dimostra il fatto che i suoi uomini continuarono a operare grazie all’appoggio di Berlino. Nel 1943 l’OUN-B prenderà parte alla campagna di sterminio di ebrei e polacchi. In questa fase fu proprio Lebed, comandante della Sluzhba Bespeki (l’organizzazione di polizia segreta della OUN-B), a gestire il programma di pulizia etnica. Con la fine della guerra, i leader dell’organizzazione finirono in vari campi per sfollati dell’Europa orientale e della Germania. Le loro vite presero strade diverse. Bandera, secondo quanto emerso dai documenti resi pubblici, nel 1948 fu reclutato dal servizio segreto inglese (MI6) per addestrare agenti che operassero in territorio sovietico per missioni di sabotaggio e assassinio. Nel 1956 Bandera fu quindi cooptato dall’Organizzazione Gehlen, una struttura segreta, nata nell’aprile del 1946 quando gli americani avevano dato il via all’Operazione Rusty, nome in codice dietro cui si celava la scelta di riattivare i vertici dell’FHO (Fremde Heere Ost), ovvero i servizi segreti militari del defunto esercito nazista sul fronte orientale, a cui era stato delegato (a partire dal 1942) l’attività di spionaggio contro l’Unione Sovietica. Con una sola differenza, ora questi ufficiali sarebbero stati sul libro paga degli Stati Uniti. Un progetto segretissimo (e rimasto tale almeno fino ai primi anni Cinquanta), attivo dal 1946 al 1956, prima che l’Organizzazione Gehlen si trasformasse nel Bundesnachrichtendienst (BND), l’agenzia di intelligence esterna della Repubblica federale tedesca. Ma questa è un’altra storia. Bandera, che in un rapporto dell’MI6 veniva definito come un «professionista con background terroristico e nozioni spietate sulle regole del gioco», sarà assassinato nel 1959 dal KGB nella Germania Ovest.

Operazione Aerodynamic

La “carriera” di Mykola Lebed avrà invece uno sviluppo sorprendente proprio per le relazioni con i servizi di intelligence statunitense. Sul suo conto la documentazione desegretata è voluminosa. Nel 1947, un rapporto stilato dal CIC (servizio segreto militare) definiva il soggetto un «collaboratore dei tedeschi». Eppure, ciò non impedì che finisse sul libro paga di Washington. Ciò avvenne nel 1948 quando, con l’inasprirsi della crisi con l’Unione Sovietica, la CIA decise che l’Esercito insurrezionale ucraino (UPA) di Lebed avrebbe potuto servire per operazioni di resistenza e intelligence dietro le linee sovietiche. La Central Intelligence Agency si occupò di tutto, fornendo denaro, armi e rifornimenti. Come ebbe modo di sottolineare Lebed più tardi: «Le… operazioni di lancio furono la prima vera indicazione… che l’intelligence americana era disposta a dare un sostegno attivo per stabilire linee di comunicazione in Ucraina». La sua carriera era a una svolta. L’operazione assunse fin da subito un ritmo significativo sotto il nome in codice di Cartel, presto mutato in Aerodynamic. Lebed fu fortunato in quanto la CIA decise di trasferirlo a New York dove acquisì lo status di residente permanente e di lì a poco la cittadinanza. Ciò gli permise di evitare possibili vendette e di prendere contatto con gli emigrati ucraini negli Stati Uniti. Quando era necessario si spostava in Europa per coordinare le operazioni sul campo. In America Lebed divenne il principale referente della CIA per Aerodynamic. Nei rapporti del tempo, come rimarcato dai ricercatori Richard Breitman e Norman Goda, autori di Hitler’s Shadow, Nazi War Criminals, U.S. Intelligence, and the Cold War, il soggetto viene definito «astuto» e «un operatore molto spietato». A quanto pare, non era molto popolare tra gli ucraini negli Stati Uniti per la brutalità mostrata durante la guerra, ma l’intelligence americana gradiva la sua efficienza. Allen Dulles, il futuro direttore della CIA dal 1953 al 1961, sottolineò come il soggetto fosse «di valore inestimabile». Aerodynamic prevedeva l’infiltrazione e l’esfiltrazione dall’Ucraina di agenti addestrati dagli americani. Secondo Breitman e Goda, le operazioni del 1950 rivelarono «un movimento clandestino ben stabilito e sicuro» in Ucraina che era anche «più grande e più pienamente sviluppato di quanto i rapporti precedenti avessero indicato». Washington era soddisfatta dell’alto livello di addestramento dell’UPA e del suo potenziale per azioni di guerriglia. Di fronte a questi risultati, la CIA decise di potenziare ulteriormente le attività dell’UPA al fine di sfruttare il movimento clandestino a fini di resistenza e di intelligence. Nei documenti veniamo a sapere che in caso di guerra l’UPA avrebbe potuto arruolare sotto le sue fila qualcosa come centomila combattenti. Ma i rischi della missione erano elevati. I sovietici fecero di tutto per mettere fine alla loro attività e, tra il 1949 e il 1953, un gran numero di militanti fu ucciso e catturato. Entro il 1954 l’organizzazione era stata fortemente indebolita.

La CIA fu costretta a interrompere la fase più aggressiva di Aerodynamic, ma non cancellò l’operazione. Fu riadattata. A partire dal 1953, Lebed e un gruppo di collaboratori iniziò a operare per realizzare giornali, programmi radio e libri che si ispiravano al nazionalismo ucraino. L’obiettivo era distribuirli di nascosto nel Paese. Poi nel 1956 questo gruppo di lavoro divenne un’associazione no-profit chiamata Prolog Research and Publishing, stratagemma che permetteva alla CIA di far giungere finanziamenti senza lasciare traccia. In un secondo tempo, per evitare che le autorità potessero scoprire cosa si celava dietro il progetto, l’Agenzia trasformò l’associazione nella Prolog Research Corporation, che aveva un ufficio anche in Germania chiamato Ukrainische-Gesellschaft für Auslandsstudien, EV. Sarà proprio questo a pubblicare la maggior parte della documentazione. Lo schema usato da Prolog era semplice: gli autori di origine ucraina, che avevano lasciato il Paese, venivano reclutati per realizzare i lavori senza sapere che stavano lavorando per l’intelligence statunitense. Solo un ristretto numero ne era al corrente. Ma come veniva fatto entrare in Ucraina il materiale? Nel 1955 un gran numero di volantini furono lanciati per via aerea, mentre una trasmissione radio chiamata Nova Ukraina andava in onda da Atene. Come ben spiegato da Breitman e Goda «queste attività diedero il via a campagne sistematiche di mailing in Ucraina attraverso contatti ucraini in Polonia ed… emigrati in Argentina, Australia, Canada, Spagna, Svezia e altrove. Il giornale Suchasna Ukrainia (Ucraina Oggi), bollettini informativi, una rivista in lingua ucraina per intellettuali chiamata Suchasnist (Il Presente), e altre pubblicazioni furono inviate a biblioteche, istituzioni culturali, uffici amministrativi e privati in Ucraina. Queste attività incoraggiarono il nazionalismo ucraino, rafforzarono la resistenza ucraina e fornirono un’alternativa ai media sovietici. Solo nel 1957, con il supporto della CIA, Prolog trasmise 1200 programmi radio per un totale di 70 ore al mese e distribuì 200mila giornali e 5mila opuscoli». Una campagna massiccia il cui fine, come sottolineato da un funzionario della CIA, era dettata dal fatto che «una qualche forma di sentimento nazionalista continua a esistere [in Ucraina] e c’è l’obbligo di sostenerlo come arma della Guerra Fredda». Prolog non disdegnava la raccolta di informazioni, cosa che fu facilitata dal fatto che, sul finire degli anni Cinquanta, i sovietici allettarono le restrizioni sugli spostamenti all’estero. Ogni occasione – conferenze universitarie, eventi culturali e sportivi (le Olimpiadi di Roma ad esempio) – servivano per avvicinare personalità ucraine residenti in Unione Sovietica e sondare i sentimenti della popolazione nei confronti dei russi. Ecco perché la CIA era così entusiasta di Aerodynamic. Nel corso degli anni Sessanta, Lebed e compagni fornirono un gran numero di rapporti sulla situazione politica in Ucraina, informazioni sensibili sulle attività del KGB e la dislocazione delle forze armate. Il fatto che Mosca reagisse bollando questi gruppi clandestini – erano definiti “Banderisti” – come nazisti al soldo degli americani fu interpretato dalla CIA come una prova dell’efficacia del progetto. Non stupisce che le nuove generazioni nel Paese siano state influenzate dall’attività di Prolog (alcuni viaggiatori occidentali riferirono di aver potuto consultare il materiale pubblicato in diverse case private). Lebed lavorò al progetto fino al 1975 quando andò in pensione, continuando però a fornire consulenza. Nel 1978 a capo della struttura fu nominato il giornalista ucraino Roman Kupchinsky. Nel corso degli anni Ottanta l’Operazione Aerodynamic cambiò nome in Qrdynamic, Pddynamic e poi Qrplumb. Va fatto notare che nel 1977 si interessò del progetto anche Zbigniew Brzezinski, il potente consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, tenendo conto del fatto che i risultati ottenuti erano significativi e raggiungevano un vasto pubblico in Ucraina. La conseguenza fu che le operazioni furono estese ad altre aree e nazionalità dell’URSS (gli ebrei sovietici ad esempio). In base a quanto è stato possibile appurare, agli inizi degli anni Novanta, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Qrplumb non fu più finanziata, ma fu lasciata libera di operare. Difficile sapere come si sia mossa. I documenti non lo specificano.

L’ultimo atto

Nel 1985 Lebed venne menzionato da un rapporto governativo che indagava sulla presenza di nazisti e fiancheggiatori stabilitisi negli Stati Uniti grazie all’appoggio dei servizi segreti. In breve tempo l’OSI, l’Office of Special Investigations del Dipartimento di Giustizia, iniziò a indagare sul suo conto. Ancora una volta la CIA intervenne, temendo lo scandalo che ne sarebbe potuto derivare tra i membri della comunità ucraina negli Usa. Ma il grande timore era che l’Operazione Qrplumb potesse subire un contraccolpo. L’Agenzia negò categoricamente che Lebed avesse avuto a che fare con i nazisti e i crimini commessi in tempo di guerra, sostenendo che era stato un vero combattete ucraino per la libertà. Ma non è tutto. Fino al 1991 i funzionari della CIA fecero in modo di dissuadere l’Office of Special Investigations dal richiedere ai governi sovietico, polacco, tedesco informazioni sul suo conto. Alla fine, i funzionari del Dipartimento di Giustizia dovettero gettare la spugna. Lebed ebbe tutto il tempo di godersi la vecchiaia fino alla morte, sopraggiunta nel 1998.

Il limite della pazienza russa

Condividi su:

QUINTA COLONNA

di Alexandr Dugin

La storiella del Tribunale dell’Aia è simbolica. La Russia non si è mai chiesta prima che tipo di istituzione sia. In realtà, fa parte dell’attuazione del Governo Mondiale, un sistema politico sovranazionale creato sugli Stati nazionali che sono invitati a cedere parte della loro sovranità a favore di questa struttura. Ciò include la Corte europea dei diritti dell’uomo e la stessa UE, ma anche la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’OMS, ecc. La Società delle Nazioni, e in seguito l’ONU, è stata concepita come un’altra fase preparatoria sulla via dell’istituzione di un governo mondiale.

La verga del liberalismo

Trattiamo del liberalismo nelle relazioni internazionali, componente dell’ideologia liberale nel suo complesso. I liberali considerano la legge del “progresso” irreversibile, la cui essenza è che il capitalismo, il mercato, la democrazia liberale, l’individualismo, l’LGBT, i transgender, le migrazioni di massa, ecc. si stanno diffondendo in tutta l’umanità. Nella dottrina liberale delle relazioni internazionali, per “progresso” si intende la transizione da Stati nazionali sovrani a istanze di potere sovranazionali. L’obiettivo di questo “progresso” è l’istituzione di un governo mondiale. È dichiarato esplicitamente e inequivocabilmente nei libri di testo di Relazioni Internazionali. Tutti i Paesi che non vogliono il “progresso” sono, secondo questa teoria, nemici del “progresso”, “nemici di una società aperta”, quindi sono “fascisti” e devono essere giudicati (al Tribunale dell’Aia) e distrutti (“infliggere loro una sconfitta strategica” – Blinken) e al posto dei leader sovrani mettere dei liberali – preferibilmente transgender.

Questa è la posizione ideologica su cui si reggono il Partito Democratico statunitense, l’amministrazione Biden e la maggior parte delle élite europee. Anche tutte le forze dei Paesi non occidentali, che sostengono l’Occidente collettivo e i globalisti americani, giurano su questa ideologia. Ed è proprio questa l’ideologia: radicale, rigida, totalitaria.

La sfida è accettata

È un po’ sorprendente che la Russia, da 23 anni sotto un leader pienamente sovrano, non si sia preoccupata di affrontare il liberalismo e abbia, fino a un certo punto, accettato la legittimità delle sue regole, strutture e istituzioni.

Non sono loro a cambiare, la Russia è cambiata con l’avvio della SMO, e ne è seguita una legittima escalation da parte dei liberali globali. Non c’è nulla di casuale: è solo liberismo. Finché non rovesceremo questa ideologia, sia internamente che esternamente, l’escalation non potrà che aumentare.

Non possiamo semplicemente andare oltre senza la nostra ideologia.

La decisione del Tribunale dell’Aia di arrestare il presidente russo Vladimir Putin e l’ombudsman per i diritti dei bambini Maria Lvova-Belova è così oltraggiosa che è semplicemente impossibile non rispondere. È un insulto al Paese, al popolo, alla società, a ogni persona, a ogni donna russa, a ogni madre, a ogni bambino. Come si può rispondere a tutto questo con dignità?

A mio parere, ci sono dei veri colpevoli in tutta questa situazione e non sono a Washington o all’Aia: sono nella stessa Russia. Si tratta di un gruppo di liberali che da 23 anni convincono in tutti i modi possibili il Presidente che l’amicizia con l’Occidente è d’obbligo, che è l’unica via di sviluppo e che l’adozione dell’ideologia liberale, così come l’integrazione nelle strutture e nelle istituzioni liberali globaliste internazionali (compreso il riconoscimento della Corte penale internazionale, della CEDU, dell’OMS, ecc.) non hanno alternative. Hanno anche screditato il campo patriottico, sia di destra che di sinistra, convincendo il capo dello Stato che si starebbe solo sognando di inscenare un “Maidan”. In realtà, i patrioti, sia di destra che di sinistra, sono il popolo e il principale sostegno di Putin. Sono il suo sostegno, i suoi strenui sostenitori, ma i liberali al potere hanno sempre lodato l’Occidente e diffamato i patrioti. Questo accade da 23 anni, da quando Putin è salito al potere.

L’ora della resa dei conti

Siamo logicamente arrivati al punto in cui il lodato Occidente si è rivelato una struttura terroristica che ci assassina, fa esplodere i gasdotti, ruba i soldi, e noi, dopo essere stati ai suoi ordini per così tanto tempo, ci siamo ritrovati in una dipendenza umiliante; 23 anni fa avremmo dovuto seguire la rotta per stabilire la nostra civiltà russa eurasiatica.

Putin ha puntato sulla sovranità. Si presumeva – proprio sotto l’influenza dei liberali – che l’Occidente avrebbe accettato questa sovranità a patto che Mosca rimanesse nel contesto generale della civiltà occidentale, a patto che venisse coinvolta nelle sue strutture e istituzioni, a patto che accettasse i valori occidentali (capitalismo, democrazia liberale, digitalizzazione, cultura dell’annullamento, “wokismo”, cioè l’obbligo di denunciare chiunque non sia d’accordo con il liberalismo, LGBT). Si è trattato di un inganno fin dall’inizio e suddetto inganno ha degli individui specifici: il blocco liberale nella cerchia ristretta del Presidente. Sono loro che hanno contribuito a ciò che sta accadendo oggi, che hanno ostacolato il risveglio patriottico, che hanno fatto tutto il possibile per separare il Presidente dal popolo, dal nucleo russo, dai portatori della coscienza patriottica.

È arrivato il momento di regolare i conti. O sta per arrivare. Non so cos’altro debba accadere perché i liberali al potere siano chiamati al tappeto e interrogati severamente. Forse manca anche qualcos’altro, ma in ogni caso non ci vorrà molto. La spada della vendetta è sulla testa dei liberali russi al potere e nulla può impedire la naturale punizione, si può ritardare un po’ ma non si può evitare.

I liberali russi devono rispondere di tutti i loro crimini. Senza questo non ci sarà purificazione né vittoria.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Foto: Idee&Azione – Fonte: https://www.ideeazione.com/il-limite-della-pazienza-russa/

19 marzo 2023

Disinformazione in Ucraina

Condividi su:

di Dough Bandow

Il senatore del Kentucky Mitch McConnell, un repubblicano che nominalmente rappresenta lo Stato americano e serve il popolo americano, ha recentemente dichiarato che l’Ucraina è la priorità assoluta di Washington. A quanto pare non capisce dove si trova la sua lealtà e dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di candidarsi in Ucraina, magari in un’area vicina a Kiev.

I funzionari ucraini non hanno dubbi. Sono al servizio dell’Ucraina e sono disposti a gettare gli americani nel caos e persino a trascinare gli Stati Uniti in una guerra, se ciò fa comodo agli interessi di Kiev. Perché? Perché, a differenza di McConnell, la leadership ucraina dà priorità agli interessi nazionali.

Data la convinzione di Kiev che l’Ucraina sia Uber Alles, i funzionari ucraini sono molto scontenti degli americani, che hanno la temerarietà di sostenere che le politiche di Washington dovrebbero riflettere innanzitutto gli interessi americani. Ad esempio, pur sostenendo gli aiuti a Kiev e le sanzioni contro la Russia, ritengo che l’imperativo per Washington sia garantire la sicurezza, la libertà e la prosperità degli americani: ciò significa limitare le possibilità di escalation e di espansione del conflitto e ridurre i futuri obblighi finanziari dell’America. Washington dovrebbe anche insistere per spostare la responsabilità della difesa agli evasivi europei, che ora stanno persino rinnegando le promesse fatte mesi fa di aumentare lo sforzo militare.

Di conseguenza, mi ritrovo nella lista di odio dell’operazione di propaganda ucraina, il cosiddetto Centro per il contrasto alla disinformazione, finanziato in parte dai contribuenti statunitensi. Gli operatori di Kiev non cercano di mettere in discussione le argomentazioni di coloro che si rifiutano di mettere l’Ucraina al primo posto. Il CCD accusa piuttosto i negazionisti di promuovere la propaganda russa piuttosto che quella ucraina. Sebbene le loro opinioni siano state espresse da “propagandisti non russi”, il CCD ha dichiarato che “promuovono narrazioni coerenti con la propaganda russa”. Non è sufficiente che il Congresso apra ampiamente i caveau del Tesoro e gli arsenali del Pentagono a Kiev. Tutti gli americani devono parlare con una sola voce, cantare ovazioni in onore del governo Zelensky e unirsi intorno agli obiettivi militari dell’Ucraina.

Almeno non sono l’unico sulla “lista nera” del CCD. Tra gli altri accusatori di Putin ci sono, ovviamente, Tucker Carlson di Fox News e, meno ovviamente, John Mearsheimer dell’Università di Chicago, che ha descritto nei dettagli la cattiva condotta degli Stati Uniti e dei suoi alleati che ha causato la crisi attuale. Incredibilmente, anche il nome dell’economista Steve Hanke, con cui ho lavorato ai tempi dell’amministrazione Reagan, è apparso sulla lista nera. Anche il giornalista Glenn Greenwald e l’economista Jeffrey Sachs, tra gli altri americani, fanno parte della lista.

Nonostante le dichiarazioni esplicite del governo Zelensky, continuo a credere che un’aggressione brutale sia un’aggressione brutale, ma la famosa lista CCD suggerisce che Kiev ha paura del dibattito razionale e della politica razionale.

Come già detto, ritengo che Mosca si sbagli di grosso nel proseguire l’operazione speciale. Detto questo, se Kiev ha intenzione di scagliarsi contro chi non va a letto cantando “Ucraina la bella” e “Dio benedica Zelensky”, allora ripagare il debito sembra giusto. Pensate alle carenze di Kiev e a quanti politici americani come McConnell, analisti e giornalisti si sono trasformati in spudorati propagandisti ucraini.

L’Ucraina è più libera della Russia, ma difficilmente rappresenta l’ideale democratico. Anche prima che Mosca lanciasse la sua operazione speciale, Freedom House valutava l’Ucraina solo “parzialmente libera”. La valutazione: “La corruzione rimane pervasiva e le iniziative governative per combatterla hanno incontrato resistenza e sono fallite. Gli attacchi a giornalisti, attivisti della società civile e gruppi di minoranza sono frequenti e la risposta della polizia è spesso inadeguata. Il collega del Cato Institute Ted Galen Carpenter cita “gli sforzi per soffocare le critiche interne” e altre tendenze autoritarie. Nel 2019, solo il 9% degli ucraini si fidava del proprio governo e il 12% delle elezioni ucraine.

Nel 2014 l’Ucraina ha vissuto una transizione politica non democratica, ma ampiamente accolta dall’Occidente. La rivoluzione di Maidan è stata guidata dalla strada, non dal voto. Yanukovych, benché corrotto, è stato eletto in un’elezione che molti ritenevano libera, ma l’elettorato era profondamente diviso: l’est era legato alla Russia e l’ovest era orientato verso l’Europa e l’America. Era terribilmente corrotto, ma seguiva la fallimentare presidenza di Viktor Yushchenko, che si era classificato quinto al primo turno delle elezioni con solo il 5,5% dei voti. Kiev si trovava nel territorio dell’opposizione e naturalmente attirava gli oppositori di Yanukovich. I sondaggi dell’epoca mostravano che l’opposizione era sostenuta da circa la metà della popolazione, mentre Yanukovych manteneva un livello di sostegno del 40% – e parlare contro di lui equivaleva a un colpo di stato contro un leader cattivo ma legittimamente eletto. I cittadini dell’Est hanno preferito i legami economici con la Russia a quelli con l’Europa. Quattro anni dopo, il Paese è rimasto fortemente diviso, con gli abitanti dell’Ucraina occidentale che hanno definito il Maidan una lotta per i “diritti e i valori europei” e quelli dell’est che lo hanno definito un “colpo di Stato organizzato dall’Occidente”.

Zelensky non è affatto esente da colpe. Prima dell’invasione della Russia, ha perseguito l’ex presidente e potenziale futuro avversario Petro Poroshenko per tradimento. Questo procedimento è stato molto simile al modo in cui Yanukovych, caduto in disgrazia, ha imprigionato la sua perenne avversaria Yulia Tymoshenko. Freedom House ha inoltre osservato che:

Zelensky e due dei suoi più stretti collaboratori sono stati coinvolti in attività finanziarie offshore in ottobre, dopo la pubblicazione dei Pandora’s Papers, una serie di documenti che rivelano le attività offshore di leader politici e altre figure di spicco in tutto il mondo. Nello stesso mese, l’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) ha riferito che Zelensky ha creato società offshore prima di diventare presidente, ma ha continuato a trarne profitto anche dopo il suo insediamento.

Nonostante il suo coinvolgimento in schemi di corruzione, Zelenski ha apparentemente cercato di attirare gli Stati Uniti e la NATO nella guerra, sostenendo che l’attacco missilistico ucraino alla Polonia è stato causato dalla Russia. Se l’Occidente poteva facilmente determinare l’origine e la traiettoria del missile, lo stesso poteva fare l’esercito ucraino. O qualcuno ha mentito a Zelensky o lui ha mentito all’Occidente, che sta sostenendo la sua guerra. In ogni caso, dovrebbe essere ovvio che Washington e Bruxelles non possono fidarsi di Kiev. Un leader straniero che ritiene sia nel suo interesse coinvolgere l’America in una guerra con una grande potenza, potenzialmente sfociante in una guerra nucleare, non è un amico e, francamente, è più pericoloso della Russia.

L’Ucraina e i suoi alleati ingannano abitualmente Mosca. L’Occidente ha sempre mentito a Mosca sull’espansione della NATO e ha anche ingannato l’Ucraina sull’adesione all’alleanza transatlantica. Poroshenko, predecessore di Zelensky, ha ammesso che gli “accordi di Minsk” tra Kiev e Mosca, sostenuti dall’Europa, non sono mai stati destinati a essere attuatilo stesso ha fatto di recente l’ex cancelliere tedesco Angela Merkel. Gli alleati dicono comprensibilmente di non potersi fidare di Mosca. Ma perché la Russia dovrebbe prendere sul serio le promesse ucraine o degli alleati?

Gli Stati Uniti non accetterebbero mai un comportamento simile da parte della Russia. Immaginate se Mosca estendesse il Patto di Varsavia al Sud America, facilitasse il rovesciamento di un governo filoamericano regolarmente eletto in Messico e poi invitasse le nuove autorità a unirsi al Patto di Varsavia. L’isteria di massa a Washington sarebbe intervallata da richieste di una risposta dura, fino alla guerra. Pur ammantandosi di moralità, Washington sta attivamente strangolando Cuba e il Venezuela dal punto di vista economico per installare governi più amichevoli. Dopo tutto, si trovano nella sfera di influenza degli Stati Uniti, come stabilito due secoli fa dalla Dottrina Monroe.

Nessuno di questi fattori cambia il fatto che il comportamento della Russia è criminale e che gli Stati Uniti dovrebbero aiutare l’Ucraina a difendere la propria indipendenza. Tuttavia, gli attacchi ucraini agli americani per aver messo gli Stati Uniti al primo posto servono a ricordare che gli americani devono difendere i loro interessi contro tutte le minacce, compresi i falsi amici come Kiev. Altrimenti, Washington rischia di trovarsi invischiata in una guerra aspra e sanguinosa che non è la sua. Forse è giunto il momento che gli Stati Uniti istituiscano un proprio Centro per la lotta alla disinformazione, focalizzato sull’Ucraina.

Traduzione a cura della Redazione

Foto: Controinformazione.info

Fonte: https://www.ideeazione.com/disinformazione-in-ucraina/

LA GUERRA INUTILE DI WASHINGTON PER CONTO DI UNA FALSA NAZIONE

Condividi su:

QUINTA COLONNA

di David Stockman – AntiWar.com – 28 settembre 2022

I messaggi arrivano forti e chiari oggi: dal crollo della sterlina, al ripudio dei governi di establishment in Italia, Svezia e altri ancora, fino all’appello del Primo Ministro ungherese Orban a porre fine alla guerra delle sanzioni e a farlo subito.

Quindi, parliamoci chiaro: l’insensato intervento di Washington nella disputa intestina tra Russia e Ucraina e la guerra delle sanzioni globale che l’accompagna è sicuramente il progetto più stupido e distruttivo che sia nato sulle rive del Potomac nei tempi moderni. E gli architetti di questa perfida follia – Biden, Blinken, Sullivan, Nuland e altri – non possono essere condannati abbastanza duramente.

Dopo tutto, questa follia viene perseguita in nome di norme politiche astratte – lo Stato di diritto e la santità dei confini – che rendono Washington uno zimbello. Più di ogni altra nazione sul pianeta (e di gran lunga), negli ultimi decenni ha violato questi standard in modo grave e palese per decine di volte.

Tra le altre azioni, gli interventi di Washington in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Siria, Somalia, ecc. non sono stati solo inutili, ma anche un’evidente violazione dello stesso Stato di diritto e della sacralità dei confini su cui Washington si batte sempre più strenuamente.

Inoltre, crogiolandosi in questa sguaiata ipocrisia, Washington ha abbandonato ogni parvenza di buon senso sul perché questo conflitto sia avvenuto e sul perché sia del tutto irrilevante per la sicurezza nazionale della nazione americana o, se vogliamo, anche dell’Europa.

Il fatto fondamentale è che, a parte il periodo storicamente breve del ferreo dominio comunista durante l’era sovietica, l’Ucraina non è mai stata uno Stato nazionale all’interno dei suoi confini post-1991. Infatti, per oltre 275 anni prima del 1918, gran parte dei suoi territori erano terre di confine, vassalli e vere e proprie province della Russia zarista.

Non abbiamo quindi a che fare con l’invasione di uno Stato di lunga data, etnicamente e linguisticamente coerente, da parte del suo aggressivo vicino, ma con il pot-pourri di lingue, territori, economie e storie separate che sono state tritate insieme da brutali governanti comunisti tra il 1918 e il 1991.

Di conseguenza, l’inverno buio e freddo del collasso stagflazionistico in Europa, che si avvicina rapidamente, non è fatto in eroica difesa dei grandi principi proposti da Washington e dalla NATO. Al contrario, si tratta di un’inutile e sporca attività di conservazione di un ignobile status quo ante che è stato creato nelle terre a nord del Mar Nero, non dal normale corso dell’evoluzione storica e dell’accrescimento degli Stati nazionali, ma dalle mani sanguinarie di Lenin, Stalin e Kruscev.

In ogni caso, i costi economici impressionanti per la gente comune d’Europa nel perseguire uno scopo così inconsistente ed illegittimo stanno iniziando ad essere avvertiti dalle vittime a lungo sofferenti dei governanti elitari di Bruxelles. Da qui il tuono delle elezioni italiane di questo fine settimana e l’appello parallelo di Viktor Orbán all’Unione Europea affinché elimini le sanzioni e quindi potenzialmente riduca i prezzi dell’energia della metà in un colpo solo.

Orbán non è nemmeno l’unico a chiedere la fine delle sanzioni: anche il primo ministro greco Kyriakos Mitsotaki ha chiesto l’abrogazione delle sanzioni russe. Altri leader politici, come Matteo Salvini, che guida il partito conservatore della Lega e sarà una forza importante nel nuovo governo italiano, affermano che l’Europa ha bisogno di un “ripensamento” sulle sanzioni alla Russia a causa delle pesantissime ricadute economiche.

Allo stesso modo, anche il partito conservatore Alternativa per la Germania (AfD) spinge per la fine delle sanzioni e per la riapertura dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (ma che strano, i gasdotti sono saltati, N.d.T.) a causa dell’aumento dei costi energetici in Germania. Il membro dell’AfD al Bundestag, Mariana Harder-Kühnel, ad esempio, ha recentemente fatto eco all’appello di Orbán.

“La burocrazia dell’UE ha tirato fuori le sanzioni e ora siamo noi a pagare il conto”, ha dichiarato.

In questo contesto, il crollo della sterlina inglese, che si è verificato da venerdì sul mercato ForEx parla più di ogni altra cosa.

La sterlina britannica è rapidamente precipitata al livello più basso di sempre all’inizio di questa mattina, toccando 1,0349 dollari durante le ore di negoziazione asiatiche, superando il precedente minimo storico del 1985. Inoltre, il crollo odierno ha fatto seguito a quello del 3% di venerdì scorso, dopo che il nuovo governo Truss aveva annunciato ampi tagli alle tasse e un massiccio salvataggio energetico per imprese e privati.

Allo stesso modo, il prezzo del debito pubblico britannico è sceso di pari passo con la sterlina, con rendimenti in forte aumento anche oggi. Il titolo di Stato a 10 anni rendeva il 4,11%, con un aumento di 28 punti base rispetto a venerdì e uno sbalorditivo 342% rispetto al rendimento dello 0,93% di un anno fa.

uk_10_y_bondRendimento titolo di stato decennale britannico

A scanso di equivoci, ecco l’andamento della sterlina negli ultimi dodici mesi. Questo è un enorme “pollice verso” da parte dei mercati ForEx, se mai ce n’è stato uno.

uk_10_y_poundAndamento della sterlina inglese negli ultimi dodici mesi

Ma il punto rilevante non sono tutte le chiacchiere keynesiane “sull’errore” di abbassare l’aliquota fiscale massima del 45% e di eliminare altri disincentivi al lavoro e agli investimenti che portano le aliquote marginali britanniche al 60%. Queste riduzioni delle schiaccianti aliquote fiscali che i governi conservatori e laburisti hanno eretto in cima allo sfarzoso Welfare State del Regno Unito erano attese da tempo e, di fatto, stimoleranno un’attività economica compensativa.

Ciò che in realtà distruggerà i resti della sostenibilità fiscale del Regno Unito è il piano assolutamente folle della Truss di congelare tutti i prezzi dell’energia per tutti i cittadini e le imprese, con un costo di oltre 200 miliardi di dollari all’anno o del 5% del PIL.  Ma questa è una follia neocon galoppante.

Se Londra vuole alleviare ai propri consumatori i prezzi esorbitanti dell’energia e delle altre bollette, deve solo seguire il consiglio di Orban e porre fine alla sua guerra di sanzioni contro le esportazioni russe di energia, cibo e altre materie prime. E non costerebbe un centesimo all’erario.

In altre parole, il crollo della sterlina dovrebbe essere un campanello d’allarme generale per l’Europa e anche per Washington. Dichiarando guerra al commercio produttivo e pacifico con la Russia che prevaleva in precedenza, i leader europei – soprattutto il nuovo governo del Regno Unito – hanno sacrificato la propria prosperità e il tenore di vita dei loro cittadini a favore di un regime prodigiosamente corrotto e antidemocratico a Kiev, dedito a preservare intatto nulla di più nobile della mano morta del vecchio Presidium sovietico.

O come ha giustamente riassunto il nostro amico James Howard Kunstler:

“Accettiamo il fatto che il luogo chiamato Ucraina non è mai stato affare dell’America. Per secoli l’abbiamo ignorata, attraverso tutte le colorate cariche di cavalleria di turchi e tartari, il regno degli audaci cosacchi zaporoziani, i crudeli abusi di Stalin, poi di Hitler, e gli anni grigi e spenti da Krusciov a Eltsin. Ma poi, dopo aver distrutto l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Somalia e vari altri luoghi per un grande gioco egemonico, i guerrafondai professionisti della nostra terra e i loro catamiti a Washington hanno fatto dell’Ucraina il loro prossimo progetto speciale. Hanno architettato il colpo di Stato del 2014 a Kiev, che ha spodestato il presidente regolarmente eletto, Yanyukovich, per creare un gigantesco supermercato di truffe e di riciclaggio internazionale. L’altro obiettivo strategico era quello di preparare l’Ucraina all’adesione alla NATO, che l’avrebbe resa, di fatto, una base missilistica avanzata proprio contro il confine con la Russia. Perché, beh, Russia, Russia, Russia!”

Torniamo quindi alla questione in oggetto: ogni elezione presidenziale ucraina dal 1991 ha rivelato una nazione radicalmente divisa tra popolazioni filorusse a Est e a Sud e nazionalisti antirussi al centro e a Ovest. Quando il pugno di ferro del regime comunista è stato rimosso, infatti, l’Ucraina è diventata un territorio che anelava a essere suddiviso in giurisdizioni di governo più facilmente accessibili.

Per esempio, ecco i risultati delle elezioni del 2010 che hanno portato un politico filo-russo alla presidenza e che hanno dato origine al putsch di Washington durante la rivolta di Piazza Maidan che ha presto portato il Paese alla guerra civile.

2010_vote_ukraineRisultati delle elezioni del 2010 in Ucraina

La mappa sopra riportata rende a malapena giustizia alle cifre reali. In molte delle aree gialle, che sostenevano Julia Tymoshenko, il voto era stato dell’80% o più a favore della candidatura nazionalista di quest’ultima, mentre in gran parte dell’area blu la vittoria del filo-russo Viktor Yanukovych aveva le stesse percentuali.

Ma non si è trattato di un caso isolato di politica elettorale a breve termine: si tratta in realtà della recrudescenza del modo in cui la finta nazione ucraina è stata messa insieme negli ultimi tre secoli.

Prima della fine della prima guerra mondiale, non esisteva uno Stato ucraino. Come le politiche artificiali e insostenibili della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, create a Versailles da politici che servivano i propri interessi (in particolare da Woodrow Wilson, in cerca di voti a casa propria), l’Ucraina era un prodotto dell’ingegneria geopolitica, in questo caso dei nuovi governanti dell’Unione Sovietica.

In effetti, la provenienza storica “dell’Ucraina” può essere descritta in poche parole. Quella che sarebbe diventata l’Ucraina si unì alla Russia nel 1654, quando Bohdan Khmelnitsky, un atamano dell’Armata Zaporozhiana (traduzione forzata dell’originale Zaporozhian Host, N.d.T.), presentò una petizione allo zar russo Alessio affinché accettasse l’Armata Zaporozhiana nella Russia. In altre parole, la Russia imperiale diede origine all’odierna aggregazione dell’Ucraina annettendo al suo servizio i temibili guerrieri cosacchi che abitavano la sua regione centrale.

L’esercito e il piccolo territorio allora sotto il controllo dell’atamano furono chiamati “u kraine”, che in russo significa “ai margini”, un termine che era nato nel XII secolo per descrivere le terre al confine con la Russia.

Nei 250 anni successivi, l’espansionismo degli zar aggiunse sempre più territori adiacenti, designando le regioni orientali e meridionali come “Novorussiya” (Nuova Russia), territori che includevano la Crimea che Caterina la Grande acquistò dagli Ottomani nel 1783.

In altre parole, all’epoca dell’indipendenza dell’America, il cuore dell’odierna Ucraina era governato dal lungo braccio dell’autocrazia zarista.

Dopo la rivoluzione bolscevica, naturalmente, la mappa cambiò radicalmente. Nel 1919 Lenin creò lo Stato socialista dell’Ucraina su parte del territorio dell’ex Impero russo. L’Ucraina divenne ufficialmente la Repubblica Popolare Ucraina con capitale Kharkov nel 1922 (spostata a Kiev nel 1934).

Di conseguenza, il nuovo Stato comunista fagocitò la Novorussiya per le porzioni orientali e meridionali dell’area verde nella mappa mostrata più sotto, comprese le regioni di Donetsk e Lugansk, nonché le regioni di Kherson e Zaporizhzhia che si affacciano sul Mar d’Azov e sul Mar Nero e che sono i luoghi degli odierni referendum di secessione sponsorizzati dalla Russia.

Successivamente, nel 1939, in seguito al famigerato Patto nazi-sovietico, Stalin poté annettere i territori orientali della Polonia, come indicato dalle aree gialle della mappa. In questo modo, il territorio storico della Galizia e la città polacca di Lvov furono incorporati nell’Ucraina con un decreto congiunto di Stalin e Hitler.

Nel giugno del 1940 la Romania ottenne da Stalin l’annessione della Bucovina settentrionale (area marrone). Infine, alla conferenza di Yalta del 1945, su insistenza di Stalin presso Churchill e Roosevelt, anche la Rutenia ungherese dei Carpazi fu incorporata nell’Unione Sovietica e aggiunta all’Ucraina.

L’insieme di queste confische staliniane è oggi noto come Ucraina occidentale, la cui popolazione comprensibilmente non va d’accordo con i russi. Allo stesso tempo, l’85% della popolazione di lingua russa che abita la zona viola (Crimea) fu regalata all’Ucraina da Kruscev nel 1954 proprio per prolungare la sua adesione alla dittatura comunista.

Ciò nonostante, dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, l’Ucraina ha ereditato questi confini confezionati dal comunismo, all’interno dei quali si trovavano circa 40 milioni di russi, polacchi, ungheresi, rumeni, tartari e innumerevoli altre nazionalità minori, tutti intrappolati in un Paese appena dichiarato in cui non desideravano particolarmente risiedere.

ukraine_territoryEvoluzione territoriale dell’Ucraina

In effetti, il motivo per cui lo sfortunato Stato “dell’Ucraina” ha bisogno di un aiuto nella divisione, non di una guerra per preservare il lavoro di zar e commissari, è stato ben riassunto da Alexander G. Markovsky su American Thinker:

“L’odierna guerra civile ucraina è quindi notevolmente aggravata dal fatto che, a differenza di società pluralistiche come gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera e la Russia, che sono tolleranti nei confronti di culture, religioni e lingue diverse, l’Ucraina non lo è. Non sorprende che la devozione al pluralismo non sia il suo forte. Anche se il regime di Kiev non aveva radici storiche nel territorio in cui si trovava, dopo aver dichiarato l’indipendenza ha imposto le regole ucraine e la lingua ucraina ai non ucraini.

Di conseguenza, i sentimenti filorussi – che vanno dal riconoscimento dello status ufficiale della lingua russa alla vera e propria secessione – sono sempre stati prevalenti in Crimea e nell’Ucraina orientale. L’Ucraina occidentale ha sempre gravitato verso le sue radici polacche, rumene e ungheresi. Enfaticamente anti-russa, la Polonia potrebbe non perdere questa opportunità strategica per riacquistare il proprio territorio e vendicare l’umiliazione inflitta dalla Conferenza di Yalta.

L’insistenza dell’Occidente nel mantenere lo status quo dei confini ucraini stabiliti da Lenin, Stalin e Hitler mette in luce lo scollamento tra dottrina strategica e principi morali. 

I polacchi non fanno mistero delle loro ambizioni. Il presidente polacco Andrzej Duda ha recentemente dichiarato: “Per decenni, e forse, Dio non voglia, per secoli, non ci saranno più confini tra i nostri Paesi – Polonia e Ucraina. Non ci saranno confini!”.

Neppure la Romania resta molto indietro, soprattutto alla luce del fatto che molti abitanti dell’ex Bucovina settentrionale hanno già il passaporto rumeno.

Il territorio dell’Ucraina è un mosaico di terre altrui. Se vogliamo fermare questa guerra folle e garantire la pace in Europa, invece di definire una farsa il referendum sponsorizzato dalla Russia nell’Ucraina orientale, dovremmo condurre un referendum onesto in tutti i territori contesi sotto l’egida delle Nazioni Unite e lasciare che il popolo decida quale governo vuole.”

Inutile dire che la spartizione del falso Stato ucraino non è neanche lontanamente nei pensieri di Washington. Dopo tutto, eliminerebbe l’ultima ragione neocon per diffondere la benedizione della guerra perenne alle zone più belle del pianeta.

dave_stockman David Stockman è stato per due mandati deputato del Michigan. È stato anche direttore dell’Ufficio di gestione e bilancio sotto il presidente Ronald Reagan. Dopo aver lasciato la Casa Bianca, Stockman ha avuto una carriera ventennale a Wall Street.

 

Link: https://original.antiwar.com/David_Stockman/2022/09/27/washingtons-pointless-war-on-behalf-of-a-fake-nation/

La globalizzazione targata Usa è un ricordo

Condividi su:

di Claudio Risé

Fonte: Claudio Risé

Non è più a Washington, con succursale Bruxelles, il centro decisionale planetario: il nuovo mondo è multipolare in cui avanzano l’Oriente e gran parte dell’Africa, dove si concentra il grosso della popolazione. L’Occidente e i suoi propagandisti ne prendano atto.

Più che atlantismo, quello dei supereditoriali dei superquotidiani è testardo attaccamento a un passato remoto scambiato per presente-futuro. E più che ideali democratici ciò che si intravede dietro i peraltro vaghissimi programmi sono sogni imperialisti neppure troppo nascosti. Anche qui (come nell’imperialismo vero) esposti con un gusto avventuroso/fiabesco, che fa sorridere trovare nelle prosa dei numerosi editorialisti/professori. I quali sono quasi tutti emeriti per via dell’anagrafe (che come ricordava Arbasino non perdona), e quindi si fatica a vedere così eccitati e appassionati per questo sfoderare di (costosissime) armi e vaticini di vittorie. A me che sono ancora più vecchio di molti di loro fanno venire in mente l’indimenticabile manifesto: “Ascoltatemi! Votate Italia e non Fronte popolare” gridato da uno scapigliato signore in giacca e camicia, naturalmente stazzonate, che correva fuori da un paesaggio in fiamme, in fondo al quale si intravedeva… cosa? Il Cremlino, naturalmente (e certo con più ragioni di oggi). Del resto anch’io che avevo 10 anni, non avrei voluto che vincesse il Fronte Popolare. Però mia sorella (che ne aveva 8 più di me) e lanciava i volantini dalla finestra mi dava già fastidio: a esagerare si sporca in terra e non serve a niente.
Adesso poi non c’è più nemmeno il Fronte popolare, e Stalin è morto da tempo. Putin no, forse anche perché i vaticini della sua morte imminente, sfoderati in continuazione dagli esperti americani e dell’UE allungano la vita, come è noto a tutti tranne che ai menagramo prezzolati, che vivono confezionandoli. Comunque Putin è in tutt’altre faccende affaccendato; ha ben altro cui pensare che appassionarsi all’oziosa fantasia di sloggiare Mattarella, il nonno inamovibile.
Soprattutto, però, non esiste più nulla di ciò di cui i pensosi opinion makers della carta e altri media parlano, alla ricerca di brividi. L’universo culturale   della crème atlantica è in ritardo sulla realtà di oltre 70 anni: del mondo delle loro fantasie non c’è più nulla, tranne loro stessi, con i loro sogni un po’ infantili. Lo stesso Draghi non ha mai vissuto il mondo dei Fronti popolari: nel 1948, l’anno che li mise fuori gioco, aveva solo un anno. Per i saggi amici della guerra russo-ucraino-americana il mondo è una favola bella che finirà bene, e si vede da come ne parlano: i buoni contro i cattivi sicuramente vinceranno, come appunto nelle favole; come se le cose rimanessero quelle del racconto che li ha impressionati da piccoli, e non fossero in continuo cambiamento. Se però non ti tieni ai fatti di oggi, e rimani agli stereotipi del secolo precedente, rischi di prendere cantonate letteralmente micidiali, nel senso che portano più morti che vita.
Nell’orrore del quadro complessivo, viene anche un po’ da ridere a vedere tanto accanimento e pagine investite nel calcolare dove si annidi il tumore che ucciderà presto lo “Zar”, come viene fantasiosamente definito Putin, uno degli uomini più incolori, lontano in tutto da quei pittoreschi Imperatori. Oppure a seguire le previsioni della Presidente d’Europa Ursula von Leyden sull’altrettanto imminente crollo del rublo, e fallimento della Russia. Dichiarazioni finora seguite  da rafforzamenti del rublo, e brillante bilancia dei  pagamenti. Mentre poi i professori russofobi insistono con descrizioni della medioevale Russia, maschilista e arretrata, la banchiera russa Elvina Nabiullina, pur non sempre in accordo con Putin, è l’unico banchiere centrale che in piena guerra e sanzioni sia riuscita a rallentare l’inflazione, battendo sia l’europea Lagarde che l’americano Jerome Powell, capo delle Federal Reserve.
Il fatto è che i nostri insigni commentatori, nel solco del forse già insigne ma oggi in evidenti difficoltà Mario Draghi, non si sono accorti che il mondo, da tempo, non è più solo quello dei due continenti Europa e Stati Uniti e loro appendici meridionali, divisi dall’oceano Atlantico. Il mondo “globalizzato” a trazione americana, con la Cina in rincorsa, ma il cui centro decisionale è stabilmente negli Stati Uniti con succursale a Bruxelles, è ormai un fatto soprattutto burocratico. Quella globalizzazione è finita da tempo. Al suo posto c’è un mondo multipolare (di cui i nostri saggi commentatori non parlano mai) dove al polo occidentale più o meno atlantico si è stabilmente affiancato quello orientale con al suo interno subcontinenti decisivi come la Russia, la Cina, l’India, il sud est asiatico, buona parte dell’Africa tutti con le loro culture, modi di vita, valori, risorse e povertà.
La gran parte della popolazione mondiale abita in questo Oriente, che non ha votato all’ONU le sanzioni alla Russia. È qui che nasce buona parte delle idee e intuizioni più produttive del mondo di oggi, legate a tradizioni mai morte e nutrite da culture, anche religiose, che l’Oriente ha continuato a rispettare, a differenza dell’Occidente razionalista e iconoclasta. I nostri professori, più o meno tardivi figli di un Illuminismo avido e oggi estenuato sanno poco di questo polo e della trasformazione in atto nel mondo; per questo si permettono di trattare la Russia come un paese di incivili attardati e il suo capo come un esotico criminale. Il capo russo però, amato e odiato che sia, è uno dei protagonisti di questo mondo. Mentre la loro visione è tristemente provinciale, irrespirabile: anche per questo Macron ha perso la sua maggioranza, malgrado l’Ecole d’Administration in cui si è formato. La società non è solo amministrazione: è anche cultura e fede.

La roulette russa

Condividi su:

di Fabio Falchi

Fonte: Fabio Falchi

“Non accettiamo i ricatti dei russi” ha affermato  von der Leyen, che evidentemente, come la stragrande dei politici europei (Draghi incluso), non si è ancora resa conto che la Russia è in guerra non solo contro l’Ucraina ma contro la Nato che oltre a consegnare armi di ogni genere all’esercito ucraino che sta combattendo contro l’esercito russo, collabora con lo stato maggiore ucraino, dato che l’apparato militare di Kiev è ormai “integrato” nel sistema di comando, controllo e comunicazioni della Nato.
In gioco quindi per Mosca non c’è soltanto la sicurezza del Donbass ma quella della Russia stessa, tanto più che il ministro della Difesa americano ha dichiarato che lo scopo della Nato è mettere la Russia nelle condizioni di non potere più rappresentare una minaccia per qualsiasi Stato. In altri termini è quello di infliggere una sconfitta alla Russia tale che non possa più muovere guerra a nessun Paese. E questo sarebbe possibile, ovviamente, solo se la Russia non esistesse più o non fosse più uno Stato in grado difendere la propria indipendenza e sovranità.
La guerra, anche mediatica ed economica, che l’Occidente a guida angloamericana di fatto sta combattendo contro la Russia quindi ha scopi ben diversi dalla necessità di garantire l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina, e conferma invece la “percezione della realtà” che hanno i russi (si badi, non solo quella di Putin), vale a dire che la Russia adesso è impegnata in una lotta per la vita o per la morte. Perciò Putin, sapendo di contare sul sostegno del popolo russo, che non ha certo dimenticato la Seconda guerra mondiale, al riguardo è stato chiarassimo: la Russia è disposta ad andare fino in fondo, costi quel che costi.
Non è dunque Putin ad essere prigioniero della propria propaganda come sostengono i media occidentali, ma sono i politici e i media occidentali che rischiano di essere prigionieri della propria propaganda. Manca cioè in Occidente la percezione del pericolo reale che si sta correndo e non si può ritenere che limitarsi ad affermare che si devono muovere mari e monti per aiutare la resistenza ucraina sia una strategia politica razionale, sempre che non si pensi che l’Ucraina possa resistere “da qui all’eternità”.
L’Ucraina e gli angloamericani vogliono cioè “vincere” la guerra contro la Russia. Ma che significa “sconfiggere la Russia”? I successi tattici degli ucraini possono anche essere notevoli ma non possono cambiare i reali rapporti di forza sotto il profilo strategico. O si può forse davvero credere che l’esercito ucraino riconquisti l’intero Donbass e pure la Crimea, e che quindi i russi si arrendano agli ucraini e accettino di subire una sconfitta disastrosa?
La Nato può prolungare questa guerra, ma non all’infinito, e più passa il tempo e peggio diventa la situazione non solo per l’Ucraina ma per l’intera Europa. Trattare del resto, non significa affatto arrendersi. E le condizioni per trattare ci sono, senza che vi sia bisogno di sacrificare “sull’altare” del realismo geopolitico l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina. Casomai, indipendentemente da quelle che possono essere le colpe della Russia, si tratta di non difendere il “narcisismo identitario” degli ucraini e di non condividere l’immagine fasulla della realtà diffusa dai media occidentali e dalla Nato ovvero dagli angloamericani che sembrano disposti a combattere contro la Russia fino all’ultimo ucraino e anche fino all’ultimo europeo.
Washington e Londra stanno cioè giocando alla roulette russa anche con le nostre vite, perché ciò che preme davvero agli angloamericani – che di fatto hanno il controllo del regime ucraino, dato che ormai quest’ultimo dipende militarmente ed economicamente dagli aiuti occidentali – è non certo cercare una soluzione diplomatica di questo conflitto, bensì cercare di “dissanguare” la Russia,  anche a costo di rischiare una guerra nucleare, perché, se non lo si fosse ancora capito, è questo il rischio che si sta correndo. D’altronde, anche la geopolitica ha le sue leggi e solo il realismo geopolitico può evitare che la sua meccanica sia irreversibile.

Russia, Ucraina e poi?

Condividi su:

di Patrick Armstrong

Fonte: Come Don Chisciotte

Per Mosca, l’Ucraina non è il problema, lo è Washington. O, come direbbe Putin: Tabaqui fa quello che Shere Khan gli dice e non ha senso trattare con lui, andate direttamente da Shere Khan. Questo è ciò che Mosca sta cercando di fare con le sue proposte di trattato.

Per la stessa ragione, Mosca non si preoccupa di ciò che dice l’UE o la NATO, ha capito che sono anch’essi dei Tabaqui.

A Washington l’attuale meme propagandistico è che la Russia sta per “invadere l’Ucraina” e assorbirla. Non lo farà: L’Ucraina è un Paese decadente, impoverito, deindustrializzato, diviso e corrotto; Mosca non vuole assumersene la responsabilità. Mosca è pienamente consapevole che, anche se le sue truppe sarebbero accolte a braccia aperte in molte regioni dell’Ucraina, in altre questo non succederebbe. Infatti, a Mosca sono del parere che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Stalin avrebbe fatto meglio a restituire la Galizia alla Polonia, piuttosto che annetterla alla Repubblica Socialista dell’Ucraina, in questo modo avrebbe scaricato il problema sulle spalle di Varsavia. Questo, comunque, non esclude come atto finale [per Mosca] l’eventuale assorbimento della maggior parte della Nuova Russia.

La seconda illusione di Washington è che se Mosca “invadesse l’Ucraina” inizierebbe l’attacco il più lontano possibile da Kiev, con i carri armati in fila indiana, in modo che le armi anticarro fornite dagli Stati Uniti possano far pagare ai Russi un costo pesante. Questo non è assolutamente ciò che farebbe Mosca, come spiega Scott Ritter. Mosca userebbe armi a distanza per obliterare le posizioni delle truppe ucraine, i centri di comando, controllo e intelligence, le aree di assemblaggio, le posizioni di artiglieria, i depositi di munizioni, i campi di aviazione, i porti ecc. A sua scelta. Finirebbe tutto così rapidamente che non ci sarebbe neanche il tempo di tirar fuori dagli imballi i missili Javelin. Ma questa è l’opzione estrema, come spiega Ritter.

Sfortunatamente i Blinken, i Sullivan, i Farkas, i Nuland e quelli che sembrano guidare la politica USA non capiscono nulla di tutto ciò. Continuano ad essere convinti che gli Stati Uniti siano una vera potenza, che la Russia sia debole e in declino, che la posizione di Putin sia traballante, che le sanzioni servano a qualcosa, che l’economia russa sia fragile e così via. E pensano di capire cosa sia una guerra moderna. Tutto negli ultimi vent’anni contraddice il loro punto di vista, ma loro continuano a crederci.

Prendete, ad esempio, Wendy Sherman, la principale negoziatrice americana a Ginevra questo mese. Guardate la sua biografia su Wikipedia. Assistente sociale, responsabile dei finanziamenti per i candidati del Partito Democratico, manager di campagne politiche, Fanny Mae [Federal National Mortgage Association], nominata da Clinton al Dipartimento di Stato, negoziatrice con l’Iran e la Corea del Nord. C’è qualcosa in questo curriculum che indichi una qualsiasi conoscenza o comprensione della Russia o della guerra moderna? (O magari della capacità di condurre negoziati?) Eppure, è lei quella che si occupa del problema. Jake Sullivan: avvocato, curatore di dibattiti, consigliere politico, idem.

Probabilmente ci sarà qualche generale americano che vede la realtà – certamente c’è chi ha parlato della formidabile difesa aerea della Russia o delle sue capacità nelle contromisure elettroniche; altri si rendono conto di quanto sarebbe debole la NATO in una guerra alle porte della Russia. Ma, come sottolinea il colonnello Lang, forse no.

Il problema è l’eccessiva fiducia radicata nel nulla. Mosca ha fatto una proposta che si basa su una posizione innegabilmente vera, quella che la sicurezza è reciproca. Se una parte minaccia l’altra, allora quella minacciata prenderà provvedimenti per rafforzare la propria posizione e il livello di minaccia aumenterà sempre di più. Durante la Guerra Fredda entrambe le parti si erano rese conto che c’erano dei limiti, che le minacce erano pericolose e che negoziare avrebbe impedito che accadessero cose peggiori. Ma ora Washington è persa nel suo delirio di eterna superiorità.

La cosiddetta “trappola di Tucidide” è il nome dato ad una condizione in cui una potenza (Sparta allora, USA oggi) teme l’ascesa di un forte concorrente (Atene allora, Cina e Russia oggi) e inizia una guerra per la paura che la sua posizione possa solo indebolirsi. La brutale verità è che quel punto è già stato superato: Russia+Cina sono più potenti degli USA e dei suoi alleati in ogni campo – più acciaio, più cibo, più armi, più laureati STEM [science, technology, engineering and mathematics], più ponti, più soldi – più tutto. NATO/USA perderebbero una guerra convenzionale – i wargamers militari americani questo lo sanno benissimo.

In breve, come può Mosca costringere queste persone a vedere la realtà? Ecco, in una parola, il problema: se saranno in grado di vederla, allora sarà possibile sperare in qualcosa di meglio; se non potranno, allora bisognerà prepararsi al peggio. Per il bene di tutti – anche dell’America – Washington deve prestare attenzione alle preoccupazioni di Mosca sulla sicurezza e ridurre la sua aggressività. Mosca lo ha chiesto – in realtà lo ha preteso – e non è ancora chiaro se il tentativo sia fallito. La reazione negativa dei Tabaqui non ha importanza – Mosca ha parlato con loro solo per una questione di forma – è la risposta di Shere Khan che conta. E non l’abbiamo ancora avuta.

Forse la rivoluzione colorata appena andata a gambe all’aria in Kazakistan è stata la risposta di una parte dello stato profondo USA/Borg ma, se così fosse, è stata una rapida e potente dimostrazione da parte del Deep State USA di quanto scarsa sia la sua comprensione del vero rapporto di forze.

Aspettiamo la risposta finale di Washington, ma, al momento, le prospettive non sono molto incoraggianti: le minacce a buon mercato e gli editoriali autocompiacenti si sprecano.

Allora qual è il piano B di Mosca?

Ho elencato altrove alcune delle risposte che riesco ad immaginare e anche altri lo hanno fatto. Sono del parere che Mosca dovrebbe fare qualcosa di piuttosto drammatico per rompere la compiacenza. Vedo tre possibilità.

È dal 1814 che gli Stati Uniti non vengono minacciati con un attacco convenzionale sul loro territorio nazionale; la Russia ha diversi modi per farlo. Il problema sarà rivelare la minaccia in un modo che non possa essere negato o nascosto. Una dimostrazione delle capacità del Poseidon contro qualche isola remota seguita dall’annuncio che un numero significativo è già schierato vicino alle città costiere degli Stati Uniti?

Washington deve essere messa di fronte ad una dimostrazione dell’immenso potere militare distruttivo della Russia, in modo che non possa più far finta di niente. L’Ucraina è il terreno naturale per una dimostrazione del genere. (Vedi Ritter).

Una mossa diplomatica che cambia il mondo, come un’alleanza militare formale con la Cina, con la clausola che un attacco ad uno dei due sarà considerato un attacco ad entrambi. Questa sarebbe una dimostrazione di un correlazione di forze che impressionerebbe anche i più fanatici. L’Eurasia di Mackinder, più popolazione, più produzione, più STEM, più risorse, più potenza militare e navale unite in un patto militare.

Vedremo. I negoziati non sono finiti e potrebbe uscirne qualcosa di positivo. Doctorow, un osservatore capace, dà qualche speranza. Ma, per arrivare ad un risultato migliore ci vorrebbe un cambiamento piuttosto importante nell’atteggiamento di Washington.

Possiamo sperare. La posta in gioco è alta.

Fonte: www.turcopolier.com
Link: https://turcopolier.com/russia-ukraine-et-al-what-next/
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

UcrainaUcraina – Ebook

Dai missili ipersonici a Taiwan: alta tensione tra Stati Uniti e Cina

Condividi su:

LETTERE DEL LETTORE

Riceviamo e pubblichiamo questo interessante articolo, che si trova anche su: https://www.ilmiogiornale.net/dai-missili-ipersonici-a-taiwan-alta-tensione-tra-stati-uniti-e-cina/

di Ferdinando Bergamaschi

Missili ipersonici: sono la nuova frontiera militare delle grandi potenze. “Le armi ipersoniche uniscono al vantaggio della velocità quello della manovrabilità, che permette loro di eludere i sistemi di difesa antimissile di teatro e territoriale e di colpire obiettivi situati nel cuore dei territori nemici oppure in mare”, scrive Joseph Henrotin nella prefazione a uno studio dell’Ifri (Institut français des relations internationales) pubblicato lo scorso giugno.

I missili ipersonici, che viaggiano a oltre 6.000 Kmh e hanno una portata superiore ai 2.000 km, sarebbero manovrabili come i missili da crociera e potenti quanto i missili balistici, se non addirittura di più. Questo perché la tecnologia ipersonica consente, e consentirà, di superare delle barriere tecniche in maniera formidabile. 

Delusione a Washington

Dopo i successi dei test compiuti da Mosca e Pechino sui missili ipersonici nelle ultime settimane, era arrivato il turno degli Stati Uniti. Ma clamorosamente le cose per Washington sono andate male. Il Pentagono ha infatti ammesso il fallimento dell’ultimo test avvenuto in Alaska. Il lancio è stato compromesso dal malfunzionamento del razzo usato per portare il missile oltre la velocità del suono. Da qui la grande preoccupazione degli analisti americani. Gli Stati Uniti, infatti, così come per le armi al laser e per i robot-soldato, hanno investito molto su queste nuovissime tecnologie belliche anche in funzione anticinese. 

Biden versus Pechino

Addirittura il presidente americano Joe Biden, poche ore dopo la diffusione delle notizie relative al fallimento dei test dei missili ipersonici, ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti contro Pechino. “In caso di attacco dalla Cina, difenderemo Taiwan. Abbiamo un impegno a farlo”, ha affermato l’inquilino della Casa Bianca alla Town hall di Baltimora. La replica cinese non si è fatta attendere. Ed è stata durissima, avvertendo gli Usa di essere prudenti e di non inviare segnali sbagliati all’isola. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, è arrivato ad utilizzare toni minacciosi. “Nessuno dovrebbe sottovalutare la forte risolutezza, determinazione e capacità del popolo cinese di salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. La Cina, ha concluso Wang, “non ha margine per compromessi”.  

Il peso di Taiwan 

Non è un caso quindi che Biden sia intervenuto proprio ora, dopo il fallimento dei test sui missili ipersonici americani; e che lo abbia fatto utilizzando toni bellicistici sulla questione di Taiwan. L’isola a circa 150 km dalla costa cinese ha infatti un ruolo molto importante da un punto di vista delle nuovissime tecnologie. Oltre ad essere al centro di mari strategici che la rendono così contesa da un punto di vista geopolitico, per esempio è leader mondiale nella produzione di semiconduttori. Sono i minuscoli dispositivi elettronici basilari per gli smarthphone, i computer e le automobili. E sempre più l’Occidente, dagli States all’Unione europea, guarda a Taiwan come fonte di approvvigionamento di questi componenti, indispensabili per vincere la competizione tecnologica mondiale.

Perché la crisi di governo si decide (anche) a Washington

Condividi su:

di Antonio Pilati

La crisi del governo e della sua maggioranza è rappresentata da media e analisti come una faccenda tutta italiana, anzi romana, con partiti, fazioni, leader, figuranti, primo ministro che si battono aspramente per spuntare con la rissa qualche porzione di potere in più. In realtà c’è anche un altro piano, probabilmente essenziale, che si sviluppa lontano da Roma, nelle capitali dei nostri principali alleati.

Fattore Biden

Come la nascita del secondo Governo Conte fu decisa in ambito europeo, così oggi è plausibile che, aiutando il caos sanitario e il prevedibile sperpero dei fondi comunitari fatti balenare a nostra disposizione, le opinioni che circolano oltralpe abbiano un peso determinante.

Tuttavia, rispetto all’estate 2019, è in gioco un fattore in più, il nuovo presidente americano. Biden deve ridisegnare, o almeno riassestare, la politica estera e, come segnalava qualche giorno fa questo sito, la sua azione parte con qualche handicap: in Estremo Oriente come in Europa, gli Stati alleati, forse memori della confusione e delle giravolte fatte dall’amministrazione Obama (Biden vicepresidente) in giro per il mondo, hanno tutelato i propri interessi commerciali chiudendo accordi con la Cina appena dopo l’annuncio della sconfitta di Trump.

Le due iniziative hanno un po’ l’aria di mosse negoziali: intanto mettiamo un punto fermo e poi vediamo che cosa di concreto gli Stati Uniti, in passato così volatili, portano al tavolo delle trattative. La Germania è per gli americani il primo interlocutore in Europa e un negoziato forse si è già avviata: l’Italia, che rappresenta pur sempre la terza economia della zona euro, potrebbe esserne parte.

Renzi mosso da Joe

Se si guardano i tempi della crisi, Renzi, che ambisce a essere il principale riferimento americano nell’attuale fase politica, ha cominciato a bombardare Conte appena si è saputo della vittoria di Biden, quasi mosso dall’intento (o dal suggerimento) di proclamare urbi et orbi l’inadeguatezza di Giuseppi: se l’ipotesi di un livello internazionale della crisi avesse qualche fondamento, è evidente che la soluzione Draghi ne sarebbe l’esito naturale.

Appare altrettanto evidente che molte fazioni e cricche farebbero di tutto per evitare un tale sbocco, Légion d’honneur e sinofili in prima fila. Il risultato dello scontro dipende in gran parte, ci sembra, dalla chiarezza di idee e dalle priorità della nuova leadership americana.

Fonte https://www.nicolaporro.it/perche-la-crisi-di-governo-si-decide-anche-a-washington/

Il discorso della giudice Barret, nominata da Trump alla Corte suprema

Condividi su:

Lei si dichiara cattolica, tradizionalista, è pro-life, ostile all’ideologia gender, ha 7 figli e perfino una bella presenza. Quindi è già bocciata dai soloni del politicamente corretto. Per loro è già cattivissima. (n.d.r.)

Donald Trump ha nominato Amy Coney Barrett come candidata a prendere il posto alla Corte Suprema lasciato libero dalla morte di Ruth Bader Ginsburg. La nomina, la terza di questo tipo in appena quattro anni di mandato per Trump, era attesa (e aveva già sollevato il solito tristo coro contrario) ed è stata ufficializzata dal presidente americano alle 17 di sabato a Washington.

La Barrett, cattolica e pro-life, ha contro tutto il bel mondo abortista e liberal, perché nel 2020 puoi avere tutte le idee e i valori che vuoi, tranne alcuni.

Ora la sua candidatura dovrà passare al vaglio di un’apposita commissione, il Senate Committee on the Judiciary, comunemente chiamato “Senate Judiciary Committee”, che, con audizioni e disamine, deciderà se inviare lei, come fa con qualsiasi federale, al voto finale dell’intero Senato con parere positivo, negativo o neutrale, 100 seggi che si esprimeranno, come è oramai prassi, a maggioranza semplice.

Pubblichiamo di seguito una nostra traduzione di lavoro del discorso che la Barret ha tenuto alla Casa Bianca in occasione della sua nomina.

Di Amy Coney Barret*

Molte grazie, signor presidente. Sono profondamente onorata della fiducia che avete riposto in me. Sono molto grata a voi e alla First Lady, al Vice Presidente e alla Second Lady e a tanti altri qui per la vostra gentilezza in questa occasione piuttosto travolgente.

Capisco perfettamente che questa è una decisione importante per un presidente. E se il Senato mi farà l’onore di confermarmi, mi impegno ad adempiere alle responsabilità di questo incarico al meglio delle mie capacità. Amo gli Stati Uniti e amo la Costituzione degli Stati Uniti.

Sono veramente onorata dalla prospettiva di prestare servizio alla Corte Suprema, se dovessi essere confermata. Mi ricorderò di chi è venuto prima di me. La bandiera degli Stati Uniti sventola ancora a mezz’asta in memoria del giudice Ruth Bader Ginsburg per ricordare la fine di una grande vita americana. Il giudice Ginsburg ha iniziato la sua carriera in un momento in cui le donne non erano le benvenute nella professione legale. Ma non solo ha rotto queste barriere, le ha frantumate. Per questo ha conquistato l’ammirazione delle donne in tutto il paese e anche in tutto il mondo.

Era una donna di enormi talenti e successi, e la sua vita di servizio pubblico è un esempio per tutti noi. Particolarmente toccante per me è stata la sua lunga e profonda amicizia con il giudice Antonin Scalia, il mio mentore. I giudici Scalia e Ginsburg dissentirono ferocemente sulla stampa senza rancori personali. La loro capacità di mantenere un’amicizia calda e ricca, nonostante le loro differenze, ha persino ispirato un’opera. Questi due grandi americani hanno dimostrato che gli argomenti, anche su questioni di grande importanza, non devono necessariamente distruggere l’affetto. Sia nei miei rapporti personali che professionali, mi sforzo di soddisfare questo standard.

Ho avuto la fortuna di lavorare per il giudice Scalia e, data la sua incalcolabile influenza sulla mia vita, sono molto commossa all’idea di avere qui oggi membri della famiglia Scalia, inclusa la sua cara moglie Maureen. Ho lavorato per il giudice Scalia più di 20 anni fa. Ma le lezioni che ho imparato risuonano ancora. La sua filosofia giudiziaria è anche la mia. Un giudice deve applicare la legge come è scritta. I giudici non sono decisori politici e devono essere risoluti e mettere da parte le opinioni politiche che potrebbero avere. Il presidente mi ha chiesto di diventare il nono giudice e, guarda caso, sono abituato a stare in un gruppo di nove: la mia famiglia.

La nostra famiglia include me, mio ​​marito Jesse, Emma, ​​Vivian, Tess, John Peter, Liam, Juliet e Benjamin.

Vivian e John Peter, come ha detto il presidente, sono nati ad Haiti e sono venuti da noi a cinque anni di distanza quando erano molto piccoli, e il fatto più rivelatore di Benjamin, il nostro più giovane, è che i suoi fratelli e sorelle lo identificano senza riserve come loro fratello preferito. I nostri figli ovviamente rendono la nostra vita molto piena. Sebbene sia un giudice, sono meglio conosciuto a casa come rappresentante dei genitori, autista di car-pool e organizzatore di feste di compleanno. Quando le scuole sono passate alla modalità da remoto la scorsa primavera, ho provato un altro ruolo. Jesse e io siamo diventati co-presidi della Barrett E-Learning Academy. E sì, l’elenco degli studenti iscritti era molto lungo. I nostri figli sono la mia gioia più grande, anche se mi privano di ogni ragionevole quantità di sonno.

Non potrei gestire questa vita molto piena senza il sostegno incrollabile di mio marito, Jesse. All’inizio del nostro matrimonio, immaginavo che avremmo gestito la nostra famiglia come partner. Come si è scoperto, Jesse fa molto di più della sua parte di lavoro. Con mio grande dispiacere, ho appreso recentemente a cena che i miei figli lo considerano il cuoco migliore. Per 21 anni, Jesse mi ha chiesto ogni singola mattina cosa può fare per me quel giorno. E anche se dico quasi sempre “niente”, trova ancora il modo di sparecchiare. E non perché ha molto tempo libero. Ha uno studio legale molto attivo. È perché è un marito superbo e generoso e io sono molto fortunata.

Io e Jesse abbiamo una vita piena di relazioni non solo con i nostri figli, ma anche con fratelli, amici e babysitter senza paura, una delle quali è con noi oggi. Sono particolarmente grata ai miei genitori, Mike e Linda Coney. Ho trascorso la maggior parte della mia età adulta come un Midwesterner, ma sono cresciuto nella loro casa di New Orleans. E come possono testimoniare anche mio fratello e le mie sorelle, la generosità di mamma e papà si estende non solo a noi, ma a più persone di quante ne potremmo contare. Sono un’ispirazione. È importante in un momento come questo riconoscere la famiglia e gli amici. Ma questa sera voglio ringraziare anche voi, miei concittadini americani. Il presidente mi ha nominato per far parte della Corte suprema degli Stati Uniti e quell’istituzione appartiene a tutti noi.

Se confermata, non assumerei quel ruolo per il bene di chi fa parte della mia cerchia e certamente non per il mio bene.  Assumerei quel ruolo solo per servire. Adempirei al giuramento giudiziario, che mi richiede di amministrare la giustizia senza riguardi per le persone, dare lo stesso diritto ai poveri e ai ricchi e adempiere fedelmente e imparzialmente i miei doveri ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti.

Non mi illudo che la strada davanti a me sarà facile, sia a breve che a lungo termine. Non avrei mai immaginato di trovarmi in questa posizione. Ma ora che lo sono, vi assicuro che affronterò la sfida con umiltà e coraggio. Membri del Senato degli Stati Uniti, non vedo l’ora di lavorare con voi durante il processo di conferma e farò del mio meglio per dimostrare che sono degna del vostro sostegno.

Grazie.

*Giudice, candidata alla Corte Suprema degli Stati Uniti

Continua a leggere

1 2