Verona capitale della ‘Cancel culture’?

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di Giovanni Perez

Grazie all’attuale amministrazione, Verona si candida a diventare la capitale della «Cancel culture», un neologismo con il quale si designa la volontà di eliminare o rimuovere qualsiasi traccia o espressione ritenuta disdicevole, dannosa e perciò pericolosa, rispetto ad un pensiero a priori ritenuto valido, perfetto, l’unico meritevole di essere considerato vero, oltre ogni ragionevole dubbio.

La Cancel culture mette a tacere le opinioni sgradite all’establishment

Il risultato così raggiunto è sempre quello di mettere a tacere con la forza o la legge, le opinioni sgradite, che non si riescono a confutare ponendosi sul loro stesso piano. Ispirandosi a questo atteggiamento irrazionale e manicheo, l’attuale Amministrazione tempo fa introdusse una sorta di “giuramento antifascista”, così come durante il Ventennio si ritenne di chiedere ai docenti universitari di giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Siamo, come vede ogni persona mediamente intelligente, al paradosso, anzi, alle comiche. Tra non molto, ci saranno anche, in una qualche bacheca del Comune, i nomi di coloro che non hanno sottoscritto quella clausola perché espressione di una mentalità totalitaria, indicandoli al pubblico ludibrio.

Non contenta di ciò, sempre l’attuale Amministrazione, ha pensato bene di respingere quasi tutte le richieste del Comitato per le celebrazioni delle Pasque Veronesi con motivazioni risibili e addirittura offensive, come si ricava dalla lettura del comunicato diffuso dallo stesso Comitato, disponibile integralmente nella rete.

Andando oltre l’orizzonte della cronaca, merita invece portare l’attenzione sul fatto che, quanto meno, è stata fatta un po’ di chiarezza sulla natura degli schieramenti che si sono così delineati. Ancora oggi, nonostante i temi di cui si parla siano l’Intelligenza artificiale, i flussi migratori, il calo demografico o la transizione energetica, da una parte vi sono coloro che si richiamano alle ideologie rivoluzionarie, riconducibili all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese e, dall’altra parte, vi sono i controrivoluzionari, coloro che difendono i principi della civiltà tradizionale. Per i primi, in quel lontano aprile del 1797, meritano di essere definiti patrioti coloro che accolsero come liberatore l’esercito francese, mentre per i secondi, i veri patrioti furono invece gli insorgenti veronesi che, emulando la gloriosa epopea della rivolta antigiacobina della Vandea francese, costrinsero i soldati francesi, responsabili di violenze, requisizioni e prepotenze, a rifugiarsi nei tre castelli presi a rifugio.

La vicenda delle Pasque Veronesi, perciò, lungi dall’essere una pagina di storia confinata in un lontano e polveroso passato, la cui celebrazione per l’attuale Amministrazione di sinistra rappresenta perciò un pericoloso ricordo da cancellare, con ogni mezzo, qualora non si riesca ad offrire di essa una visione “politicamente corretta”. Anche a destra si dovrebbe avere una identica sensibilità, una equivalente fermezza nei confronti di associazioni ideologicamente opposte che battono comunque cassa, il che, purtroppo, accade raramente.

Grazie al dibattito che la palese censura avvenuta ha determinato, l’Amministrazione in carica ha svelato anche un’altra sua vocazione, se capiamo bene, ancor più risibile e grottesca, quella di acclamare l’esistenza nella nostra città di ben due santuari, così come esistevano nell’antica Grecia, a Dodona come a Delfi, con tanto di sacerdoti, oracoli e pellegrini ansiosi di potervi trovare le risposte alle domande che più li affliggevano. In quei luoghi sacri i responsi, purtroppo, erano per lo più oscuri, mentre non lo sono quelli elargiti all’attuale Giunta Tommasi dai due presunti santuari veronesi, invocati alla bisogna, espressione massima del “scientificamente corretto”: quello dell’Istituto veronese per la storia della resistenza e dell’età contemporanea e quell’altro, ritenuto ancor più detentore del crisma della scientificità, ovvero l’Istituto di storia dell’Università di Verona.

Per gli adoratori di questi due santuari la Verità (con la “V” maiuscola!) è conosciuta soltanto dai loro sacerdoti, mentre agli altri, null’altro che miserabili ignoranti, è del tutto preclusa. L’Assessore Jacopo Buffolo è forse a queste fonti oracolari che si è affidato per legittimare la propria presa di posizione censoria che, essendo del tutto ideologica, poteva perciò essere dichiarata fin da subito, evitando inutili ipocrisie. In attesa dei prossimi oracoli, consigliamo al signor Buffolo almeno una lettura, quella della voce Pasque Veronesi, scritta dal grande storico veronese Luigi Simeoni e pubblicata sull’Enciclopedia Italiana nel 1937, prima che un qualche idiota cancelli anche quella in nome di chissà quale oracolo della «Cancel culture» in versione scaligera.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/04/07/verona-capitale-cancel-culture/

Dopo le polemiche sul manifesto di Ventotene. Una certa idea di Europa

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di Giovanni Perez

Il terreno di scontro tra la destra di governo e il fronte variegato della sinistra, si è recentemente giocato prendendo a elemento discriminante il Manifesto di Ventotene, redatto nel 1941 e firmato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. La lettura di questo testo, dal quale estrapolare alcune frasi diventa sicuramente un’operazione a dir poco azzardata, tuttavia, conferma in estrema sintesi ciò che Giorgia Meloni ha detto in Parlamento, ossia trattarsi dell’evocazione di un’idea di Europa che non è quella della destra politica, come lo stesso Massimo Cacciari ha onestamente riconosciuto, per cui le reazioni scomposte, violente, addirittura isteriche che sono seguite a sinistra, non possono che significare quanto meno un elemento di chiarezza, storico e dottrinario.

A parte lo stesso incipit del testo, laddove si identifica troppo sbrigativamente la modernità con il principio della libertà, ciò che emerge è una radicale requisitoria nei confronti non tanto dello stato nazionale, ritenuto storicamente, almeno alle sue origini, un “potente lievito di progresso”, ma del nazionalismo, inteso come esasperazione del sano patriottismo, al quale si fanno risalire la responsabilità di aver portato alla creazione dello stato totalitario, imperialista e militarista, di aver trasformato i cittadini in sudditi, di aver consolidato il “controllo poliziesco della vita dei cittadini”. Si tratta di affermazioni, anch’esse, che andrebbero contestualizzate e che descrivono situazioni che potremmo ritrovare non solo nell’allora Russia bolscevica, ma anche, certamente in forma più attenuata, nelle stesse liberal-democrazie, come Evola stupendamente descrisse nel saggio Americanismo e bolscevismo.

Per quanto concerne poi l’interpretazione del fascismo europeo, quale braccio armato della borghesiacapitalistica, si tratta di una tesi che nemmeno ai più trinariciuti antifascisti, oggi verrebbe in mente di riproporre come la più adeguata tra le tante possibili. Peraltro, di fatto contraddicendosi, nel Manifesto si ammette che il corporativismo rappresentò una globale alternativa tanto al liberal-capitalismo, quanto al social-comunismo, anche se infine non raggiunse i risultati che si era proposti, come ebbero a riconoscere non pochi pensatori fascisti, come Ugo Spirito e Camillo Pellizzi.

Nel Manifesto trovano spazio anche un acceso, quanto coerente, anticlericalismo, prevedendo una necessaria abolizione del Concordato del 1929; un giudizio sicuramente sbagliato sulla Geopolitica, ritenuta null’altro che una pseudo-scienza; il desiderio di un’utopica realizzazione, oltre lo stesso Stato federale europeo, di un’«unità politica dell’intero globo», ossia di un «solido stato internazionale». Non solo, nel Manifesto c’è una critica radicale all’ideologia comunista, definita essenzialmente come una degenerazione del socialismo, soprattutto per una sbagliata concezione della proprietà, come le errate realizzazioni del modello di “dispotismo burocratico” proprie della Russia sovietica, ampiamente confermano. Trova poi spazio l’evocazione di un ipotetico e fantomatico Partito rivoluzionario, guidato da intellettuali «illuminati», capaci di impedire, alle incerte e deboli democrazie, di non essere in grado di far fronte ai tentativi, dei soliti ceti parassitari, di riciclarsi nuovamente dopo la sicura sconfitta militare della Germania. È questo Partito rivoluzionario che dovrà realizzare una «dittatura», che, di fatto, si dovrà sostituire a quelle esistenti non si sa per quanto tempo, fino alla creazione di un «nuovo ordine», di un «nuovo stato» e di una «nuova democrazia», sulla cui fisionomia i tre «illuminati» di Ventotene nulla aggiungono come ulteriore precisazione.

il Manifesto nella tradizione di pensiero illuministica

Vi sono poi altri contenuti che situano il Manifesto nella tradizione di pensiero illuministica, laica, egualitaria, progressista, in breve, di sinistra. Ma questo in che senso? Nel senso che ho avuto modo già di evidenziare parlando dell’ultimo libro di Marcello Veneziani intitolato, Senza eredi. Mi riferisco alla concezione dell’uomo che è implicita al Manifesto e che rimanda all’idea di «uomo astratto», la cui definizione fa astrazione, ossia prescinde da ogni riferimento alla dimensione storica in cui si esprime nella sua concretezza l’umanità, così come l’esperienza vissuta di ogni singola persona. Si tratta di un’idea di uomo stabilita dalla sola ragione, trasformando e confondendo la dimensione del desiderio, di un ideale e ipotetico dover essere, inspiegabilmente a priori ritenuto essere quello migliore e giusto, con la realtà delle cose. Da qui il violento rifiuto del naturale radicamento dell’umanità in una patria, in una nazione, in una tradizione, perché tutto ciò spinge verso una dimensione dove contano le identità, le tante comunità tra loro differenti, che il Manifesto reputa necessariamente foriere di pulsioni fratricide e guerrafondaie.

Pertanto, come già aveva postulato Kant nel saggio, del lontano 1795, Per la pace perpetua, nella futura Europa non ci potrà essere alcuno spazio per gli Stati nazionali, per il nazionalismo e tutte le tradizioni che distinguono le comunità (a sinistra si usa invece la parola collettività), che andranno azzerate in un solo agglomerato di individui-atomi, indistinto e «fluido», come oggi si direbbe. Si tratta dell’Europa che oggi stanno realizzando, purtroppo, le false élites dell’Unione Europea, che hanno perciò accontentato, almeno in questo, gli estensori del Manifesto, salvo rendendo inutile, almeno per il momento, la creazione di una Federazione europea, con una sola Costituzione. Del resto, si è proceduto all’eliminazione per altre vie della sovranità politica, legislativa e monetaria degli stati membri, creando un mostrum burocratico di cui siamo divenuti sudditi, al servizio di occulte lobbies, non solo finanziarie, di cui è evidente da tempo la volontà di distruggere le identità etniche degli europei, attraverso dissennate politiche immigrazionistiche.

Nella misura in cui questa Europa ha realizzato il Manifesto di Ventotene, essa non può certo essere l’Europa delle Patrie, delle Identità nazionali, delle Tradizioni, degli uomini concreti definiti dalla ragione storica, che sta dentro il DNA della vera Destra. Chi volesse approfondire la questione, può riferirsi all’ancor splendido volume di Carlo Curcio, Europa storia di un’idea, da leggere insieme a quell’altro di Federico Chabod, Storia dell’idea d’Europa. Ma, a dimostrazione del fatto che, ben prima del Manifesto, si sviluppò nel corso degli anni Trenta una notevole attenzione verso l’idea di Europa, si deve almeno ricordare agli smemorati della sinistra, che nel 1932 si svolse a Roma, indetto dalla Regia Accademia d’Italia e organizzato dalla «Fondazione Volta», un celebre Convegno intitolato: «Unità dell’Europa in relazione alla crisi mondiale», cui parteciparono decine di politici di varie tendenze, storici, geografi, studiosi della politica e del diritto, i cui Atti furono poi raccolti in un grosso volume, oggi sepolto nella polvere delle biblioteche, di fronte al quale gli Autori del Manifesto non meritano davvero, salvo che per ragioni di mera polemica politica, che ne offende peraltro la memoria, l’esagerata attenzione e l’apologia oggi a loro riservata.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/03/24/manifesto-ventotene-idea-di-europa/

Senza eredi. Marcello Veneziani a Verona per presentare il suo libro

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di Giovanni Perez

Marcello Veneziani è tornato a Verona per presentare il suo ultimo libro intitolato: Senza eredi e il cui sottotitolo suona come un potente appello alla curiosità del lettore: Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella. Ad organizzare l’incontro, Paolo Danieli, Massimo Mariotti e gli altri animatori de L’Officina, che è da tempo una delle realtà più vitali e solide del mondo culturale veronese, capace sempre di dar vita ad eventi e momenti di riflessione di altissimo livello, e di quest’ultimo, sarà impossibile dimenticare una certa magica atmosfera, che tutti hanno potuto respirare.

Veneziani ha voluto descrivere un fenomeno che, per un verso, è fortemente voluto da coloro che operano ormai in maniera esplicita verso la realizzazione di un Grande Reset di ciò che ancora rimane in piedi della nostra tradizione culturale e che, per un altro verso, viene troppo spesso vissuto come alcunché di inevitabile e necessario per essere al passo con i tempi, in sintonia con l’attualità. L’esito è comunque il medesimo: farla finita con qualsiasi eredità, la quale di per sé ci impedirebbe di essere assolutamente moderni.

La nostra epoca celebra sé stessa non solo perché presume e pretende di non essere vincolata a nessuna forma di eredità, ma anche perché, a priori, non intende lasciare di sé stessa e trasmettere nessuna eredità o traccia. Tutto quanto si dovrebbe esaurire nel breve volgere di un ciclo chiuso in sé stesso, dove si nasce, si cresce e si precipita in un nulla, che nessuno è più nemmeno interessato a raccontare a chi verrà in un ingombrante dopo.

Quest’epoca respinge perciò l’idea stessa che ciascuno di noi cresca e venga educato da chi ci è padre e maestro, ai cui insegnamenti siamo però chiamati ad aggiungere le nostre peculiari virtù, che ci distinguono da ogni altro individuo consentendoci di diventare persone, cioè eredi attivi e radicati in una storia concreta, ossia in una famiglia, in una comunità e, per approssimazioni successive, in una umanità. Nulla merita di essere salvato e trasmesso, essere cioè oggetto di conservazione e tradizione, ma tutto si deve esaurire nel breve spazio di un mattino, condannati alla nostra sola contemporaneità, senza nemmeno interrogarsi sulla sua genesi, quasi fosse un fungo venuto su dal nulla. Che questo sia il modo migliore, ignorando l’ammonimento dei classici, per ripetere i propri errori, poco importa e interessa.

Veneziani. Al posto dei maestri gli influencer

Un’epoca senza maestri né eredi, ammonisce Veneziani, è anche un’epoca senza amici, il che è sotto gli occhi di tutti, così come di solare evidenza, solo per fare uno tra i tanti esempi possibili, il fallimento di una Unione Europea capace di chiamare alle armi e lanciare programmi guerrafondai, ma incapace e priva di quel coraggio necessario per indicare le proprie fondamenta culturali, le ragioni del proprio essere una civiltà dalle radici millenarie.

Un grande filosofo del diritto spagnolo, che fu molto amico dell’Italia, Francisco Elías de Tejada, scrisse che la principale ragione che distingue una Destra da una Sinistra, prima ancora che il tema dell’egualitarismo, consiste nella diversa concezione dell’essere umano, secondo il dualismo tra un’idea di uomo concreto, ossia erede di una storia, radicalmente diversa da quella di uomo astratto, ossia che prescinde da qualsiasi riferimento alle circostanze specifiche in cui ciascun essere umano è di fatto nato e cresciuto.

Questo dualismo tra uomo concreto e uomo astratto, lo ritroviamo nella celebre intervista rilasciata da Martin Heidegger ad un giornalista dello “Spiegel”, alla cui domanda circa il posto che l’umanità avrebbe dovuto darsi in questo nostro tempo difficile, così rispose: “Secondo la nostra umana storia ed esperienza o, almeno, per quello che è il mio orientamento, io so che tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione”.

Gli inviti alla lettura che Veneziani dedica ai suoi stessi maestri, “veri, presunti e controversi”, vanno nella direzione di chi guarda le cose con realismo e intelligenza, oltre i limiti del disincanto e della rassegnazione o, peggio ancora, della frustrazione. Molto opportunamente, la ricognizione parte con Marsilio Ficino, che, salendo sulle spalle degli antichi, nano rispetto a loro ma, così facendo, capace di guardare oltre il loro stesso orizzonte, contribuì alla nascita del Rinascimento italiano. Altrettanto belle sono poi le pagine conclusive dedicate a Federico Faggin, lo scienziato che, ad un certo punto della sua vita, si accorse di ritornare alle grandi domande che avevano appassionato suo padre, Giuseppe, il celebre studioso di Plotino, l’ultimo dei grandi filosofi antichi.

Veneziani ha concluso nel modo migliore, descrivendo la celebre scultura di Gian Lorenzo Bernini, che raccoglie in un solo gruppo marmoreo, Enea, nel momento di abbandonare Troia, dopo aver caricato sulle spalle il vecchio padre Anchise, che reca stretto nella mano il vaso con le ceneri degli antenati, seguito dal piccolo figlio Ascanio. Enea, congiunzione tra il padre e il figlio, affronta così il futuro, nella consapevolezza di portare con sé il proprio passato. Grazie Marcello per averci ricordato che tutto ciò significa essere portatori e custodi di un’eredità, quella stessa che porterà il principe troiano, secondo la leggenda, a fondare la stirpe di Roma, ossia il futuro, una volta trasfigurato in una rinnovata civiltà.

 

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/03/10/senza-eredi-veneziani-verona-libro/

Foibe: quando il Ricordo non basta

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di Giovanni Perez

La memoria delle foibe carsiche e istriane e l’esodo della popolazione italiana dalla Venezia-Giulia e dalla Dalmazia, che si protrasse fino alla fine degli anni Cinquanta, si è tramandata attraverso un sottilissimo filo, che ha rischiato più volte di spezzarsi; un filo che si rinforza soprattutto grazie a coloro che raccolgono in qualche modo l’eredità di quella pagina di storia lacerata da ferite non ancora rimarginate e che tali rimarranno, forse per sempre.

A rinforzare quel sottilissimo filo sono libri come quello recentemente edito dalle Edizioni Vita Nova, scritto da Lamberto Maria Amadei, in cui sono state raccolte le “giovani memorie fiumane” di Marina Smaila, quando fu strappata da quel mondo in cui muoveva i suoi primi passi e assaporava le prime gioie di bambina. Siamo in questo racconto di fronte al sovrapporsi delle vicende di una famiglia che viveva a Fiume, perciò italianissima, che cercò di sfuggire ad un destino di morte, catapultati così nella Storia, con la “S” maiuscola, che si consumò nei confini orientali di un’Italia uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Furono anni terribili, in cui la realpolitik dei vincitori, soprattutto di quelli legati alla Russia sovietica, mai si coniugò con il più elementare sentimento di umanità, fino a perseguire, per ragioni ideologiche, il progetto di un annientamento totale della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, anche distr ggendo gli archivi, i monumenti su cui era impressa l’italianità di quei luoghi, trasmessa nel corso dei secoli attraverso innumerevoli generazioni.

Il 10 febbraio 1947, l’Italia stipulò con la Jugoslavia l’oneroso Trattato di pace con cui vennero cedute le terre istriane fiumane e dalmate, da secoli italianissime, e la creazione del Territorio Libero di Trieste.    A Fiume, Pola, Zara, Capodistria, Pirano, Parenzo e in tante altre città da sempre italiane e venete, i giovani sono stati educati all’idea, invece, che quelle terre furono sempre state abitate da sloveni e croati.

Le questioni delle foibe e dell’Esodo, che insanguinarono l’Istria e il Carso, la Venezia Giulia e la Dalmazia, sono intimamente connesse tra loro, sebbene ancora oggi vi sia chi tenta di negarlo. Entrambi sono l’esito di due cause, anche queste tra loro intimamente collegate. Da una parte un radicale odio anti-italiano, dalle radici antiche, ed ora scatenatosi senza alcun argine militare, dopo la ritirata dell’esercito italiano, dall’altra parte, lo svelamento della natura intrinsecamente criminogena dell’ideologia comunista, che, questa volta, aveva assunto il volto delle bande partigiane del maresciallo Tito.

Se non si comprende il concorso di questi due elementi, la Legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del Ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli istriani, fiumani e dalmati, presto o tardi diverrà carta straccia. Di ciò, purtroppo, si cominciano ad intravvedere i primi segnali, unitamente al prevalere delle tesi non più negazioniste delle foibe, ma di quelle giustificazioniste, che attribuiscono la reazione criminale degli slavi alla precedente politica fascista. Fortunatamente, sempre a sinistra, non mancano le eccezioni, e i vari Giampaolo Pansa hanno avuto il coraggio intellettuale di ammettere come sono andate veramente le cose, confutando alla radice quella assurda e insostenibile tesi.

Per i trecentocinquantamila esuli, iniziò un’odissea senza ritorno, negata non solo dal Partito comunista italiano, per il quale essi altro non erano che “criminali fascisti sfuggiti alla giustizia popolare jugoslava”. E l’identificazione tra le vittime delle foibe e quanti dovettero abbandonare case, affetti, ricordi e una loro presunta appartenenza ideale al fascismo, ha ispirato la storiografia negazionista e giustificazionista. Tale tesi ancora oggi non è stata affatto definitivamente confutata e si ritrova nelle volgari e squallide parole di un Tomaso Montanari e di altri epigoni e nostalgici del socialismo reale.

Il Partito comunista di Togliatti si schierò naturaliter con le bande partigiane del Maresciallo Tito, sebbene il loro odio anti-italiano, più forte dello stesso antifascismo, fosse ben noto agli stessi partigiani comunisti italiani che operarono nella Venezia-Giulia, costretta dalle necessità politiche ad un complice e omertoso silenzio. L’episodio di Malga Porzûs, che non fu affatto un caso isolato, ha fatto completa giustizia di questo aspetto tra i più esecrabili della lotta partigiana, e non solo di quella combattuta sul confine orientale.

Di Togliatti, il cosiddetto “Migliore”, si dovranno sempre ricordare le ignobili parole scritte nella lettera inviata il 7 febbraio del 1945 a Ivanoe Bonomi, in cui finì anche per riconoscere che a difendere gli italiani di quelle terre erano rimasti i fascisti e tedeschi! Un lapsus, si dirà, sicuramente tragico, per non dire comico.

Sono fin troppo note le angherie commesse in seguito, nell’Italia liberata, dai militanti comunisti ai danni degli esuli al loro arrivo in Italia, mentre ancora oggi non è stata adeguatamente considerato l’altrettanto orribile e sostanzialmente complice atteggiamento assunto dalla Democrazia cristiana, in ossequio alle scelte dei vincitori statunitensi e inglesi, come risultò evidente con la cessione della Zona B di Trieste alla Jugoslavia del novembre 1975. Le lacrime di Sandro Pertini sulla bara di Tito, poi, sono un episodio talmente inqualificabile, che merita solo disprezzo e silenzio; esso fu talmente sconcertante, che si commenta da solo.

Tragicamente sincere le parole di Oskar Piskulic, uno dei peggiori infoibatori, trascinato in giudizio presso il Tribunale di Roma dal giudice Giuseppe Pititto, che arrivò ad ammettere la verità, sostenendo che, in fondo, di italiani e fascisti, i partigiani comunisti avrebbero dovuto assassinarne ancora di più, fino alla completa loro estinzione, in quanto nemici di classe, ossia ostacolo da eliminare per realizzare finalmente la società comunista secondo le indicazioni di Tito.

Purtroppo, se vogliamo essere sinceri, ai tanti esuli che per ragioni molteplici, umanamente addirittura comprensibili, occultarono il proprio passato, la propria identità, si aggiunsero quelli che finirono per accettare la tesi che la responsabilità dei crimini commessi contro gli italiani, era da attribuire effettivamente alla politica del governo fascista, così assolvendo i propri carnefici, per ragioni perciò ideologiche. Non solo, perché contribuì anche un meccanismo ben noto alla psicologia e ben noto anche al coraggioso Giovannino Guareschi, che fu tra i primi a denunciarlo.

Più difficile, ovviamente, è riuscire ad imporre, nonostante l’evidenza storica, la tesi dell’intrinseca natura criminogena dell’ideologia comunista, per cui le foibe e i circa cento milioni di vittime dei tanti socialismi compiuti in nome del celebrato “Sol dell’avvenire”, non furono affatto effetti indesiderati dello stesso tentativo di realizzare sulla terra il paradiso socialista.

Secondo una leggenda balcanica, al termine di una uccisione e aver scaraventato nelle foibe i morti, i moribondi e le vittime ancor vive, si gettava anche la carcassa di un cane nero, affinché facesse la guardia alle anime delle vittime impedendo loro di affiorare e reclamare giustizia. Una leggenda, appunto, che dimostra però come, ancor oggi, la storia viene raccontata dai vincitori, violentando da cima a fondo la verità.

Spetta a noi fare in modo che le anime dei quindicimila infoibati non saranno mai dimenticate, perché se dovesse vincere l’oscuro guardiano della leggenda, sarebbe per tutti loro come morire una seconda volta.

La morte di Siena, il Primo dei miei maestri. In memoriam

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Nei mesi scorsi Giovanni Perez tenne un’istruzione per il nostro gruppo, proprio su Primo Siena, molto interessante e partecipata (n.d.r.)

di Giovanni Perez

Questo ricordo “In memoriam”  è un assai modesto segno di riconoscenza verso il “Primo” – di nome e di fatto – dei miei maestri, ora che si è concluso il suo viaggio terreno. Risalendo agli anni della mia formazione culturale, assieme a tanti altri di un’intera generazione,  che fu sollecitata soprattutto dall’impegno dedicato all’azione politica, tra coloro che furono capaci di offrire i necessari “Orientamenti”, Primo Siena è il primo nome che pongo in cima ai miei ricordi. Da allora, nonostante appartenessimo a generazioni diverse, si è cementata nel corso degli anni un’amicizia profonda, frutto di colloqui che, talvolta, sono sconfinati nelle rispettive sfere private. E poi, i tanti approfondimenti, gli aneddoti, i ricordi di una vita attraverso i quali si cercava di trovare il senso della nostra comune appartenenza al medesimo mondo umano, e perciò ideale e politico. Tutto questo fino al suo crollo fisico, dal quale, purtroppo, non si è più ripreso.

Parlerò allora di lui come si conviene nelle tristi occasioni come questa, lasciando emergere anche le parole del sentimento. Primo Siena nasce il 20 novembre 1927 a San Prospero, in provincia di Modena, da una famiglia della piccola borghesia rurale. Gli fu dato quel nome, a ricordo di uno zio morto in seguito alle percosse subite da parte di un gruppo di “bolscevichi”, date le sue ben note simpatie fasciste. Il 20 settembre del 1943, aderisce al fascio repubblicano di Modena, arruolandosi il 2 novembre nel 1° Btg. Battaglione Bersaglieri “Mussolini”, della R.S.I., costituitosi a Verona il 9 settembre. Aveva allora sedici anni.

Raggiunge la zona di guerra a nord di Gorizia il 1° dicembre e partecipa agli eventi bellici fino al 30 aprile del 1945, combattendo contro il IX Corpus partigiano jugoslavo, che minacciava il fronte orientale italiano. Dal 30 aprile fu prigioniero di guerra nel famigerato campo di concentramento di Borovnica, oggi in Slovenia, fino al 30 ottobre del 1945. Raggiunse la famiglia a Verona, dove si era trasferita anche per sottrarsi alle rappresaglie da parte dei partigiani dopo la “liberazione” nei famigerati triangoli della morte.

Il 17 marzo del 1947 aderisce al Movimento Sociale Italiano, svolgendo vari incarichi politici e mettendosi subito in luce per il suo impegno nel campo della cultura, affermandosi in sede nazionale soprattutto nel settore pedagogico e didattico, partecipando da protagonista alla sezione veronese del Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori guidata in sede nazionale da Roberto Mieville, diventando dirigente provinciale e nazionale della Cisnal-Scuola e consigliere comunale a Verona negli anni del famigerato “Arco costituzionale antifascista” e della repressione del “Sistema”, guadagnandosi la stima di molti suoi avversari politici.

Collaboratore del “Risveglio Nazionale” (1949-1953) fondato da Gaetano Rasi e Cesare Pozzo, diresse con Carlo Amedeo Gamba e Carlo Casalena la rivista “Cantiere. Rassegna di critica e cultura politica” (1950-1953), per poi fondare e dirigere con Gaetano Rasi, “Carattere. Rivista di fatti e di idee” (1955-1963). Si tratta di riviste in cui Siena apportò il proprio orientamento cattolico-tradizionale, ma che erano comunque aperte anche ad altri contributi ideali e dottrinari. Proprio quest’ultima rivista rimane sicuramente la sua migliore iniziativa editoriale, in cui i temi etici e pedagogici diventarono per certi versi ancor più importanti di quelli politici e storici.

Dopo aver combattuto il comunismo nella sua manifestazione storica e militare, difendendo il fronte italiano orientale dagli assalti dei partigiani di Tito, una volta tornato ai suoi studi, Siena si pose la domanda se quella giovanile scelta di combattere dalla parte di chi era sicuramente destinato alla sconfitta, fosse davvero stata quella giusta. La risposta a questa domanda cruciale, quanto drammatica, si trova ora consegnata nelle pagine del libro Le alienazioni del secolo, in cui vengono sottoposte a critica le ideologie precedentemente combattute in una guerra vissuta, soprattutto, come guerra ideologica: la democrazia contrattualistica, il liberalismo laicistico, il social-comunismo. Questo libro venne pubblicato nel 1959 e fu premiato come manoscritto due anni prima, al concorso del “Premio Angelicum” dall’allora Mons. Montini, il futuro Paolo VI.

Sotto la guida di due autentici maestri, Umberto A. Padovani e Marino Gentile,  Siena si laureò in pedagogia nel 1964. Università di Padova, orientandosi verso un Cristianesimo in quegli anni testimoniato dalla rivista “L’Ultima”, fondata da Giovanni Papini e diretta da Adolfo Oxilia, per poi intraprendere un percorso di realizzazione interiore che lo porterà ad aderire al progetto cui diede vita la Rivista di Studi Tradizionali “Metapolitica”, animata da Silvano Panunzio, che divenne il suo definitivo punto di riferimento.

Lungo gli anni Sessanta, gli anni del Concilio Vaticano II, lo scontro tra le due anime della cultura cattolica, quella tradizionalista e antimodernista da una parte, quella progressista o modernista dall’altra, divenne particolarmente acuto, imponendo una radicale scelta di campo, che preludeva ad una adesione o meno alla Democrazia Cristiana, in nome del principio dell’unità politica dei cattolici in Italia. La scelta operata da Siena per il primo dei due campi, era in linea non solo con l’impronta esercitata dalla figura materna, ma con il magistero dei suoi maestri di sempre: Guido Manacorda, Attilio Mordini, Romano Guardini, Armando Carlini, Silvano Panunzio; scelta condivisa anche da altri illustri intellettuali della sua generazione, con i quali condivise un entusiasmante quanto difficile impegno politico: Fausto Belfiori, Fausto Gianfranceschi, Gianfranco Legitimo, Tazio Poltronieri, Giuseppe Spadaro, Piero Vassallo, Massimo Anderson, Pietro Cerullo.

Tra gli altri maestri incontrati da Siena nella metaforica “Terra di Mezzo”, Giovanni Gentile, Alexis Carrel, Michele Federico Sciacca, Russell Kirk, Giovanni Papini, Ferdinando Tirinnanzi, Vintila Horia e, nonostante la ben diversa declinazione dell’idea di Tradizione, Julius Evola, nei cui confronti c’è un debito di riconoscenza che risale agli anni in cui Siena appartenne al movimento giovanile del MSI, noto con l’appellativo di “Figli del Sole”, che lo distingue da altri pensatori cattolici tradizionalisti ai quali quel nome risultava invece del tutto inviso.

Ma la figura di pensatore e insieme di uomo d’azione, al quale a noi pare dover associare Primo Siena è quella di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange Española, splendida figura di militante politico e intellettuale, incarnazione pura del motto paolino: Vita militia est!. Il capo della Falange, che, peraltro, accettava alcune delle critiche rivolte del marxismo al capitalismo, andando però al di là di esse, in nome di una più ampia e integrale concezione dell’uomo, fu fucilato dai social-comunisti durante la guerra civile nel 1936.

Una volta messo da parte l’impegno partitico, Siena ha approfondito una già intensa attività pubblicistica, collaborando alle principali riviste che formarono quella cultura di destra, alla quale egli contribuì soprattutto seguendo la sua vocazione di pedagogista, perciò rivolgendosi ai giovani, nei quali vedeva perpetuarsi il futuro di idee e ideali dal sapore antico e perciò perennemente attuale.

In qualità di direttore delle Scuole Italiane all’estero, Siena fu dapprima in Somalia, per poi passare nel 1978 all’area dell’America latina, in Perù e in Cile. In quella nuova realtà, ancora muovendosi sul doppio binario dell’impegno politico e culturale, Siena si è distinto nell’ambito dell’Associazione degli Italiani all’estero, guardando con interesse e curiosità ogni metamorfosi del mondo della Destra, ai cui principi egli richiamò costantemente l’attenzione dei nuovi protagonisti venuti via via alla ribalta.

Nel 1996, Siena acconsentì allo scrivente di dar vita ad una nuova serie di “Carattere”, con sottotitolo “Rassegna di cultura politica e scienze dell’uomo”, stabilendo così non solo una sorta di continuità ideale, ma un mio debito di riconoscenza nei suo confronti da parte mia, non tanto a titolo individuale, ma a nome di una generazione alla quale la sua opera aveva dato moltissimo. Il mio articolo di apertura si intitolava Per non disperdere un’eredità, quello di Siena, Per una cultura militante nel segno della continuità. Nei due numeri successivi, stampati nel 1997 e nel 2000, i suoi contributi si intitolarono: Romano Guardini. Il tramonto dell’epoca moderna e Dalla società individualista alla “Respubblica” partecipativa.

Nei suoi ultimi anni di attività, Siena si è dedicato alla Scuola italiana di Santiago, ricoprendo altresì il ruolo di rappresentante della comunità italiana del Cile, senza mai perdere i legami con la madre patria, dove un nucleo di estimatori, non solo a Verona, si dedica alla diffusione delle sue opera e all’approfondimento delle idee, ma anche delle provocazioni in esse contenute.

PRIMO SIENA. BIBLIOGRAFIA

Uomini tra la vita e la storia, (in collaborazione), C.E.N., Roma 1955.

Le alienazioni del secolo, Cantiere, Padova 1959

Il profeta della Chiesa proletaria (Emmanuel Mounier), Edizioni dell’Albero, Torino 1965.

Donoso Cortés, Edizioni Volpe, Roma 1966.

Giovanni Gentile, Edizioni Volpe, Roma 1966.

Da Cesare a Mussolini. Storia dell’itala gente, 2 voll., C.E.N., Roma 1967.

José Antonio Primo de Rivera. Scritti e discorsi di battaglia, (a cura di), Edizioni Volpe, Roma 1967 (nuova edizione Settimo Sigillo, Roma 1993).

Arriba España, (in collaborazione), C.E.N., Roma 1969.

Corporativismo e libertà. Verso un nuovo tipo di rappresentanza,Istituto di Studi Corporativi, Roma 1972.

Riforma della Scuola Italiana nel tempo europeo, Gnomes, Roma 1972.

Modello ispiratore del nuovo stato giuridico della Scuola italiana, in Almirante-Siena-Ruggiero, Salvare la scuola dal comunismo, Edizioni d.n., Roma 1974.

Alexis Carrel. Patologia della civiltà moderna, (a cura di), Edizioni Volpe, Roma 1974 (nuova edizione Il Segno, Verona 1995).

La concezione organica, in Il corporativismo è libertà, Istituto di Studi Corporativi, Roma (s.d. ma 1976), pp. 9-12.

I feticci dell’educazione contemporanea, Edizioni Thule, Palermo 1979.

Scuola del malessere, Società Editrice Il Falco, Milano 1983.

Per una «Carta della Gioventù», ora in Julius Evola, Idee per una Destra, Europa Libreria Editrice, Roma 1997, pp.61-64.

Para entender el Señor de los Anillos, (In collaborazione), UGM, Santiago de Chile 2004.

La marcia su Roma vista da Verona, il “terzofascio” fondato appena due giorni dopo San Sepolcro

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di Giovanni Perez

Il ritorno dei reduci della Grande guerra, in ogni città dell’Italia vittoriosa, fu seguito dalla medesima situazione di scontro politico e sociale, che, soprattutto, si svolse nelle città del Nord. Quei reduci avevano vissuto Caporetto, il Grappa, il Piave e Vittorio Veneto, avevano messo in gioco la propria vita per il bene superiore della Patria, avevano condiviso nelle trincee un cameratismo che tutti li accomunava, oltre le loro differenze e le regioni di provenienza; avevano acquisito per il resto dei loro giorni lo spirito cameratesco del fronte, in cui risuonava l’eco delle urla, delle bombe, dei reticolati, delle tempeste di fuoco. Era una generazione divenuta adulta guardando in faccia la morte, e ora doveva troppo in fretta affrontare una nuova vita.

Finita quella guerra, presero corpo non pochi miti: quello della vittoria mutilata, primo di ogni altro. Gabriele d’Annunzio, una leggenda vivente, diffondeva anche in politica uno stile, fatto di canti, divise, gagliardetti e formule dal sapore antico, come il celebre “Eia, eia, alalà!”, conquistando l’italianissima Fiume, in un’impresa partita da Ronchi il 12 settembre 1919 e coronata con la visionaria Carta del Carnaro, prima del tragico epilogo.

I socialisti aizzarono le masse contadine e operaie, contrapponendo italiani contro italiani, cercando quella rivoluzione che doveva portare anche in Italia le soluzioni imposte in Russia dai bolscevichi guidati da Lenin. Ma a fronteggiare i sovversivi vi furono proprio molti di quei reduci, che, smessa la divisa da alpino o da granatiere, avevano indossato la camicia nera. Mussolini colse nella sua drammaticità l’impotenza della classe politica liberale, la sua inadeguatezza e incapacità di fronte alla drammaticità del momento. Incapacità di fronteggiare il «pericolo rosso» che, arrivato alla sua fase estrema nel “biennio rosso”, con l’occupazione delle fabbriche e gli scioperi generali, si scontrò con le squadre fasciste, formate dai reduci e dagli arditi, da nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari, futuristi. Il tentativo di realizzare anche in Italia la rivoluzione socialista e comunista, con il suo progetto collettivista, la sua negazione della proprietà, della patria, dello Stato, della religione, fu sconfitto.

Furono anni in cui la lotta politica si combatté anche con la violenza, che oggi viene identificata solo con quella dello squadrismo, sebbene la realtà storica sia molto diversa, e si potrebbe cominciare con il ricordare il cruento episodio occorso ad Empoli, dove i socialisti uccisero e seviziarono diversi carabinieri e marinai, gettandone i corpi nell’Arno. Si potrebbe così continuare ricordando l’attentato al Teatro Diana e il tragico episodio dell’eccidio di Sarzana, che costò la vita a ben diciotto fascisti, cui era stato teso un agguato in un clima assurdamente festoso, da Rivoluzione francese. Questo era il clima e alla violenza dei social-comunisti, tra i quali si distinsero per ferocia gli “arditi del popolo”, si rispondeva con la violenza.

Nel medesimo crogiuolo, come si disse, finirono, in attesa di una sintesi, le varie reazioni spiritualistiche che si contrapposero al positivismo e al materialismo, una dottrina dello Stato espressione della nazione, i principi di una riforma della pedagogia e della Scuola, molte idee artistiche e letterarie oscillanti fra tradizione e modernità. In altri campi, s’imposero dottrine ispirate dal nazionalismo, dal sindacalismo rivoluzionario e dalla dottrina sociale della Chiesa, che invocavano il superamento delle concezioni economiche del liberismo e del socialismo. Da tutto questo retroterra fatto di dottrine, miti e simboli, attinse Mussolini per il suo tentativo rivoluzionario di edificare lo Stato nuovo, mentre altri elementi del primo programma fascista vennero invece messi da parte, come l’opzione repubblicana, in nome di un Fascismo come prosecuzione del Risorgimento nazionale.

Aderirono al fascismo filosofi provenienti dall’idealismo, come Giovanni Gentile, letterati e artisti, come Luigi Pirandello, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Sironi ed anche scienziati, come Guglielmo Marconi e Orso Mario Corbino. Qualcuno ipotizzò che la nuova Italia fascista potesse creare un nuovo tipo umano, forgiato da una specifica etica; altri videro nella dottrina del corporativismo il superamento dell’egoismo capitalistico, così come della lotta di classe; altri ancora videro nel mito della “Giovinezza” l’occasione per realizzare una nuova idea di città, sperimentando inedite concezioni architettoniche e urbanistiche. Per quegli uomini nel simbolo del fascio non si intravedevano gli aspetti liberticidi del totalitarismo, ma quelli della ritrovata concordia nazionale, dell’appartenenza ad un comune destino, il prevalere del bene comune su quello degli egoismi di parte. Vennero perciò, nonostante le leggi del 1925 e la dittatura, come riconobbe il grande storico Renzo De Felice, gli “anni del consenso” al Regime, con tanto di riconciliazione con la Chiesa, al punto che in Mussolini si vide l’uomo della Provvidenza e il crocifisso, che era stato bandito dalle scuole, vi ritornò.

Quel consenso fu diffuso e sincero, almeno fino all’avvicinamento con la Germania e la promulgazione nel 1938 delle Leggi sulla difesa della razza italiana. Molti fascisti di origine ebraica, la cui storia non è stata ancora adeguatamente considerata, videro crollare la propria fede nel Regime, che loro stessi avevano contribuito a edificare; un nome per tutti loro, quello di Gino Arias, che fu tra i maggiori teorici del corporativismo.

Il primo Fascio di combattimento fu creato a Milano, in Piazza San Sepolcro, il 23 marzo del 1919. A Verona, dove fu fondato il Fascio Terzogenito soltanto due giorni dopo, su iniziativa di Italo Bresciani, Mussolini aveva vissuto alcune pagine molto significative della sua vita, come raccontò Carlo Manzini in un suo celebre libro Il Duce a Verona. Dal 1905 al 1938.

Anche da Verona i giovani fascisti partirono alla volta di Roma, e fu il 28 ottobre, quando, sotto la reggia sfilarono cinquantamila camicie nere, inneggianti alla grandezza della patria italiana. Il Re non volle spargimento di sangue e l’esercito li aveva perciò lasciati sfilare, semmai solidarizzando con loro, in nome proprio di quel comune “spirito del fronte” mai tramontato, così come del resto era accaduto a Napoli, il 23 precedente, quando vi fu una sorta di prova generale con un’adunata cui partecipò lo stesso Mussolini.

In terra scaligera aderiranno al fascismo eminenti protagonisti della cultura, non solo locale: Alberto de’ Stefani, Luigi Messedaglia, Guido Valeriano Callegari, Umberto Grancelli, Siro Contri, Paolo Bonatelli, Egidio Curi, Michele Lecce. A questi nomi aggiungerei Guido Fracastoro, discendente del ben più celebre e celebrato Girolamo e Bruno Aschieri, tra i fondatori agli inizi degli anni Trenta del Gruppo futurista veronese, poi intitolato a Umberto Boccioni.

Fracastoro fu autore di una rievocazione autobiografica che prende le mosse negli anni “della lotta anticomunista del dopoguerra”, in nome di una rivolta ideale poi sfociata nella rivoluzione del 28 ottobre, intitolata Noi squadristi, pubblicata nel 1939 e dedicata alla figura del padre, un fascista della prima ora, che conobbe appena, giusto in tempo per riceverne le consegne. Aschieri ci ha lasciato una gustosa rievocazione intitolata Squadrismo veronese in miniatura nel 1921, pubblicata nel 1934, in cui ricostruisce la genesi dell’Avanguardia studentesca fascista a Verona nel 1920.

Un po’ futurista si definì peraltro il settimanale “Audacia”. Organo di battaglia dei Fasci di Combattimento di Verona e Provincia”, diretto da Edoardo Malusardi, che uscì il 15 gennaio 1921, la cui consultazione per comprendere e ricostruire gli esordi del Fascismo veronese è ancora oggi essenziale.

Edoardo Pantano fu tra i giovani sostenitori di “Audacia” e oggi suo figlio Antonio, ha scritto un libro in cui si ricostruisce l’amicizia tra suo padre e Angelo Dall’Oca Bianca, il celebre artista che aderì convintamente al Fascismo e che aveva conosciuto Mussolini ancor prima della Grande guerra. Dall’Oca morì nel maggio del 1942, prima del crollo di quel mondo in cui aveva creduto, ma fece in tempo a progettare e costruire un “Villaggio” per i veronesi meno abbienti, che portava il suo nome ed è ancora oggi parzialmente abitato, quasi a testimoniare la metafora di una eredità incancellabile.

Pubblicato anche sul quotidiano L’Adige: https://www.giornaleadige.it/la-marcia-su-roma-vista-da-verona-il-terzofascio-fondato-appena-due-giorni-dopo-san-sepolcro/