Afghanistan in mano ai talebani: la tragedia continua…

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di Ferdinando Bergamaschi

Afghanistan: da quando l’ultima truppa americana si è ritirata lo scorso 31 agosto, lasciando il Paese nelle mani dei talebani, la situazione a Kabul rimane sempre drammatica per non dire tragica. Le cronache della capitale raccontano per esempio di due esplosioni che il 10 dicembre hanno ucciso almeno due persone e causato quattro feriti. Sui social era circolata una presunta rivendicazione dell’attentato da parte dell’Isis-k, la formazione affiliata allo Stato islamico che si oppone al governo dei talebani. E sempre all’Isis-k molto probabilmente è da attribuire l’attentato del 14 dicembre, quando l’esplosione di una mina posizionata lungo una strada di Kabul ha causato la morte di un civile e il ferimento di due membri delle forze dell’ordine.

A tutto ciò va aggiunta la denuncia del vice Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu Nada Al-Nashif. Sempre il 14 dicembre, ha accusato i talebani di aver effettuato almeno 72 “uccisioni extragiudiziali” di ex membri delle forze di sicurezza e di altri esponenti del precedente governo afghano. Al-Nashif ha aggiunto che “in diversi casi i corpi sono stati esposti in pubblico. Ciò ha esacerbato la paura in una parte significativa della popolazione”. 

Ma al di là degli attentati e delle denunce registrati dalle cronache, la questione afghana sembra essere stata messa nel dimenticatoio. E questo è tanto più sorprendente se si considera la sistematica violazione dei più basilari diritti umani da parte dei talebani sia da un punto di vista sociale, che economico, che culturale.

La tempesta perfetta

La Commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansonn aveva delineato un quadro del genere già durante il vertice che aveva presieduto lo scorso 7 ottobre: “Si sta preparando una tempesta perfetta. Oltre il 90% degli afghani affronta la minaccia della fame, il sistema sanitario rischia il collasso. E così l’economia. Ci sono notizie preoccupanti di oppressione, coloro che hanno lavorato con noi e condividono i nostri valori hanno molto da perdere: gli interpreti e le loro famiglie sono vittime di minacce; operatori per i diritti umani vengono arrestati. Ed è peggio per le donne e le ragazze, che spesso hanno paura di andare a scuola o al lavoro: donne giornaliste e dipendenti pubblici licenziate, donne giudici braccate dagli uomini che hanno messo in prigione.” E le cose, purtroppo, sembrano tutt’altro che migliorate.  

Crisi umanitaria 

Secondo il Norwegian Refugee Council, nel Paese 18 milioni di afghani su quasi 39 milioni sopravvivono grazie agli aiuti umanitari; un terzo della popolazione è sottoalimentata e un milione di bambini rischiano di morire di freddo e fame durante l’inverno. Una crisi umanitaria sempre più grave dopo che le riserve della Banca centrale afghana depositate all’estero sono state congelate e i trasferimenti di denaro interrotti, in seguito alla riconquista dei talebani. Per questo a metà ottobre la Commissione europea era intervenuta con un pacchetto di aiuti da un miliardo di euro che andranno direttamente alla popolazione tramite le Ong sul territorio. 

Il dramma dei profughi

Chi non ricorda le resse infernali all’aeroporto di Kabul per fuggire dal Paese? Secondo i dati dell’Onu sono state oltre 200.000 le persone evacuate da Kabul. La grande maggioranza è scappata in Pakistan e Iran con destinazione Turchia, considerata la porta d’accesso per l’Europa. Tuttavia questo flusso spesso si è arrestato nel Paese di Erdogan. Con l’autocrate turco che tiene i profughi in pugno, forte degli accordi con l’Unione europea e li utilizza come leva politica. 

La situazione delle donne

Nel Paese peggiora anche la condizione delle donne. I divieti e le punizioni per loro sono agghiaccianti: fuori casa non possono lavorare; e nemmeno svolgere attività se non accompagnate da un parente stretto; c’è il divieto di studiare in scuole, università o altre istituzioni educative; naturalmente per loro vige l’obbligo di indossare il burqa; è prevista la lapidazione pubblica se accusate di avere una relazione al di fuori del matrimonio; vengono frustate in pubblico le donne che hanno le caviglie scoperte; e ancora per loro c’è il divieto di praticare sport.

Questi sono solo alcuni dei terribili aspetti del nuovo (o per meglio dire vecchio) corso che il regime dei talebani ha imposto alle afghane. E a noi fa venire i brividi soltanto il fatto che possa esistere una legislazione appositamente femminile, con il mondo che sta a guardare.

 

Cop26 di Glasgow: sulla crisi climatica passi avanti, ma restano molte ambiguità

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di Ferdinando Bergamaschi

Cop26: fermare entro il 2030 la deforestazione. È il primo obiettivo concreto e immediato raggiunto alla conferenza Onu sul clima che si è appena conclusa a Glasgow. Il principale successo delle due giornate scozzesi dedicate al vertice da capi di Stato e di Governo.

Soprattutto per questo risultato il premier britannico Boris Johnson ha potuto parlare di “cauto ottimismo”. E un altro (mezzo) passo avanti lo rappresenta anche il piano sponsorizzato da Usa e Ue, a cui hanno aderito un centinaio di Paesi, per ridurre del 30% le emissioni di metano in dieci anni. A questo piano peraltro hanno voluto dare il loro contributo economico anche privati quali Jeff Bezos e l’Ikea.

Il vertice tuttavia ha prodotto per ora risultati soltanto parziali sulla questione chiave del contenimento delle emissioni nocive che alimentano la minaccia dei cambiamenti climatici. Vi è ancora un certo tasso di ambiguità riguardo all’impegno a mantenere l’innalzamento delle temperature del globo entro il tetto di 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale. Un’ambiguità dettata soprattutto dai tempi non certi per passare dalle parole ai fatti.  

Deforestazione: sì da 110 Stati

“Abbiamo fatto molto, ma molto resta ancora da fare”, ha sintetizzato il presidente Usa Joe Biden, in particolare riguardo alla deforestazione. Boris Johnson gli ha fatto eco, dicendo che è arrivata l’ora di mettere fine già in questo decennio alla sistematica “devastazione” di alberi per milioni di ettari. “Cattedrali della natura che permettono il respiro della Terra”, per usare l’espressione del premier britannico.

Il piano contro la deforestazione è stato condiviso dalle 110 Stati che hanno preso parte alla Cop26. Ed è legato alla promessa di finanziamenti da 14 miliardi di sterline (19,2 miliardi di dollari): 8,7 coperti da fondi pubblici, 5,3 da investimenti privati. Impegni destinati ad andare anche a beneficio di “popolazioni indigene e comunità locali” che di quelle foreste sono “custodi”.

Anche le nazioni più recalcitranti hanno dato il loro assenso. Tra queste la sterminata Russia di Vladimir Putin, l’Indonesia, il Congo, la Colombia e il Brasile di Jair Bolsonaro. Proprio quest’ultimo che si è guadagnato negli anni del suo mandato l’ostilità della gente india e di molti altri, avendo accresciuto, non certo attenuato, il disboscamento senza tregua della colossale selva pluviale amazzonica.

Metano da tagliare 

Un altro punto che può essere considerato positivo, e che alimenta il cauto ottimismo del premier britannico, riguarda il taglio delle emissioni di metano. Usa e Ue annunciano d’aver portato a 100 il numero di Paesi (pari al 70% del Pil mondiale) incoraggiati ad aderire all’obiettivo di un taglio di queste emissioni del 30% entro il 2030 rispetto a quelle del 2020.

Un passo però da cui restano fuori al momento diversi grandi produttori di gas, dal mondo arabo alla Russia, a Cina e India, tenuto conto che è comunque l’allevamento zootecnico e non l’oil&gas il settore produttivo che produce più metano (il 30% contro il 25% del totale). Gli autoesclusi sono sostanzialmente gli stessi Paesi orientati a considerare una scadenza più lunga della metà del secolo per raggiungere l’obiettivo di emissioni zero. Pechino e Mosca parlano del 2060, New Delhi addirittura del 2070.

Troppe ambiguità

E proprio quest’ultima considerazione rende problematico definire tout court un successo la Cop26. Sono stati fatti, è vero, senz’altro dei passi in avanti; e vi è motivo per nutrire “cauto ottimismo”, se non altro per l’importantissimo asse Ue-Usa che si è andato consolidando nell’affrontare con spirito costruttivo l’emergenza climatica. Ma d’altra parte non si può non vedere come Cina e India e in parte anche Russia remino ad una velocità ben più lenta rispetto all’asse occidentale.

Il peso di Pechino

A questo proposito sono emblematiche le parole molto severe pronunciate da Biden nei confronti del colosso cinese: Xi Jinping ha fatto un grande errore a non venire né al G20 né alla Cop26 e mi aspetto che la Cina segua le regole come tutti”. Aggiungendo: “La Cina non può pretendere di avere un ruolo globale se non si impegna con la comunità internazionale per il cambiamento climatico”.

Non si tratta di un dettaglio che Pechino sia così tiepida rispetto alla questione climatico-ambientale. Infatti la Cina è responsabile di oltre un quarto delle emissioni globali (l’equivalente di 14,1 miliardi di tonnellate di CO2) e inoltre dipende dal carbone per il 60% del suo mix energetico (si arriva all’87% assieme agli altri combustibili fossili).

Quel che è certo è che la transizione ecologica, come ha ammonito anche Papa Francesco, è fondamentale e urgente; ed è la condizione basilare perché l’umanità – e non solo l’economia – abbia un futuro.  

Fonte: https://www.ilmiogiornale.net/cop26-glasgow-sulla-crisi-climatica-passi-avanti-ma-restano-molte-ambiguita/

Squid Game: il gioco dell’angoscia che fa volare Netflix

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di Ferdinando Bergamaschi

Squid Game: con questa serie, Netflix si aggiudica il record per la fiction televisiva più vista. In quattro settimane sono 111 milioni le persone che l’hanno seguita finora. E Squid Game supera alla grande un’altra serie proposta sempre da Netflix, Bridgerton, che aveva raggiunto 88 milioni di telespettatori.

Coreani al top

Dopo Parasite al cinema, è ancora la Corea del Sud ad essere la frontiera della fiction di successo. In Squid Game, che nasce da un’idea del regista Hwang Dong-Hyuk, si celebra l’angoscia dell’esistenza. Una vera e propria guerra fra poveri, che vivono sotto il peso di una montagna di debiti. In realtà non si tratta di una guerra ma di un gioco per bambini; ma la sostanza non cambia: è la disperazione che muove i concorrenti di questo gioco. In palio per il vincitore una somma enorme: 45,6 miliardi di Won (la moneta coreana), poco più di 33 milioni di euro. 

La vita in gioco

Ma qual è la trama di questa serie, che sta scatenando molte polemiche per gli effetti che potrebbe avere sul pubblico più giovane? Una misteriosa organizzazione coinvolge 456 persone oberate dai debiti e minacciate dai creditori in un gioco spaventoso. Come nei videogame queste persone dovranno affrontare vari livelli di giochi per bambini. La cosa inquietante è che coloro che perdono vengono uccisi. La posta in palio quindi è la vita stessa. Il tasso di violenza delle serie è molto alto. Solo il vincitore rimarrà vivo e si porterà a casa il montepremi. I giochi a cui questi disperati vengono fatti partecipare hanno solamente tre semplici regole:  

  • il giocatore non può lasciare il gioco;
  • se un concorrente si rifiuta di giocare verrà eliminato (cioè verrà ucciso);
  • il gioco può finire se la maggioranza sarà d’accordo. 

In un ambiente ovattato, ben curato nei minimi dettagli e con scenari di gioco tutti colorati e accompagnati da musichette di sottofondo, una voce fuori campo guida questi poveri malcapitati al massacro, mentre da lontano il padrone del gioco, anch’esso indefinito per via della sua maschera, assiste a queste scene dal suo maxi schermo, sorseggiando il suo cognac.

Spoilerando un pochino, si scoprirà che ad organizzare questo terribile gioco sono dei super ricchi annoiati. Costoro si divertono a fare le loro scommesse sulla pelle di questi emarginati sociali che hanno reclutato. 

Una serie universale

Benché le affinità con La casa di carta, altro grande successo targato Netflix, siano presenti, qui siamo di fronte a un altro scenario. Ne La casa di carta domina l’avventura e un romanticismo di fondo; in quel caso le maschere che coprono il volto non sono anonime e spettrali ma raffigurano il viso di Dalì; la rapina alla Zecca di Stato è il gesto romantico nel quale i rapinatori trovano anche il tempo di baciarsi e cantare Bella Ciao. 

In Squid Game, invece, domina l’angoscia di chi non sa più a cosa aggrapparsi. C’è un realismo macabro. Per quanto ambientata in Sud Corea, questa serie non ha longitudine né latitudine: potrebbe essere girata ovunque.

Crudele aridità

Il peso dei soldi poi schiaccia le persone, che per denaro sono disposte a tutto. In questa serie non c’è più la dicotomia tra buoni e cattivi o tra romantici e aridi. Tutti diventano aridi, tutti sono cattivi. L’unico vincitore guadagna 33 milioni di euro e gli altri 455 sono morti. Ciò che attira lo spettatore è probabilmente proprio questa crudele aridità, questo cinismo portato all’estremo, che è forse la parte oscura e inconfessabile dentro ognuno di noi.

Il caso Polonia, tra sovranismo e libertà d’azione: la spina dell’Est nel fianco della Ue

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di Ferdinando Bergamaschi

La Polonia è uno dei 27 Stati membri dell’Unione europea. Insieme a Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia fa parte del Gruppo di Visegrád. Questo gruppo, come è noto, si è spesso scontrato con l’impostazione giuridica (e in un secondo momento anche finanziaria) dell’Unione europea.

L’ultimo caso riguarda la Polonia. La Corte suprema di Varsavia nei giorni scorsi ha infatti stabilito che alcune parti della legislazione dell’Unione Europea non sono compatibili con la Costituzione della Polonia. In questo modo, com’è evidente, si dice implicitamente che il diritto nazionale prevale su quello europeo. 

Così facendo, Varsavia pone le basi per un possibile scontro con Bruxelles. A questo proposito il giudizio della Corte polacca è chiaro: “Il tentativo della Corte europea di giustizia di essere coinvolta nei meccanismi legislativi polacchi viola le norme che rispettano la sovranità nell’ambito del processo di integrazione europea”. Ce n’è abbastanza perché molti osservatori parlino già di Polexit. 

Muri e dintorni

Quel che è certo è che la reazione dell’Unione europea non si è fatta attendere. È la stessa presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che risponde seccamente alla Polonia: “Useremo tutti i poteri che abbiamo in base ai trattati per assicurare il primato del diritto Ue su quelli nazionali incluse le disposizioni nazionali. È quello che gli Stati membri hanno sottoscritto, come membri dell’Unione europea”. 

In questo clima, che ha visto scendere in piazza anche i polacchi pro Bruxelles, si inserisce un’altra questione spinosa che riguarda ancora una volta direttamente Varsavia. Infatti il Governo guidato da Mateusz Jakub Morawiecki, insieme con altri 11 Paesi dell’Ue (molti dei quali già satelliti dell’impero sovietico più Danimarca, Grecia e Cipro), nelle scorse settimane ha inviato alla Commissione europea una lettera con la richiesta che Bruxelles finanzi la costruzione di muri anti-migranti.

Lapidaria è stata a questo riguardo la risposta da Bruxelles: fate come volete ma non con i soldi comuni. E su questa linea di difesa dei confini nazionali Varsavia, peraltro, ha deciso di prolungare lo stato d’emergenza alla frontiera con la Bielorussia mobilitando migliaia di militari per frenare il flusso di migranti messi (appositamente o meno) in fuga dal regime di Lukashenko. 

È evidente comunque che il nodo della questione è sempre lo stesso: quale sia la capacità dell’Unione europea di risolvere problemi che pur riguardando singoli Stati nazionali riguardano al tempo stesso il fondamento della sua stessa unità ed esistenza.

Est Europa in mezzo al guado

Da un certo punto di vista si può dire che l’imperialismo sovietico era più “nazionalista” di quanto non lo è stato l’imperialismo occidentale. Se infatti la feroce egemonia dell’Urss si basava sul concetto nazionalista della “grande madre patria russa”, l’egemonia o, per meglio dire, l’influenza occidentale era in gran parte fondata sul concetto, internazionalista per eccellenza, di dominio della finanza; e la finanza, per definizione, non ha né patria, né nazione, né terra d’origine. 

Per quanto, quindi, gli stati dell’Est Europa guardino giustamente con orrore alla passata dominazione sovietica, negli stessi è però rimasta una matrice nazionalista. Questo perché il regime stalinista e post-stalinista non era fondato sulla finanza bensì sulla burocrazia, la quale, rispetto alla finanza, quantomeno riconosce l’appartenenza ad una nazione.   

D’altra parte, però, l’Occidente liberaldemocratico, dopo la caduta del muro di Berlino, poteva garantire a quegli Stati una libertà d’azione per i singoli cittadini enormemente superiore rispetto a quella che garantiva la gabbia sovietica.

Ecco allora che quei popoli – e la Polonia ne è l’esempio più lampante – una volta venuta meno la cortina di ferro, si sono trovati in mezzo a due pulsioni: quella della rivendicazione della loro coscienza nazionale che l’Urss, malgrado tutto, non aveva soppiantato; e quella della libertà d’azione che sarebbe stata garantita prima dalla Nato e poi dall’Europa, e quindi dall’Occidente nel suo complesso.  

Così si spiega la ricerca di mediazione che questi Paesi anelano, tra identitarismo con le proprie radici (sovranismo) e libertà d’azione (occidentalismo): ma questa mediazione, crediamo, sarebbe proprio un sano ed equilibrato europeismo.

Gas, prezzi e North Stream 2: le armi di Putin per tenere in pugno l’Europa

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di Ferdinando Bergamaschi

Gas naturale: come si spiega la corsa dei prezzi arrivati alle stelle in queste ultime settimane? Per capire che cosa sta succedendo bisogna alzare lo sguardo sullo scenario globale, partendo ad esempio dalle mosse dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie).

Per rallentare gli aumenti, l’Agenzia ha chiamato in causa direttamente Mosca e quindi la Gazprom, colosso russo del settore controllato dal Cremlino. L’Aie così ha invitato Mosca a “fare di più per aumentare la disponibilità di gas in Europa e garantire un adeguato stoccaggio in vista della stagione invernale”. Aggiungendo come sia “impreciso e fuorviante attribuire la responsabilità dell’aumento del prezzo del gas alla transizione verso l’energia pulita”.

Il tutto in un quadro più favorevole, vista la recente soluzione delle tensioni sul gasdotto North Stream 2 di proprietà della Gazprom, per anni oggetto di forti scontri geopolitici, con tanto di minacce e sanzioni, che hanno coinvolto principalmente Russia, Germania e Stati Uniti. Questa pipeline consente infatti a tutta l’Europa di fare a meno del transito di gas dall’Ucraina, Paese che ha rapporti sempre molto tesi con la Russia e strettamente legato a Washington. Tuttavia, dopo che la Germania ha trovato un accordo sul North Stream 2 col Cremlino, nelle ultime settimane anche Biden si è convinto ad accontentare Berlino – e quindi, in questo caso, gli interessi europei – dando sostanzialmente l’ok per il completamento del gasdotto, che dovrebbe entrare in funzione a fine anno. 

La fame del Dragone

Questo clima di “distensione internazionale” sulla vicenda del North Stream 2 non è bastato però a riportare i prezzi del gas nel novero di una normale crescita stagionale. Di certo sugli aumenti stratosferici (oltre il 600% in un anno dei future) ha pesato anche una crescita della domanda globale, che a sua volta dipende in larga parte dalla ripresa economica seguita alla pandemia. E soprattutto da una grande richiesta di gas naturale da parte della Cina.

La strategia a breve termine della Russia sembra comunque quella di limitare le esportazioni di gas verso l’Europa, anche per l’elevata domanda interna russa. Possono essere lette in questa prospettiva le parole dell’amministratore delegato di Gazprom, Alexei Miller, che nelle scorse settimane aveva dichiarato: “La società sta rispettando i propri accordi di fornitura ed è pronta ad aumentare la produzione se necessario, ma ha avvertito che i prezzi potrebbero salire ulteriormente in inverno”.

Parola di Putin

Uno scenario che vede quindi l’Europa “ostaggio” della Russia, come sottolineato da diversi osservatori? Pare credibile, se è bastato l’intervento di Vladimir Putin a rassicurare gli operatori internazionali e soprattutto l’Europa non più tardi di ieri l’altro. Il presidente russo infatti ha respinto tutte le accuse, dichiarando di voler aumentare le forniture di gas verso il vecchio continente. E questa sola affermazione ha fatto sì che su tutti i mercati il prezzo del gas abbia registrato un netto calo (-7%).

Gas al futuro

Resta da capire che cosa potrebbe succedere quando entrerà in funzione il North Stream 2, visto che Mosca da tempo sostiene che grazie all’apertura della nuova pipeline i prezzi del gas si dovrebbero riequilibrare. Putin li farà calare per dimostrare che aveva ragione? Se succedesse, il segnale avrebbe comunque un valore emblematico: l’Europa sulle forniture resta nelle mani di Mosca. Quindi deve cercare alternative nell’approvvigionamento di gas naturale e puntare su fonti energetiche pulite per sostenere la transizione ecologica.

 

 

Benzina alle stelle: quando l’Italia puntava all’autosufficienza energetica

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di Ferdinando Bergamaschi

Il forte aumento della benzina, ai massimi dal 2014 malgrado il prezzo del petrolio stia tenendo, apre di nuovo il dibattito su quanto il fisco incida nel prezzo dei combustibili. E pensare che l’Italia è stato uno dei primi Stati occidentali a muoversi verso la ricerca di una sovranità energetica che mirasse a tutelare i consumatori. Vediamo allora dove inizia questa storia.

Le tesi di Canali

In un libro dello storico antifascista Mauro CanaliIl delitto Matteotti (Il Mulino, 2004), accanto a una tesi pregiudiziale sull’omicidio del deputato socialista (quella della responsabilità diretta di Mussolini, su cui non siamo d’accordo), si fa luce con una pregevole ricerca storica su quella che è stata “La questione petrolifera e la convenzione Sinclair”. Nell’omonimo capitolo del suo libro Canali approfondisce infatti la vicenda, preambolo nel quale si è generato il delitto del deputato socialista. 

Figura centrale di questi avvenimenti del 1923-1924 legati alla questione petrolifera italiana è stato l’allora ministro dell’Agricoltura del governo Mussolini. Stiamo parlando del liberale di destra Giuseppe De Capitani D’Arzago, uomo politico di indiscussa competenza e capacità, come peraltro si evince anche dai giudizi positivi che su di lui dà Canali e dalla ricostruzione della sua opera di ministro che lo storico ci riconsegna.

Chi era De Capitani? Un liberale di destra, dapprima di orientamento salandrino, che durante la sua reggenza al dicastero dell’Agricoltura aveva sempre cercato di mantenere autonoma la sua posizione e il suo ministero, non senza polemizzare con Mussolini quando questi voleva riunire, riuscendovi, il ministero dell’Agricoltura con quello dell’Industria (creando il Ministero dell’Economia nazionale). 

Italia e trust del petrolio

De Capitani e con lui il funzionario Arnaldo Petretti, direttore generale dei combustili e servizi diversi, volevano proseguire la politica energetica del governo Giolitti e rafforzarla in senso nazionale (oggi si direbbe “sovranista”). De Capitani infatti era un tenace avversario dei trust internazionali, nemico delle loro brame monopolistiche e oligopolistiche. Canali giustamente rileva a tal proposito: «Nel discorso programmatico davanti al Senato, De Capitani confermava la sua intenzione di intensificare la ricerca di petrolio nel sottosuolo nazionale, e di avviare a soluzione in tempi brevi il grave problema dell’approvvigionamento, altrimenti – aveva concluso – “sarà per sempre rinsaldata la dipendenza del nostro mercato dai trust internazionali”».

Addirittura il trust mondiale del petrolio, e la Standard Oil in particolare, vedevano De Capitani come un grande pericolo per le loro strategie. Da un lato infatti era un deciso sostenitore dell’esplorazione del nostro sottosuolo, col fine di rendere indipendente l’Italia nell’approvvigionamento e nella distribuzione del petrolio; e dall’altro lato, visto che comunque ciò non sarebbe bastato, il ministro, non accettando che il mercato fosse così fortemente condizionato dai grandi trust, voleva approvvigionarsi presso compagnie indipendenti. De Capitani addirittura, pur di non piegarsi al monopolio della Standard Oil, aveva tentato la strada di acquistare direttamente all’estero i pozzi da sfruttare. 

Da De Capitani a Mattei

Questo contesto, come si è detto, è quello in cui nasce l’affaire Matteotti che ovviamente per la sua complessità non può in questa sede essere considerato. Qui ci limitiamo ad evidenziare che De Capitani è stato l’iniziatore di quella politica di difesa e potenziamento della sovranità energetica italiana che avrebbe portato poi, due anni più tardi, nel 1926, alla creazione dell’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli). Egli è stato il creatore e il grande sostenitore di questa politica energetica nazionale che voleva fosse basata su una partecipazione pubblica e privata.

La scelta di De Capitani, come è noto, nel secondo dopoguerra sarà portata avanti e potenziata dall’imprenditore Enrico Mattei, presidente dell’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), che fra l’altro nel 1948 scopre il giacimento di gas e petrolio a Cortemaggiore (dal 1951 l’Agip avrà in produzione campi di gas anche a Podenzano e Pontenure), anch’egli “poco gradito”, evidentemente, ai grandi trust internazionali.
Insomma, l’opera intrapresa da un liberale di destra è stata ereditata e portata avanti da un democristiano di sinistra… a dimostrazione una volta di più che le vie del Signore sono infinite.

Mario Draghi e la partita che va oltre il Quirinale…

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di Ferdinando Bergamaschi

Draghi non è Monti. Non è l’uomo che le élite euroglobaliste in avanzata avevano imposto per il tramite di Napolitano. Non è l’uomo che imporrà politiche assurde di austerity, marchiate “lacrime e sangue”. Mario Draghi è un keynesiano sincero e illuminato che sì, ha lavorato per la Goldman Sachs, ma che evidentemente non ha assimilato dall’alta finanza l’inconfessabile strategia di voler soppiantare popoli e nazioni con un nuovo tipo di uomo completamente sradicato da patrie e territori d’origine. Un tipo d’uomo disposto a tutto pur di rincorrere la neo-divinità “capitale” (che per definizione non ha né patria né territorio). 

Il garante italiano

Draghi, checché ne dicano i sovranisti estremisti, è un uomo di ri-equilibrio e di mediazione tra il nazionale e il sovranazionale, che in più di un’occasione non ha temuto di mettersi contro la Bundesbank e i rigoristi. Per queste doti, e quindi per la sua mancanza di servilismo nei confronti degli altri Stati, specialmente di Germania e Francia, il premier italiano a livello internazionale gode di grande considerazione. A maggior ragione dopo l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, viene visto come l’uomo forte dell’Europa.

La partita del Colle

Ecco perché nessun partito, escluso Fratelli d’Italia e poche altre frange d’opposizione, vuole fare a meno di lui, anche se per diverse ragioni legate sia alla strategia sia alla tattica e all’opportunismo. Ed è per questo che l’ex governatore della Bce assume un ruolo da protagonista anche nella difficile partita del Quirinale. Anzi, il ruolo che può assumere Draghi in questa partita ne fa forse qualcosa di più che non la semplice corsa al Colle.

Non è affatto da escludere infatti che il presidente del Consiglio voglia consolidare una “scalata al potere” – in senso neutro, né positivo né negativo – che coinciderebbe con le sue ambizioni personali e con quelle dell’Italia. La sua permanenza ai gradi massimi dello Stato potrebbe quindi allungarsi, con una convergenza tra tutti i partiti che lo sostengono.  

Questo lo si può dedurre sia da come si è mosso Draghi finora, sia da quello che è il suo tasso di gradimento fra gli italiani. Sul primo punto, il premier si è espresso sinora in modo trasversale: ha abbracciato nel modo più netto possibile la causa della transizione ecologica; ha detto di non volere alzare le tasse (“È il momento di dare, non di prendere”); ha affermato che condivide nello spirito di fondo il reddito di cittadinanza; si è espresso in favore di un patto sociale che coinvolga sindacati e Confindustria.

Draghi politicamente poi si è definito un socialista liberale, e non si può non pensare, rispetto a questa definizione, a due figure in particolare: Carlo Rosselli e Bettino Craxi. Si è messo cioè al centro rispetto all’asse politico formato dai partiti, ma restando pur sempre al di sopra degli stessi.
Circa il secondo punto, che è strettamente legato al primo, il gradimento del premier presso gli italiani rimane altissimo, attorno al 70%.

Verso il presidenzialismo?

Entrambi questi fattori potrebbero così far pensare anche alla possibilità di una svolta presidenzialista della nostra Costituzione sotto l’egida di Draghi, per esempio sul modello francese. Un’ipotesi che già dalla fine degli anni 70 era stata prospettata da Craxi. Il leader socialista si era reso conto che l’eccesso di parlamentarizzazione delle decisioni e del potere di veto rappresentava un grave deficit per le capacità di manovra della Presidenza del Consiglio (e ciò in una logica sia governista, sia come maggior riconoscimento dell’opposizione, allora rappresentata dai comunisti). 

Il lodo Giorgetti

Un Draghi come De Gaulle, insomma. Ed è proprio come il generale francese che lo vede uno dei più importanti rappresentanti del Governo, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Intervistato da La Stampa ha affermato anche che “è nell’interesse del Paese che Draghi vada subito al Quirinale”. E ha aggiunto: “Appena arriveranno delle scelte politicamente sensibili la coalizione si spaccherà”, sottolineando che “Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente”.

Allo stesso modo del ministro leghista sembra pensarla Confindustria, che per voce del suo presidente Carlo Bonomi ha definito Draghi “l’uomo della necessità”. Un’ipotesi sottesa anche in un’intervista di Matteo Renzi a La Repubblica, quando il leader di Italia Viva ha detto che l’asse con il centrodestra per la partita del Quirinale “non solo è possibile, ma probabile”.

 Appuntamento a febbraio

Percorribile, ma fino a un certo punto, sarebbe invece la strada di riproporre Mattarella al Quirinale fino a fine legislatura, nel 2023, per poi “incoronare” al Colle l’ex presidente della Bce. Come nel caso di Napolitano nel 2013, anche qui servirebbe un’ampissima maggioranza parlamentare per il sì di Mattarella. Ma affinché questo si verifichi, bisognerebbe convincere non solo Meloni ma anche Salvini. E comunque, in questo caso, Draghi dovrebbe sopportare quell’anno di campagna elettorale che paventava Giorgetti. Ecco perché la strada più probabile rimane quella del premier già al Quirinale nel febbraio prossimo.