Ci vorrebbe un papa credente

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di Marcello Veneziani

Ma tu chi vorresti come Papa? È un toto-scommessa globale, l’Italia si scopre un popolo di vaticanisti della domenica; impazzano pronostici, dietrologie e papalipomeni, per parafrasare il titolo di un poemetto ironico di Giacomo Leopardi. I criteri per la scelta sono sommari e somatici, facciali e vocali; basta una battuta, una diceria su di uno o contro l’altro, o semplicemente la schedatura dei media, il papometro, per promuovere o bocciare un papa. Al vaticanista del terzo piano piace la sinistra perciò vuole un papa progressista, non è importante che sia cattolico; e sui media impazza l’offerta di due papi dem e italiani al prezzo di uno. Al vaticanista del piano di sotto, invece, piaceva Ratzinger, piacciono quelli della Tradizione, e via a cercare il papa giusto, magari un po’ meloniano. Ce ne sono anche qui un paio, di papi neri ma in questo caso si dovrebbe dire proprio negri per non confondere con un papa gesuita o addirittura un papa fascista. E altri più defilati. Poi c’è il papa sorteggiato alla Fiera campionaria, che risponde a quesiti etnico-turistici: per qualcuno stavolta ci vorrebbe un bel papa asiatico, magari cinese, quantomeno coreano. No, meglio africano, perché loro stanno peggio di tutti; eppure sarebbe un bel colpo un papazzo americano, magari anti-Trump, che scomunica chi mette i dazi e reputa peccato mortale baciare i deretani dei potenti, così il mainstream è contento. C’è chi la butta sull’anagrafe e chiede un Papa giovane, in salute, aitante, che guidi la sua papamobile e giochi a tennis con le guardie svizzere, in modo da non vivere più tra pontefici cagionevoli, assistiti e malridotti; un papa palestrato più che ospedaliero. Già, ma poi la Chiesa che fine fa, se il papa dura in carica mezzo secolo? Si riduce a una Monarchia Assoluta e Perpetua, diventa ereditaria, il Vicario diventa Titolare?

C’è chi invece punta sulla competenza e la specializzazione, un papa al passo dei tempi, magari indicato da Chat gbt prima che dallo Spirito Santo. Che so, un papa scienziato, un papa influencer, un papa manager, un papa partigiano, un papa attore globale o artista di strada, un papa trans o simili, come suggeriva il film…

Per taluni anche il papa se vuol essere davvero universale, cioè di tutti, deve seguire l’alternanza tra un credente e un laico, o magari dev’essere un fantasista eclettico e sincretico, ebreo-musulmano, con ascendente luterano e segno zodiacale buddista, cuspide shintoista e in transito un po’ induista. Un Papa arcobaleno, basta col bianco o il nero, che sia arancione come i guru, verde come i green, rosso e giallo, insomma di tutti i colori. Pace.

Il mainstream suggerisce ai condomini vaticanisti una parola magica: continuità. L’importante è che sia come Bergoglio, che la pensi come lui e segua la sua scia; e confidano sui vagoni di cardinali che Papa Francesco ha scaricato sul Conclave per garantire proprio quella continuità, che poi vuol dire pure – non dimenticatelo – polizza per la sua santificazione. Vogliono un Papa come Bergoglio che piace più ai non credenti che ai credenti, che sia inclusivo e accogliente, anche se le chiese si svuotano, non accolgono nessuno e i cattolici della tradizione e dell’ordo missae sono esclusi. Un papa green, femminista fino a un certo punto, aperto ai gay (ma non in chiesa, precisava Francesco), che sia neutrale sui temi sensibili e sensibile ai temi ideologici. Che dica pure le sue menate pacifiste, ecologiste e pauperiste, tanto non fermano i guerrafondai, gli avvelenatori del pianeta e i capitalisti; faccia pure le sue critiche a Israele, chi se lo fila, e perfino i suoi affondi sull’aborto e temi sconcertanti, che passeranno anche stavolta inosservati. Un papa così sta bene nel presepe globale, è un personaggio conforme al quadro generale; poi quando dice qualcosa di difforme rispetto allo Spirito del tempo, tutti fanno finta di non sentire. Guai a cambiare, squadra che perde non si cambia, è funzionale all’ateismo galoppante sulla terra, al relativismo, al nichilismo gaio e alla fluidità.

Già, ma tu chi vorresti come papa? Non li conosco abbastanza, i cardinali, per indicarne uno adatto al compito, mi auguro che stavolta lo Spirito Santo faccia la sua parte, venga ascoltato e ben interpretato. Posso solo dirvi come vorrei che fosse.

Innanzitutto vorrei un papa che creda davvero in Dio e se qualcuno pensa che io stia continuando a scherzare, avverto: no, il contrario, da qui in poi sono serio. Non è affatto scontato quel che ho detto; serpeggia una vena di scetticismo e di miscredenza anche in seno alla Chiesa. E la parola serpeggia mi sembra la più adatta. Certo, se uno la fede la perde, o vacilla, non può darsela né può fingere di averla. Ma il primo assoluto requisito che si richiede a un papa è dire, anzi gridare al mondo: Cari voi tutti, Dio esiste, anzi meglio: Dio è. (punto) Tutto ciò che è, è in Dio, Intelligenza dell’Essere. E poi via a rendere chiaro e semplice quel Principio, con le sue Implicazioni e conseguenze. Poi dal Padre scenderà al Figlio e da questo risalirà allo Spirito Santo, che è per un credente-pensante in Dio, la forza che muove l’Universo, spira e ispira.

Vorrei che il papa scommettesse tutto su Dio; poi il resto, l’amore, la santità, la bontà, la carità, la misericordia, il catechismo, vengono di conseguenza, alla Sua luce. Vorrei un papa che esprimesse il Pensiero più Forte e Potente che si possa pensare e dicesse: sono qui per Amor di Dio, ben sapendo che ogni tradizione ha la sua scala per andare verso di Lui. E poiché amo Dio amo tutto ciò che ne discende, ogni essere, in una gerarchia degli esseri e dei beni che va dall’uomo all’animale, dal regno vegetale al regno minerale; o che discende dal cielo alla terra, dal sole alla luna, dalla miriade di stelle ai miliardi d’anni luce.

Vorrei un papa che parlasse nel nome di Dio, senza pretendere di disporre della Verità, inconoscibile per intero anche a lui; e parlasse poi al mondo nel nome della Madonna e dei Santi, e solo dopo nel nome degli uomini, a partire dai poveri e dai malati, ma senza fermarsi a quelli. Il papa dei poveri, almeno nel nostro mondo italiano, europeo e nordoccidentale, sarebbe un papa per la minoranza, perché qui da noi i poveri sono la decima parte della popolazione; e degli altri nove decimi che ne facciamo? Così come il papa dei migranti, rispetto al mondo intero, sarebbe un papa per la minoranza dell’umanità, perché – non mi stancherò mai di dirlo – i migranti sono milioni, i restanti sono miliardi sulla faccia della terra. Cioè chi vive dove è nato, chi resta a casa, nella sua terra, sono la stragrande maggioranza degli otto miliardi di abitanti del pianeta.

Vorrei un Santo Padre che parlasse il linguaggio del sacro, e dunque parlasse attraverso i riti, i simboli, la liturgia, la tradizione, prima che attraverso i discorsi, le battute e i viaggi. Un papa che esprimesse il suo ruolo ieratico e pontificale, cioè di ponte tra l’umano e il divino, e i significati annessi a quel carisma e a quel soglio. Un papa cosciente di parlare a un mondo indifferente, cioè peggio che ostile, refrattario, sordo, cieco e indaffarato, che non sta ad ascoltarlo. Ma il papa non maledirà mai l’umanità distratta, li aspetterà al largo della loro vita, nutrendo fiducia che come tutti i nodi vengono al pettine, così tutti gli esseri tornano all’Essere.

Un papa così non si commissiona su Amazon né nasce dai magheggi dei cardinali maneggioni; lo trova solo lo Spirito Santo. Amen.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/ci-vorrebbe-un-papa-credente/

LA FONDAZIONE DI ROMA

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Il presente articolo si basa su un recente studio, portato avanti dal prof. Arduino Maiuri, Uni di Roma Filologia greca e romana e dall’Ing. Felice Vinci, in cui i due ricercatori propongono una nuova interessantissima ipotesi sul motivo dell’improvvisa relegazione di Ovidio a Tomi sulle coste del Mar Nero.

Publio Ovidio Nasone, conosciuto come Ovidio, fu il poeta prediletto degli ambienti mondani della Roma augustea ma improvvisamente nell’8 d.C. venne colpito da un improvviso ordine di relegazione a Tomi, sulle coste del Mar Nero.

A 2000 anni dalla morte di Ovidio, il reale motivo del suo esilio è ancora sconosciuto.

Analizziamo gli antefatti

Al momento della sua condanna da parte di Augusto, il poeta era impegnato nella stesura dei Fasti un’opera che avrebbe dovuto comprendere 12 libri, uno per ogni mese dell’anno. Il poeta, ormai giunto a metà dell’opera interruppe il suo poema a metà, come lui stesso affermerà nei Tristia:

spezzò la mia sventura quest’opera, o Cesare, scritta da poco in nome tuo e a te consacrata.

Sempre nei Tristia afferma:

gli ultimi atti sono la mia rovina

e

due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore, di questo devo tacere quale fu la colpa.
(Tristia II, 99)

ammettendo di aver commesso un crimine passibile della sentenza di morte (II 127 – 128), poi commutata da Augusto nell’esilio, presumibilmente con la promessa che il poeta non rivelasse mai il vero motivo della condanna (culpa silenda mihi).

La nuova ipotesi

La nuova ipotesi formulata dai due studiosi, si fonda su un passo del libro V dei Fasti, composto poco prima della condanna.

Ovidio, infatti, nell’occasione si sofferma su un inedito rapporto tra gli antefatti della fondazione di Roma e la costellazione delle Pleiadi, citando “la stella” che Cicerone negli Aratea definì Sanctissima Maia.

Indagando su questa connessione, a dir poco anomala, in quanto non ve n’è traccia nel resto della letteratura antica, gli autori  sviluppano una interessante ipotesi:  che i sette colli di Roma fossero l’immagine, riflessa sulla Terra, delle sette Pleiadi; ed in questo senso che la stella Maia – la cui controparte, sul piano strettamente speculare, sarebbe rappresentata dal colle Palatino, su cui Romolo fondò Roma – fosse la misteriosa divinità tutelare di Roma, il cui nome andava rigorosamente tenuto segreto.

L’argomento della nascita dell’Urbe è stato trattato da moltissimi scrittori, non solo Romani, ma nessuno ha mai menzionato Maia o le Pleiadi in rapporto con la fondazione di Roma. Sicuramente però Ovidio non si sarebbe mai permesso di inventare qualcosa di estraneo alla tradizione su un tema così importante, comincia così ad affacciarsi il dubbio che il poeta abbia toccato un argomento ritenuto tabù a cui non era lecito fare nemmeno un piccolo accenno.

Inevitabilmente i due studiosi collegano l’accaduto alla vicenda di Valerio Sorano, il quale secondo Plinio, fu condannato a morte per aver rivelato il nome segreto dell’Urbe ed è Plinio stesso che spiega i motivi per una tale severa condanna:

i Sacerdoti romani, prima dell’assedio di una città, ne invocavano la divinità protettrice, promettendole che in Roma avrebbe goduto di culto uguale se non maggiore, se avesse assistito i Romani nella conquista.

Dunque per evitare che i nemici facessero le stesse promesse, il nome della divinità protettrice della città doveva rimanere segreto.

Le Pleiadi

Le Pleiadi, conosciute anche come le Sette sorelle, la Chioccetta o con la sigla M45 del catalogo di Charles Messier, sono un ammasso aperto visibile nella costellazione del Toro. Questo ammasso, piuttosto vicino, conta diverse stelle visibili ad occhio nudo; anche se negli ambienti cittadini sono visibili solo cinque o sei delle stelle più brillanti, da un luogo più buio se ne possono contare fino a dodici.

Il Disco di Nebra che rappresenta anche 7 stelle delle Pleiadi

La grande visibilità delle Pleiadi nel cielo notturno ha fatto in modo che esse fossero considerate un importante riferimento in molte culture, sia antiche che presenti.

Per la mitologia Romana erano 7 sorelle, nella mitologia Greca erano chiamate anche “Colombe”, mentre per i Vichinghi erano le galline di Freyja; in molte lingue europee antiche sono infatti indicate come “galline” o “galli”. Secondo l’astrologia indiana le Pleiadi erano conosciute come l’asterismo (Nakshatra) Kṛttikā (“i coltelli” in sanscrito). Le Pleiadi erano chiamate “le stelle del fuoco” e la loro divinità è il dio vedico Agni, il dio del fuoco sacro.

Così sopra così sotto

La città di Roma sorge su un gruppo di alture e picchi, ma tutti sappiamo che da sempre, solo 7 sono stati considerati i colli di Roma.

Il layout della città posto all’interno delle Mura Serviane corrisponde, in modo inequivocabile, all’ammasso stellare, quasi a far sospettare che gli antichi Sacerdoti, o meglio il Pontefice Maximus, si fosse ispirato al punto di guidare lo sviluppo della città, nei primi secoli, come la proiezione sulla Terra del modello celeste, al centro del quale si trova la Sanctissima Maia. A quest’ultima in particolare corrisponderebbe la centralità del Palatino su cui Romolo, secondo la tradizione, aveva tracciato il solco della Città Quadrata.

Ora è plausibile che partendo dall’inedito collegamento proposto da Ovidio tra le 7 Pleiadi e la fondazione di Roma, una persona colta dell’epoca, potesse arguire che la città Quadrata fosse consacrata alla Dea Stella che le corrispondeva nel cielo la Sanctissima Maia, considerata dal Poeta la più bella delle Pleiadi (Fasti, 85-86).

Quindi sembrerebbe evidente che ciò che avrebbe causato l’esilio di Ovidio sarebbe stato l’innominabile collegamento tra le Pleiadi, Maia e la fondazione di Roma.

I due studiosi a questo punto si chiedono se dietro il numero di uccelli che la tradizione vuole avvistati da Remo sull’Aventino e da Romolo sul Palatino, rispettivamente 6 e 12, non si nasconda una sottile allusione al numero delle Pleiadi effettivamente visibile, che come già detto, può variare tra questi due estremi a seconda della situazione meteorologica e della vista dell’osservatore.

A ciò si aggiunga che, sempre secondo i Fasti, proprio il 1 maggio – mese che, secondo quello stesso passo, prenderebbe il nome proprio da Maia – ricorreva la festa della Bona Deamisteriosa divinità protettrice il cui nome non poteva essere rivelato, e ci informa Macrobio (scrittore della tarda latinità) che dietro la misteriosa Bona Dea si nascondeva proprio Maia:

secondo Cornelio Labeone alle calende di maggio fu dedicato un Tempio a Maia, cioè alla terra, sotto il nome di Boa Dea
(Saturnalia I, 12-21)

E sempre Macrobio scrive:

che il flamine di Vulcano alle calende di maggio officia un rito per questa Dea

Non è dunque un caso che Ovidio menzioni la Bona Dea proprio il 1 Maggio pochi versi dopo il discorso che attribuisce a Callisto.

Le Pleiadi e la data della fondazione di Roma

Premesso ciò, è ragionevole chiedersi se anche la data della fondazione dell’Urbe, il 21 aprile, non possa essere inquadrata nell’ipotizzato rapporto con le Pleiadi.

In proposito, una straordinaria conferma proverrebbe da uno studio recente (L. Verderame, Pleiades in ancient Mesopotamia, in Mediterranean Archaeology and Archaeometry 16 (2016), p. 109.) e della Società Italiana di Archeoastronomia, da cui si evince che in Mesopotamia:

Le Pleiadi svolgono un ruolo importante nel calcolo del calendario, un ruolo che è indicato negli almanacchi come il MUL.APIN

E non basta, dal momento che

il sorgere delle Pleiadi è fissato nel secondo mese del calendario Babilonese, cioè Ayāru (Aprile/Maggio). Da notare che il nome Sumero di questo mese è gu4.si.sá (“guidare il bue(buoi)”; gu4 ‘bue, toro’ “guida dei buoi” che si ricollega alla costellazione del Toro.

Si aggiunga che spesso questi astri, oltre a far parte della costellazione del Toro, nel contesto mesopotamico per sineddoche vengono addirittura identificati con essa.

In sostanza, dunque, il sorgere delle Pleiadi corrisponderebbe proprio con il primo giorno del secondo mese dell’anno mesopotamico, Ayāru, ossia aprile/maggio, che ricava il suo nome dalla costellazione del Toro in lingua sumerica: eppure ancora oggi quello che viene considerato il primo giorno del secondo mese dell’anno astrologico, corrispondente al segno del Toro, è il 21 aprile.

Inoltre va anche considerato l’aspetto agricolo del mese di Ayāru, allorché, sotto il segno delle Pleiadi, riprendevano i lavori dei campi. Tutto ciò rievoca senza dubbio l’immagine di Romolo, che con i suoi buoi spinge l’aratro mentre traccia il solco quadrato. D’altronde non è casuale che « il patrono del secondo mese del calendario Sumero sia  Ninĝir-su/Ninurta, Dio anche dell’agricoltura». Guerra e agricoltura: come si potrebbe sintetizzare meglio lo spirito della Roma arcaica?

Pertanto anche la data della fondazione di Roma, in aggiunta ai suoi sette colli, rappresenterebbe, di fatto, una nuova, stringente connessione con le Pleiadi.

Sembra davvero palese che la coincidenza tra la data della fondazione di Roma e l’inizio del segno del Toro, di cui le Pleiadi sono le stelle più rappresentative, non sia affatto casuale, anzi, riletta in questa ottica, sembra dotata di un formidabile significato sacrale, oltre che di un marcato valore astronomico e simbolico:

non solo i sette colli dell’Urbe rispecchierebbero sulla Terra l’aspetto delle Pleiadi, ma anche la data della sua fondazione ricalcherebbe con estrema precisione il ciclo annuo delle costellazioni sulla sfera celeste.

Simili dati sembrano rafforzarsi reciprocamente, rendendo particolarmente esigua, se non addirittura trascurabile, la probabilità che questa fitta rete di corrispondenze e rimandi dipenda da una mera casualità!!

Si ringrazia per l’ispirazione Siusy Blady che, con l’intervista a Felice Vinci sul suo canale Yotube, ha stimolato in noi la curiosità per andare oltre.

 

Fonte: https://emiliogiuliana.com/2-uncategorised/80-la-fondazione-di-roma.html

Verona capitale della ‘Cancel culture’?

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di Giovanni Perez

Grazie all’attuale amministrazione, Verona si candida a diventare la capitale della «Cancel culture», un neologismo con il quale si designa la volontà di eliminare o rimuovere qualsiasi traccia o espressione ritenuta disdicevole, dannosa e perciò pericolosa, rispetto ad un pensiero a priori ritenuto valido, perfetto, l’unico meritevole di essere considerato vero, oltre ogni ragionevole dubbio.

La Cancel culture mette a tacere le opinioni sgradite all’establishment

Il risultato così raggiunto è sempre quello di mettere a tacere con la forza o la legge, le opinioni sgradite, che non si riescono a confutare ponendosi sul loro stesso piano. Ispirandosi a questo atteggiamento irrazionale e manicheo, l’attuale Amministrazione tempo fa introdusse una sorta di “giuramento antifascista”, così come durante il Ventennio si ritenne di chiedere ai docenti universitari di giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Siamo, come vede ogni persona mediamente intelligente, al paradosso, anzi, alle comiche. Tra non molto, ci saranno anche, in una qualche bacheca del Comune, i nomi di coloro che non hanno sottoscritto quella clausola perché espressione di una mentalità totalitaria, indicandoli al pubblico ludibrio.

Non contenta di ciò, sempre l’attuale Amministrazione, ha pensato bene di respingere quasi tutte le richieste del Comitato per le celebrazioni delle Pasque Veronesi con motivazioni risibili e addirittura offensive, come si ricava dalla lettura del comunicato diffuso dallo stesso Comitato, disponibile integralmente nella rete.

Andando oltre l’orizzonte della cronaca, merita invece portare l’attenzione sul fatto che, quanto meno, è stata fatta un po’ di chiarezza sulla natura degli schieramenti che si sono così delineati. Ancora oggi, nonostante i temi di cui si parla siano l’Intelligenza artificiale, i flussi migratori, il calo demografico o la transizione energetica, da una parte vi sono coloro che si richiamano alle ideologie rivoluzionarie, riconducibili all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese e, dall’altra parte, vi sono i controrivoluzionari, coloro che difendono i principi della civiltà tradizionale. Per i primi, in quel lontano aprile del 1797, meritano di essere definiti patrioti coloro che accolsero come liberatore l’esercito francese, mentre per i secondi, i veri patrioti furono invece gli insorgenti veronesi che, emulando la gloriosa epopea della rivolta antigiacobina della Vandea francese, costrinsero i soldati francesi, responsabili di violenze, requisizioni e prepotenze, a rifugiarsi nei tre castelli presi a rifugio.

La vicenda delle Pasque Veronesi, perciò, lungi dall’essere una pagina di storia confinata in un lontano e polveroso passato, la cui celebrazione per l’attuale Amministrazione di sinistra rappresenta perciò un pericoloso ricordo da cancellare, con ogni mezzo, qualora non si riesca ad offrire di essa una visione “politicamente corretta”. Anche a destra si dovrebbe avere una identica sensibilità, una equivalente fermezza nei confronti di associazioni ideologicamente opposte che battono comunque cassa, il che, purtroppo, accade raramente.

Grazie al dibattito che la palese censura avvenuta ha determinato, l’Amministrazione in carica ha svelato anche un’altra sua vocazione, se capiamo bene, ancor più risibile e grottesca, quella di acclamare l’esistenza nella nostra città di ben due santuari, così come esistevano nell’antica Grecia, a Dodona come a Delfi, con tanto di sacerdoti, oracoli e pellegrini ansiosi di potervi trovare le risposte alle domande che più li affliggevano. In quei luoghi sacri i responsi, purtroppo, erano per lo più oscuri, mentre non lo sono quelli elargiti all’attuale Giunta Tommasi dai due presunti santuari veronesi, invocati alla bisogna, espressione massima del “scientificamente corretto”: quello dell’Istituto veronese per la storia della resistenza e dell’età contemporanea e quell’altro, ritenuto ancor più detentore del crisma della scientificità, ovvero l’Istituto di storia dell’Università di Verona.

Per gli adoratori di questi due santuari la Verità (con la “V” maiuscola!) è conosciuta soltanto dai loro sacerdoti, mentre agli altri, null’altro che miserabili ignoranti, è del tutto preclusa. L’Assessore Jacopo Buffolo è forse a queste fonti oracolari che si è affidato per legittimare la propria presa di posizione censoria che, essendo del tutto ideologica, poteva perciò essere dichiarata fin da subito, evitando inutili ipocrisie. In attesa dei prossimi oracoli, consigliamo al signor Buffolo almeno una lettura, quella della voce Pasque Veronesi, scritta dal grande storico veronese Luigi Simeoni e pubblicata sull’Enciclopedia Italiana nel 1937, prima che un qualche idiota cancelli anche quella in nome di chissà quale oracolo della «Cancel culture» in versione scaligera.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/04/07/verona-capitale-cancel-culture/

Renzo De Felice, lo storico cancellato

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di Marcello Veneziani

Cinquant’anni fa, nel 1975, Renzo De Felice mise a soqquadro la ricerca storica e non solo con l’Intervista sul fascismo, a cura di M.A.Ledeen, che fu considerata una “pugnalata” revisionista all’Italia antifascista nata dalla Resistenza. Ora è uscita dall’editore Nino Aragno una biografia di De Felice di un suo noto allievo, Francesco Perfetti (Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice). Scorre in queste pagine la sua vita: i suoi tormentati studi liceali, più volte rimandato e poi bocciato due volte agli esami di maturità, i suoi passaggi da Giurisprudenza a Filosofia, la sua iscrizione al Pci, la sua predilezione per Trotsky e il suo pacifismo militante. Poi l’incontro con la storia e con due grandi storici, Federico Chabod e soprattutto Delio Cantimori, già fascista e germanista, poi diventato “patriarca della storiografia marxista”. Quindi, dopo gli studi sull’Italia giacobina, De Felice approdò agli studi sul fascismo. Cominciò con la Storia degli ebrei sotto il fascismo, ricerca sostenuta dalla comunità ebraica, poi s’inoltrò nella monumentale biografia di Mussolini. Ma le polemiche esplosero con quell’intervista. Sia perché sintetizzava i risultati delle sue ricerche rispetto ai suoi ponderosi testi, gravati di incisi e note bibliografiche. De Felice scriveva male e parlava peggio (era pure balbuziente). I suoi testi sul fascismo sono farraginosi, involuti e dispersivi. Lo notava con elegante crudeltà non un suo nemico ma un suo estimatore che gli aprì le porte del suo Giornale, Indro Montanelli. Non a caso i suoi testi più efficaci sono in forma d’intervista, a Leeden, a Giuliano Ferrara, a Pasquale Chessa o gli scritti giornalistici curati da un altro suo allievo, Giuseppe Parlato (tra gli allievi De Felice ebbe anche Paolo Mieli e il cantautore Francesco De Gregori).

De Felice studiò il fascismo sul piano storico, non lo ridusse a fenomeno criminale, come fanno alcuni sbrigativi e faziosi divulgatori e presidenti d’oggi. Lo considerò parte integrante della storia d’Italia e della nostra autobiografia nazionale. Oggi De Felice sarebbe censurato pure sui social perché smontò e smentì molti pregiudizi sul fascismo. Quali? In estrema sintesi: in primis, il fascismo riscosse per tanti anni grande consenso popolare, furono col fascismo i maggiori artisti e intellettuali del tempo, espressero giudizi positivi sul fascismo e su Mussolini i più grandi capi di stato del suo tempo, rispecchiando l’opinione pubblica mondiale. Secondo, il fascismo fu un regime di modernizzazione, tra grandi opere, leggi e sviluppo sociale, integrazione di giovani, donne, contadini ed operai. Terzo, il razzismo e l’antisemitismo furono estranei al fascismo sino all’alleanza con Hitler dopo l’isolamento delle Sanzioni, e da lì vennero le sciagurate leggi razziali. Fu un razzismo dichiarato ma poco praticato, tra rigetti e boicottaggi. Quarto, nazismo e fascismo furono due realtà distinte, non esiste la categoria “nazifascismo”, “inventata dalla propaganda politica per battere il comune nemico. Fu un’invenzione degli alleati, poi passò tra le parole della resistenza e di lì nel linguaggio comune”, scrive De Felice. Quinto, le potenze occidentali spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler, dopo che aveva vanamente tentato di porsi nel mezzo, fino al patto di Monaco. Sesto, la Repubblica sociale ebbe più la funzione di freno e di cuscino per attutire l’occupazione nazista e le ritorsioni sugli italiani. Mussolini a Salò per De Felice fu più prigioniero che servo-alleato di Hitler (si legga pure Salvate gli italiani. Mussolini contro Hitler di Alfio Caruso). Settimo, la Resistenza fu fenomeno minoritario e non sconfisse il fascismo ma accompagnò la vittoria degli Alleati; il popolo non si schierò con la Resistenza, e anche dopo la guerra preferì la Dc non solo per la sua ispirazione cristiana e occidentale quanto per la sua percepita neutralità rispetto al fascismo e all’antifascismo. Senza dimenticare che metà Resistenza, se non di più, non fu combattuta in nome della libertà ma nel progetto di una dittatura del proletariato che aveva come modello l’Unione Sovietica. Infine, la partitocrazia nasce con la Resistenza e col Cln, e nasce con la morte della patria, l’8 settembre; De Felice fu il primo storico a parlarne, riferendosi a un romanzo di Salvatore Satta, De Profundis; poi sulla morte della patria scrisse un lucido saggio Ernesto Galli della Loggia.

Oggi queste tesi defeliciane, benché ampiamente documentate, sfiorano il reato d’opinione. Poi si può discutere su alcune interpretazioni di De Felice: la differenza tra fascismo-movimento e fascismo-regime in realtà può valere per quasi tutti i movimenti radicali e rivoluzionari andati al potere; o la riduzione del fascismo a costola nazionale del socialismo rivoluzionario e del nazismo a radicalizzazione di un tradizionalismo magico e mitologico.

De Felice non ebbe il tempo di approfondire gli eccidi rossi dopo il ’43, lasciando che quel tabù fosse infranto da giornalisti, prima Giorgio Pisanò, poi Giampaolo Pansa.

De Felice resta lo storico più credibile del fascismo e di Mussolini; ebbe un’ importante influenza civile e culturale, ma anche indirettamente politica. Fu osteggiato e contestato, poi è stato cancellato in modo rozzo e fazioso. L’Italia è retrocessa nella ricerca storica e nel clima civile verso un pregiudizio antistorico, demonizzante e manicheo. Quanti passi indietro ha fatto l’Italia dai tempi e dai testi di De Felice ad oggi.

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/renzo-de-felicelo-storico-cancellato/

Senza eredi. Marcello Veneziani a Verona per presentare il suo libro

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di Giovanni Perez

Marcello Veneziani è tornato a Verona per presentare il suo ultimo libro intitolato: Senza eredi e il cui sottotitolo suona come un potente appello alla curiosità del lettore: Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella. Ad organizzare l’incontro, Paolo Danieli, Massimo Mariotti e gli altri animatori de L’Officina, che è da tempo una delle realtà più vitali e solide del mondo culturale veronese, capace sempre di dar vita ad eventi e momenti di riflessione di altissimo livello, e di quest’ultimo, sarà impossibile dimenticare una certa magica atmosfera, che tutti hanno potuto respirare.

Veneziani ha voluto descrivere un fenomeno che, per un verso, è fortemente voluto da coloro che operano ormai in maniera esplicita verso la realizzazione di un Grande Reset di ciò che ancora rimane in piedi della nostra tradizione culturale e che, per un altro verso, viene troppo spesso vissuto come alcunché di inevitabile e necessario per essere al passo con i tempi, in sintonia con l’attualità. L’esito è comunque il medesimo: farla finita con qualsiasi eredità, la quale di per sé ci impedirebbe di essere assolutamente moderni.

La nostra epoca celebra sé stessa non solo perché presume e pretende di non essere vincolata a nessuna forma di eredità, ma anche perché, a priori, non intende lasciare di sé stessa e trasmettere nessuna eredità o traccia. Tutto quanto si dovrebbe esaurire nel breve volgere di un ciclo chiuso in sé stesso, dove si nasce, si cresce e si precipita in un nulla, che nessuno è più nemmeno interessato a raccontare a chi verrà in un ingombrante dopo.

Quest’epoca respinge perciò l’idea stessa che ciascuno di noi cresca e venga educato da chi ci è padre e maestro, ai cui insegnamenti siamo però chiamati ad aggiungere le nostre peculiari virtù, che ci distinguono da ogni altro individuo consentendoci di diventare persone, cioè eredi attivi e radicati in una storia concreta, ossia in una famiglia, in una comunità e, per approssimazioni successive, in una umanità. Nulla merita di essere salvato e trasmesso, essere cioè oggetto di conservazione e tradizione, ma tutto si deve esaurire nel breve spazio di un mattino, condannati alla nostra sola contemporaneità, senza nemmeno interrogarsi sulla sua genesi, quasi fosse un fungo venuto su dal nulla. Che questo sia il modo migliore, ignorando l’ammonimento dei classici, per ripetere i propri errori, poco importa e interessa.

Veneziani. Al posto dei maestri gli influencer

Un’epoca senza maestri né eredi, ammonisce Veneziani, è anche un’epoca senza amici, il che è sotto gli occhi di tutti, così come di solare evidenza, solo per fare uno tra i tanti esempi possibili, il fallimento di una Unione Europea capace di chiamare alle armi e lanciare programmi guerrafondai, ma incapace e priva di quel coraggio necessario per indicare le proprie fondamenta culturali, le ragioni del proprio essere una civiltà dalle radici millenarie.

Un grande filosofo del diritto spagnolo, che fu molto amico dell’Italia, Francisco Elías de Tejada, scrisse che la principale ragione che distingue una Destra da una Sinistra, prima ancora che il tema dell’egualitarismo, consiste nella diversa concezione dell’essere umano, secondo il dualismo tra un’idea di uomo concreto, ossia erede di una storia, radicalmente diversa da quella di uomo astratto, ossia che prescinde da qualsiasi riferimento alle circostanze specifiche in cui ciascun essere umano è di fatto nato e cresciuto.

Questo dualismo tra uomo concreto e uomo astratto, lo ritroviamo nella celebre intervista rilasciata da Martin Heidegger ad un giornalista dello “Spiegel”, alla cui domanda circa il posto che l’umanità avrebbe dovuto darsi in questo nostro tempo difficile, così rispose: “Secondo la nostra umana storia ed esperienza o, almeno, per quello che è il mio orientamento, io so che tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione”.

Gli inviti alla lettura che Veneziani dedica ai suoi stessi maestri, “veri, presunti e controversi”, vanno nella direzione di chi guarda le cose con realismo e intelligenza, oltre i limiti del disincanto e della rassegnazione o, peggio ancora, della frustrazione. Molto opportunamente, la ricognizione parte con Marsilio Ficino, che, salendo sulle spalle degli antichi, nano rispetto a loro ma, così facendo, capace di guardare oltre il loro stesso orizzonte, contribuì alla nascita del Rinascimento italiano. Altrettanto belle sono poi le pagine conclusive dedicate a Federico Faggin, lo scienziato che, ad un certo punto della sua vita, si accorse di ritornare alle grandi domande che avevano appassionato suo padre, Giuseppe, il celebre studioso di Plotino, l’ultimo dei grandi filosofi antichi.

Veneziani ha concluso nel modo migliore, descrivendo la celebre scultura di Gian Lorenzo Bernini, che raccoglie in un solo gruppo marmoreo, Enea, nel momento di abbandonare Troia, dopo aver caricato sulle spalle il vecchio padre Anchise, che reca stretto nella mano il vaso con le ceneri degli antenati, seguito dal piccolo figlio Ascanio. Enea, congiunzione tra il padre e il figlio, affronta così il futuro, nella consapevolezza di portare con sé il proprio passato. Grazie Marcello per averci ricordato che tutto ciò significa essere portatori e custodi di un’eredità, quella stessa che porterà il principe troiano, secondo la leggenda, a fondare la stirpe di Roma, ossia il futuro, una volta trasfigurato in una rinnovata civiltà.

 

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/03/10/senza-eredi-veneziani-verona-libro/

Vietare Gentile nel suo paese natio

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di Marcello Veneziani

Avete presente Giovanni Gentile, il più grande filosofo italiano del Novecento, il ministro che lasciò la più duratura riforma della scuola, l’intellettuale italiano che fondò la più grande impresa culturale del nostro Paese, l’Enciclopedia Treccani, e che fu maestro di Antonio Gramsci e di Guido Calogero, di Ugo Spirito e di Eugenio Garin, di Michele Federico Sciacca e di Armando Carlini? Beh, l’unico paragone appropriato non è con Benedetto Croce o con Martin Heidegger, come hanno fatto in tanti studiosi, ma con Matteo Messina Denaro, il capo supremo della mafia scomparso di recente, nato anch’egli a Castelvetrano.
Ho tra le mani due documenti che mi giungono dal suo paese natio, Castelvetrano, appunto, in provincia di Trapani. In vista dei 150 anni della sua nascita e a cento anni esatti dalla nascita dell’Enciclopedia italiana, il comune di Castelvetrano ha pensato di ricordarlo con una serie di convegni, iniziative e studi, tra i quali un mio intervento il prossimo 30 maggio. È stato ristampato ora Pensare l’Italia (Le Lettere), antologia gentiliana da me curata e introdotta e pubblicata dai nipoti del filosofo. Gentile è stato ricordato anche all’Accademia dei Lincei, all’Istituto dell’Enciclopedia e in altre sedi istituzionali.
Ma nella sua città natale c’è chi si oppone all’iniziativa. Dopo l’Anpi, l’associazione partigiani estinti, e Rifondazione Comunista anche il Comitato per la difesa della Costituzione di Trapani scende in campo contro la celebrazione del 150° della nascita del filosofo Gentile, prevista dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Giovanni Lentini. Il comitato ricorda “l’acceso sostegno” al regime fascista del filosofo, ucciso dai partigiani il 15 aprile del 1944. Secondo il comitato non può esistere alcuna celebrazione dedicata a Gentile: “Dal vocabolario Treccani alla parola celebrazione leggiamo ‘lodare, esaltare, glorificare persona o cosa – festeggiare solennemente’. Allora, essendo questo il significato, alcuna celebrazione può essere fatta ad un simile personaggio”. E a chi afferma che Gentile viene ricordato dal suo paese natale in quanto castelvetranese, il comitato risponde che “anche Matteo Messina Denaro lo era, e certamente non si pensa assolutamente a celebrarlo se non essendo collusi con la mafia. Se si celebra un ideologo fascista non si è per caso collusi con l’ideologia fascista?”. Eccolo il paragone infame: Gentile come Messina Denaro. Vi rendete conto a quale abissi di barbarie conduce il delirio d’intolleranza o la chiusura mentale?
Immaginate, a parti invertite, se un comitato anticomunista si opponesse a ricordare Antonio Gramsci nella sua città natale a Ghilarza, in Sardegna, perché lui fu teorico del comunismo e della violenza rossa compiuta in suo nome; aggiungendo che se dobbiamo ricordare un barbaricino famoso, perché allora non celebrare pure i famosi banditi sardi, nativi del nuorese… Non so se chiederebbero di arrestarlo o di internarlo in un manicomio per l’assurdo paragone. Invece, si può paragonare Gentile a un capo mafioso senza che nessuno abbia nulla a ridire.
La nota del comitato termina con la speranza che “tutti i partiti antifascisti e i consiglieri comunali antifascisti possano portare l’amministrazione comunale alla revoca di tale celebrazione”. Rivolgo l’appello opposto agli studiosi gentiliani, già comunisti e sempre antifascisti, che chiamo per nome: Biagio de Giovanni, Massimo Cacciari, Giacomo Marramao e Roberto Esposito, e molti altri, di respingere con sdegno l’accostamento di Gentile a Messina Denaro e la conseguente proposta di cancellare, censurare, convegni e commemorazioni dedicati al filosofo, ai quali peraltro tutti i predetti studiosi hanno sempre partecipato, senza riserve ideologiche e chiusure mentali.
Vi rendete conto a che punto siamo in Italia, per giunta nel nome della Costituzione, che già nel suo primo articolo recepisce l’umanesimo del lavoro teorizzato dallo stesso Gentile?
Lo sanno, gli sciagurati ignoranti (dal verbo ignorare) che disprezzano Gentile senza conoscerlo, cosa egli fece per dare spazio nell’Enciclopedia e per salvare all’Università e nei luoghi di ricerca coloro che erano antifascisti, ebrei o semplicemente non erano allineati al regime? Sanno, i sullodati compagni che quando Lenin scrisse la biografia critica di Marx l’unico filosofo vivente che citò per la sua interpretazione marxiana fu un giovane italiano che si chiamava Giovanni Gentile? Sanno che all’epoca di Ordine nuovo di Togliatti e Gramsci, come scrisse uno di loro, Angelo Tasca, “eravamo tutti gentiliani, non crociani”? Conoscono il debito teorico che Gramsci aveva con Gentile su cui ha scritto pagine acute Augusto del Noce? Ma conoscono più vastamente l’impronta che Gentile lasciò sulla cultura italiana, anche quella che a fascismo finito si rivolse poi al Partito comunista, all’antifascismo militante e al Partito d’Azione? Hanno una vaga idea delle opere di Gentile e dell’impronta che lasciarono nel pensiero teoretico? Sono in grado di cogliere la differenza tra vittima e carnefice, tra chi uccide e fa uccidere innocenti e chi viene massacrato per le sue idee e non si tira indietro quando ha tutto da perdere nello schierarsi ancora dalla parte perdente? Sanno, infine, che il pensiero di Gentile fu quasi tutto concepito prima che nascesse il fascismo, e dunque non risente minimamente dell’impronta ideologica e civile di quel regime, che egli considerò come il braccio secolare, l’espressione contingente di quel momento della storia italiana?
No, non sanno, e non vogliono saperne, preferiscono cancellare, sopprimere per la seconda volta la voce del filosofo. E dopo più di ottant’anni stanno ancora lì a negare cittadinanza ideale al pensiero. Non pensate che Gentile abbia già pagato con la vita il suo debito con la storia e che sia tempo di affrontare il suo pensiero, al di là degli eventi storici della sua epoca? Eccoli, dove sono, i veri nemici della cultura; a destra ci sono tanti estranei alla cultura, ma i nemici militanti, ideologici della cultura e della circolazione delle idee stanno precisamente da quella parte, presso l’Ufficio Permessi dell’Intellettuale Collettivo. Prediche inutili, con la sola consolazione che nonostante questi deliri Gentile sarà ugualmente ricordato, anche nella sua città natale, si spera. Sic transit infamia mundi.

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/vietare-gentile-nel-suo-paese-natio/

Le sette piaghe di Trump

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di Marcello Veneziani

Dunque, il mondo è in pericolo dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e il suo discorso, definito “inquietante” da tanti? Proviamo a ragionare con la mente sgombra e i piedi per terra, partendo dalla realtà, oltre le opposte retoriche. Veniamo da un biennio in cui abbiamo rischiato davvero la guerra mondiale, con due laceranti conflitti che hanno insanguinato il crinale tra Oriente e Occidente, a nord e a sud. Con una serie di effetti a cascata, tra corsa agli armamenti, crisi energetiche, gas alle stelle, perdita di ruolo e di peso dell’Europa, collasso delle relazioni internazionali, odio rinfocolato del mondo arabo-islamico verso l’Occidente e Israele. Insomma siamo stati vicini alla guerra mondiale come non succedeva dai tempi della crisi di Cuba, più di sessant’anni fa (e anche allora, per la cronaca, c’era un presidente “buono”, e dem, alla Casa Bianca, John F. Kennedy e perfino un comunista buono, e ucraino, al Cremlino, Nikita Krusciov). Oggi questo doppio conflitto è in via di risoluzione e tutti riconoscono che l’avvento di Trump ha sbloccato la situazione. Ma il racconto ufficiale è il contrario: stiamo perdendo la pace (!) perché arriva lui, il guerrafondaio.
Trump è aspro e urticante, antipatico anche nel tono della voce, spavaldo e spaccone. L’opinione corrente è che con lui si abbatteranno sul mondo le Sette Piaghe bibliche. Andiamo a vedere nel merito.
1) Trump ha aperto pericolose rivendicazioni a Panama, in Groenlandia, in Canada, al confine col Messico, un po’ ovunque. In realtà Trump non ha mai minacciato interventi militari ma ha caldeggiato liberi pronunciamenti popolari, acquisizioni commerciali, negoziati politici e diplomatici. Trump negozia così: spara alto e grosso, per avviare una trattativa e ottenere risultati concreti, nel passaggio delle navi dal canale a Panama, nel controllo delle risorse – altrimenti a rischio “cinese” – in Groenlandia, nel riposizionamento del Canada, dopo la fallimentare esperienza di Trudeau, non solo sul piano dell’ideologia woke.
2) Trump segue Musk invocando Marte e l’Intelligenza Artificiale: ma non il dio della guerra bensì il pianeta da conquistare. Un’auspicabile conversione delle spese militari in impresa spaziale. Investirà poi molto sull’Intelligenza Artificiale che certo è un terreno pericoloso: ma fino a ieri lamentavamo il ritardo e l’assenza del potere statale in un campo così cruciale, lasciato ai privati, e ora ci lamentiamo di un intervento mirato?
3) Trump imporrà dazi pesanti non solo ai vicini, Canada e Messico, per costringerli a presidiare le frontiere. Ma anche al resto del mondo, a partire dall’Europa. Rendiamoci conto che la globalizzazione oggi giova alla Cina e all’Asia, non coincide più con gli interessi occidentali, europei e americani. Oggi è necessario proteggersi, avere scudi e filtri nel commercio mondiale, tutelare le nostre economie. È un capitolo spinoso, quello dei dazi, ma con Trump si deve negoziare, trovare un punto di convergenza. Dazi chiari amicizia lunga.
4) Lo stop agli immigrati clandestini, il blocco delle frontiere, la revoca dello ius soli. Può piacere o non piacere, si possono discutere nel merito i singoli provvedimenti e non amare i toni ostili che usa e le forme ruvide. Ma da un verso corrispondono al mandato elettorale ricevuto, è stato votato per portare avanti quel programma. Dall’altro verso si deve capire che l’Occidente non è in grado di accogliere flussi migratori imponenti, altrimenti rischia di sfasciarsi trascinando il mondo intero nella rovina. Si devono affrontare con realismo i temi dell’immigrazione e la sicurezza delle frontiere, non con la retorica dell’inclusione e dell’accoglienza. In chiave di sicurezza si spiega anche il ripristino della pena di morte in tutti gli stati americani; può piacere o no, ma è già legge in molti stati americani, rientra nel loro dna.
5) Liberare i social, internet e la stampa dalle griglie della censura, dichiarare guerra all’ideologia woke, è un preciso impegno che Trump ha assunto col popolo americano, largamente stanco del politically correct, della cancel culture e dei divieti che limitano la libertà di opinione. Il fatto che Zuckenberg e gli altri magnati del web si siano prontamente adeguati al nuovo corso è visto come un segno di regime; ma non vi sfiora il dubbio che l’essersi in precedenza adeguati all’indirizzo dem e aver imposto censure e vigilanze fosse un segno di regime? La differenza è che in questo caso si tolgono i divieti mentre allora venivano imposti.
6) Ribadendo che i sessi sono due, maschile e femminile, Trump torna alla realtà di sempre, dice una cosa vera e scontata, ma che veniva rimessa in discussione dall’ideologia lgbtq+ e transgender. Un conto è assicurare a tutti il diritto di vivere seguendo i propri orientamenti sessuali e le proprie scelte, purché non a danno di altri; un altro è rimettere in discussione il certo e l’evidente, la storia dell’umanità dalle origini e cancellare la natura, la procreazione, le differenze. Il coraggio dell’ovvietà.
7) Trump, dicono, dichiara guerra all’Europa, vorrebbe usare la Meloni per sfasciarla. Più sfasciata di così l’Europa non è possibile. La guerra in Ucraina ci ha messi in ginocchio, siamo tornati al traino della Nato e degli Usa, abbiamo leadership fragili, governi in bilico, senza legittimazione popolare. Non riusciamo a far valere il nostro peso; e ora attribuiamo al neoeletto Trump la colpa di boicottare l’Europa. Via, non siate ridicoli.

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/le-sette-piaghe-di-trump/

Bentornati Maestri

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di Marcello Veneziani

Torna la storia, torna la geografia, torna l’Italia, torna il latino nelle scuole italiane. Insomma torna un’idea di civiltà, di cultura e di educazione umanistica nella scuola italiana; non solo istruzione, formazione, tecnologia e attualità. È questo il succo dell’annuncio del ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, e non possiamo che essere d’accordo con le intenzioni del ministro e dei suoi esperti. E speriamo che i fatti siano all’altezza delle intenzioni.

La storia, è verissimo, è necessaria per formare cittadini “consapevoli e responsabili” e la rimozione della memoria storica nel nostro paese (con la sola eccezione di fascismo, razzismo e antifascismo, come se il mondo fosse nato con la seconda guerra mondiale) è una perdita incommensurabile per ogni paese. Ma ancor più per il nostro paese che sulla grande tradizione civile, umanistica, linguistica e storica ha fondato la sua ricchezza e il suo primato mondiale. Giusto anche il criterio della prossimità territoriale: è giusto che la storia e la cultura italiana vengano prima di quelle internazionali, ed è giusto che la storia europea e occidentale abbia la precedenza sulla storia del mondo e del terzo mondo, verso cui propende una certa ideologia dell’inclusione, dell’accoglienza e dell’amore per il lontano, con l’ignoranza e l’indifferenza per tutto ciò che è a noi più vicino. È un criterio che vale per la storia come per la geografia, per il pensiero come per l’arte e la musica, giustamente potenziata nelle intenzioni della riforma, per un paese così versato nel canto e nell’opera.

Il tema di fondo da affrontare è il ruolo della scuola nella società presente: la scuola non deve andare a rimorchio di quel che fa tendenza oggi; la sua missione e la sua ricchezza è quella di dare ai ragazzi una visione generale, una chiave di lettura, un sapere critico che consenta poi di governare e cavalcare i flussi della nostra via moderna. Non un sapere contro la società, ma un sapere come contrappeso che bilanci una società interamente schiacciata sulla tecnica, sul web, sull’economia e sulla finanza. La scuola, arrivai a dire in passato, deve seguire la lezione di Dante, che elogiava il suo maestro Brunetto Latini perché “Voi m’insegnavate come l’uom s’etterna”. Ovvero la scuola, soprattutto i licei, deve fornire al ragazzo le chiavi per abitare altri mondi oltre il presente: il passato, il futuro, la cultura, il senso dell’eterno, ovvero ciò che non passa, è permanente. Deve insegnare cioè a una società interamente presa dalla connessione on line, anche la connessione verticale, con le epoche e le generazioni passate e con quelle che verranno.

In una parola, la scuola deve riprendere il senso dell’eredità, il rispetto e la lezione dei maestri, degli autori e delle autorità, il dialogo con le altre epoche, premesse indispensabile anche a dialogare con le altre società e con gli altri mondi presenti. Lo dico anche da autore di un libro, Senza eredi che è incentrato proprio sulla denuncia di un’epoca che cancella eredità, maestri e memoria storica. A partire dai classici e dallo studio del latino, che si riaffaccia seppure in chiave facoltativa – come era ai miei tempi – anche nella scuola media dell’obbligo. Riconciliamoci con la nostra lingua madre e con la civiltà da cui proveniamo. Verrà incoraggiata, apprendo, anche la lettura della Bibbia, le poesia a memoria, i testi epici della letteratura classica. E di questo dobbiamo esser grati anche ai tanti esperti che hanno sostenuto queste tesi e al ministro che non ha avuto il timore di sostenerle. Non abbiamo risparmiato critiche e perplessità in passato a Valditara, non amiamo i cedimenti, le compiacenze e le piacionerie di chi crede di salvarsi assecondando la demagogia e l’egemonia ancora imperante; ma quando una cosa ci sembra giusta, coraggiosa e pertinente, anzi necessaria, e quando ci pare che giovi alla scuola, agli studenti e anche ai docenti, ripristinando il ruolo, la missione e la dignità della scuola, mi pare che vada sostenuta senza indugi. Poi, certo, quando dovrà calarsi nella realtà vedremo come si riuscirà a farlo, con quale personale, con quali reazioni, con tutti i dubbi che abbiamo su larga parte dei docenti, e nel clima d’epoca con la pressione ideologica e mediatica che scatterà per annacquare, boicottare o avvelenare i propositi. Intanto, siamo soddisfatti per gli annunci, per le intenzioni e per la visione che li ispira.

Un tempo gli studenti contestavano la scuola voluta dai governi del centro-destra perché ritenevano che fosse succuba di un’idea “berlusconiana” di succursale dell’impresa, subalterna al commercio e al mercato; ricordate le polemiche contro le fatidiche tre i, impresa, internet e inglese. Anch’io ho più volte detto che i ragazzi lo spirito d’impresa, la capacità di usare il computer e di imparare l’inglese li apprendono più dalla vita, dall’esperienza reale di ogni giorno, insomma imparano più sul campo che nella grottesca, tardiva e impacciata caricatura scolastica, ad opera peraltro di un personale non attrezzato per quei tre compiti. La scuola non deve inseguire il mondo, l’attualità, le utilità più effimere, soprattutto in una società fondata sul commercio, i consumi, le performance tecnologiche; refrattaria al sapere umanistico, che reputa inutile e obsoleto. Ma, vedrete, ora contesteranno a Valditara l’esatto contrario di quel che contestavano ai governi Berlusconi e al ministro Letizia Moratti: di riportare la scuola al passato, a un versione reazionaria, nazionalista, anzi suprematista, tardo-umanistica, provinciale e italocentrica.

L’ignoranza avanza, la barbarie corrode ogni giorno pezzi di società, di scuola e di vita, l’incuria prevale e si fa menefreghismo più accidia. I prof diventano istruttori e intrattenitori, a volte le classi sono affollate d’insegnanti di sostegno, come in un suk di avventori, balie e animatori. Cercare di risalire la corrente, avere il coraggio di invertire la discesa, perlomeno provarci, è finalmente un buon segno di vita e di intelligenza. Bentornati maestri, docenti, anzi insegnanti, cioè persone che lasciano un segno.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/bentornati-maestri/

ADRIANO SOFRI SCRIVE SU “IL FOGLIO”, E NESSUNO FIATA. NON E’ STRANO?

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EDITORIALE

di Matteo Castagna

Viviamo in un’Italia che non vuole fare i conti col suo passato. O, almeno, che continua a considerare la storia come una lotta tra chi è stato dalla parte giusta e da chi dalla sbagliata. Lo sforzo di grandi scrittori e docenti, come Renzo De Felice, Indro Montanelli, Marcello Veneziani, Giampaolo Pansa, e altri coraggiosi, mirato a descrivere la verità dei fatti del dopoguerra, ma anche della guerra civile 43′-45′, e le ragioni dei vinti, è stato censurato dai soloni del pensiero unico, in una maniera, a mio avviso, brutale, irrispettosa, isterica, manichea e intollerante.
Già leggendo il testo del 1976 “Camerata, dove sei?”, ristampato da pochi anni, da Angelo Paratico, della Gingko Edizioni di Verona, vide nella democratica, pluralista e difficile repubblica democristiana, una censura tale da indurre lo scrivente a usare lo pseudonimo di “Anonimo Nero” e a celare la casa editrice per timor di ritorsioni. Perché lungi dalla probabile ideologia dell’autore, ciò che vi era scritto era vero e ben documentato, al punto da mettere in serio imbarazzo l’establischment dell’epoca. 
 
La tristezza è che la nostra Costituzione e la nostra Repubblica arrivano dalle mani di molti voltagabbana. Un Benigno Zaccagnini, con l’aspetto “benigno” del curato di campagna, ma che scriveva di razza e di sangue, come un ideologo delle SS? No, non lo credevo possibile. Un Davide Lajolo che gioiva  per l’entrata in guerra. Un Aldo Moro che poneva la razza prima e la religione cattolica quarta nella scala delle priorità. Un Giovanni Spadolini che gioiva per le uscite aggressive del Duce, perché ci teneva al proprio posto di lavoro…
 
Tutti i celebri personaggi che vengono passati in rassegna, devoti e fidati fascisti durante il ventennio, erano ancora in posizioni apicali di potere nel 1976 e dunque ben in grado di reagire con violenza al disvelamento dei propri trascorsi.
 
Giulio Andreotti, Michelangelo Antonioni, Domenico Bartoli, Arrigo BenedettiRosario Bentivegna, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti, Giacinto Bosco, Paolo Bufalini, Felice Chilanti, Danilo De’ Cocci, Galvano Della Volpe, Antigono Donati, Amintore Fanfani, Mario Ferrari Aggradi, Massimo Franciosa, Fidia Gambetti, Alfonso Gatto, Giovanni Battista Gianquinto, Vittorio Gorresio, Luigi Gui, Renato Guttuso, Ugo Indrio, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Carlo Lizzani, Carlo Mazzarella, Milena Milani, Alberto MondadoriElsa MoranteAldo Moro, Pietro Nenni, Ruggero Orlando, Ferruccio ParriPier Paolo Pasolini, Mariano Pintus, Luigi Preti, Giorgio Prosperi, Ludovico Quaroni Tullia Romagnoli Carettoni, Edilio RusconiEugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, Gaetano Stammati, Paolo Sylos Labini, Paolo Emilio Taviani, Arturo Tofanelli, Palmiro Togliatti, Marcello Venturoli, Benigno ZaccagniniCesare Zavattini erano tutti riusciti a passare indenni attraverso la guerra, che loro stessi avevano provocato (ciascuno per la sua parte) evocato e applaudito, ma poi si erano riciclati a sinistra e al centro, dando spesso contro ai vecchi camerati e negando di esserlo mai stati. 
 
A loro aggiungiamo i fascistissimi Cesare PaveseGiorgio BoccaGiaime Pintor e l’ex presidente del Tribunale della Razza, poi diventato ministro e assistente di Togliatti, Gaetano Azzariti. Il loro problema fu che scrissero su giornali e riviste, usando il proprio nome, per questo motivo la loro militanza fascista resta innegabile.
In fondo, tutti quanti avrebbero dovuto essere esclusi da cariche pubbliche nella Repubblica Italiana, in quanto profittatori del regime, ma le cose sono andate altrimenti, come ben sappiamo. E proprio per questo peccato originale stiamo ancora scontando il prezzo. 
 
Oltre ai voltagabbana, l’Italia si distingue per aver messo in cattedra i “cattivi maestri” quali Renato Curcio e Adriano Sofri, che negli anni hanno spiegato ai giovani la politica e scritto editoriali sui giornali, anche stavolta coi loro nomi e cognomi, mentre altri, d’opposta fazione, hanno trovato minimo spazio su qualche quotidiano, sotto pseudonimo.
 
Ebbene, il 27 dicembre, Il Foglio, che non è certo nuovo a certe firme, offre ai lettori una perla di Adriano Sofriex leader del movimento extraparlamentare marxista armato Lotta Continua, condannato a ventidue anni di carcere quale mandante, assieme a Giorgio Pietrostefani dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972, mentre come esecutori materiali furono condannati i due militanti di Lotta Continua Leonardo Marino e Ovidio Bompressi.

Arrestato nel 1988 e poco dopo rinviato a giudizio, fu condannato e incarcerato per il reato di concorso morale in omicidio, dapprima nel 1990 e poi in via definitiva nel gennaio 1997. Scontò la pena dal 2005 in regime di semilibertà e dal 2006 di detenzione domiciliare, a causa di problemi di salute, venendo scarcerato nel gennaio 2012 per decorrenza della pena, che era stata ridotta a 15 anni per effetto dei benefici di legge. 

Eppure, Sofri scrisse in un editoriale del 18/05/1972, che non fu sufficiente ad un ergastolo da scontare in galera: «L’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».

La perla de Il Foglio, a firma Sofri, si intitola: “Le parole di un Papa con cui simpatizzo perché dice tutto e il contrario di tutto”.   L’ex brigatista rosso scrive che “all’Angelus, ha detto con un estremo vigore che Dio “perdona tutto, perdona a tutti”. Non è vero, perdona ai puri di cuore, sinceramente pentiti e ravveduti, che hanno riparato al mal fatto. Ma a Sofri piace il buonismo perché, probabilmente gli dà una speranza che va oltre il pentimento e lo conferma nell’errore.

“E’ andato ad aprire “la basilica di Rebibbia”, ci è entrato tirandosi su in piedi, ha esortato a spalancare porte e braccia e cuori, il senso del Giubileo, e all’uscita, dal finestrino aperto della sua utilitaria, ha detto che in galera ci sono i pesci piccoli, soprattutto i pesci piccoli, e che i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanerne fuori, che è una bella idea a Buenos Aires e nel resto del mondo, e avrà fatto bestemmiare qualche grosso peccatore dentro e fuori. Ha detto: “Dobbiamo accompagnare i detenuti e Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. 

Che poi, non vengano proposti il sincero pentimento, la perfetta contrizione, il ravvedimento, poco importa a Bergoglio e pure a Sofri, che ne approfitta. Così facendo, la salvezza universale senza alcun merito diventa la boa pe Sofri e l’inclusione, sic et simpliciter, di peccati e peccatori nella nuova Chiesa.

 

Il messaggio dell’Onu indirizzato al G7 su Gaza

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Il segretario generale aggiunto dell’ONU per gli affari umanitari, Martin Griffithsha denunciato che la difficile situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, dove le ostilità tra l’aggressione di Israele contro l’enclave assediata dura da otto mesi.

Nella dichiarazione, indirizzata ai paesi del G7, Griffiths ha avvertito che nell’enclave palestinese ” si prevede che metà della popolazione – più di un milione di persone – dovrà affrontare la morte e la fame entro la metà di luglio”. Il funzionario dell’organizzazione internazionale ha ribadito che il conflitto a Gaza, come in altri focolai di tensione nel mondo, “è fuori controllo” e “sta spingendo milioni di persone sull’orlo della fame”.

Inoltre, Griffiths ha indicato che ” gli intensi combattimenti, le restrizioni inaccettabili e gli scarsi finanziamenti impediscono agli operatori umanitari di fornire cibo, acqua, sementi, assistenza sanitaria e altri aiuti salvavita su una scala vicina a quella necessaria per prevenire la fame di massa”.

“La situazione deve cambiare, non possiamo permetterci di perdere un solo minuto “, ha proseguito, esortando i paesi del G7 a “contribuire immediatamente con la loro considerevole influenza politica e risorse finanziarie” per garantire che gli aiuti umanitari possano raggiungere coloro che ne hanno bisogno nonostante i combattimenti. “Il mondo deve smettere di alimentare le macchine da guerra che stanno affamando i civili a Gaza e in Sudan”, ha concluso.

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A GAZA LA SITUAZIONE UMANITARIA E’ FUORI CONTROLLO. LA PULIZIA ETNICA DECISA

C’E’ UNA ONG, GAZZELLA ONLUS, CHE NON SI ARRENDE A QUESTE BARBARIE E OGNI GIORNO, EROICAMENTE, PORTA BENI DI PRIMA NECESSITA’ ALLA POPOLAZIONE STREMATA

L’ANTIDIPLOMATICO E LAD EDIZIONI, INSIEME A Q EDIZIONI, E’ IMPEGNATA ALLA RACCOLTA FONDI PER LA POPOLAZIONE DI GAZA
ACQUISTANDO IL LIBRO “IL RACCONTO DI SUAAD – PRIGIONIERA PALESTINESE” DAL NOSTRO SITO CONTRIBUIRETE ATTIVAMENTE ALL’INVIO DI AIUTI ALLA POPOLAZIONE DI GAZA

Fonte: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_messaggio_dellonu_indirizzato_al_g7_su_gaza/45289_55249/

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