Una drammatica testimonianza dall’inferno di Gaza

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Nella Striscia di Gaza, malgrado le difficili condizioni di vita causate dal completo isolamento a partire dal 2007, la piccola comunità cristiana ha sempre cercato di conservare una vita dignitosa. In questo senso, le scuole hanno avuto un ruolo importante: l’articolo che segnaliamo è la testimonianza della professoressa di francese nella scuola delle Suore del Rosario, precipitata con tutta la famiglia nell’incubo dei bombardamenti, che hanno già causato 23.000 morti e 60mila feriti che non possono essere assistiti a causa della distruzione degli ospedali. E ora la fame e le malattie stanno accelerando la decimazione della popolazione civile.
 
«A Gaza cerchiamo ogni giorno un modo per sopravvivere»
 
Amal Abuhajar è una insegnante palestinese di francese nella scuola cattolica delle suore del Rosario di Gaza. Dopo due evacuazioni, ora è rifugiata in una scuola dell’Unrwa a Rafah con suo marito e i sei figli. Racconta l’inferno di una quotidianità fatta di carenze, code, paura e condizioni insalubri.
 
«Il 7 ottobre è stata una giornata nera. Non siamo stati noi a decidere questa guerra e da allora viviamo i giorni più terribili della nostra vita». Con questo messaggio datato 22 dicembre e scritto in francese, come tutti i seguenti, Amal Abuhajar, insegnante di francese alla scuola del Rosario di Gaza, inizia il racconto di questi ultimi tre mesi, che hanno stravolto la sua vita.
«Avevo una grande casa a est di Khan Younis, con un grande giardino verde e ben tenuto. Con rose di tutti i colori, alberi che producono olive, datteri, guaiave, arance, limoni, uva e clementine.
Tutti i vicini se ne sono andati il 7 ottobre. Io non volevo lasciare la mia casa. Ma ho vissuto la notte peggiore della mia vita a causa dei bombardamenti. I bambini non facevano che piangere. Alla fine, siamo partiti alle 7 del mattino dell’8 ottobre per andare nel mio vecchio appartamento a Khan Younis. È stato straziante lasciare la casa.
Cercavo la calma, ma lì tutto era più drammatico, più tragico. Mio figlio di sette anni mi ha detto: «Qui ascoltiamo e vediamo la morte, mentre a casa la ascoltavamo soltanto». E questo è vero. Nel pomeriggio dell’8 ottobre, l’occupazione israeliana ha ucciso decine di bambini e donne davanti ai nostri occhi. Un’abitazione di sette piani è andata in pezzi.
 
Sono sicura di aver perso le mie rose…
Le urla, le ambulanze, i rumori di morte e di paura, gente che correva… Tutto questo davanti ai nostri occhi, davanti ai nostri figli. Mi sentivo impotente. Che cosa potevo fare? Avevo paura, piangevo sempre. Avevo la sensazione che ogni notte sarebbe stata l’ultima.
Dal 7 ottobre non c’è più alcun significato nella vita. Ho perso tutto: la mia casa, il mio lavoro, i miei studenti… sono sicura di aver perso le mie rose… Che aspetto ha la mia casa? Come stanno i miei uccelli? Questa guerra è come un’orribile pièce teatrale sezna fine. Questa è la nostra vita quotidiana qui a Gaza. Il mattino è nero come la notte. La notte è un incubo.
Non c’è elettricità, niente acqua, niente internet… Cerchiamo ogni giorno un modo per sopravvivere, per salvare i nostri figli. Mio marito va dal fornaio alle tre del mattino a prendere il pane… Fa la fila per 10 o 15 ore e riesce a malapena a sfamare i bambini. Poi prende la bicicletta per andare a comprare l’acqua. Anche lì deve fare la fila per ore prima di portarne un po’».
Tre giorni dopo la fine della tregua, il 4 dicembre, Amal e la sua famiglia hanno ricevuto l’ordine di evacuare il quartiere in cui si trovavano a Khan Younis.
«Siamo andati a Rafah. Abbiamo dormito in macchina, per mancanza di un posto altrove. Dopo due giorni di ricerche, abbiamo trovato posto presso la scuola elementare “B” dell’Unrwa, quella per le bambine. Da allora, abbiamo condiviso la nostra sofferenza con duemila sconosciuti. Condividiamo le code della vita quotidiana: quella per caricare il cellulare in biblioteca, per lavarsi, quella per ritirare le scatolette…».
 
Tre lattine e tre bottiglie d’acqua a settimana
«A Rafah non c’è abbastanza cibo rispetto al numero di persone. Tutti quelli che abitavano al nord e a Khan Younis sono rifugiati lì. Dato che ho sei figli, ci sono concessi tre prodotti in scatola e tre bottiglie d’acqua ogni settimana. Ci bastano appena per un giorno. Quindi devi integrare altrove, ma tutto è troppo costoso. Non riceviamo lo stipendio dal 7 ottobre. La gente vende la legna degli alberi lungo la strada per alimentare i forni dove viene cotto un po’ di pane».
«Il più piccolo dettaglio della nostra vita quotidiana, anche i bisogni più semplici, tutto è complicato», scrive Amal, che non ha avuto accesso a una doccia adeguata da quando è arrivata alla scuola.
«Ho bisogno di piangere, di urlare. A volte vado al mare da sola e piango fino al mattino. Sono stanca, triste, odio il sole del mattino, perché è sinonimo di nuove sofferenze. Di notte non c’è luce, tranne quella dei bombardamenti. Il suono delle donne e dei bambini che piangono, dei feriti che soffrono per il freddo e le malattie.
Onestamente prendo dei farmaci, così posso dormire due o tre ore a notte. Sai come abbiamo paura del rumore degli aerei? Sai che cosa si prova a sentire i bombardamenti? Le minacce quotidiane che viviamo? Qui a Gaza aspettiamo la morte. Aspettiamo la fine e preghiamo di morire insieme».
Il 26 dicembre Amal riprende la tastiera: «Ieri gli israeliani hanno minacciato di bombardare la libreria accanto alla nostra scuola. La gente ha cominciato ad andarsene, molti dormivano per strada… Ho portato i miei figli a casa di un’amica, ma non abbiamo potuto portare le nostre cose per dormire. Fa freddo, molto freddo di notte».
La libreria non è bombardata. Amal deve lasciare la casa della sua amica. «Camminiamo continuamente a sud-ovest di Rafah», ha scritto il 27 dicembre. Il giorno seguente, lei e i suoi figli sono tornati alla scuola dove c’è un problema di risalita delle acque reflue, a causa della mancanza di elettricità che attiva le pompe per la bonifica delle acque. «È terribile e disgustoso – confida Amal –. Comincio a cercare un altro posto… Siamo tutti malati. Le scuole non sono adatte alla vita delle persone».
 
 

“I cristiani non rimarranno più a lungo a Gerusalemme”

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Segnalazione del Centro Studi Federici

La notizia che segnaliamo non la troverete sui media italiani, di sinistra o di destra, perché nessuno ha il coraggio di denunciare la logica conclusione dell’occupazione sionista della Terra Santa: il tentativo di cacciare i cristiani da Gerusalemme. Solo i mezzi d’informazione legati alle strutture ufficiali della Chiesa in Terra Santa denunciano periodicamente (seppur con toni annacquati in nome del “dialogo giudaico-cristiano”, toni presenti anche nell’articolo che pubblichiamo) la crescita di aggressioni verbali e materiali nei confronti dei cristiani: voce che grida nel deserto… L’ultimo fatto riguarda una troupe del “Terra Sancta Museum” aggredita da un gruppo di giudei.
 
«Non vogliamo cristiani qui!»
 
Il 12 ottobre scorso, durante le riprese per un materiale audiovisivo destinato al Terra Sancta Museum, lungo l’antico cardo di Gerusalemme, la troupe è stata cacciata da un gruppo di ebrei ortodossi. Un incidente non isolato.
 
«Fate i bagagli e andatevene!», ordina un ebreo ultraortodosso sulla trentina alla troupe cinematografica del Terra Santa Museum, prima di aggiungere con tono aggressivo: «I cristiani non rimarranno più a lungo a Gerusalemme». L’episodio, del tutto reale, è avvenuto mercoledì 12 ottobre mattina – mentre gli ebrei erano in piena celebrazione della festa di Sukkot – sul selciato del vecchio cardo romano, che solca il quartiere ebraico della città vecchia. È l’ennesimo esempio dei quotidiani gesti di intolleranza commessi contro i cristiani a Gerusalemme.
 
La squadra della Custodia di Terra Santa, composta da cristiani francesi e palestinesi, si trovava quella mattina nel cardo per girare alcune scene di un video educativo che sarà proiettato ai visitatori della sezione storica del Terra Sancta Museum in via di allestimento presso il convento francescano di San Salvatore.
 
L’audiovisivo servirà a raccontare la storia della presenza cristiana in Terra Santa. La scena che si stava girando il 12 ottobre vuole mostrare i primi ebrei seguaci di Gesù, che, diventati cristiani, continuano a pregare secondo la tradizione ebraica. Quattro israeliani hanno accettato di recitare indossando abiti d’epoca e scialli da preghiera. La produzione aveva ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie per girare sul cardo.
 
«All’inizio, i passanti ci guardavano con curiosità – riferisce una dei membri del gruppo di lavoro – poi è arrivato un ebreo ortodosso che ci ha chiesto cosa stessimo facendo, prima di chiamare altri suoi amici. Una decina di minuti più tardi sopraggiunge un intero gruppo che entra nel campo di ripresa delle telecamere e cantando motivi religiosi». «Hanno capito che eravamo cristiani. Non sembravano particolarmente aggressivi, ma neppure molto benevoli – soggiunge la giovane testimone –. Abbiamo subito messo via l’attrezzatura e i figuranti se ne sono andati».
 
Un’intimidazione
 
Quello descritto non è un incidente isolato. Atti di inciviltà, come sputi e insulti, sono frequenti da parte di una popolazione ebrea ultraortodossa che poco sa del cristianesimo. Anche i monasteri e conventi situati sul monte Sion sono regolarmente oggetto di atti vandalici da parte degli appartenenti a gruppi radicali.
 
«Penso che sia un’intimidazione – osserva una delle comparse coinvolte la mattina del 12 ottobre, un israeliano, ebreo praticante e molto impegnato nel dialogo ebraico-cristiano –. Vogliono solo mostrare il loro potere là dove sono, ma non c’è nient’altro dietro. Se fosse stata presente la polizia, non avrebbero fatto nulla». (…)
 
«Incidenti simili sono imbarazzanti perché si imprimono nella memoria e danneggiano l’immagine della città e delle persone che vi abitano. Atteggiamenti simili vanno contro quello che stiamo cercando di fare: insegnare e spiegare», denuncia Hana Bendcowsky, direttrice dei programmi del Centro di Gerusalemme per le relazioni ebraico-cristiane (Jerusalem Center for Jewish-Christian Relations – Jcjcr), la cui pagina Facebook ha riportato il video dei fatti qui descritti. https://www.facebook.com/jcjcr.org/videos/1601281490269690
 
C’è anche chi si adopera per disinnescare le tensioni: dal 2021, ad esempio, alcuni volontari israeliani in giubbotti gialli dell’associazione Finestra sul Monte Sion, accompagnano ogni domenica le processioni armene (minacciate dai giudei, ndr) dal convento di San Giacomo alla basilica del Santo Sepolcro.
 

Così morirono i crociati a Sidone

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Recenti analisi su scheletri rinvenuti a Sidone, in Libano, ci aiutano a comprendere meglio i crociati caduti nel XIII secolo per difendere la città. Il ruolo del re san Luigi nella loro sepoltura.
 
Uccisi a colpi di spada o d’ascia, decapitati, massacrati in massa, crivellati di frecce. Il destino dei crociati che combatterono per difendere Sidone, l’odierna Saida a sud di Beirut, a metà del XIII secolo fu senza dubbio qualcosa di brutale. Lo evidenziano i ricercatori dell’Università di Bournemouth, nel Regno Unito, in un comunicato stampa diffuso il 14 settembre per sintetizzare uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, con altri due ricercatori britannici.
 
L’équipe ha analizzato gli scheletri umani rinvenuti nel 2015 in due fosse comuni trovate nel fossato del castello di San Luigi (Qalat al-Muizz) a Sidone, porto strategico per i crociati per oltre un secolo. In piena guerra, mancando il tempo per officiare un rito funebre per ogni singolo crociato caduto, fu d’obbligo il ricorso alla fossa comune.
 
In base alla presenza nelle sepolture di monete d’argento della metà del XIII secolo e di fibbie in rame per cinture di foggia franca i resti umani oggetto dello studio sono stati identificati come appartenenti ad almeno 25 crociati.
 
Usando la datazione al radiocarbonio, i ricercatori stimano che i soldati probabilmente morirono nelle battaglie del 1253 o del 1260, quando Sidone, controllata dai cristiani, fu attaccata direttamente dalle truppe del sultanato mamelucco, nel 1253, e dai mongoli dell’Ilkhanato, nel 1260.
 
In armi con una violenza estrema
 
La scoperta è davvero rara, sottolineano i ricercatori perché le fosse comuni di questo periodo sono piuttosto introvabili. «Il numero minimo di 25 individui supera significativamente quello dell’unico altro luogo di sepoltura comune a noi noto d’epoca crociata», affermano gli autori dello studio, riferendosi agli scheletri di cinque uomini caduti al Guado di Giacobbe, situato tra l’Alta Galilea e le alture del Golan, che, il 23 agosto 1179, si scontrarono l’esercito ayyubide guidato da Saladino e le milizie del Regno di Gerusalemme.
 
Dopo aver analizzato gli scheletri di Sidone, gli esperti hanno raggiunto un’altra conclusione: appartenevano a uomini fatti e ad adolescenti. Quindi non c’erano donne o bambini sul campo di battaglia.
 
Alcuni degli scheletri «mostrano ferite di spada alla parte posteriore del corpo, suggerendo che i soldati siano stati attaccati da dietro, probabilmente in fuga nel momento in cui sono stati colpiti. Altri hanno ferite di spada alla nuca, il che indica che potrebbero essere stati prigionieri giustiziati per decapitazione dopo la battaglia», riassume il comunicato dell’Università di Bournemouth.
 
I segni rimasti sugli scheletri dimostrano quanto sia stato brutale il combattimento. La concentrazione di ferite alla testa e alle spalle di alcuni soldati sarebbe «coerente» con il fatto che probabilmente fronteggiavano a piedi dei nemici a cavallo.
 
Il contributo del re
 
L’analisi degli isotopi dentali e gli studi sul Dna hanno consentito anche di individuare le origini geografiche dei soldati. Alcuni erano nati in Europa, altri nel Vicino Oriente. Taluni erano di discendenza mista, probabilmente discendenti di crociati che si erano accoppiati con donne locali. Dati coerenti con la composizione sociale delle truppe crociati descritta dalle fonti storiche.
 
Secondo i documenti storici, Luigi IX di Francia, il sovrano – poi dichiarato santo – che guidò la settima crociata, era presente in Terra Santa al momento dell’attacco a Sidone nel 1253. Il re «andò in città dopo la battaglia e aiutò personalmente a seppellire i cadaveri in decomposizione in fosse comuni come queste», spiega nel comunicato del già citato ateneo britannico il dottor Piers Mitchell, dell’Università di Cambridge, che ha collaborato allo studio.
 
Le cronache di Jean de Joinville, cavaliere francese e biografo di san Luigi nonché testimone oculare della Settima crociata, riportano che «Egli (il re – ndr) aveva portato personalmente i corpi, tutti marci e maleodoranti, per deporli nelle fosse, senza mai turarsi il naso, come facevano gli altri». (c.l.)
 
 

Terra Santa: l’acqua non è uguale per tutti

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Palestina assetata
Avere l’acqua corrente in casa nei Territori Palestinesi non è affatto scontato e normale.
Né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Per molteplici ragioni. Alcune testimonianze da Betlemme.
 
Osservando il paesaggio nei dintorni di Beit Sahour, centro urbano ad est di Betlemme, le cisterne in cima alle case permettono di distinguere le abitazioni palestinesi dagli edifici che fan parte degli insediamenti ebraici. Lo spiega la gente del posto che ogni giorno fa i conti con il problema della carenza idrica. Le cisterne sulle case servono, infatti, a conservare l’acqua o a raccogliere la pioggia, ma non tutte le abitazioni ne hanno bisogno. In Cisgiordania l’acqua è distribuita in maniera diversa da casa a casa, a distanza di pochi metri l’una dall’altra. Per sopperire ai disagi dell’emergenza idrica, la popolazione si ingegna come può, ma il problema della gestione delle risorse rimane una ferita aperta che non accenna a guarire, anzi è «un ostacolo alla pace», come lo ha definito la Bbc.
Secondo l’Autorità palestinese per l’acqua, il 95 per cento delle riserve idriche palestinesi si trova nelle falde acquifere (sono tre i bacini sotterranei). L’acqua di superficie, di cui teoricamente si potrebbe disporre, proviene invece dalle piene dei wadi (i torrenti stagionali), dall’eventuale desalinizzazione delle acque del Mar Morto e dal fiume Giordano. Nessuna di queste risorse, tuttavia, è di fatto utilizzabile dai palestinesi.

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1948 – 2018: la catastrofe del popolo palestinese

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Vita da profughi, la storia di Hejar e della sua famiglia
 
In questi giorni in Terra Santa, gli israeliani hanno celebrato l’indipendenza e i palestinesi la propria tragedia nazionale, che rileggiamo con gli occhi di Hejar Zghari, profuga a Betlemme.
 
Un cassonetto brucia, riempiendo l’aria d’un odore aspro. È un giovedì mattina e per le vie strette del campo profughi di Dheisha, alle porte di Betlemme, non c’è quasi nessuno. Hejar Zghari ci apre le porte della sua casa, circondata da altre costruzioni in cemento del campo, popolato da 15 mila rifugiati palestinesi.
 
Hejar ha 67 anni («Sono la prima nata della mia famiglia nel campo»), data alla luce in diaspora e cresciuta da profuga. Qui si è diplomata, si è sposata ed è diventata infermiera, mamma e nonna. Si presenta vestita con gli abiti tradizionali e un piatto di frutta: Racconta: «Sono originaria di Zakaria, tra Ramle e Hebron: il nostro era un villaggio di contadini, c’erano olivi, campi coltivati a cereali e frutteti. Lì sono nati i miei cinque fratelli. Mia madre e mio padre avevano una bella casa, tanti animali, conigli, pecore, capre. Quando arrivarono i sionisti furono cacciati via dal villaggio. Gli adolescenti e i giovani fino a 30-35 anni vennero fatti prigionieri. Molti di loro furono uccisi, anche una donna incinta fu assassinata. Il resto del villaggio, poco più di 1.500 persone, ne restò terrorizzato: scapparono tutti».

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