Roma, 24 mag – Tra le più evidenti contraddizioni del pensiero e dei metodi di comunicazione dell’elitismo occidentale dei nostri tempi vi è quella di dipingere il presidente Trump come un fascista per un paio di tweet in cui citava Benito Mussolini, Vladimir Putin come un altro fascista per taluni riferimenti al filosofo russo Ivan Ilyn, il presidente cinese Xi Jinping, viceversa, come un illuminato capo di Stato che marcia con convinzione verso il globalismo ed il progresso civile universale.
Xi Jinping lo statista
Xi Jinping è indubbiamente un eccelso statista. Presidente della Repubblica Popolare Cinese dal marzo 2013, la sua scalata verso i vertici del fu celeste impero è costellata da varie traversie, tra cui un’antica persecuzione che lo colse in giovanissima età, nel periodo della Grande rivoluzione culturale, in quanto figlio di un dirigente bollato dai maoisti come “controrivoluzionario”. Si è imposto nella lotta di fazione per la conquista della presidenza con l’appoggio di Jiang Zemin e della famosa fazione di Shangai, sconfiggendo Bo Xilai, l’esponente di punta della “Nuova sinistra” socialdemocratica.
Nonostante sia stato appoggiato nella sua scalata dalla fazione di Shangai, una volta rafforzato il suo potere il presidente ha senza problema alcuno arrestato per corruzione esponenti della medesima fazione, tra i quali lo stesso figlio di Jiang Zemin. Questo, può sembrare un particolare irrilevante, è invece già un sintomo del grande statista che sa dove vuole arrivare poiché possiede una strategia. Solo chi ha una ideologia ed una visione del mondo possiede una strategia di lunga durata. Xi è tra questi. L’Occidente ha quasi generalmente fornito un’immagine assai rassicurante della visione del mondo di Xi e della sua élite: Sogno cinese e Nuova Via della Seta sarebbero la sostanza della strategia globalista del Partito Comunista di Xi. Essendo peraltro un progetto globalista, sarebbe in fondo meno pericoloso del “Maga” trumpista e del nazionalismo panrusso di Putin. Ma è realmente così?
L’ideocrazia comunista
Sogno cinese e Belt and road initiative sono in realtà strumenti tattici della grande politica globale di Xi Jinping. Il leader cinese non è un confuciano né un buddhista, tantomeno un nazionalista han, caso quest’ultimo della Repubblica di Cina (Taiwan), che tuttora si ispira ai Tre Principi del Popolo di Sun Yat Sen, in cui vige una modernizzazione corporativistica di stato molto simile a quella del Giappone; la linea patriottica di Taipei è attualmente salvaguardata dal PPD (Minzhu Jinbu Dang, Fronte pan-verde). Se potessimo guardare il pianeta con occhi un po’ meno eurocentrici, dato anche lo scarso peso geopolitico europeo e l’età media senile delle popolazioni del vecchio continente, vedremmo che la Cina è stata forse l’autentica vincitrice della guerra fredda terminata con il crollo sovietico. Il tentativo strategico, che ispirò il processo riformistico di “apertura al mondo” di Deng, di conquistare la leadership del mondo ideologico comunista fu infatti raggiunto da Pechino. I discorsi interni di Xi Jinping non sono di solito tradotti nelle lingue occidentali, di conseguenza abbiamo una immagine assai unilaterale del leader comunista.
Xi è autenticamente ossessionato dal crollo sovietico, per quanto quest’ultimo evento abbia giovato alla causa ideologica e geopolitica di Pechino più di ogni altro. La conclusione a cui è pervenuto è che l’Urss sarebbe crollata perché ha ceduto alla tentazione di criticare Stalin e la Cina odierna non deve commettere il medesimo errore politico: Marx, Lenin, Stalin e Mao debbono quindi rimanere le guide del “socialismo con caratteristiche cinesi”, il marxismo-leninismo la sua pedagogia di base (Xi Jinping, XIX Congresso del Partito Comunista cinese). Il leader di Pechino ha spiegato ai funzionari del Pcc che proprio la Nuova politica economica (NEP) di Lenin inaugurata nel 1921 in Russia, fu lo strumento tattico applicato da Deng Xiaoping per frenare la errata via della Rivoluzione culturale. Xi Jinping non è il nuovo Mao in vena di sperimentalismi, semmai è il nuovo Lenin, la cui finalità storica è mostrare definitivamente al mondo la veridicità dell’analisi scientifica marxiana.
L’élite politica neo-denghiana, di cui Xi continua nonostante tutto a considerarsi parte integrante e punta di avanguardia, è attivamente marxista-leninista e tale sarà sino alla vittoria nello scontro finale con i nemici del marxismo cinese, vittoria che viene considerata irreversibile e certa, come ben mostra la sinologa Alice Ekman nel suo fondamentale saggio sull’ideologia del Pcc, per quanto carente sia sul piano dell’analisi geopolitica. Arte, cultura, sistema pedagogico, interpretazione della storia e della cultura cinesi sono tutti elementi dispiegati in vista dell’omega storico, il regno millenario comunista, una volta superata la fase attuale, caratterizzata ancora da un socialismo mediato con zone economiche di mercato capitalistico: “Studiando la legge marxista del valore, Deng ha avviato la nuova fase, la NEP alla cinese. Le analisi di Marx e Engels delle contraddizioni della società capitalistica non sono per nulla obsolete. Non è obsoleta neppure la previsione centrale del materialismo dialettico in base a cui il socialismo si affermerà in tutto il mondo. Al contrario, è l’inevitabile direzione dell’evoluzione storica, scientifica e sociale”(Xi Jinping, Maggio 2018).
Il silenzio sui Laogai
Xi Jinping si definisce “ateo marxista”, la stessa élite comunista della Repubblica popolare è “inflessibilmente atea”. Le persecuzioni più cruente, per quel che poco che se ne sa, riguarderebbero proprio i “cristiani delle catacombe”, per il loro anti-comunismo e patriottismo han filo-Taipei. L’Arcipelago Laogai ricorda il russofobo Arcipelago Gulag divulgato all’umanità da Solzenicyn; si caratterizza per la sua azione di permanente tortura mentale e fisica di segno marxista-leninista, ma è stato completamente silenziato dall’Occidente progressista, più interessato ai Renmimbi che alla persecuzione delle minoranze religiose o etniche compiuta dall’Esercito popolare di liberazione. Il Vescovo cinese Joseph Zen ha accusato l’élite gesuitica in accordo con il Partito comunista cinese di aver di nuovo ucciso il Cristo, sottolineando ancora una volta che la strategia di Xi è il globalismo materialista ateistico comunista, né il neo-confucianesimo né il nazionalismo han.
Tali espressioni di purezza ideologica marxista leninista espresse dal più influente leader di stato mondiale sembrano quasi compiacere le élite occidentali del deep state. Il punto debole dell’interpretazione di Ekman potrebbe effettivamente essere rappresentato dal fatto che in una visione marxista, nella Cina di Xi, vige la legge del valore, l’alienazione del lavoro e la logica del profitto, più che dalle zone economiche interne di proprietà privata che lasciano il tempo che trovano essendo appunto il potere politico ideologico in saldo possesso di Zhongnanhai rossa. Tali fattori rischiano comunque di essere del tutto secondari in una logica comunista ortodossa, se si considera che pure in Unione Sovietica (come riconobbe Stalin nel 1951), nella Jugoslavia titina e in larga parte nella stessa Cambogia di Pol Pot, le medesime catene erano assolutamente vigenti. Si potrebbe ribattere tirando in ballo la relazione strategica tra Trump e la Repubblica Socialista del Vietnam di Nguyen Xuan Phuc, ma anche in tal caso si potrebbe ricordare come in piena guerra fredda le fazioni progressiste occidentali fossero vicine all’Urss e quelle più conservatrici alla Cina maoista. Non sono dunque questi i criteri per mettere in discussione il comunismo cinese. Le più avanzate tecniche di controllo totalitario sociale, dal riconoscimento facciale al 5G, dall’Ai alla smart city, ora in avanzatissima discussione anche in ambito Ue, sono così strumenti del nuovo sogno globale totalitario marxista-leninista. Come mai il mainstream internazionale punta l’indice contro il “fascista Trump” o “il fascista Putin” ed è tutto sommato accondiscendente e comprensivo verso Xi, anche dopo la pandemia da coronavirus?
Non vi sarà una nuova Yalta
E’ presto detto: l’illusione della gran parte delle élite e dei potentati politico finanziari di casa nostra poggia sulla fiducia strategica di una nuova Yalta e di una nuova spartizione globale con il Partito Comunista di Beijing. Ma ciò non avverrà e non potrà avvenire. La cronica carenza cinese di beni naturali, ambientali e primari necessari farebbe sì, alla luce di una eventuale spartizione di dimensioni insufficienti per la sovrappopolazione interna, che la dirigenza marxista si troverebbe messa al bando dal popolo in rivolta, modello Hong Kong. Il marxismo di Stato per ora regge in quanto ha assicurato un relativo benessere ad almeno la metà di popolazione grazie alla riforma denghiana. Se venisse meno l’incentivo materialistico diffuso a livello popolare, il marxismo cinese crollerebbe. Inoltre, l’élite di Xi è molto abile a cavalcare la ferita storica dei gravissimi crimini dell’imperialismo occidentale bianco e delle “Concessioni straniere” come ulteriore strumento di affermazione e di espansionismo. Tale ferita è in effetti incisa nella memoria popolare ed è il segreto del successo cinese degli ultimi decenni.
Per quanto il decisionismo democratico populista trumpiano abbia nei tempi recenti, almeno sino alla diffusione mondiale del coronavirus, ben fronteggiato l’espansionismo totalitario internazionale di Pechino, è lecito nutrire seri dubbi sul fatto che gli Stati Uniti, con un deep state tuttora così potente e per nulla anticinese, possano fermare l’imperialismo marxista di Pechino. Si pensi ai sostanziosi affari del milionario Hunter Biden, figlio del milionario Joe, con Pechino, emersi in tutta la loro portata negli ultimi giorni negli Usa. Si consideri poi che i vari movimenti giovanili occidentali trend propagandati dal mainstream, da Greta Thunberg alle sardine con pugni chiusi e bella ciao, senza disquisire sull’originaria bontà o onestà ideologica di questi, vengono facilmente manipolati e strumentalizzati come “carne da macello” da quel notevole cervello politico e strategico che è il Partito comunista di Pechino. Ben più concreta in definitiva è l’ipotesi che proprio i “patrioti russi”, che con il Samizdat e con la resistenza nei Gulag hanno avuto la forza di condurre alla dissoluzione interna del marxismo sovietico occidentalizzante, alla rinascita della Russia Ortodossa e all’annientamento dell’imperialismo unitario di Yalta, avranno senz’altro anche in questo nuovo conflitto globale un ruolo centrale e decisivo.
Mikhail Rakosi
DA
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