Malaparte contro i giovani sporchi e arrabbiati

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di Marcello Veneziani

La seconda guerra mondiale era finita da poco e l’Europa era piena di macerie e di vitalità. Per tutti quello fu il tempo della Ricostruzione, dell’operosa voglia di rinascita. E invece, uno scrittore curioso e un po’ cialtrone, a volte inattendibile ma acuto nel penetrare col suo sguardo le profondità latenti di un’epoca, annuncia che nel dopoguerra sta succedendo qualcosa: sta nascendo una razza globale. Che prima chiama razza europea e la definisce “giovane, nervosa, più bella e più delicata”, poi la definisce “razza marxista” fino a denunciare la sporcizia della nuova razza marxista che non ha nulla a che vedere con la sporcizia dei poveri, per esempio nei bassi di Napoli. È generata dalla “decadenza del capitalismo, dalla corruzione della democrazia, dal sabotaggio sociale comunista, dalla contaminazione dei costumi”. Anche le ragazze sono “scarmigliate, mal lavate, mal vestite, imbronciate”. È una nuova razza che sorge in Europa, invade le nazioni, sommerge ogni cosa, fatta da giovani piccolo borghesi che hanno il disgusto della borghesia, spezzano ogni legame di classe e di provenienza, vivono “una nuova bohème artificiale”; una generazione di spostati e di finti proletari. E così li descrive: “la moda dei capelli lunghi, dei visi mal rasati, delle unghie sporche” e altro ancora… Curzio Malaparte nel 1947 ha visto in anteprima esclusiva a Parigi un trailer del Sessantotto. Prima che nascesse la gioventù bruciata americana. Lo annota sul suo Journal, che scrive in francese, ora ripubblicato da Adelphi col titolo “Giornale di uno straniero a Parigi”. Il loro maestro è Jean-Paul Sartre, ma ai suoi occhi appare già démodé, antiquato. Malaparte non descrive solo “la pelle” di quella razza, e di quella generazione, ma si inoltra nelle loro idee: non sanno che farsene, scrive, dell’ordine capitalista, comunista, cattolico, non vogliono servire nessuna chiesa, non credono più in niente. Sono nichilisti. Qui la diagnosi di Malaparte oltrepassa pure il Sessantotto e sembra riguardare i nostri giorni. Malaparte non è un pensatore ma annusa l’aria, coglie i movimenti tellurici, è sismografo del suo tempo, coglie gli umori nascosti dell’epoca.

Il nichilismo che aveva profetizzato Nietzsche è diventato fenomeno di massa, oltre che generazionale; e Malaparte lo coglie, lo nomina e ne dà perfino una data di nascita: “Dopo il 1945”. Lo dice da osservatore, non da nostalgico dell’epoca precedente e dei fascismi: Malaparte è stato arcifascista e antifascista, è finito in carcere durante il regime, è stato dissidente, finirà in odore di comunismo e innamorato della Cina comunista di Mao. Ma in queste note sostiene che l’unica salvezza per l’Europa sia l’individualismo, idea a suo dire occidentale e latina (ma anche dí derivazione cristiana). Insomma Malaparte è acuto come radar ma quando deve indicare una via dice tutto e il contrario di tutto, è dongiovanni e poligamo, come nella vita intima. In tema di resistenza, pur definendosi un resistente, mostra insofferenza verso la sorgente retorica della resistenza, i suoi tabù e i suoi mostri sacri e arriva a dire che la resistenza, perlomeno in Italia e nell’Europa occidentale, è stata “uno strumento di guerra forgiato dallo straniero”, con capi, armi, mezzi stranieri. E con la geniale cialtroneria che ama esibire per colpire l’uditorio e spiazzare tutti, si avventura in una spericolata ipotesi di fanta-storia: se Mussolini nel settembre del ’43 si fosse dato alla macchia, anziché farsi liberare dai tedeschi, avrebbe potuto assumere lui la guida della resistenza italiana contro i tedeschi. Immaginate cosa sarebbe successo con Mussolini a capo della resistenza! La gente lo ascolta perplesso, alcuni protestano, ma lui, Malaparte, si compiace, si diverte, ride perfino, e poi lamenta che “l’ironia è morta in Europa, nessuno sa più giudicare”.

È un piacere leggere Malaparte, i suoi racconti, la sua prosa; incuriosisce, sorprende, anche se spesso ti chiedi: ma sarà vero, dice sul serio o sta pazziando? Si susseguono incontri, giudizi, situazioni, storie e ritratti. E continui paragoni tra francesi e italiani.

A proposito di Mussolini, Malaparte racconta un gustoso episodio, che spunta misteriosamente, non facendo parte né del corpus del Journal né in generale dell’Archivio Malaparte. Lo scrittore, ancora un giovanotto, viene convocato dal Duce a Palazzo Chigi, dove si era insediato da poco tempo. Quando varcò la soglia della stanza di Mussolini, le gambe gli tremavano, ma l’ansia non gli impedì di osservare molti dettagli e di notare il cattivo gusto di una lampada, un abat jour, che illividiva la faccia del duce, il suo viso pallido, le sue profonde orbite e l’ombra del naso, grosso e carnoso. Dopo aver firmato varie carte, Mussolini gettò la penna, si buttò indietro sulla spalliera della poltrona, lo fissò con i suoi occhi tondi grandissimi, scuri e Malaparte si sentì ghiacciare il sangue nelle vene.

Mussolini si sorprese della sua giovane età, chiese che studi avesse fatto, e poi cominciò a rimproverarlo, accusandolo di essersi abbassato a dire su di lui malignità degne di una portiera pettegola. Malaparte arrossì. Poi scoprì il capo d’accusa: Malaparte al caffè Aragno a Roma aveva sparlato delle “brutte cravatte” di Mussolini. Malaparte ammise di averlo detto, ma aggiunse che era un’osservazione senza cattiveria e malignità, e gli chiese scusa. Mussolini accolse le scuse e lo ammonì per l’avvenire. Ma era terribile, scrive Malaparte, cadere in disgrazia del dittatore all’inizio della carriera (lui dice che aveva allora 20 anni, in realtà ne aveva 25). Poi, però, l’ambasciatore Paulucci de’ Calboli che era presente al colloquio, raccontò che Mussolini, quando lui uscì, si era messo a ridere; ma subito dopo, si fece portare uno specchio da Navarra, il suo capo usciere, per vedere la sua cravatta. Io la trovo bellissima, diceva lisciandosela, non trovate? L’ambasciatore non poté che dargli ragione. Malaparte si vendica nelle righe seguenti descrivendo lo strano odore di oca selvatica di Musoslini, anzi un odore di pelle di pollo bagnato; l’indole morbosamente femminile del duce, benché così maschio, la sua voce che “ha radici nelle mammelle”, le sue mani da “vecchia monaca morta”. Malaparte amava stupire con effetti speciali, la sua prosa è godibile anche quando racconta l’inverosimile.

E per restare in tema, in questo suo diario, Malaparte confessa un vizio: ama abbaiare di notte. “Chiamare i cani la notte e parlare con loro, è il mio unico piacere della vita. Ho imparato a parlare coi cani a Lipari, durante il confino, non avevo altri con cui parlare”. Saliva sulla terrazza nella casa di fronte al mare, nella Salita di Santa Teresa, vicino alla chiesetta, e abbaiava. Gli fu perfino proibito dai carabinieri di abbaiare di notte, i pescatori ne erano intimoriti, molti lo chiamavano “il pazzo”. Anche sugli scogli di Capri o sulla spiaggia di Forte dei Marmi, confessa Malaparte, continuò ad abbaiare di notte; ma non più per solitudine e disperazione; lo faceva quando si sentiva giovane, libero, felice. Per una vita Curzio Malaparte ballò coi lupi.

La Verità – 26 novembre 2025 –  https://www.marcelloveneziani.com/articoli/malaparte-contro-i-giovani-sporchi-e-arrabbiati/

Il popolo italiano ed il suo “particulare”

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di Daniele Biello

“O Franza o Spagna, purché se magna”. Uno studio del Censis fotografa un Paese

politicamente ancora immaturo, che si è sempre visto imporre le scelte – che dovrebbero

essere proprie – dal vincitore di turno

Ecco che con il suo solito fare Alessandro Orsini rivela che la maggior parte degli italiani sono schierati dalla parte della Russia contro la Nato e dalla parte di Putin contro Zelensky.

Il sondaggio

A conforto di questa affermazione vengono riportate le conclusioni di uno studio del Censis, del dicembre 2024, secondo cui il 66,3 per cento degli italiani sono convinti che la responsabilità della guerra in Ucraina non sia della Russia, ma dell’“Occidente” ed in particolar modo degli Stati Uniti. Lasciamo perdere la legittima domanda su cosa è l’Occidente e non gli “Occidenti”, quantomeno se si legge Toymbee, Spengler e compagnia bella.

Questa “verità”, come la chiama Orsini (Quid est veritas? risponderebbe Ponzio Pilato), non deve stupire. È certamente noto che qualunque sondaggista può influenzare il risultato del sondaggio, a seconda di come sono poste le domande. Non vi è motivo, comunque, per ritenere questo dato falso. Semmai sollevano qualche amara perplessità le motivazioni che l’autore adduce a sostegno di quel dato riportato dal Censis. Egli, mai sobrio e completo nelle sue argomentazioni, si dichiara convinto che “gli italiani hanno occhi per vedere e cervelli per pensare” – nonostante tutta l’informazione “drogata”, “atlantista” – perché “ricordano la storia”.

Magari fosse così! Vi sono non infondati dubbi che in un Paese dove si legge pochissimo e si studia ancora meno si possa formare una coscienza civile e politica matura che sappia andare oltre l’informazione mainstream, alla quale Orsini, indubbiamente, fa parte. In una epoca in cui la divulgazione d’accatto la fa da padrona chi conosce la storia? Basta un Barbero qualunque ed ecco che si pensa di aver capito tutto del fluire delle humans actiones (per dirla con Spinoza).

Sostanzialmente neutralisti

L’informazione fornita da Orsini trova sponda (più che risposta) in una analisi, solida e composta, di Lucio Caracciolo che – sempre su dati Censis – riferisce che, sulle necessità di difendere la propria patria, solo il 16 per cento degli italiani si dichiara disposto a fare la guerra. Dato di per sé netto, che – comunque – stride con la rilevazione che il 38 per cento dei concittadini sarebbero disposti a correre in soccorso dei groenlandesi nel caso in cui gli americani li invadessero.

Bagatelle per un massacro! In fondo, commenta il direttore di Limes: “Noi apparteniamo all’Allenza Atlantica ma siamo sostanzialmente neutralisti”. Sostanzialmente gli italiani preferiscono esporsi il meno possibile, rispetto alla politica del proprio Paese. Quindi ben venga l’analisi di Orsini.

Longanesi, che amava i paradossi, diceva che gli italiani sono “estremisti per prudenza”. La prova provata di questa verità è che la fronda filorussa, tanto rumorosa, quanto priva di proposta, affolla gli oscuri sentieri della rete, molto più del mondo reale. Lo stesso Orsini – all’inizio del 2023, se ricordo bene – disse che sarebbe stato opportuno, nel caso che la Russia avesse attaccato la Nato e/o l’Unione europea, autosospendersi dall’alleanza e dalla Ue, fino a ché fosse perdurato il conflitto, per poi rientrare a giochi fatti. Che alta posizione morale!

“O Franza o Spagna, purché se magna”, è una espressione attribuita al fiorentino Francesco Guicciardini, che fu ambasciatore presso la corte di Spagna, diplomatico e condottiero al servizio del Papato, infine grande storico. Non è dato sapere se abbia veramente pronunciato quelle parole, ma il loro spirito aleggia nella politica dell’uomo prima alleato della Spagna, poi della Francia, allo scopo di salvaguardare le signorie dell’Italia, compresa la sua Firenze.

Ciò non toglie che quella weltanshauung ha sempre contraddistinto gli italiani negli ultimi cinque secoli. “La vocazione a dividerci sempre e su tutto per il nostro ‘particulare’, come lo chiamava Guicciardini, noi italiani  – ricorda Montanelli – ce la portiamo nel sangue, e non c’è legge che possa estirparla”.

Senza memoria

La proposta di Orsini, per quanto sarà frutto di una sofisticata analisi inarrivabile per la maggior parte degli accademici italiani, ricorda il conio dell’espressione de “i giri di valzer” con la quale il cancelliere tedesco von Bülow fece riferimento (nel 1902) all’avvicinamento, ritenuto “innocuo”, dell’Italia ai Paesi della Triplice Intesa, quando era ancora all’interno dell’alleanza con la Germania e la Doppia monarchia.

Cifre e stili di politica che si protraggono nel tempo. Siamo poi sicuri che gli italiani “conoscano la storia”? Di parere contrario era l’uomo di Fucecchio per il quale “gli italiani non imparano niente dalla storia, anche perché non la sanno”. D’altronde Ojetti diceva dell’Italia che era “un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri… perché senza memoria”.

Vassalli degli Usa

Nella vulgata proposta viene esposto al ludibrio dell’Homo orsinicus la constatazione che l’Italia è un Paese vassallo degli Stati Uniti. Che novità sconvolgente! Lo è da ottant’anni ed Orsini lo scopre ora? Per quale ragione l’America avrebbe affrontato gli investimenti del Piano Marshall? Per quale motivazione essa si è dissanguata, per decenni, nelle proprie economie e nelle proprie risorse umane per garantire una certa “sicurezza”, consentendo ai vassalli di crearsi un welfare mai raggiunto in secoli di Storia?

L’Italia è un Paese vassallo, ma – al momento – ha avuto più guadagni che perdite ad esserlo. Se un tempo era dalla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico che le menti migliori venivano a studiare in Europa, dagli anni Cinquanta il movimento è stato da Est ad Ovest e questo è un moto irreversibile.

Attrazione per l’uomo forte

Vi è, però, qualcosa di più nell’analisi del sondaggio del Censis. L’attrazione “omoerotica” che molti italiani hanno verso l’uomo “forte”. Mussolini governò per vent’anni, senza una vera opposizione e solo quando la performance del capo ebbe indice negativo – ecco – la sfiducia verso di lui e la caduta, nata da un colpo di Stato all’interno del regime.

Il messaggio subliminale è l’offerta di una fuga dalla libertà, come evidenziò Fromm. Nonostante (e forse proprio per questo) il continuo parlare di antifascismo, altro non è che un mantra che nasconde l’anarchico, ma impotente, desiderio di un governo che rassicuri, anche attraverso una estetica volitiva del messaggio politico.

L’uomo che non fa pensare è uomo vincente, in fondo, sempre. Il dubbio è quanto di più difficile da sostenere. Certo è che l’uomo forte, il Putin della situazione, deve essere sempre fedele a sé stesso, deve essere una maschera, spesso grottesca. La crisi di questa immagine è la crisi del sistema. Commentando la deposizione di Mussolini si dice che Churchill abbia detto: “In Italia c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. Una frase impietosa, ma che fotografa con esattezza il cambio di casacca di una nazione, quella italiana.

Un Paese immaturo

Lo studio del Censis, che non vi è ragione di non ritenerlo veritiero, fotografa un Paese politicamente ancora immaturo, che si è sempre visto imporre le scelte – che dovrebbero essere proprie – dal vincitore di turno. L’unità nazionale? Frutto di un abile gioco tra le cancellerie europee. La liberazione? Altri ce l’hanno donata. La Costituzione? Debitrice delle logiche dei vincitori. L’Alleanza occidentale? Un vassallaggio semi imposto e molto ben pagato.

In fondo l’ultimo prodotto politico autenticamente italiano fu il fascismo. Che Orsini si balocchi pure con le sue teorie. Come diceva ancora Montanelli? “Per fortuna che il ridicolo non uccide perché altrimenti in Italia ci sarebbe una strage”.

Fonte: https://www.nicolaporro.it/atlanticoquotidiano/quotidiano/aq-esteri/il-popolo-italiano-ed-il-suo-particulare/

La lezione da apprendere dallo scontro Israelo Palestinese

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di Claudio Verzola

Il 7 ottobre 2023 ha segnato una delle giornate più drammatiche della storia recente di Israele. L’attacco lanciato da Hamas dal cuore della Striscia di Gaza ha colpito in profondità non solo obiettivi militari, ma anche civili, generando un trauma collettivo e costringendo il governo israeliano a una risposta immediata.Da quel momento, la narrativa ufficiale di Tel Aviv si è concentrata su un obiettivo prioritario: smantellare completamente l’organizzazione islamista. La liberazione degli ostaggi – sebbene centrale sul piano umanitario e politico – è apparsa sin dall’inizio come un obiettivo subordinato, sacrificabile rispetto alla distruzione delle capacità militari e amministrative di Hamas. Una scelta discutibile, che ha innescato non poche polemiche all’interno sia della comunità internazionale che della società civile Israeliana: quale scopo si è perseguito con l’azione militare? Annullare la forza militare di Hamas o assecondare l’estrema destra di governo nelle proprie mire espansionistiche territoriali?

Colpevole o negligente che sia stato il governo israeliano nel non prevenire quell’attacco, come è stato riportato dal documento pubblicato dal New York Times 40 pagine arrivate sul tavolo dell’intelligence Israeliana ben un anno prima dell’evento e che le autorità israeliane chiamarono in codice “Muro di Gerico”, documento che descriveva, punto per punto, esattamente il tipo di devastante invasione che ha portato alla morte di circa 1.200 persone. Come se non bastasse tre mesi prima degli attacchi, un analista veterano dell’Unità 8200, l’agenzia israeliana di intelligence, avvertì che Hamas aveva condotto un’intensa esercitazione di addestramento di un giorno che sembrava simile a quanto delineato nel piano.

Ma un colonnello della divisione di Gaza respinse le sue preoccupazioni, secondo le e-mail crittografate visualizzate dal Nyt. “Nego assolutamente che lo scenario sia immaginario”, replicò l’analista negli scambi di posta elettronica. L’esercizio di addestramento di Hamas, osservò, corrispondeva pienamente “al contenuto del piano Muro di Gerico”. “È un piano progettato per iniziare una guerra, non è solo un’incursione in un villaggio”, fù l’ammonimento dell’analista. Ma gli indizi che portano a pensare che qualcuno possa aver atteso un casus belli eclatante che potesse consentire di raggiungere gli obiettivi territoriali previsti nei programmi dei partiti estremisti attualmente al governo, non si fermano qui Shalom Sheetrit, combattente della Brigata Golani in un intervista rilasciata all’emittente nazionalista di destra Israel National News – Channel 7, ha raccontato di uno “strano ordine” trasmessogli dal suo comandante, che a sua volta dichiara di averlo ricevuto dai suoi superiori, in cui si imponeva di fermare le pattuglie nella zona della recinzione di confine con la Striscia di Gaza dalle 5:20 alle 9 del 7 ottobre 2023.

Quello che accadde il 7 ottobre è tristemente noto, la ferocia di Hamas dilagò senza alcuna pietà, uccidendo a sangue freddo innocenti, catturando ostaggi e segnando di fatto un cambio radicale nella politica Israeliana. Gli interrogativi e le zone grigie di questa vicenda appaiono ancor più paradossali se confrontate con le attività poste in essere da parte di Israele nei confronti dell’Iran, successivamente coinvolto nel conflitto, in questo caso l’intelligence Israeliana è apparsa efficiente e all’altezza della propria proverbiale fama, riuscendo a colpire con chirurgica precisione obiettivi mirati. Ma nella vicenda del 7 ottobre nulla sembrerebbe aver funzionato, calcolo machiavellico? Sottovalutazione? Quanto successo il 7 ottobre con tutte le sue ombre ha cambiato i connotati di una regione che sembrava destinata, dopo gli accordi di Abramo a diverso epilogo.Offrendo al Governo Netanyahu in piena difficoltà dopo le proteste dei riservisti e quelle della società civile per le contestate riforme della giustizia un’occasione perfetta per giustificare una strategia militare che, secondo molti analisti, era già in cantiere, e che di sicuro era presente nei programmi elettorali di quelle frange estremiste che in quei mesi tenevano in ostaggio il governo Netanyahu.

Ad oggi, 148 ostaggi sono stati liberati vivi (105 durante la tregua 2023, 5 rilasciati unilateralmente, 8 con operazioni israeliane e 30 nella tregua 2025). 75 sono stati confermati morti o dati per deceduti. Restano 50 in cattività, di cui 27 si ritiene già deceduti.

L’argomento militare per l’occupazione

Sul piano strettamente operativo, l’idea di un’occupazione totale di Gaza e della Cisgiordania trova una sua logica interna direttamente correlata alle politiche portate avanti fino dagli anni 70/80 da Israele che avevano come obiettivo quello di delegittimare ed indebolire le fazioni laiche come l’OLP, furono infatti numerose le iniziative volte a sostenere sia dal punto di vista organizzativo che finanziario gruppi Islamici come Mujama al-Islamiya, precursore di Hamas, che successivamente ha contribuito ad isolare operativamente e politicamente l’autorità nazionale Palestinese delegittimandola agli occhi del proprio popolo. Hamas non è soltanto un gruppo armato: è un sistema radicato nel tessuto urbano e sociale, con un’infrastruttura, e una logistica, che comprende una vasta rete di tunnel, depositi di armi, officine per la produzione di razzi, centri di comando e un apparato amministrativo che fornisce servizi di base alla popolazione. Una popolazione stremata come raccontano le cronache, ridotta alla fame, segnata da lutti e privazioni, che certamente avrebbe difficoltà a riconoscere come amica la divisa israeliana, qualora le intenzioni del Governo Israeliano fossero unicamente quelle della neutralizzazione di Hamas.

Questi terribili mesi hanno fatto emergere un Israele poco conosciuta in occidente, lasciando spazio ad un Israele che sta progressivamente allontanandosi da molti tratti fondamentali di una democrazia liberale “occidentale” di matrice illuminista (separazione delle poteri, primato del diritto, tutela eguale dei diritti individuali e delle minoranze), soprattutto per effetto di politiche di nazionalizzazione etnica, spinte di forze politiche religiose-nazionaliste e dell’espansione dei coloni. Tuttavia non è (ancora) un regime teocratico pienamente consolidato: mantiene elezioni competitive, una società civile vivace e istituzioni che resistono.

Questa valutazione è frutto di una semplice analisi.

Cosa intendiamo per “democrazia illuminista”?

Per farlo ci basta usare alcuni criteri classici:

  • Stato di diritto e indipendenza giudiziaria;
  • Tutela universale dei diritti civili e delle minoranze;
  • Separazione dei poteri e controlli istituzionali;
  • Neutralità laica dello Stato rispetto alle leggi religiose;
  • Pluralismo politico e libertà di associazione/manifestazione.

Le evidenze che mostrano un’erosione di questi criteri, sono molteplici

Partendo dagli attacchi ai controlli e all’indipendenza giudiziaria. Negli ultimi anni ci sono state proposte e tentativi di riforma giudiziaria che mirano a ridurre il ruolo del sistema giudiziario come controllo sul potere esecutivo (limitando la valutazione di “ragionevolezza”, cambiando la composizione delle nomine): osservatori e studi accademici hanno definito queste mosse potenzialmente destabilizzanti per i contrappesi democratici.

Norme di nazionalizzazione e discriminazione istituzionale. La Legge fondamentale sullo «stato-nazione del popolo ebraico» (2018) e altre politiche sono state criticate perché formalizzano la priorità nazionale e mettono in secondo piano l’eguaglianza civile delle minoranze, cambiando il rapporto Stato-cittadino verso una base etno-nazionalista.

Espansione delle colonie e approvazioni governative recenti. Il governo ha continuato ad approvare nuovi insediamenti e legalizzare avamposti in Cisgiordania nonostante le condanne internazionali; decisioni recenti (es. autorizzazioni del 2025) indicano una politica attiva di ingrandimento del controllo territoriale. Questo alimenta un sistema in cui diritti politici e civili dei Palestinesi rimangono subordinati e ineguali.

Crescita della violenza dei coloni e impunità percepita. Organizzazioni internazionali e think-tank hanno documentato un’impennata di violenza dei coloni contro i palestinesi e una percezione diffusa di scarsa responsabilizzazione statale, trasformando gruppi di coloni in attori non statali violenti che operano con tolleranza o sostegno implicito.

Abusi e limiti ai diritti umani in contesti di sicurezza. Rapporti internazionali documentano detenzioni amministrative, condizioni carcerarie e restrizioni che colpiscono gravemente i diritti dei Palestinesi; in tempo di guerra emergono politiche che erodono ulteriormente garanzie fondamentali.

Queste tendenze insieme mostrano che, sul piano pratico, lo Stato esercita con sempre maggiore forza prerogative che privilegiano un’identità nazionale e una maggioranza etnica, a scapito di pluralismo, laicità e tutela universale dei diritti.

Alcune politiche punitive e dichiarazioni di leader nazionalisti mostrano atteggiamenti ritorsivi e collettivi (vedi politiche detentive, limitazioni e risposte militari dure) inoltre la religione soprattutto nei partiti che sostengono l’attuale maggioranza viene utilizzata come fonte di legittimazione politica: forze politiche di ispirazione religiosa usano valori religiosi per giustificare espansione territoriale e trattamenti differenziati, riducendo la sfera della laicità. Questo sposta il baricentro politico verso un ethos meno illuminista ed “Occidentale”

Ma attenzione: non è un passaggio univoco verso una teocrazia formale — è piuttosto l’uso politico della religione come ideologia nazionale che erode principi laici.

E in un simile contesto rimane difficile ipotizzare “soluzioni” vicine a principi di diritto e può risultare più probabile il ricorso a soluzioni più drastiche ed in linea con le affermazioni di molti leader dei partiti estremisti dell’attuale maggioranza.

La visione nazional-religiosa e il progetto territoriale

«E poi Davide tolse la testa a Golia dalle spalle e allontanò l’umiliazione da Israele. Allontaniamo gli arabi da Israele e portiamo la redenzione. Loro devono andare».

Queste furono le parole scritte nel saggio intitolato “Loro devono andare” dal rabbino Meir Kahane negli anni 80, e sulle sue teorie, prima fra tutte quella di far “trasferire l’intero popolo palestinese dal Giordano al mare per consentire la creazione di uno Stato ebraico che si fonda la politica del governo Israeliano degli ultimi 3 anni.Gli stessi ministri del governo di Benjamin Netanyahu non hanno mai fatto mistero delle loro intenzioni, ovvero conquistare Gaza ed annettere la Cisgiordania. Con questo programma nel 2022 sono stati vinti i 14 seggi che consentono alla maggioranza di governare, ma che hanno anche fatto sì che per la prima volta nella storia di Israele, molti paesi occidentali si schierassero apertamente contro le politiche israeliane. Una situazione difficile soprattutto per chi verrà dopo, per le nuove generazioni che si troveranno ad affrontare un’eventuale difficilissima convivenza con i sopravvisuti palestinesi oppure l’onta di aver allontanato un intero popolo dalle proprie terre.

Tuttavia, negli ultimi giorni, resistenze esplicite sono emerse ai vertici delle IDF. Il capo di stato maggiore, generale Eyal Zamir, ha definito l’occupazione una possibile “trappola strategica” che costringerebbe Israele a gestire due milioni di persone, affrontare una guerriglia urbana prolungata e rischiare la vita degli ostaggi ancora prigionieri. Ex vertici militari e dell’intelligence hanno avvertito che, anche distruggendo Hamas, si rischia di produrre una “Hamas 2.0” più piccola ma più fanatica, capace di attrarre nuove generazioni di militanti.

La storia recente suggerisce prudenza. L’occupazione israeliana di Gaza, terminata nel 2005, non portò alla pacificazione: al contrario, contribuì a rafforzare Hamas. Esperienze simili — dall’Iraq all’Afghanistan — mostrano che eliminare un’organizzazione armata non significa estirpare la sua ideologia: il nemico si frammenta, si adatta, si radicalizza, e a pagarne le spese potrebbero essere le popolazioni civili di paesi lontani dalle zone di conflitto, dove sono presenti comunità non ancora integrate e quindi più facilmente inclini a processi di radicalizzazione.

La recente dichiarazione del premier Israeliano

non li stiamo cacciando, stiamo permettendo loro di andarsene… date loro l’opportunità di lasciare, prima dalle zone di combattimento e, se vogliono, anche la Striscia

appare più un’operazione “hasbara” che un’autentica intenzione di ridurre le perdite civili durante l’operazione militare annunciata.

La narrativa del Governo Israeliano stride con quanto avviene sul terreno e con le dichiarazioni dei propri membri oltre ad i pronunciamenti “tecnici” degli stessi apparati di Intelligence Israelani l’obiettivo sembra essere sempre più quello di rimuovere con ogni mezzo la popolazione palestinese da Gaza, al fine di annettere definitivamente e prima che a settembre molti paesi occidentali riconoscano la Palestina come Stato.

La statualità palestinese è già stata riconosciuta da circa 150 dei 193 membri delle Nazioni Unite, la maggior parte dei quali lo ha fatto decenni fa ma la continua sfida del governo Netanyahu al diritto internazionale ha smosso qualcosa sopratutto in occidente portando paesi come l’Australia,Francia, Gran Bretagna e Canada ha dichiarare la propria decisione di riconoscere lo Stato palestinese, riconoscimento che verrà formalizzato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre portando ad oltre ¾ , il numero dei membri ONU favorevoli alla soluzione di due popoli e due Stati.

Quando il 13 ottobre del 2023, a soli sei giorni dal brutale attacco di Hamas, il Ministero dell’Intelligence Israeliano avanzò la proposta di trasferire 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza in Sinai, Benjamin Netanyahu minimizzò il rapporto dell’intelligence, definendo la proposta come un “concept paper”.

La soluzione alla problematica Israelo Palestinese sembra volgere sempre più ad una soluzione formale, anche grazie alle pressioni internazionali, pressioni che in passato non hanno impedito ad Israele di portare avanti le proprie politiche incurante delle risoluzioni Internazionali, anche grazie all’esplicito silenzio assenso dei propri alleati occidentali.

Ora qualcosa è cambiato, ma per rendere stabile il cambiamento occorre un cambio anche all’interno della politica Israeliana, i segnali ci sono:

Nel sondaggio di Maariv (2-3 luglio 2025) si è registrato un calo dei consensi verso il partito del Likud che otterrebbe 27 seggi, in calo rispetto alle elezioni del 2022, rimanendo il primo partito. Tuttavia la sua coalizione alla Knesset non raggiungerebbe la maggioranza di 51 seggi. Le proteste inoltre iniziano a diventare sempre più frequenti e numerose, l’ultima manifestazione a Tel Aviv (9 agosto 2025) ha visto la partecipazione di oltre 100.000 israeliani contrari alle decisioni del governo, chiedendo il cessate il fuoco. Un rilevamento del febbraio del 2025 del Israel Democracy Institute – Israeli Voice Index, riporta che 72,5 % degli israeliani ritiene che Netanyahu debba assumersi la responsabilità per gli eventi del 7 ottobre 2023 e dimettersi (48 % subito, 24,5 % dopo la guerra). Allo stesso tempo però va registrato un’altro dato durante la guerra con l’Iran (giugno 2025), Netanyahu ha ricevuto un’inaspettata spinta, accordando sostegno anche da parte di figure critiche come Gantz e Lieberman: l’offensiva è stata sostenuta dall’83 % della popolazione ebraica.

Il conflitto nel dominio cognitivo e tecnologico

Un’ultima riflessione sulla guerra israelo-palestinese combattuta simultaneamente sul piano cinetico, dell’intelligence e del dominio cognitivo. Questa guerra dopo quella in Ucraina a seguito dell’aggressione Russa, ha ampliato e costretto alla revisione nelle operazioni cinetiche e cyber nel ruolo dell’intelligence e dell’importanza del dominio cognitivo. Se pure L’azione militare resta centrale: l’aviazione, le forze di terra e le operazioni di occupazione in corso, con piani e attacchi su Gaza City mirati a sconfiggere Hamas, l’intelligence apparentemente dormiente pre 7 ottobre ha dimostrato il proprio ruolo chiave.

L’unità Gospel (Habsora), un sistema AI sviluppato dall’Unità 8200, si è occupata di generare decine di obiettivi di attacco ogni giorno in base a dati automatizzati. L’Unità 8200 ha addestrato anche un modello di linguaggio in arabo, simile a ChatGPT, con un ampio dataset di comunicazioni palestinesi intercettate per scopi operativi, inoltre, l’impiego di AI da parte dell’IDF — come “Lavender” e “Gospel” — ha ampliato la capacità di identificare obiettivi, alzando il livello tecnologico dei processi decisionali a livelli mai raggiunti prima.

Per quanto concerne invece il dominio cognitivo israele ha attivato una robusta campagna informativa globale (hasbara), mobilitando decine di dipartimenti governativi, coi media internazionali, influencer e campagne sui social per contrastare disinformazione e plasmare l’opinione pubblica a proprio favore, con la creazione di vere e proprie “bolle narrative”: es. incidenti come quello all’ospedale al-Ahli sono diventati terreno di guerra delle narrative, in cui ogni fatto è stato contro-interpretato. Il governo israeliano ha inoltre finanziato campagne tramite AI e “bot farms” per diffondere messaggi pro-Israele, anche influenzando membri del Congresso USA; ciò ha coinvolto account fasulli e chat GPT-like per generare contenuti. Nelle PsyOps militari si è fatto ricorso all’ invio di SMS e volantini per avvisare civili di evacuazioni, con l’obiettivo di limitare vittime ma anche di minare la capacità operativa di Hamas. Le unità dedicate come la Information Operations Branch o Malat hanno operato ed operano come vere e proprie “agenzie pubblicitarie” interne all’IDF, impiegando copywriter, psicologi e creativi per manipolare percezioni e condurre campagne cognitive mirate, ma le operazioni non si sono rivolte esclusivamente verso l’esterno degno di nota è anche il fronte interno con campagne nazionali per rinforzare la resilienza della popolazione israeliana contro il terrorismo e la disinformazione, con supporto mentale, messaggi di solidarietà e rafforzamento dell’ossatura morale dello Stato.

La lezione da imparare dal conflitto Israelo Palestinese e Russo Ucraino è che la dimensione bellica odierna ha attraversato una metamorfosi profonda che ridefinisce i parametri stessi dell’analisi strategica. Non parliamo più di teatri operativi circoscritti geograficamente, bensì di uno spazio conflittuale permeabile che si estende attraverso molteplici domini interconnessi.

Le manifestazioni ostili contemporanee penetrano con crescente sofisticazione negli interstizi dei sistemi sociali, economici e informativi delle società democratiche. Questa evoluzione richiede una rilettura completa delle categorie interpretative tradizionali: il conflitto non si limita più alla dimensione cinetica convenzionale, ma si articola in strategie di erosione sistemica che colpiscono i fondamenti stessi della coesione sociale.

Le democrazie occidentali si trovano esposte a forme inedite di destabilizzazione che sfruttano paradossalmente i principi di apertura e pluralismo che ne costituiscono il DNA. Gli attori ostili hanno sviluppato metodologie raffinate per infiltrare il dibattito pubblico, manipolare le percezioni collettive e amplificare le fratture interne preesistenti.

Questa vulnerabilità strutturale richiede una risposta altrettanto articolata: l’integrazione tra capacità di intelligence, innovazione tecnologica e protezione dello spazio cognitivo emerge come imperativo strategico inderogabile. Non si tratta semplicemente di potenziare singoli strumenti, ma di costruire un ecosistema difensivo capace di operare simultaneamente su più livelli.

La preservazione delle istituzioni democratiche passa necessariamente attraverso la capacità di anticipare, identificare e neutralizzare minacce che si manifestano in forme sempre più ibride e sofisticate. Questo richiede un salto qualitativo nella concezione stessa della sicurezza nazionale: da approccio reattivo a strategia proattiva, da difesa settoriale a protezione sistemica. L’obiettivo diviene dunque la costruzione di una resilienza che non si limiti a resistere agli attacchi, ma che sia capace di adattarsi dinamicamente alle trasformazioni del panorama minaccioso, preservando al contempo i valori fondamentali su cui si reggono le nostre società.

 

Fonte: https://www.difesaonline.it/2025/08/13/la-lezione-da-apprendere-dallo-scontro-israelo-palestinese/

Alla larga dallo iettatore

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di Marcello Veneziani

Saremo pure nell’era del digitale, ma alzare l’indice e il mignolo per esorcizzare una sciagura, un malaugurio, un evento infausto, è ancora una pratica vigente nel nostro paese, pur così scettico, ironico e tecnologico. Fare le corna è un rito scaramantico in uso, seppure travestito d’ironia. C’è un piccolo universo parallelo che scorre ancora a fianco e dentro di noi e che chiamiamo superstizione. Se ne sono occupati di recente Elisabetta Moro e Marino Niola in un volumetto uscito da Einaudi: Gatti neri e specchi rotti. Perché siamo superstiziosi.

Di quel piccolo mondo il sovrano indiscusso è lo Iettatore, figura favolosa, semiclandestina ma immancabile nei paesi e nei rioni del sud di un tempo, che suscita timore, ribrezzo e ironia.

Contrariamente a quel che si pensa, la iettatura non è la stessa cosa del malocchio e delle relative magie e fatture. Queste derivano da un fondo arcaico, magico, precristiano, in auge soprattutto ma non solo a sud, che attraversa la fede e l’accompagna come la sua ombra. La iettatura, invece, è un mix tra modernità, magia e ironia, fascinazioni antiche e recenti. Non a caso la parola iettatura nasce a Napoli nel secolo dell’Illuminismo, il settecento, anche se aveva infausti precursori nei secoli passati. Il malocchio è popolare, attiene al mondo arcaico, contadino, pastorale, marinaro, è un’invidia in azione, volta a produrre malevoli frutti, tramite fatture e pratiche rituali; la iettatura, invece, è più in uso nei ceti borghesi e benestanti, ha perfino un’insospettabile matrice illuminista e salottiera, che discende nei ceti urbani, tra artigiani e popolani. È un “sottoprodotto” pseudo-razionalista di quel pensiero magico che attraversò il cinquecento, e si espresse anche attraverso filosofi come il calabrese Pietro Campanella e il campano Giordano Bruno. I trattati sulla iettatura si presentano a volte come poemi comici o “cicalate”, come quella famosa di Nicola Valletta, percorrono sempre la linea tra il serio e il faceto, più che tra il sacro e il profano. Si addentrano in una gustosa aneddotica, ammantata di trattato scientifico, evocano storie deviate dalla iettatura e dal timore di essa; narrano di figure illustri e talvolta regnanti meridionali vittime dei sortilegi iettatori, fino alla morte. In Sud e magia De Martino ritiene che “l’ideologia napoletana della iettatura” nasca dal compromesso “fra l’antica fascinazione e il razionalismo del settecento”. Su quella linea restano tracce importanti fin nel Novecento: dal “non è vero ma ci credo” a cui aderisce perfino un filosofo profondamente disincantato ma profondamente “napoletano” come Benedetto Croce; fino all’ironia letteraria del siciliano Luigi Pirandello con la sua gustosa novella “La patente”, in cui lo iettatore cerca di trasformare, come suol dirsi, la sua cattiva fama da uno svantaggio in una risorsa, e pretende il riconoscimento giuridico del suo status di menagramo (magnificamente tradotto in teatro con Angelo Musco e poi interpretato al cinema da Totò). E tuttavia, a sud, e non solo a sud, la fama di iettatore, pur così vaga e ineffabile, ha rovinato esistenze, ha isolato e compromesso vite, famiglie e carriere, a volte portando fino al suicidio. C’è un paradigma dello iettatore, una specie di foto segnaletica per identificarlo anche quando non ne conosciamo i malefici effetti: “Lo iettatore – così lo descrive Dumas nel suo Corricolo – è di solito magro e pallido, il naso ricurvo, occhi grandi che hanno qualcosa di quelli del rospo, e ch’egli di solito copre, per dissimularli, con un paio di occhiali”. Lenti scure, naturalmente; il rospo è un animale che si ritiene portatore di iettatura; che iettando, cioè gettando il suo sguardo malefico dai suoi occhi prominenti, esoftalmici, uccide l’usignolo che è sul ramo. Un caso malefico di “telepatia” o di “videocidio”. Per Dumas la vita magico-religiosa di Napoli scorreva tra due poli: la devozione a san Gennaro e la iettatura, il santo e il demonio (o meglio la sua vittima) in versione partenopea. Intorno allo iettatore si creava uno spontaneo cordone sanitario, con forte ricaduta sociale.

La credenza nella iettatura ha qualcosa di virale, contagia non solo il sud intero, partendo da Napoli; ma alla fine coinvolge pure chi viene da fuori. “Quando un forestiere arriva a Napoli comincia col ridere della iettatura, poi a poco a poco se ne preoccupa e infine, dopo tre mesi di soggiorno, lo vedete coperto di corni e con la mano destra eternamente contratta” scrive Meyer citato da De Martino. Peraltro, cos’è il carisma di cui sarebbero dotate alcune personalità eminenti, con vocazioni al ruolo di capi, di guide, di maestri, se non il rovescio positivo di quel magnetismo, di quell’aura che si attribuisce in negativo allo iettatore? Magari anche il teorico del disincanto, Max Weber, aveva subito qualche fascinazione quando scriveva del capo carismatico… Dobbiamo solo alzare le spalle e poi scrollarcele in segno di estraneità e rifiuto di questi residui superstiziosi che ancora sopravvivono nella nostra società, o dobbiamo piuttosto cercare di capire da dove nasce questo bisogno di credere e di collegamenti magici tra fatti, persone e riti? Diceva Vico che la superstizione non è un male in sé o una follia ma è quel che resta (è superstite, appunto) di antiche credenze e di antichi legami con il cosmo. E poggiando sull’autorità di Plutarco, diceva che si conoscono civiltà che hanno retto per secoli sulla superstizione, mentre non sono mai esistite civiltà compiutamente atee. Insomma, vedetela di buon occhio.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/alla-larga-dallo-iettatore/

La soluzione dei due stati è un’illusione

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di Matteo Castagna

Rabea Eghbariah è un avvocato per i diritti umani, dottoranda presso la Harvard Law School.

In un interessante editoriale pubblicato il 12 giugno su The Guardian, il più prestigioso giornale britannico, annuncia che “le Nazioni Unite stanno convocando una conferenza di alto livello per discutere la soluzione pacifica della questione palestinese”, pur nel contesto infuocato della guerra in atto tra Israele e Iran.

Si potrebbe supporre che, di fronte alla carestia e carneficina a Gaza, gli Stati si stiano riunendo per organizzare una risposta decisiva e coordinata, per costringere Israele a cessare il fuoco e consentire l’ingresso di aiuti nella Striscia.

Invece, la comunità internazionale si sta riunendo per rilanciare il quadro stanco della soluzione dei due Stati.

Co-presiedute da Francia e Arabia Saudita, le parti convocate riaffermano l’idea che la soluzione dei due Stati è “l’unica strada percorribile per una pace giusta, duratura e globale”.

Ma la Francia stessa si è ritirata dal suo piano di riconoscere uno Stato palestinese ancor prima dell’inizio della conferenza. La soluzione dei due Stati è diventata poco più di un teatro diplomatico, un incantesimo ripetuto senza intenzione, anche secondo i suoi sostenitori più appassionati” – scrive l’avv. Eghbariah.

Mentre i palestinesi stanno subendo un genocidio, la rinascita del linguaggio dei due stati si legge come una cortina fumogena.

L’anno scorso, nel mezzo di un crescendo di richieste per la soluzione dei due Stati, Israele ha approvato il più grande furto di terra degli ultimi trent’anni in Cisgiordania, frammentando ulteriormente i territori occupati e cancellando qualsiasi prospettiva significativa per uno Stato palestinese sovrano in esso.

La soluzione dei due Stati non solo si è distaccata dalla realtà, ma per troppo tempo ha allontanato la discussione dalla realtà stessa.

Dall’avvio del cosiddetto processo di pace a metà degli anni ’90, gli insediamenti israeliani, in continua espansione e sempre con la violenza dei coloni, si sono moltiplicati a una velocità vertiginosa. Proprio il mese scorso, Israele ha approvato un piano per 22 nuovi insediamenti in Cisgiordania.

“La verità è che la soluzione dei due Stati è diventata un’illusione, un mantra ripetuto per mascherare una realtà radicata di uno Stato unico. Dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, Israele controlla la vita di tutti i palestinesi, senza uguali diritti, senza uguale rappresentanza e con un sistema costruito per preservare la supremazia ebraica” – scrive The Guardian.

Questo sistema ha costituito, a lungo, l’apartheid, ora affermato come tale dalla corte internazionale di giustizia per aver violato i divieti di segregazione razziale.

Eppure, l’illusione dei due stati persiste. Questo mantra continua a sostenere l’illusione che l’occupazione israeliana sia sull’orlo della fine – se solo più stati riconoscessero lo stato palestinese e se solo palestinesi e israeliani si parlassero. Ma tre decenni di cosiddetti negoziati di pace non hanno prodotto altro che un più profondo radicamento dell’occupazione israeliana, il furto sistematico di terre e la crescente sottomissione dei palestinesi.

“Nonostante ciò, la maggior parte degli Stati – compresa l’Autorità Palestinese non eletta – si aggrappa all’illusione dei due Stati come se fosse dietro l’angolo, e come se potesse finalmente garantire giustizia e pace. Non lo farà”, dichiara l’articolo.

È tempo che la comunità internazionale affronti la semplice verità: la soluzione dei due Stati non è solo una fantasia, è sempre stata una diagnosi errata. Se i leader mondiali sono seriamente intenzionati a risolvere la questione della Palestina, devono affrontare le cause profonde della crisi.

Secondo l’avvocato, “queste cause iniziano con la Nakba”.

In arabo, “catastrofe”, la Nakba si riferisce al processo culminato nel 1948, quando le milizie sioniste sfollarono più di 750.000 palestinesi dalle loro case e distrussero più di 530 villaggi per insediare lo Stato di Israele.

“Ma 77 anni dopo, è chiaro che la Nakba è stata l’istanza di una nuova struttura” – dichiara l’editoriale inglese.

In parole povere, la Nakba non è mai finita. La Nakba del 1948 ha inaugurato un regime che continua a distruggere, frammentare e riconfigurare la vita palestinese. Si tratta di un processo basato sullo sfollamento e l’espropriazione in corso.

“Oggi, quello che può essere definito “il regime della Nakba” non solo sostiene la più lunga crisi di rifugiati al mondo dalla Seconda guerra mondiale, ma stratifica anche i palestinesi in un sistema legale di caste: cittadini di Israele, residenti di Gerusalemme, abitanti della Cisgiordania, abitanti di Gaza e rifugiati, ognuno soggetto a un diverso tipo di violenza, tutti progettati per ostacolare l’autodeterminazione palestinese”.

Essa porta in superficie questioni legali, morali e storiche vitali e irrisolte: lo status delle terre conquistate nel 1948, il diritto al ritorno per i rifugiati, lo status inferiore dei cittadini palestinesi di Israele e il diritto universale dei palestinesi all’autodeterminazione, indipendentemente da dove vivono o dalla categoria giuridica in cui rientrano.

Per decenni, i governi mondiali hanno schivato queste domande a favore delle illusioni dei due stati. “Ma il progresso richiede chiarezza, non solo comodi mantra”.

Durante le manifestazioni di protesta, le persone spesso cantano “No justice, no peace”, per ricordare che questi concetti non sono sinonimi. In Palestina, questo slogan parla di una verità più profonda: con o senza statualità, la causa palestinese continuerà ad essere irrisolvibile, se non si affrontano le sue origini.

Ecco perché l’avv.  Rabea Eghbariah conclude: “fare i conti con la Nakba è un prerequisito per la giustizia, per non parlare della pace. Fino a quando gli Stati non affronteranno questa premessa di base – e non agiranno di conseguenza – la realtà sul terreno continuerà a sfidare qualsiasi riunione diplomatica di alto livello. La soluzione dei due Stati rimarrà quella che è sempre stata: un’illusione”.

 

Fonte: https://www.2dipicche.news/la-soluzione-dei-due-stati-e-unillusione/

Il predicatore di benignità

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di Marcello Veneziani

Vi ricordate Roberto Benigni? Nello scorso millennio fu un comico, attore e regista veramente divertente, spiritoso, e pure commovente. Lo ricordo esilarante in coppia con Massimo Troisi, lo ricordo irresistibile nei panni di Jonny Stecchino, del Piccolo Diavolo e del Mostro, lo ricordo irruente e irriverente in alcune gag televisive in cui metteva in croce Baudo e la Carrà; lo trovai tenero, allegro e struggente ne La vita è bella, dove riuscì a raccontare l’orrore dei campi di sterminio con l’umanità di un buon cristiano e di un buon italiano che vuol proteggere la sua famiglia. Lo fece con delicatezza e amor paterno, da padre che vede il mondo con gli occhi di un bambino. Lo avevo amato da ragazzo perfino nel pur dissacrante Pap’occhio di Renzo Arbore e poi da grande nella magica Voce della Luna di Federico Fellini, con Paolo Villaggio.

Poi non so cosa gli successe col nuovo millennio. Smise di essere uomo e diventò burattino, il contrario di Pinocchio a cui dedicò un film un po’ infelice. Smise di essere clown e si fece clone. Volle diventare Vate e Profeta, Prefica Istituzionale e Padre Costituente, infine Precettore d’Europa e Predicatore di Benignità. Cominciò imitando Dante poi è finito a imitare Prodi. Non è una bella carriera.

Vedevo il suo ologramma da Bruno Vespa quando la sera gli prendono i cinque minuti: sembrava quasi vero, Benigni, almeno nel tono e nella risata, imitava alla perfezione il suo antico euforico repertorio, simulava allegria, esultanza e buoni sentimenti. Vespa godeva come un pazzo a ogni suo pistolotto, sbavava come fa davanti a papi e presidenti, anche se alla fine del duetto sbaciucchioso si aspettava di essere preso in braccio come l’austero Berlinguer per restare nella mitologia pop.

Ma dov’è finito Benigni impertinente, irriverente, divertente? C’è un piccolo santo che sparge melassa, lancia messaggi che sembrano commissionati da pubblicità-progresso.

Ancora più imbarazzante è stato l’altra sera a Propaganda live; Zoro stesso, Diego Bianchi, non sapeva che pesci pigliare, non sapeva che dire, come stare, se chiudere o trascinare ancora la benigna apparizione. Era troppo finto il suo ardore, inattendibile il suo progressismo da scuola materna, ridicolo il suo ottimismo cosmico, la sua visione così falsamente puerile e così smaccatamente manichea, da mettere in difficoltà anche i compagni di sacrestia.

Da qui tutto è buono è bello è felice è allegro; di là tutto è cattivo è male è brutto è triste. Nel futuro vincerà per forza il bene, la pace, la felicità: Benigni recita la poesia del progressismo ad uso dei bambini, dall’asilo alla seconda elementare; poi anche un bambino in terza elementare si accorge che la fiaba di Benigni è farlocca, perché ormai ha smesso di credere alle tre b: Befana, Babbo Natale e Benigni. Per Benigni non c’è niente da capire, tutto è così evidente, anche se lo vede solo lui: i buoni sono lui e loro, mischiati all’umanità; i cattivi sono Trump, i nazionalisti e i sovranisti. I buoni sono con i bambini, i cattivi sono contro. I buoni vogliono la pace, i cattivi fanno la guerra. I buoni guidano le istituzioni europee, i cattivi guidano i governi europei: come dire che Ursula van der Lewen è una santa benefattrice, mentre Macron, Merz & Melòn, cominciano con la emme di Male.

Sa Benigni che persino Stalin prese il premio internazionale per la Pace e Obama ebbe il Nobel per la pace prima di guidare gli Stati Uniti: fecero bene a darglielo prima, perché dopo le migliaia di bombardamenti sotto la sua presidenza pacifista sarebbe stato più difficile. Sa Benigni quanti milioni sono morti nei gulag e nelle persecuzioni nel nome della pace, del bene dell’umanità e di un mondo migliore? Quante bombe umanitarie e progressiste sono state sganciate negli ultimi decenni, dall’Atomica in poi? E continuano… L’inferno è lastricato di pie intenzioni.

Ma tu lo senti col suo fervorino, che finge di agitarsi, si passa il fazzoletto sulla fronte, concitato ed eccitato per il suo predicozzo. Che gli vuoi dire di fronte a tanta banalità finto-naïve? E quando dice che il suo libro è bellissimo, anche se pare di capire che i veri autori siano altri due, lui si è limitato a mettere incenso, miele e acqua santa. Ma lui non promuove il libro, macché, il libro è solo un mezzo per promuovere l’Europa…

E quando dice che l’Unione Europea è la più bella cosa che sia successa in duemila anni, ha presente che in questi due millenni in Europa c’è stata la civiltà romana e la cristianità, c’è stato il Sacro Romano Impero e il Monachesimo, l’Umanesimo, il Rinascimento e mille altre cose, oltre le guerre e i massacri? Ma davvero Ursula vale più di Carlo Magno e Federico II di Svevia messi insieme? E quanto alla circolazione europea, lo sa che prima dell’Erasmus le università medievali furono già – pur nelle difficoltà di mezzi di quel tempo – molto più europee di oggi e parlavano una lingua internazionale che era il latino?

Mi ricorda un’altra sciocchezza che disse anni fa: la nostra Costituzione è la più bella del mondo. Premesso che una Costituzione dev’essere giusta ed efficace e non deve partecipare a un concorso di bellezza; e premesso che se vogliamo parlare di bellezza a proposito di Costituzioni nostrane, beh, la Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume, riveduta e chiosata da Gabriele d’Annunzio, è decisamente più bella, io chiedo a Benigni: ma per fare questa affermazione quante costituzioni del mondo ha letto, cento, cinquanta, almeno dieci? Se non ne ha letta nessuna, anche perché reputo difficile che abbia passato così tanto tempo a gustarsi gli articoli della costituzione di mezzo mondo, come fa a dire che è “la più bella”? Ma no, è la solita iperbole, la solita gag da clown che ormai spande virtuosi sermoni.

Quando divulgò la Divina Commedia, nonostante non fosse un dantista, un poeta o un critico letterario, io lo benedissi, anche se ne dava una lettura tendenziosa troppo piegata ai giorni nostri. Ma era un’operazione benemerita. Poi da Dante volle passare a Mosé e ci spiegò le Tavole dei Comandamenti, e lì accentuò il suo manicheismo e alla fine lanciò una bibbia per i dem. In mezzo venne la Costituzione, per cui divenne Menestrello Ufficiale della Repubblica Italiana; ma le sue prediche in Rai non erano gratuite, erano fatte, si, col core ma col core-business, con lautissimo rimborso a pie’ di lista. Ora, invece abbiamo Euro-Benigni (euro, guarda caso, è pure la Moneta), che ci dice che con l’Europa unita non avremmo avuto più guerre nel mondo, anche quelle di ora non ci sarebbero state. Benigni forse è rimasto al suo film ambientato nel 1492, Non ci resta che piangere; perché nel frattempo deve sapere che l’Europa è solo una piccola parte dello scacchiere mondiale, ci sono paesi come l’America, di sopra e di sotto e tutto il nuovo mondo, oltre che la Cina, l’India, la Russia, l’Africa e il Medio Oriente. L’Europa è solo la sedicesima parte del pianeta. 500 milioni su 8 miliardi di abitanti. Lui dice che bisogna stare attenti a tutti quelli che vogliono fare più grande la propria nazione, ma quell’ambizione si giudica dai frutti: se porta guerre e massacri è un male, ma quante civiltà, quante età dell’oro, quanto “progresso” sono nati da quell’idea di grandezza? A questo punto sono io a dire a lui che bisogna stare attenti a chi dice di volere un mondo migliore: quanti annunci di paradisi hanno portato gli inferni? Accontentati di dire che la vita è bella, perché chi sogna il mondo migliore, genera incubi (o più spesso vende fuffa).

Infine ripensi al Benigni divertente di una volta, e dici: ma perché un comico così brillante deve ridursi a fare la macchietta di un Messia? Non gli bastava l’Oscar del cinema, vuole l’aureola del santone?

 

Fonte:  https://www.marcelloveneziani.com/articoli/il-predicatore-di-benignita/

La guerra dei leoni

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di Marcello Veneziani

Da quando è stato eletto un Papa che ha deciso di chiamarsi Leone, altri leoni più bellicosi sono scesi in campo per sbranarsi tra di loro. C’è una storia grande che riguarda un Paese grande, Great America. E c’è una storia piccola che riguarda un Paese piccolo, ma solo di statura, l’Italia. Sto parlando del leone Donald Trump e del leone Elon Musk, e da noi, nel nostro piccolo, del conflitto pubblico tra Leoni padre, di nome di Silvio, e Leoni figlio di nome Simone, seguace di un altro più famoso Silvio, defunto. Storie diverse, imparagonabili, le due, sia per le dimensioni che per le motivazioni, ma che in vario modo ci toccano, e ci riguardano.
Dunque, la storia grande, quella stars and stripes, riguarda l’uomo più potente del mondo contro l’uomo più ricco del mondo. Scontro tra Titani. Entrambi leonini, abituati a esercitare il ruolo di re della foresta, esuberanti, un po’ pazzi, e uso la modica quantità nel definirli, per pura cortesia. Prima sodali, e grandi alleati, poi i rapporti sono precipitati, degenerati, fino alla rottura, qualche insulto, poi la probabile tregua. Li vedevi, il Lion President che parlava, seduto o al microfono, e il Lion Magnate che restava in piedi come un passante o un imbucato nella Sala Ovale o sul palcoscenico, spesso con un figlio a cavacece sul collo, cercando di attirare su di sé l’attenzione. Un’immagine spiazzante, che non aveva precedenti, curiosa e assai informale. Però quando li vedevi in faccia, li sentivi parlare, ma soprattutto conoscevi i loro curriculum e i loro temperamenti, la previsione sorgeva spontanea, anche senza bisogno di chetamina: ma quanto potranno durare insieme i due? Da una parte l’uomo che guida il mondo nel nome della Grande America e curiosamente annuncia di volersi dedicare al suo Paese e non al ruolo di arbitro mondiale ma tra paci che non si fanno, guerre che continuano, dazi che si annunciano, oggi più che mai è lui a dare la carte al mondo, e tutti anche magari per litigare devono vedersela con lui. Altro che ritorno a casa, in versione domestic, casereccia.
Dall’altra c’è un uomo che sta cambiando il mondo coi suoi satelliti, che vuole conquistare i pianeti, modificare il cervello umano, l’imprenditore più geniale e inquietante che ci sia sulla faccia della terra e forse nello spazio. Come pensate che potessero sopravvivere a lungo insieme? C’è poi da considerare un altro fattore, sicuramente decisivo. Da quando Musk è sceso in campo politico ha avuto solo guai, odio universale, linciaggi e boicottaggi, mal di Tesla paurosi (dai giganti della concorrenza fino ai Fratoianni). insomma ha capito che la politica non fa per lui, gli procura solo guai, soprattutto nella posizione di parafulmini di Trump. Fosse almeno lui il Presidente della Repubblica… Il mondo tifa perfino contro i suoi razzi, oltre che contro le sue auto e i suoi satelliti, tanto è l’odio planetario che ha accumulato. Poi c’è chi gli morde le caviglie anche nel suo stesso campo, pensate a Steve Bannon che vorrebbe cacciarlo perché extracomunitario, sudafricano e imbucato negli States. Insomma, era inevitabile. Certo, queste alleanze che si rovesciano, fanno molto male, e Trump non solo ha mezzo mondo e tre quarti d’occidente contro, ma persino i suoi presunti amici, Putin, Netanyahu e Musk, gli stanno creando guai a non finire. E magari dovrà rivalutare gli europei, i sudamericani e persino i cinesi e gli iraniani.
Non so come finirà, ma la previsione di molti è che il dissenso clamoroso rientrerà ma poi la freddezza subentrerà e non farà bene a entrambi per risalire la china. Alcuni prevedono o meglio sperano che la vicenda possa persino compromettere Trump e c’è chi invoca il terzo incomodo, il più silenzioso e felpato gattone, che sta lì acquattato nel suo ruolo di vice, J.D.Vance. Però non era possibile pensare che due Titani potessero durare a lungo in amicizia, uno seduto e l’altro in piedi, prima o poi sarebbe avvenuta una collisione.
Ora dopo aver parlato dei Gulliver, trasferiamoci a Liliput, e rientriamo nel piccolo di casa nostra. Dunque, un giovane Leoni fa il suo discorsetto alla kermesse di Forza Italia; un discorsetto che non rispecchia certamente la posizione politica del governo e dei partiti che lo sostengono, e soprattutto dei loro elettori, inclusi quelli di Forza Italia. Ma che magari non dispiace a Marina e Piersilvio Berlusconi, oltre che al nuovo alleato, Fedez. Attacca Vannacci ma in realtà sta attaccando suo padre, che la pensa come il Generale, è paracadutista e si riconosce in Dio, patria e famiglia. Antichi dissapori, conflitti trascinati nel tempo, il ragazzo dice dall’infanzia, si concretizzano in un parricidio appena dissimulato: si parla a nuora per parlare a suocera.
Suo padre decide di esplicitare il conflitto latente e di rispondergli pubblicamente, dalle colonne de Il Tempo; forse fa male, o forse no, non sono in grado di dire. Ma il risultato è che il Leoni padre difende Vannacci e attacca il Leoni figlio a mezzo stampa. Insomma i leoni si sbranano in pubblico senza pietà, il cucciolo attacca il vecchio leone, poi il padre Leone attacca il cucciolo. Parricidio rituale contro sacrificio rituale del figlio, entrambe figure contemplate nella storia sacra e nella mitologia, oltre che nella psicanalisi e in altri ambiti più vicini a noi. Sono conflitti assai frequenti e molti di noi padri ne sanno qualcosa, dolorosamente. Ruotano intorno a famiglie sfasciate, o maltenute insieme, genitori separati, figli coccolati ma sbandati, a volte viziati e soprattutto fragili e perciò aggressivi. Stiamo allevando una generazione di vetro, più trasparente e più frangibile delle precedenti, ma quando i figli vanno in pezzi le loro schegge poi feriscono. Non stabiliamo la regola che i figli progressisti, liberal e radical attaccano i padri conservatori, tradizionalisti e nazionalisti; a volte i conflitti sono a ruoli invertiti, i padri sono vecchi sinistrorsi, i figli sono giovani destrorsi. Ognuno ha diritto alle sue opinioni, anche se quelle del giovane Leoni andrebbero meglio coltivate nel versante opposto a quello in cui milita; mi sembra più vicino alla Schlein che al mite monarchico Taiani o al vecchio missino Gasparri. Berlusconi probabilmente non sarebbe stato con nessuno dei due, né col padre né col figlio ma avrebbe cercato di sedurli, di fare gag e avrebbe invitato il ragazzo a guardare più le ragazze che i Vannacci.
Comunque la partita doppia dei leoni, quella americana e quella nostrana, è una partita interna all’emisfero destro della politica italo-occidentale, e per questo tocca ancor più chi si riconosce in questo versante. Indica che ci sono molti problemi da affrontare, esuberanze di temperamento da smussare con realismo e umiltà, e anche senso autocritico, ci sono molti atteggiamenti da portare a coerenza. Ma se vogliamo trovare un peccato comune e un minimo comun denominatore in questa partita doppia, trovo una chiave di lettura: troppo individualismo, troppe creste alzate, troppo gallettismo (da non confondere col gallismo). Che è una malattia globale, soprattutto occidentale, assai frequente a destra ma in fondo trasversale. Giù la cresta, mettetevi talvolta nella criniera dell’altro prima di attaccare e giudicare. E poi non porta bene il detto Meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecora, giustamente Massimo Troisi diceva che preferiva vivere cinquant’anni da Orsacchiotto (ma nemmeno a quell’età poi giunse). Insomma non è detto che si debba vivere da leoni o da pecore, si può vivere da gazzelle, da fenicotteri, da zebre e da giraffe, senza mettere limiti al tempo. Siate più inclusivi, almeno da un punto di vista zoologico.

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-guerra-dei-leoni/

Abbiamo bisogno di veri conservatori

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di Marcello Veneziani

Ma c’è ancora da qualche parte un pensatore veramente conservatore o dobbiamo ormai ricordare solo i grandi del passato che non ci sono più? Dopo la morte di Roger Scruton e quella più recente di Alasdair McIntyre, considerati come gli ultimi dei mohicani, sembra che i conservatori, coerentemente con la loro indole, siano ormai solo un ricordo del passato. Si, sul piano politico c’è ancora un partito conservatore in Inghilterra e c’è un raggruppamento conservatore nel Parlamento europeo, ma se cerchi autori di riferimento, una linea di pensiero a cui si ispirano, brancoli nel buio, tra effimeri placebo e vaghi slogan. Dalla vicina Francia sono arrivati in questi ultimi mesi tre pamphlet di stampo conservatore, di tre autori ormai oltre i settant’anni e lontani dall’impegno politico. La prima è Chantal Delsol, scrittrice e filosofa parigina d’ispirazione cristiana, accademica, editorialista del Figaro, che ha recentemente pubblicato da Cantagalli Il crepuscolo dell’universale; un saggio che critica la deviazione del cristianesimo in religione umanitaria, della persona in individualismo sradicato e dell’universalità in globalitarismo. In opposizione a questa tendenza Delsol vede profilarsi nel mondo il ritorno a una visione olistica, comunitaria, organica, in cui il valore del tutto è superiore a quello dei singoli individui. Intanto, nota, la modernità invecchia male, l’Europa diventa come previde Dostoevskij “una necropoli”, l’Occidente vive l’ebbrezza per la cancellazione del passato e delle identità; al posto delle nazioni tra non molto ci saranno solo i marchi di alcune aziende, la Coca Cola, Microsoft e gli altri giganti del web, Nike e Jonny Walker.
Pascal Bruckner, saggista e polemista, da anni polemizza con lo spirito di autodenigrazione dell’Occidente nichilista e progressista, che si vergogna della sua civiltà e delle sue tradizioni e si autocondanna nel nome del razzismo, dell’islamofobia e di tutte le altre ben note fobie di cui si auto-accusa. L’ultimo suo pamphlet, Povero me. Quando le vittime sono i nuovi eroi (tradotto da Guanda) è una critica serrata del vittimismo, la nuova ideologia che ha preso il posto dell’edonismo e dell’ottimismo progressista e che veicola risentimento e spirito di vendetta. Mali antichi, un tempo giustificati dall’odio di classe e oggi invece da questo vittimismo piangente, questuante e risarcitorio.
Il nome di Bruckner in Francia è spesso associato a quello di un filosofo conservatore, Alain Fienkelkraut, ebreo di origine polacca e autore di molti saggi divergenti rispetto al mainstream e al progressismo dominante. Ora è uscito Pescatore di perle, edito da Feltrinelli, un pamphlet schiettamente conservatore, polemico contro la barbarie dello sradicamento, nemica di ogni eccellenza e di ogni legame identitario. Fienkelkraut difende coraggiosamente un outsider cancellato dalla cultura dominante, Renaud Camus, fino a ieri riconosciuto come uno dei più importanti scrittori di lingua francese; ma da quando ha denunciato il pericolo della Grande Sostituzione, a causa dei flussi migratori e della deculturazione di massa, è considerato quasi un eversivo, comunque un autore da silenzare. Anche Fienkelkraut come Bruckner, sottolinea sulla scia di Hannah Arendt la malattia dell’uomo contemporaneo: il risentimento verso la vita, la realtà, la natura, verso tutto ciò che ci è dato. Il contrario di un conservatore, che invece difende l’essere in quanto tale e accoglie il proprio destino (amor fati). A suo parere il trans è la figura emblematica del nostro tempo, colui che sostituisce l’essere con l’io voglio, che rifiuta “gli arresti domiciliari” in un’identità, e vuole abolire il fato, la natura, la realtà. Conclude il suo libro con un prontuario di riflessioni di un conservatore che non teme l’accusa di retrotopia (Bauman) e non si vergogna di ritenere migliori molte cose del passato rispetto a quelle presenti. Per esempio, cogliendo fior da fiore: “il mondo reale era meglio dello schermo totale”, “L’uniforme era meglio dell’uniformità”, “Le mucche, le galline e i maiali vivevano meglio che negli allevamenti intensivi”, “i paesaggi erano migliori prima delle pale eoliche”, “Il passato era migliore quando veniva studiato e non incriminato”, “Il presente era migliore quando non parlava da solo”, “Il progresso era migliore quando non era un processo automatico”, “L’università era migliore prima del fanatismo woke”, “La nostalgia era migliore prima della sua criminalizzazione”, “Essere in lutto era meglio che elaborare il lutto”, “L’intimità era migliore prima che si riversasse su Facebook o su Instagram”, “Città, teatri, musei, luoghi di culto erano migliori prima della McDonaldizzazione universale”, “Gli occhi vedevano meglio quando c’erano i poeti”. E la citazione finale di Holderlin: “Molto però è da conservare. È necessaria la fedeltà”. Che fa il paio con una citazione iniziale da Milan Kundera: “Europeo: colui che ha nostalgia dell’Europa”. Come dire che l’UE non è Europa, ma la sua caricatura svuotata di senso. Infine la confessione di uomo all’antica: “abitando il mondo di un tempo, ho scritto a penna”. E all’ecologista che si chiede: “Che mondo lasceremo ai nostri figli?”, egli replica con un’altra domanda: “A quali figli lasceremo il mondo?”.
Voi direte che si tratta di pur pregevoli lamenti di un vecchio che rimpiange il passato e vive ormai di ricordi e di rancori: è questa l‘essenza del conservatore? No, semmai quella è l’indole, l’intima tendenza del suo carattere, soprattutto quando la sua vita è nella fase conclusiva; ma quando pensa, il conservatore pratica l’arte preziosa della comparazione e della compensazione e lo fa con lucido realismo prima che con rimpianto: paragona le epoche, nota le differenze e dopo aver sottratto il passato all’obbligo di attenersi al presente, sottrae il futuro all’obbligo di adeguarsi al presente. Per difendere il passato dagli artigli dell’attualità, finisce col difendere il futuro dalla maledizione di proseguire automaticamente le tendenze presenti.
Certo, una società equilibrata ha bisogno sia di sani principi conservatori che di sani precetti innovatori. Se il verbo nobile del conservatore è salvare, il verbo nobile del progressista è migliorare. Abbiamo bisogno di ambedue. Invece la malattia del primo è la paura del futuro e dell’ignoto, mentre la malattia dell’altro è l’odio del passato e di ciò che preesiste. Oggi le due malattie si sono coalizzate e fuse, sicché l’atteggiamento prevalente è la paura del futuro congiunta all’odio del passato. Abbiamo smesso di gioire sia per ciò che nasce che per ciò che perdura. Eppure in una società armoniosa la tensione verso il passato e verso il futuro sono come sistole e diastole del cuore, una trae forza dall’altra. Chi ben conserva può progredire bene e viceversa. Se l’idea del progresso è precipitata nel nostro tempo che teme il futuro con angoscia, l’idea conservatrice viene condannata come un’imperdonabile ottusità di chi vive col retrovisore. E invece in un’epoca malata di rapidità, cancellazione e sradicamento abbiamo bisogno di una sensibilità conservatrice. Uno scrittore che non era un conservatore, Albert Camus, diceva che ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo; ma a noi tocca un compito più grande: “impedire che il mondo si distrugga”. Mettere in salvo, la missione del conservatore.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/abbiamo-bisogno-di-veri-conservatori/

C’era una volta il sud ma ora non c’è più

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di Marcello Veneziani

Ma come ti salta in mente di dedicare un nuovo libro a un racconto di pensieri, sentimenti e immagini intitolato “C’era una volta il sud”? Il mondo ha altro per la testa che i ricordi del passato, per giunta del sud e della provincia; il mondo è in preda a troppe cattiverie per mettersi a fare l’elegia del tempo andato, è tempo di attaccare o difendersi, di azzannarsi prima che ti azzannino… E poi siamo nel tempo dell’Intelligenza artificiale. Ma sì, certo, avrete ragione voi, però non vogliamo concederci una pausa, pensare ad altro, lasciarci visitare da immagini, figure e memorie che ci ristorano la mente e riaprono le braccia ai nostri cari?
È un libro di immagini e scritti dedicato al sud ma sono convinto che anche chi non è del sud si troverà a casa: perché si parla di un tempo passato che non fu solo a Mezzogiorno, perché si parla di provincia e non c’è cosa più universale che il mondo provinciale, il piccolo paese, il piccolo rione, la località che ci avvolse nella sua calda prossimità, a nord come a sud, e ovunque. È un libro in formato grande, illustrato (in libreria, edito da Rizzoli) in cui si può seguire il filo delle fotografie, tutte in bianco e nero perché riportano a un passato mitico, diverso dal presente; o si può seguire il filo del racconto di pensieri e di ricordi che si intreccia all’album fotografico. Ma cosa dici, di che parli? È un passeggio, anzi uno struscio nel tempo, un viaggio multisensoriale tra gli odori, i sapori, le voci, le figure, i pensieri di un mondo che viene descritto come chiuso, piccolo, asfittico e locale e invece non è vero. Quel mondo era molto più grande nel suo piccolo rispetto al mondo globale di oggi che è solitario, virtuale, introverso: c’era il paese, c’era la campagna, c’era il mare (o per altri la montagna), c’erano gli animali, c’erano i vecchi e i bambini, tanti bambini, c’era la comunità, c’era l’antichità, c’era il favoloso, c’erano altri mondi oltre quello presente. Ed era un mondo aperto, corale, altro che chiuso; le case erano un via vai di famigliari, tanti figli, tanti cugini, le nonne e le zie “vacantine” che vivevano nella stessa casa, e altrettanti amici, vicini di casa, persone che uscivano ed entravano di continuo dalle porte, parlavano dai balconi e dalle finestre; era un insieme aperto, e all’aperto. Si viveva la vita gratis, nel senso che si pagava solo poche cose perché pochi erano i soldi, ma quasi tutto era gratis, per natura, cortesia, come l’acqua delle fontane, le panchine del giardino, il mare in cui bagnarsi, i frutti appesi da cogliere per le strade, i giochi. Vuoi dire che vivevano nel paradiso terrestre e non lo sapevano? Ma no, che dite. Quel mondo era anche duro, crudele, classista, affamato, malvestito, inclemente. Non puoi rimpiangerlo, tantomeno è possibile ritornarvi, e anche se volessi e potessi farlo non ci torneresti, non riusciresti più a vivere in quel modo.
E allora perché raccontarlo? Perché ci fa bene, ci fa stare bene, ci restituisce fette di vita, angoli di paese, ricordi e care presenze ora assenti; perché incuriosisce, diverte, fa pensare, e suscita pure qualche sentimento, magari ci aiuta a non perdere la nostra sensibilità, a non diventare automi o umanoidi artificiali. Il mondo non era racchiuso nello smartphone.
C’era una volta il sud narra con testi e immagini un mondo favoloso, un’epoca che non è più la nostra da decenni: il sud della civiltà contadina e delle famiglie numerose, il sud devoto e superstizioso, arcaico e “fatigatore”, il sud delle processioni, dei matrimoni, dei funerali, del lutto prolungato, della vita di campagna, della vita ai bordi del mare, dei circoli, delle sale da barba o dello struscio di paese. Ci sono innumerevoli scorci, quadretti di vita, immagini e figure di quel tempo, modi di dire e di fare, di quel mondo arcaico che non fu l’età dell’oro semmai l’età del pane come la chiamò Felice Chilanti. Un mondo comunitario, povero e aspro ma ricco di umanità. Figure mitiche e fenotipi, come il ciaciacco, o sgalliffo, lo sparamiinpetto, lo speranzuolo, e poi il barbiere di compagnia, la prostituta, la masciara, la bizzoca, il sacrestano. Mondi cancellati, o in via di scomparsa, di cui cerchiamo di mettere in salvo la memoria e le sue ultime tracce, prima che cali la notte e la frettolosa dimenticanza. Le foto non riguardano personaggi famosi, eventi celebri, non sono foto d’arte o di eventi storici, ma sono immagini della vita quotidiana, della gente comune; foto ricordo, in prevalenza amatoriali, private e personali, tratte dagli album di famiglia e dai ricordi paesani.
A questo viaggio ho voluto aggiungere in fondo al testo alcune riflessioni sul significato della fotografia nella nostra epoca, cercando di smentire luoghi comuni o di vedere lati nascosti di quel mondo: la fotografia è il diorama del ritorno, nasce da una forma di nostalgia preventiva, la volontà di salvare l’attimo fuggente e le vite in transito. Non è vero che l’era della riproducibilità tecnica dell’arte uccide l’aura che un tempo riguardava l’opera d’arte. A dircelo è proprio colui che teorizzò in un famoso saggio quella morte dell’aura: in quelle stesse pagine Benjamin scrisse – in un passaggio trascurato da tutti – che quell’aura resta nelle fotografie che ritraggono volti, anche se sono immagini seriali, perché sprigionano a rivederle, quel ricordo affettivo, quell’atmosfera, quella magia indicibile di figure care perdute nel tempo. Se il tempo per Platone è l’immagine mobile dell’eterno, la fotografia è l’immagine immobile di ciò che è passato. La fotografia trasforma in mito il passato. Il poeta Coleridge sognò di trovarsi in paradiso, e qualcuno gli donò un fiore. Al suo risveglio, il sognatore si trovò con quel fiore in mano. Così è la fotografia, come i fiori venuti in sogno e poi portati nella realtà. A me capitò un’esperienza analoga: sognai che ero bambino e mio padre mi dava una delle sue caramelle all’orzo. Quando mi svegliai trovai davanti a una fila di libri, appena traslocati, una caramella all’orzo che poi tenni per anni in vista. Nel libro consiglio pure un esercizio particolare con le foto, per rianimarle e vederle rivivere. Scopritelo se vi interessa.
Giorni fa sono tornato nella piazza del mio paese, detta il Palazzuolo, dove giocavo da bambino e dove un tempo si faceva lo struscio: la piazza è un quadrato vuoto al centro e circondato come da una cornice senza quadro, da due file di alberi e una serie di panchine, cinque per ogni lato, in tutto venti. Era la controra e mi sono accorto che su ciascuna di queste panchine c’era una persona sola, e non i gruppi, come succedeva un tempo. Sarà stato un caso momentaneo, ma ho avuto la percezione che i venti di solitudine e le venti solitudini sulle venti panchine della piazza, dicano davvero che il sud c’era una volta e ora non c’è più, è solo una periferia del mondo globale, sempre più devitalizzata, denatalizzata, svuotata, in declino sociale e demografico. Ho scritto questo libro per ripopolare almeno virtualmente quelle panchine.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/cera-una-volta-il-sud-ma-ora-non-ce-piu/

Verona nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni

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La città di Verona appare una sola volta nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il nome della città fa capolino nel Capitolo XVII. Siamo nel 1628, e Verona è ancora parte dei possedimenti di terra della repubblica di Venezia e ci troviamo a due anni da una nuova ondata di peste bubbonica, che distruggerà quel fragile mondo.

Il capitolo inizia con Renzo Tramaglino a Gorgonzola, in fuga da Milano, dove aveva sfiorato l’arresto e l’impiccagione da parte delle autorità spagnole:

Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo.

Renzo era stato messo in mezzo all’assalto al Forno delle Grucce ed era diventato il ricercato numero uno dalle autorità milanesi e per questo motivo era combattuto tra il desiderio di correre e di star nascosto. Decise di mettersi in cammino verso il fiume Adda, che allora segnava il confine con lo Stato Veneziano, dove aveva un parente, Bortolo Castagneri, che lavora in una filanda da quelle parti. Trovò un barcaiolo che lo traghettò e poi, sentendosi libero, spese gli ultimi soldi che aveva in tasca per mangiare e poi lasciò il resto a una famiglia di povera gente che stava morendo di fame fuori da un’osteria.

Il pezzo dei Promessi Sposi che parla di Verona

Finalmente incontrò il suo parente, che lo aiutò, anche se gli disse che il momento non era dei migliori:
– L’ho detto io della Provvidenza! – esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.
– Dunque, – riprese questo, – in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. 
Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano.

Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. 

Non è mai esistito un nunzio Biava a Venezia, e qui il Manzoni deve aver dismesso i panni dello storico per indossare quelli del romanziere.

Questo vale pure per quel Lorenzo Torre mandato dai bergamaschi a Venezia per impedire l’imposizione di dazi da parte di Verona e Brescia sulle granaglie sbarcate a Venezia e dirette nella bergamasca. Un segno di mai sopito campanilismo, pur essendo tutti parte dello stesso stato veneziano. Forse l’ispirazione al Manzoni gli venne leggendo qualcosa di Lorenzo Da Torre (1699-1766) un ecclesiastico, giurista, storico di origine friulana, ma venuto subito dopo il periodo storico dei Promessi Sposi.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/05/15/verona-promessi-sposi-manzoni/

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