Asse Mosca-Pechino 2.0

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di Alexandr Dugin

 

Fonte: Ideazione

La visita del capo della Repubblica Popolare Cinese a Mosca è percepita in tutto il mondo come simbolica. Non è un caso che i leader di Cina e Russia abbiano preceduto questo incontro con articoli di programma. Putin ha descritto come vede le relazioni con la Cina, Xi Jinping ha dato la sua valutazione. In generale, le posizioni dei due leader mondiali coincidono: Cina e Russia sono partner strategici stretti che rifiutano l’egemonia dell’Occidente moderno e sostengono coerentemente un mondo multipolare. Sia Xi Jinping che Putin danno nei loro testi un quadro completo del mondo: il mondo è già multipolare, con la Cina, la Russia e l’Occidente collettivo come poli più consolidati; allo stesso tempo, entrambi i leader sottolineano che né la Cina né la Russia cercano di imporre il proprio modello agli altri popoli, riconoscendo il diritto di ogni civiltà di svilupparsi secondo la propria logica, cioè di diventare un polo a pieno titolo con un sistema di valori sovrano. L’Occidente aderisce all’atteggiamento esattamente opposto e non rinuncia alla speranza di salvare il modello unipolare, che si è completamente screditato – con un’unica ideologia (liberale), con il sistema delle politiche di genere, le migrazioni illimitate, la totale mescolanza delle società e il postumanesimo. Russia e Cina rifiutano unanimemente l’egemonia occidentale e dichiarano la loro incrollabile volontà di costruire un mondo multipolare democratico e veramente libero.
Lo stesso incontro tra Xi Jinping e Putin a Mosca sarà una sorta di sigillo, che suggella un documento sull’era del multipolarismo.
Entrambi i leader hanno sottolineato il significato positivo del piano proposto da Pechino per risolvere il conflitto ucraino e Xi Jinping ha ricordato ancora una volta la necessità della pace e Putin ha riconosciuto le proposte cinesi come ragionevoli e razionali. Un’altra cosa è che l’Occidente e il regime nazista di Kiev hanno rifiutato categoricamente il piano di Xi Jinping senza nemmeno iniziare a discuterlo o a prenderlo in considerazione. Pertanto, è improbabile che abbia una grande importanza, ma la sua stessa esistenza e l’accordo di principio da parte delle due grandi potenze è già un grosso problema.
Sia il conflitto in Ucraina che l’escalation intorno a Taiwan sono generalmente interpretati dai leader di Russia e Cina allo stesso modo, attribuendo la colpa alla politica aggressiva e provocatoria dell’Occidente.
Ora è opportuno spendere qualche parola su come la visita viene percepita a Mosca. Il punto di vista prevalente è generalmente coerente con le affermazioni programmatiche dei nostri leader. Si tratta di una dichiarazione di un mondo multipolare, basato sulla più stretta alleanza geopolitica e di civiltà tra Cina e Russia, pronta a respingere le pressioni dell’Occidente egemone e che offre l’ingresso nel club multipolare alle altre civiltà – islamica, indiana, africana, latinoamericana e, in futuro, allo stesso Occidente – se le élite occidentali rinunceranno al globalismo e all’unipolarismo.
Anche l’accordo su un piano per la risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina sottolinea la vicinanza delle nostre posizioni, anche se, dato che l’Occidente e il regime di Zelensky ignorano completamente il progetto cinese, è improbabile che esso abbia una dimensione reale nel prossimo futuro.
Per Mosca, la visita del presidente Xi in un momento così difficile è molto importante. Dimostra che la grande potenza cinese non è affatto solidale con i tentativi di isolare la Russia sulla scena internazionale, come cerca di fare l’Occidente, e che le relazioni tra Paesi e popoli sono a un picco storico.
Questo è più o meno il modo in cui la comunità di esperti russi responsabili vede la visita di Xi Jinping. Si tratta di un gesto simbolico dell’affermata multipolarità rappresentata da due leader mondiali che concordano pienamente tra loro sui principali parametri del futuro.
Tuttavia, in Russia si sentono anche altre voci si sente l’opinione che la Cina stia facendo il proprio gioco, che non abbia intenzione di aiutare la Russia nel suo confronto frontale con l’Occidente e che sia pronta ad avviare negoziati separati con Washington. Ciò è tanto più possibile in quanto l’economia cinese è troppo dipendente dai mercati occidentali e la Cina stessa non è ancora pronta per un conflitto frontale con l’Occidente e cercherà di rimandarlo il più possibile o di evitarlo del tutto, ma nel frattempo la Russia potrebbe essere caduta in difficoltà. L’argomento principale di questi timori è la mancanza di disponibilità della Cina a fornire assistenza militare alla Russia.
Dal mio punto di vista, questi timori si spiegano con il fatto che molti in Russia non comprendono la peculiarità della politica cinese, che consiste in un calcolo deliberato di molte opzioni diverse e si basa principalmente sulla protezione degli interessi nazionali della Cina come Stato. Gli osservatori russi, che temono un tradimento da parte della Cina, non comprendono la strategia cinese stessa, il sogno cinese, che mira alla prosperità del sistema socialista, all’impero confuciano e alla costruzione di un sistema armonioso di relazioni internazionali. La Russia si trova oggi in un confronto più diretto con l’Occidente. La Cina è ben consapevole che la Russia si fa pagare il contraccolpo da se stessa, cioè che la nostra guerra è la sua guerra, o meglio l’assenza di guerra, il suo rinvio. Il sogno cinese è possibile solo con la piena sovranità geopolitica e civile della Cina, e quindi è incompatibile con l’egemonia occidentale e la dittatura liberale. Pertanto, la Cina sarà dalla parte della Russia non solo per ragioni opportunistiche, dalle quali potrebbe ritirarsi in qualsiasi momento se la situazione dovesse cambiare, ma per il suo orientamento strategico verso la piena indipendenza. Allo stesso tempo non ci si deve aspettare che la Cina compia passi troppo drastici nel sostenere militarmente la Russia. Sarebbe del tutto anti-cinese, ma ci sono molti altri modi per aiutare l’amico in una situazione difficile.
Il secondo tipo di critica alle relazioni Russia-Cina deriva dal fatto che la Cina è un gigante economico e demografico. Un riavvicinamento con la Russia la trasformerebbe automaticamente in un partner minore e dipendente, le cui terre e risorse potrebbero sembrare una facile preda per la Cina in rapido sviluppo. Questo timore è logico, ma in pratica si riduce al fatto che insieme la Cina farebbe meglio a preferire l’Occidente. E qui finisce la logica. Siamo in guerra con l’Occidente, ma siamo amici della Cina e l’Occidente nelle sue relazioni con la Russia insiste sulla sua completa subordinazione alle élite liberali occidentali e ai loro rappresentanti russi. La Cina, invece, non impone nulla e la sua strategia è completamente trasparente e razionale.
La risposta a questo timore sarebbe quella di rafforzare la propria identità russa, di compiere una netta svolta nell’economia e nell’industria e di perseguire una politica demografica intelligente. La Russia rischia di diventare un vassallo della Cina solo se si indebolisce completamente e perde la propria sovranità; tuttavia Putin, al contrario, sta cercando di rafforzare la sua sovranità. Pertanto, tutte le proporzioni di uguaglianza e mutuo vantaggio nelle relazioni russo-cinesi saranno rispettate. Il resto dipende solo dalla Russia: la Cina si comporta in modo coerente, prevedibile e aperto. Non ha piani imperialistici nei confronti della Russia (e di altre nazioni).
In ogni caso, la visita di Xi Jinping a Mosca apre una nuova pagina nelle relazioni internazionali. Si tratta di un punto cruciale nello sviluppo del dialogo e della cooperazione non solo tra due grandi Stati, ma anche tra due Civiltà, non è un caso che sia Xi Jinping che Putin abbiano menzionato la necessità di sviluppare la cooperazione umanitaria, progetti educativi, culturali e scientifici comuni. Per conoscersi meglio, è importante che cinesi e russi non si limitino a commerciare ma siano anche amici, proprio come lo sono i popoli e le culture, interessati l’uno all’altro e impegnati a capirsi. L’amicizia personale tra Xi Jinping e Putin è un modello, un archetipo, ma è importante che l’asse Mosca-Pechino 2.0 non si limiti alla comunicazione dei leader di Stato, ma coinvolga anche l’élite intellettuale, i creatori, gli artisti, gli scienziati e la gente comune. Per molti versi, l’Occidente si è chiuso alla Russia. D’altro canto, la Cina, che sta uscendo da una pandemia, sta aprendo le porte ai russi.

ALEKSANDR DUGIN (Mosca, 1962), filosofo e sociologo. Fondatore della scuola geopolitica russa e del Movimento Eurasiatico. Dugin è considerato uno dei più importanti esponenti del pensiero conservatore russo moderno in linea con la tradizione della corrente filosofica, politica e letteraria degli slavofili. Dugin è dottore in Sociologia e Scienze Politiche, PhD in Filosofia e Sociologia. Per 6 anni (2008 – 2014) è stato a capo del Dipartimento di Sociologia delle Relazioni Internazionali della Facoltà di Sociologia dell’Università Statale di Mosca. È autore di oltre 40 libri. Dal 2018 insegna all’Università Fudan​ di​ Shanghai.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

 

Per approfondire: https://ariannaeditrice.musvc2.net/e/t?q=5%3dTaDWW%26C%3d0%26F%3dQVDY%26B%3dRBST%26L%3dpLGG1_JntX_Ux_IYum_Sn_JntX_T3N5O.xIq3AEi7102J64m.AG_IYum_Sn3EKq5BCq_JntX_T321K2-DwKz2-x7z3x2i9qFB-S-H%266%3d0L1NzS.v7G%2601%3dXSSB&mupckp=mupAtu4m8OiX0wt

 

Russia e Cina contribuiscono al rafforzamento del mondo multipolare

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di Giulio Chinappi

La visita di Xi Jinping in Russia mostra il cammino della giusta strada da intraprendere nelle relazioni internazionali, rafforzando il mondo multipolare in contrasto con le spinte egemoniche di altre potenze, e perseguendo la pace in luogo del conflitto.

La visita ufficiale del presidente cinese Xi Jinping in Russia rappresenta certamente un evento di grande importanza dal punto di vista delle relazioni internazionali, come dimostra l’attenzione mediatica che ha suscitato in tutto il mondo. L’incontro tra Xi e il suo omologo russo Vladimir Putin costituisce un fulgido esempio di come coltivare relazioni amichevoli tra Paesi, segnando un punto in favore del rafforzamento del mondo multipolare. Al contrario di altre potenze che vanno alla ricerca dell’egemonia, infatti, Russia e Cina promuovono relazioni volte al mutuo vantaggio e nel rispetto reciproco.

“Nel complesso, la nostra interazione sulla scena internazionale contribuisce indubbiamente a rafforzare i principi fondamentali dell’ordine mondiale e del sistema multipolare”, ha affermato Putin nel corso del suo incontro con il leader cinese.

“È per me un grande piacere mettere piede ancora una volta sul suolo della Russia, nostro vicino e amico, e fare una visita di Stato nella Federazione Russa su invito del presidente Vladimir Putin”, ha detto Xi Jinping al suo arrivo a Mosca. “A nome del governo e del popolo cinese, desidero porgere calorosi saluti e auguri al governo e al popolo russo”, ha aggiunto. “Cina e Russia sono vicini amichevoli e partner affidabili collegati da montagne e fiumi condivisi”, ha sottolineato ancora il presidente cinese.

“Negli ultimi dieci anni, i nostri due Paesi hanno consolidato e ampliato le relazioni bilaterali sulla base della non alleanza, del non confronto e del non prendere di mira terze parti, e hanno dato un ottimo esempio per lo sviluppo di un nuovo modello di relazioni tra i principali Paesi caratterizzato rispetto reciproco, convivenza pacifica e cooperazione vantaggiosa per tutti”, ha spiegato Xi Jinping nel corso del suo intervento.

In risposta alle ipocrite critiche occidentali, Xi Jinping ha spiegato che “consolidare e sviluppare positivamente le relazioni Cina-Russia è una scelta strategica che la Cina ha fatto sulla base dei propri interessi fondamentali e delle tendenze prevalenti nel mondo”. Un esempio che dovrebbero cogliere anche i Paesi europei, che invece preferiscono obbedire supinamente ai dettami provenienti dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico, anche sacrificando i propri interessi nazionali.

Nonostante il difficile momento a livello internazionale e l’intricata situazione ucraina, le relazioni bilaterali tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese sono oggi ai massimi storici. La visita dI Xi Jinping non potrà dunque che portare benefici ad entrambi i Paesi e ai rispettivi popoli, promuovendo la pace e lo sviluppo nella regione e nel mondo. Alla vigilia della sua partenza per Mosca, Xi Jinping ha pubblicato un articolo sulla stampa cinese, nel quale afferma che “Cina e Russia hanno trovato la giusta via delle interazioni tra Stato e Stato. Questo è essenziale affinché la relazione resista alla prova delle mutevoli circostanze internazionali, una lezione confermata sia dalla storia che dalla realtà”.

La Cina e la Russia stanno dando vita ad un nuovo modello per le relazioni internazionali, che respinge la mentalità del conflitto tipica delle potenze imperialiste occidentali, a partire dagli Stati Uniti. In coerenza con i fondamenti teorici della propria politica estera, Pechino si impegna a coltivare relazioni basate su rispetto reciproco, equità, giustizia e cooperazione vantaggiosa per tutti. “L’esperienza che Cina e Russia hanno sperimentato e accumulato in una cooperazione amichevole e reciprocamente vantaggiosa a lungo termine non sarà minata e disintegrata da pressioni esterne. Essa ha anche un significativo effetto dimostrativo positivo sull’esplorazione del modello delle relazioni tra i principali Paesi basate sulla coesistenza pacifica, sulla stabilità generale e sullo sviluppo equilibrato”, si legge in un editoriale pubblicato dal Global Times.

Dopo lo storico successo ottenuto nella mediazione per l’accordo tra Iran e Arabia Saudita, la Cina dimostra ancora di essere portatrice di pace, promuovendo la fine delle ostilità in Ucraina. Gli esperti hanno infatti affermato che il viaggio di Xi non mira solo ai legami bilaterali, ma cercherà anche di portare speranza per una soluzione pacifica della complicata crisi in corso. Neppure un mese fa, la Cina ha rilasciato la sua posizione sulla soluzione politica della crisi ucraina, suscitando le reazioni negative da parte degli Stati Uniti, che hanno immediatamente respinto la proposta di pace formulata da Pechino. Tuttavia, persino l’Ucraina, coinvolta direttamente nel conflitto, ha dimostrato di apprezzare la proposta cinese. In una telefonata con il consigliere di Stato cinese e ministro degli Esteri Qin Gang, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha affermato che il documento di posizione della Cina mostra la sua sincerità nel promuovere un cessate il fuoco e la fine del conflitto.

Li Haidong, professore presso l’Istituto di relazioni internazionali dell’Università Cinese degli Affari Esteri, ha messo in evidenza l’ipocrisia della posizione statunitense: “Il cessate il fuoco mira a fermare lo spargimento di sangue e porre fine al dolore sia per il popolo ucraino che per quello russo, nonché a porre fine alla paura che sta oscurando il continente europeo. Nessuno si aspetta che il cessate il fuoco metta immediatamente fine a ogni problema, ma è la precondizione affinché Mosca e Kiev risolvano i loro problemi con i colloqui, non con la guerra. A cosa si oppongono effettivamente gli Stati Uniti e perché?”. “L’opposizione degli Stati Uniti a un cessate il fuoco e la richiesta della Cina per esso dimostra la differenza più evidente tra l’intenzione egoista e viziosa degli Stati Uniti, che riflette solo l’interesse della forza che beneficia del conflitto mortale, e il comune desiderio di speranza condiviso dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale”, ha aggiunto l’accademico cinese.

Dopo il già citato successo dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita, la Cina è oggi l’unica potenza che ha la credibilità internazionale necessaria per mediare tra Russia e Ucraina, in quanto Paese che ha mantenuto una posizione neutrale dall’inizio del conflitto. Certamente non si può dire lo stesso degli Stati Uniti, che continuano a sostenere spudoratamente Kiev, perdendo ogni tipo di credibilità agli occhi della comunità internazionale.

Pubblicato su World Politics Blog

 

Il mondo questa settimana

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dettaglio_putin_potere_820Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: il mandato di cattura contro Putin, la risposta della Cina al patto Aukus, il piano Ue per la decarbonizzazione e le materie prime, la riforma delle pensioni in Francia, il nuovo accordo tra Argentina e Fmi, le elezioni in Nigeria…

MANDATO DI CATTURA PER PUTIN [di Mirko Mussetti]

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il suo commissario per i diritti dei bambini Marija L’vova-Belova per deportazione illegale di minori ucraini. Secondo i giudici istruttori, vi sono «ragionevoli motivi per ritenere che i sospettati siano responsabili del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei fanciulli ucraini». Si stima che i bambini ucraini deportati dall’inizio dell’invasione russa siano circa 6 mila. I giudici hanno preso in considerazione l’emissione di un mandato segreto, ma infine hanno optato per il mandato pubblico per «contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati».

Il mandato di cattura spiccato contro Putin avviene a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che non classifica le azioni belliche della Russia come “genocidio”. La commissione indipendente dell’Onu conferma però la commissione di reati da parte delle forze di occupazione e definisce il trasferimento illegale di bambini al di fuori dell’Ucraina come “crimine di guerra”.

Mosca ha immediatamente bollato come insignificante la decisione della Corte. Infatti, al pari degli Stati Uniti (e della stessa Ucraina), la Russia non riconosce la giurisdizione della Cpi, non avendo mai ratificato lo statuto di Roma del 1998. Per questo genere di questioni, Mosca ritiene preminente la Corte internazionale di giustizia (Cig), che è organismo delle Nazioni Unite con sede anch’esso all’Aia (Paesi Bassi). L’atto ha valore simbolico ma è poco significativo in concreto. Tanto per cominciare, il presidente Putin dovrebbe essere catturato. Cosa piuttosto improbabile vista la sua riluttanza a uscire dai confini della Federazione. Inoltre anche in Russia è radicata la convinzione che a stabilire ciò che è crimine di guerra non sia un giudice terzo, bensì il vincitore. Ecco perché il Cremlino non se ne cura: la storia è scritta dai vincitori e la Russia confida nella vittoria definitiva in Ucraina. Le autorità ucraine hanno comunque salutato con favore la decisione della Cpi, che oltre a complicare i viaggi all’estero di Putin conferma la rottura diplomatica/istituzionale tra Occidente e Russkij Mir (mondo russo).

Non deve stupire il basso profilo adottato dagli Stati Uniti sulla questione. Il dipartimento della Difesa si è mostrato riluttante a condividere le prove di possibili crimini di guerra russi con la Cpi e il presidente Joe Biden non ha agito per risolvere le controversie che contrappongono il Pentagono ad altre agenzie, dipartimento di Stato in primis. Washington vuole infatti evitare di contribuire a creare un precedente. Un domani la stessa America potrebbe essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nelle guerre condotte negli ultimi trent’anni.


🎨 Carta inedita della settimana: La rotta del grano


LA CINA CONTRO AUKUS [di Giorgio Cuscito]

L’aspra replica del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese all’ufficializzazione dei dettagli dell’accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sui sottomarini a propulsione nucleare (il patto Aukus) conferma l’apprensione di Pechino circa il consolidamento della tattica di contenimento americano nell’Indo-Pacifico.

Contenimento che il governo di Xi Jinping vorrebbe scardinare tramite il presidio dei Mari Cinesi, il controllo di Taiwan (se necessario da conseguire manu militari), la penetrazione in Oceania con investimenti infrastrutturali nell’ambito delle nuove vie della seta e accordi securitari come quello concluso con le Isole Salomone.

Aukus mina questo progetto perché contribuisce alla proiezione militare dell’Australia in direzione della Repubblica Popolare (poco conta il fatto che i cinesi abbiano rimosso le restrizioni alle importazioni di carbone australiano) e getta le basi per nuove collaborazioni tra Canberra, Washington e Londra. Basti pensare al possibile sviluppo congiunto di missili ipersonici, vettore che Pechino sta testando da alcuni anni. Oppure alle molteplici iniziative militari e accademiche promosse da Usa, Australia, Giappone e India per allacciare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) alla Nato e favorire la collaborazione tecnologica tra rivali della Repubblica Popolare.

Il consolidamento del fronte anticinese in tale ambito – che coinvolge pure Taiwan – è una delle ragioni che nel 2023 spingerà Pechino a intensificare gli sforzi per perseguire la cosiddetta “autosufficienza” nel campo dei semiconduttori, cruciali a loro volta per il potenziamento del proprio arsenale militare. Non a caso i due obiettivi sono stati messi per iscritto durante le riunioni plenarie del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Cioè le “due sessioni” che hanno confermato Xi Jinping capo di Stato per la terza volta.


IL PIANO UE PER LA DECARBONIZZAZIONE [di Fabrizio Maronta] Net Zero Industry Act. Questo il nome del piano, presentato giovedì dalla Commissione europea, per incentivare e rafforzare le industrie europee a impatto carbonico neutro (cioè compensato, oltre che ridotto in partenza). Il piano, afferma Bruxelles, mira a “rendere il nostro sistema energetico più sicuro e sostenibile”, facendo sì che “le tecnologie a impatto carbonico neutro raggiungano almeno il 40% della capacità manifatturiera europea entro il 2030”. Ciò senza compromettere, anzi incentivando, “competitività, impieghi di qualità, indipendenza energetica”.
Il pregio del piano, o almeno delle sue intenzioni, è mettere da subito in chiaro il nesso ormai inscindibile tra problematica ambientale e suoi risvolti sociali e geopolitici. Sull’onda di Covid-19, guerra in Ucraina e scontro tecnologico Usa-Cina, perseguire la transizione energetica senza tener conto del contesto strategico e dei costi socioeconomici implica gettare alle ortiche la tanto decantata “sostenibilità”, relegando la decarbonizzazione al novero delle occasioni mancate.
Un assaggio del problema, meglio dei suoi possibili esiti si è avuto recentemente con l’iniziativa tedesco-italiana volta a ritardare la messa al bando dei motori endotermici, per comprare tempo a un’industria dell’auto che deve ripensare completamente filiere e tecnologie.
Due i nodi principali del piano europeo. Primo: i soldi. La Commissione europea stima in 400 miliardi di euro all’anno i costi per raggiungere i propri obbiettivi di decarbonizzazione entro il 2050. Ma tutto questo denaro nel piano non c’è, anche perché l’Ue manca di capacità fiscale propria. E in molti dubitano che i capitali privati possano mobilitare un simile volume d’investimenti per un periodo così ampio.
Il paragone immediato è con l’America, che gioca la sua partita di reindustrializzazione/decarbonizzazione a suon di incentivi pubblici: il Chips and Science Act stanzia 280 miliardi di dollari per promuovere ricerca e produzione interne dei semiconduttori; l’Inflation Reduction Act ne destina 369 all’energia pulita; il precedente Build Back Better mette sul piatto mille miliardi per rinnovare le infrastrutture nazionali. Non abbastanza, ma molto più di noi.
Il secondo problema sono le materie prime. La recente scoperta, nell’Artico svedese, di un grande deposito di terre rare da parte della società mineraria Lkab ha fatto il giro del mondo. Ma ci vorranno anni e – di nuovo – investimenti enormi per approssimare un’autosufficienza europea in questo settore critico per le tecnologie elettriche e informatiche. L’estrazione è solo il primo passo di una filiera (raffinazione, riciclo) su cui l’Europa è molto indietro. Al pari dell’America, certo, ma senza gli spazi fisici di questa dove ospitare siti vasti, altamente energivori ed ecologicamente impattanti.
Cruciale sarà poi capire quanto questo sforzo economico sia compatibile con l’aiuto alla ricostruzione ucraina, che sia annuncia tremendamente oneroso. Non stupirebbe se i paesi europei giungessero alla conclusione che i due compiti si elidono a vicenda, optando per concentrarsi (quasi) esclusivamente sul primo. Con quali conseguenze sulla stabilità ucraina e sulla relazione transatlantica, sarebbe tutto da vedere.

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


IL 49.3 CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO [di Agnese Rossi]

In Francia, il ricorso all’articolo 49.3 della costituzione ha permesso a Emmanuel Macron di far passare l’impopolare disegno di legge sulla riforma del sistema pensionistico senza discussione parlamentare. Il presidente, che non dispone di una maggioranza assoluta in Assemblea nazionale (la camera bassa del parlamento), ha preferito non esporre il progetto al voto, dunque al rischio di una bocciatura. I deputati hanno accolto l’annuncio della premier Élisabeth Borne fischiando e intonando la Marsigliese. Le forze di opposizione hanno quindi depositato venerdì una mozione di sfiducia transpartisan sottoscritta da 91 deputati di cinque gruppi politici che potrebbe portare allo scioglimento del governo (verrà esaminata lunedì). Nel pomeriggio di giovedì e nella notte seguente si sono registrati violenti focolai di protesta in diverse città della Francia, a partire da quello nella capitale in Place de la Concorde, la stessa che ha ospitato la ghigliottina nella stagione rivoluzionaria aperta dal 1789 e che ieri è stata teatro di aspri scontri tra le forze di polizia e migliaia di manifestanti.

La partecipazione popolare ampia e trasversale di ieri e delle precedenti giornate di mobilitazione rivela in primo luogo il valore simbolico e identitario che lega i cittadini della République al proprio sistema di protezione sociale, che fissa l’età pensionabile a 62 anni – una delle più basse in Europa – contro i 64 previsti dalla riforma. Ma anche una diffusa disponibilità alla violenza al fine di preservarlo nella forma attuale. Il sistema pensionistico dell’Esagono, cui viene tributato il 14,5% del pil, è in effetti uno dei più dispendiosi: il suo impianto generale risale al secondo dopoguerra, quando solo un terzo della popolazione viveva fino all’età della pensione. Le aspettative di vita sono negli anni gradualmente aumentate, ragion per cui tutti i presidenti da Mitterand in poi l’hanno riformato. Neanche il ricorso all’articolo 49.3 è di per sé inedito: si calcola che sia stato impiegato 100 volte nella storia della Quinta repubblica, l’ultima in ottobre per far passare la legge di bilancio. Inusitata è stata in proporzione la rabbia sociale manifestata dai cittadini francesi, alimentata dal rifiuto di Macron di confrontarsi con i sindacati. L’impopolarità del piano si comprende meglio alla luce del preesistente scontento nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, che ha fatto della riforma una missione personale.

Il secondo mandato è infatti per il presidente francese l’ultima occasione per consolidare la propria eredità politica. In questa chiave va letta non solo la riforma delle pensioni ma anche la parallela e altrettanto contestata riforma della diplomazia, su cui proprio ieri – nel mezzo del tumulto – Macron è tornato a insistere e che lo scorso giugno ha portato al raro spettacolo di uno sciopero al Quai d’Orsay (il ministero degli Esteri transalpino). Se Macron verrà ricordato come un abile riformatore o come un Giove distante e sordo alle esigenze reali del paese dipende anche dalle evoluzioni di questa vicenda. Che sembra comunque aver compromesso parte della sua legittimazione politica e popolare, aprendo allo spettro di una nuova ondata di malcontento.


L’ARGENTINA TRA FMI ED ECUADOR [di Federico Larsen]

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Argentina hanno raggiunto un nuovo accordo di revisione degli obiettivi pattuiti nel 2022 per il piano sul debito da 45 miliardi di dollari contratto da Buenos Aires nel 2018. Si tratta dell’aiuto più consistente mai elargito nella storia del Fmi, criticato dallo stesso staff tecnico del Fondo in un documento di revisione nel dicembre 2021: secondo quel rapporto, il supporto elargito è evidentemente troppo oneroso per essere restituito nei tempi pattuiti e buona parte dei fondi sono stati usati per sostenere artificiosamente il tipo di cambio col dollaro, invece di puntellare la debole economia argentina. Un mea culpa che spiega in parte certa flessibilità mostrata dall’organismo durante le negoziazioni con Buenos Aires e la disposizione a rivedere gli obiettivi stabiliti due anni fa, tenuto conto dei drastici cambiamenti del panorama economico mondiale e locale.
Ritoccati gli obiettivi sull’accumulo delle riserve dai 9,8 miliardi di dollari previsti originalmente per il 2024 a solamente 2 miliardi, l’Fmi rilascerà un nuovo pacchetto da 5,3 miliardi per coprire una tranche del debito del fallito piano di salvataggio dell’allora presidente Mauricio Macri, ma in cambio di nuovi tagli ai sussidi sull’energia e del raggiungimento della meta fiscale già accordata, che prevede di non sforare il 1,9% di deficit per quest’anno. Un traguardo che la maggior parte degli esperti in Argentina considera irraggiungibile. Solo nei mesi di gennaio e febbraio la siccità ha causato riduzioni nelle esportazioni agricole che significheranno una perdita di 15 miliardi di dollari per il fisco, mentre l’inflazione su base annua ha ormai superato il 100%, obbligando il governo a rivedere anche gli accordi salariali con i dipendenti pubblici e quindi ad aumentare le spese più del previsto.
Debito, inflazione e crisi sociale stanno facendo sfumare le già poche speranze di rielezione per l’attuale coalizione di governo e si moltiplicano le voci che propongono la dichiarazione di un nuovo default (bancarotta). Tra le soluzioni al drastico tracollo argentino si torna a parlare di Brics+: se hanno mantenuto gli scambi commerciali con la Russia nel pieno delle sanzioni per la guerra in Ucraina, perché non sostenerli con un’Argentina in bancarotta e tagliata fuori dal sistema di Bretton Woods?
Nemmeno le relazioni diplomatiche sembrano attraversare un momento del tutto positivo. Mercoledì il governo dell’Ecuador ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore argentino dopo che si è scoperto che l’ex ministra dei Trasporti – María de los Ángeles Duarte, condannata in patria a otto anni di prigione per corruzione e rifugiatasi nell’ambasciata argentina a Quito – era riuscita a raggiungere Caracas, dove ha chiesto lo status di rifugiata alla locale sede diplomatica argentina. Il governo di Guillermo Lasso accusa Buenos Aires di aver permesso la fuga di Duarte, che aggirando tutti i controlli delle autorità ecuadoriane ha messo in ridicolo l’esecutivo. Il presidente dell’Ecuador ripropone la vecchia dicotomia tra liberali e populisti in America Latina per alleviare le proprie responsabilità: così il suo omologo argentino Alberto Fernandez sarebbe complice dell’ex presidente della sinistra ecuadoriana Rafael Correa nel garantire l’impunità a Duarte d’accordo con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Un intreccio degno forse del passato protagonismo continentale dell’Argentina, che oggi sembra davvero molto lontano.


ELEZIONI IN NIGERIA [di Luciano Pollichieni]

Entrambi i partiti sconfitti alle elezioni presidenziali in Nigeria hanno annunciato di voler fare ricorso contro i risultati delle votazioni che hanno sancito la vittoria di Bola Tinubu.
Lo svolgimento delle elezioni in Nigeria non è stato lineare. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti? Con le regioni del nord-est oggetto delle scorribande di gruppi criminali, quelle nordoccidentali colpite dall’insurrezione dello Stato Islamico e violenze politiche diffuse, nessuno può biasimare la commissione elettorale indipendente (Inec) per non aver mantenuto gli standard garantiti. In secondo luogo, paradossalmente i ricorsi annunciati da Atiku Abubakar (candidato del People’s Democratic Party che ha raccolto il 29% dei voti) e da Peter Obi (Labour Party, 25,40% dei voti) non sono altro che il proseguimento per via giudiziaria di quella frammentazione geopolitica e identitaria che il processo elettorale ha semplicemente messo in luce.
Salvo colpi di scena, sempre dietro l’angolo nella politica nigeriana, sembra difficile che la Corte suprema possa ribaltare il risultato delle urne per almeno due motivi: primo, le obiezioni da parte degli sconfitti sono poco chiare, contraddittorie o molto generiche, come nel caso di Obi che ha denunciato un complotto ordito contro il suo partito senza spiegare da chi; secondo, l’imminenza delle prossime elezioni regionali. La Nigeria è chiamata sabato 18 marzo a eleggere 28 dei 36 governatori federali, incluso quello dello Stato di Lagos – feudo del presidente eletto Tinubu – e una pronuncia contro il risultato elettorale potrebbe generare una pericolosa reazione a catena di ricorsi anche nell’ambito delle regionali che getterebbero il paese nello stallo istituzionale, polarizzando ulteriormente l’elettorato.
Tra le numerose crisi interne e la richiesta ad Abuja da parte dei partners regionali e globali di un ruolo più proattivo nella geopolitica continentale e dell’Africa Occidentale, l’idea di un paese paralizzato per un mese in vista della pronuncia della Corte suprema non appare incoraggiante. Le elezioni vanno avanti, ma della nuova classe dirigente non c’è ancora traccia.

Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


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Fonte: https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-putin-cpi-ue-terre-rare-francia-cina-aukus-argentina-fmi-nigeria/131529

 

GLI AMICI DELLA RUSSIA SI RIUNISCONO CONTRO LA RUSSOFOBIA LIBERALE

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Si è tenuto a Mosca il congresso di fondazione del Movimento Internazionale Russofilo (IRM). Si è trattato del primo congresso di questo tipo, al quale hanno partecipato circa 90 rappresentanti di 42 Paesi, tra cui gli Stati della CSI, gli Stati Uniti, l’UE, l’Asia e l’Africa, ecc.

Lo scopo del congresso, nel contesto dell’operazione militare speciale in corso e della pressione delle sanzioni, è stato quello di dimostrare che l’interesse per la cultura, le tradizioni e la visione del mondo russi non fa che crescere nonostante i tentativi di isolamento internazionale e culturale a vari livelli. Nell’ambito del forum, le persone che condividono l’amore e l’interesse per la Russia hanno avuto l’opportunità di scambiare opinioni e contatti. È importante, anche a livello simbolico, che i MDR abbiano scelto il Museo Statale Pushkin come luogo di incontro. Museo Statale Pushkin, in segno di protesta contro l’abolizione della cultura russa in diversi Paesi del mondo.

Ai massimi livelli

L’evento è stato sostenuto ai massimi livelli in Russia. Alla vigilia della cerimonia di apertura, il Presidente russo Vladimir Putin ha inviato un telegramma di saluto ai partecipanti al congresso: secondo lui, “in molti Paesi si fomenta deliberatamente l’isteria antirussa, si perseguitano i nostri connazionali e coloro che simpatizzano con loro, si impongono divieti e restrizioni persino sulle opere dei grandi classici russi che appartengono al tesoro della cultura mondiale”.

Il messaggio di Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutte le Russie è stato letto da Konstantin Malofeev, vice capo del Consiglio Mondiale del Popolo Russo. Il Primate della Chiesa ortodossa russa ha benedetto i partecipanti al congresso, esortandoli a “stare insieme per la verità che consiste nel diritto di una persona di rimanere se stessa e di preservare la fede e le tradizioni dei suoi antenati”.

Il Ministero degli Esteri russo ha sostenuto la creazione del nuovo movimento internazionale. Il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov è intervenuto alla cerimonia di apertura del congresso, aggiungendo la geopolitica al tema della cultura. Secondo il ministro, la Russia e i suoi amici non sono mai “amici contro qualcuno” e non costringono gli altri ad adottare la loro posizione. Il ministro degli Esteri russo ha sottolineato che nell’attuale confronto con l’Occidente, la Russia non impone nulla a nessuno e tratta gli altri poli dell’emergente mondo multipolare come pari.

“I Paesi del Sud globale, la maggioranza del mondo, sono in grado di trarre conclusioni da soli”, ha detto il diplomatico, “Siamo tutti adulti, non trattiamoci con un atteggiamento arrogante – come fanno i nostri partner occidentali”.

Il ministro degli Esteri ha osservato che la civiltà occidentale sta degenerando perché è “ossessionata dalla sua grandezza” e dal suo “eccezionalismo”. Secondo il ministro, l’Occidente sta combattendo fino alla morte per mantenere la sua sfuggente egemonia sulla scena mondiale.

Il ministro degli Esteri ha inoltre definito la visita degli ospiti stranieri “un atto di coraggio” in un momento così difficile.

Il senatore Konstantin Kosachev e Leonid Slutsky, capo della fazione del Partito liberaldemocratico della Russia, hanno parlato a nome del Consiglio della Federazione e della Duma di Stato.

L’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico (ambasciatore del Vaticano) negli Stati Uniti, si è rivolto al Congresso dei russofili con un messaggio di benvenuto.

Tra coloro che si sono riuniti a Mosca il 14 marzo c’erano rappresentanti di famiglie aristocratiche, ex capi di governo, ex e attuali parlamentari, diplomatici e filosofi, giornalisti e rappresentanti di movimenti sociali.  Uno degli ospiti più brillanti del congresso è stato Steven Seagal, attore americano e inviato speciale del Ministero degli Esteri russo per le relazioni umanitarie con gli Stati Uniti e il Giappone.

Superare ostilità e disinformazione

Uno dei principali promotori dell’evento e autori del manifesto è stato Nikolai Malinov, leader del movimento nazionale russofilo bulgaro. Per le sue posizioni russofile, Malinov è stato inserito nelle liste di sanzioni degli Stati Uniti e del Regno Unito ed è stato anche accusato di “spionaggio” nel suo Paese. Il 14 marzo è stato eletto dai delegati del congresso come leader del Movimento russofilo internazionale.

Intervenendo al congresso del MDR, ha sottolineato che in Europa gli atteggiamenti russofili dominano gli atteggiamenti delle élite e sono diffusi attraverso i media, e lo scopo dell’evento è quello di ricordare l’amore per il popolo russo a livello internazionale. Secondo il manifesto, i partecipanti mostreranno come “l’ostilità, la disinformazione e la sfiducia possono essere superate nell’attuale mondo di conflitti”.

“Vedo il nostro movimento come un fronte separato che mostra che ci sono forze nel mondo che combatteranno, attraverso la diplomazia popolare, la russofobia che vieta ai gatti russi di partecipare alle competizioni, che cancella Pushkin, che vieta il discorso russo”, ha detto Malinov. Secondo lui, il compito della comunità russofila è quello di dimostrare che esistono forze capaci di resistere nonostante “gli strumenti finanziari e l’aggressione”.

Necessità di movimento

Come hanno notato i media, Nikolai Malinov parla da tempo del progetto di creare un movimento russofilo internazionale. L’operazione militare speciale della Russia iniziata il 24 febbraio 2022 è diventata un catalizzatore dei processi di divisione nel mondo. La divisione tra sostenitori dell’egemonia occidentale e i suoi oppositori. I sostenitori di un mondo libero multipolare, della diversità delle civiltà e delle culture, per il quale il pensiero russo, a partire da N.Y. Danilevskij, ha sempre sostenuto, e i sostenitori di un mondo unipolare liberale totalitario, in cui l’unica forma di libertà è la libertà di seguire lo standard liberale occidentale, sempre più limitato e ristretto.

La Russia negli ultimi anni per molti in Europa, Asia e Africa, America Latina e anche negli stessi Stati Uniti è diventata un simbolo della Tradizione, un’”arca di salvezza”, il centro del movimento internazionale per un giusto ordine mondiale basato sul multipolarismo e sul rispetto dei valori tradizionali dei Paesi e dei popoli.

Oltre a queste persone, ci sono anche molti nel mondo che semplicemente amano la cultura e l’arte russa, hanno legami familiari con la Russia e i russi. Tuttavia, anche queste persone esteriormente apolitiche sono ora vittime della “cultura della cancellazione”. Il 14 marzo, il giorno in cui si è svolto il primo congresso del Movimento Internazionale dei Russofili, la Russia ha portato la questione della russofobia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La Procura generale russa aveva proposto in precedenza di equiparare la russofobia all’estremismo.

Un anno fa, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha ammesso che la russofobia era diventata mainstream nel suo Paese e ha invitato altri Paesi europei a unirsi all’odio per la Russia in Polonia. Nell’ultimo anno, rappresentanti dell’Ucraina e dei Paesi occidentali hanno apertamente chiesto la “decolonizzazione” e la disintegrazione della Russia. In Ucraina, la lingua russa è stata vietata e non può essere insegnata nelle scuole, nemmeno come lingua straniera. I russi sono perseguitati negli Stati baltici. In Polonia, tutti i laureati del MGIMO sono stati licenziati dal Ministero degli Esteri. Nel Regno Unito, il numero di “incidenti di aggressione contro i russi e gli abitanti di lingua russa” è raddoppiato nell’ultimo anno, come ha rilevato l’ambasciata russa in quel Paese. Anche i media europei mainstream sono costretti a riportare i numerosi casi di aggressione contro i russi di lingua russa nei Paesi della NATO.

“Noi russi e i russofili vinceremo sicuramente”

Il presidente della Società di Tsargrad Konstantin Malofeev ha sottolineato che “i russofili sono coloro che amano prima di tutto il loro Paese, coloro che amano la Russia e i russi come riflesso del loro sogno di libertà e indipendenza. Con queste persone costruiremo un mondo molto migliore di quello con cui siamo entrati nel XXI secolo. Un mondo multipolare di popoli liberi e di valori tradizionali, piuttosto che la dittatura di un solo Paese che impone abomini anticristiani, antiumani e satanici. Sono sicuro che noi russi e russofili vinceremo sicuramente. Perché Dio è con noi!

Gli ospiti del congresso provenienti dall’estero sono persone coraggiose, ha sottolineato il filosofo Alexander Dugin. “Le persone che vengono qui dai Paesi dell’UE o dall’America e dicono: sì, amiamo comunque la Russia, la amiamo come cultura, come civiltà, come identità, la amiamo come religione, come tradizione, come arte – dimostrano davvero un atto di eroismo”.

Anche Pierre de Gaulle, presidente e fondatore della Fondazione per la Pace, l’Armonia e la Prosperità dei Popoli della Svizzera e nipote del leggendario fondatore della Quinta Repubblica, Charles de Gaulle, è intervenuto al congresso. Ha sottolineato l’importanza del fattore ideologico nel conflitto tra Russia e Stati Uniti: “Il conflitto attuale è un conflitto ideologico in difesa dei nostri valori tradizionali, della famiglia, della religione. Il nostro compito, il mio dovere è quello di difendere i valori, di difendere il benessere del mondo e dell’Europa”.

“Così come l’Occidente ha creato un’icona nella persona della Principessa Diana, noi dobbiamo creare i nostri ideali”.

Da parte sua, la Principessa Vittoria Alliatta di Villafranca, nota ricercatrice italiana dell’Oriente, traduttrice e figura culturale, ha sottolineato che l’Occidente non si sottrae ai metodi terroristici, ricordando l’omicidio della filosofa e giornalista Daria Dugina.

“Uno dei principali strumenti che vengono sempre utilizzati in questa battaglia sono le donne. Eppure quando Daria Dugina, una filosofa, una scrittrice che rappresentava il meglio che l’Europa aveva da offrire, dalla filosofia greca antica al pensiero imperiale russo, è stata uccisa, nessuno ha detto una parola. Ma quando una povera ragazza iraniana ha avuto un infarto in una stazione di polizia, allora tutti sono scesi in strada e hanno cercato di rovesciare il regime al potere in Iran”, ha detto l’italiano fornendo un esempio dell’ipocrisia occidentale.

Ha suggerito che un metodo per combattere l’ideologia occidentale è quello di sottolineare l’importanza dei nostri eroi e delle nostre eroine, soprattutto delle donne. “Penso che dovremmo concentrarci sui nostri eroi. Così come l’Occidente ha creato un’icona nella persona della Principessa Diana, noi dovremmo creare i nostri ideali. Le donne sono il nostro patrimonio, dobbiamo dare loro la forza di difendersi. Non ogni donna è un’eroina, ma ogni donna può dare un pezzo del suo amore per rendere il mondo un posto migliore”, ha concluso la principessa.

Manifesto del MDR

Il congresso ha adottato un manifesto per il nuovo movimento, in cui i partecipanti promettono di promuovere la cultura russa, aiutare gli amici russi, sostenere la diffusione di informazioni accurate sulla Russia, contrastare la russofobia e rafforzare la “diplomazia del popolo”. Come primo passo, Malinov ha proposto di raccogliere un milione di firme per revocare le sanzioni alla Russia, di creare un’istituzione per combattere la russofobia, di rilanciare l’idea del “russofobo dell’anno”, di creare un’alternativa all’Eurovision e così via.

Una parte importante del nuovo movimento sarà la lotta alla russofobia nei media. Pepe Escobar, noto giornalista internazionale, ha definito ciò che sta accadendo nel mondo “una guerra di soft power, una guerra culturale e di informazione contro la Federazione Russa”.  “Le persone che gestiscono tutto non sono Sunak, Nuland o Soros”, ha spiegato l’esperto, “Tutto viene deciso non a Bruxelles, ma in riunioni private. Si tratta di alcune famiglie che possiedono molto denaro e non si mostrano in pubblico. Qualche anno fa è stato deciso che la Russia deve essere presa in mano, per appropriarsi delle sue risorse, che la Russia presumibilmente non merita. Ora è il momento di reagire”. Inoltre, gli organizzatori hanno dichiarato che il movimento si impegnerà anche su questioni legali, difendendo i diritti dei russi e degli amici della Russia all’estero.

Una scelta escatologica

Il Movimento Internazionale dei Russofili ha un grande futuro. Il NWO e le precondizioni per la transizione del conflitto tra Russia e Occidente a una guerra inter-civile su larga scala rendono la divisione tra i sostenitori della Russia e dell’Occidente moderno una scelta escatologica. È una lotta tra due versioni antagoniste del futuro. È in questa lotta che tutto il potere, le forze e i significati della cultura russa assumono un significato veramente storico-mondiale. L’aggressore in questo conflitto è l’Occidente; la Russia può dimostrare la giustezza del suo modo di procedere, in una competizione e in un dialogo pacifici con il mondo occidentale, se è pronta al dialogo e rinuncia alle sue pretese di esclusività totalitaria e alla sua giustezza a priori. Per definizione, i russofili sono i sostenitori del dialogo, coloro che cercano di creare un ponte tra le loro culture e le loro politiche e la Russia. Coloro che vi si oppongono non sono interessati a tali ponti e al dialogo. Pertanto, i russofili sono anche combattenti per la pace, per un mondo giusto in cui l’identità dei popoli e delle culture sia rispettata, e i tentativi di “abolire” la Russia non provocherebbero altro che una condanna universale.

Fonte: https://www.geopolitika.ru/it/article/gli-amici-della-russia-si-riuniscono-contro-la-russofobia-liberale

Il limite della pazienza russa

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QUINTA COLONNA

di Alexandr Dugin

La storiella del Tribunale dell’Aia è simbolica. La Russia non si è mai chiesta prima che tipo di istituzione sia. In realtà, fa parte dell’attuazione del Governo Mondiale, un sistema politico sovranazionale creato sugli Stati nazionali che sono invitati a cedere parte della loro sovranità a favore di questa struttura. Ciò include la Corte europea dei diritti dell’uomo e la stessa UE, ma anche la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’OMS, ecc. La Società delle Nazioni, e in seguito l’ONU, è stata concepita come un’altra fase preparatoria sulla via dell’istituzione di un governo mondiale.

La verga del liberalismo

Trattiamo del liberalismo nelle relazioni internazionali, componente dell’ideologia liberale nel suo complesso. I liberali considerano la legge del “progresso” irreversibile, la cui essenza è che il capitalismo, il mercato, la democrazia liberale, l’individualismo, l’LGBT, i transgender, le migrazioni di massa, ecc. si stanno diffondendo in tutta l’umanità. Nella dottrina liberale delle relazioni internazionali, per “progresso” si intende la transizione da Stati nazionali sovrani a istanze di potere sovranazionali. L’obiettivo di questo “progresso” è l’istituzione di un governo mondiale. È dichiarato esplicitamente e inequivocabilmente nei libri di testo di Relazioni Internazionali. Tutti i Paesi che non vogliono il “progresso” sono, secondo questa teoria, nemici del “progresso”, “nemici di una società aperta”, quindi sono “fascisti” e devono essere giudicati (al Tribunale dell’Aia) e distrutti (“infliggere loro una sconfitta strategica” – Blinken) e al posto dei leader sovrani mettere dei liberali – preferibilmente transgender.

Questa è la posizione ideologica su cui si reggono il Partito Democratico statunitense, l’amministrazione Biden e la maggior parte delle élite europee. Anche tutte le forze dei Paesi non occidentali, che sostengono l’Occidente collettivo e i globalisti americani, giurano su questa ideologia. Ed è proprio questa l’ideologia: radicale, rigida, totalitaria.

La sfida è accettata

È un po’ sorprendente che la Russia, da 23 anni sotto un leader pienamente sovrano, non si sia preoccupata di affrontare il liberalismo e abbia, fino a un certo punto, accettato la legittimità delle sue regole, strutture e istituzioni.

Non sono loro a cambiare, la Russia è cambiata con l’avvio della SMO, e ne è seguita una legittima escalation da parte dei liberali globali. Non c’è nulla di casuale: è solo liberismo. Finché non rovesceremo questa ideologia, sia internamente che esternamente, l’escalation non potrà che aumentare.

Non possiamo semplicemente andare oltre senza la nostra ideologia.

La decisione del Tribunale dell’Aia di arrestare il presidente russo Vladimir Putin e l’ombudsman per i diritti dei bambini Maria Lvova-Belova è così oltraggiosa che è semplicemente impossibile non rispondere. È un insulto al Paese, al popolo, alla società, a ogni persona, a ogni donna russa, a ogni madre, a ogni bambino. Come si può rispondere a tutto questo con dignità?

A mio parere, ci sono dei veri colpevoli in tutta questa situazione e non sono a Washington o all’Aia: sono nella stessa Russia. Si tratta di un gruppo di liberali che da 23 anni convincono in tutti i modi possibili il Presidente che l’amicizia con l’Occidente è d’obbligo, che è l’unica via di sviluppo e che l’adozione dell’ideologia liberale, così come l’integrazione nelle strutture e nelle istituzioni liberali globaliste internazionali (compreso il riconoscimento della Corte penale internazionale, della CEDU, dell’OMS, ecc.) non hanno alternative. Hanno anche screditato il campo patriottico, sia di destra che di sinistra, convincendo il capo dello Stato che si starebbe solo sognando di inscenare un “Maidan”. In realtà, i patrioti, sia di destra che di sinistra, sono il popolo e il principale sostegno di Putin. Sono il suo sostegno, i suoi strenui sostenitori, ma i liberali al potere hanno sempre lodato l’Occidente e diffamato i patrioti. Questo accade da 23 anni, da quando Putin è salito al potere.

L’ora della resa dei conti

Siamo logicamente arrivati al punto in cui il lodato Occidente si è rivelato una struttura terroristica che ci assassina, fa esplodere i gasdotti, ruba i soldi, e noi, dopo essere stati ai suoi ordini per così tanto tempo, ci siamo ritrovati in una dipendenza umiliante; 23 anni fa avremmo dovuto seguire la rotta per stabilire la nostra civiltà russa eurasiatica.

Putin ha puntato sulla sovranità. Si presumeva – proprio sotto l’influenza dei liberali – che l’Occidente avrebbe accettato questa sovranità a patto che Mosca rimanesse nel contesto generale della civiltà occidentale, a patto che venisse coinvolta nelle sue strutture e istituzioni, a patto che accettasse i valori occidentali (capitalismo, democrazia liberale, digitalizzazione, cultura dell’annullamento, “wokismo”, cioè l’obbligo di denunciare chiunque non sia d’accordo con il liberalismo, LGBT). Si è trattato di un inganno fin dall’inizio e suddetto inganno ha degli individui specifici: il blocco liberale nella cerchia ristretta del Presidente. Sono loro che hanno contribuito a ciò che sta accadendo oggi, che hanno ostacolato il risveglio patriottico, che hanno fatto tutto il possibile per separare il Presidente dal popolo, dal nucleo russo, dai portatori della coscienza patriottica.

È arrivato il momento di regolare i conti. O sta per arrivare. Non so cos’altro debba accadere perché i liberali al potere siano chiamati al tappeto e interrogati severamente. Forse manca anche qualcos’altro, ma in ogni caso non ci vorrà molto. La spada della vendetta è sulla testa dei liberali russi al potere e nulla può impedire la naturale punizione, si può ritardare un po’ ma non si può evitare.

I liberali russi devono rispondere di tutti i loro crimini. Senza questo non ci sarà purificazione né vittoria.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Foto: Idee&Azione – Fonte: https://www.ideeazione.com/il-limite-della-pazienza-russa/

19 marzo 2023

Geopolitica e immigrazione di massa

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di Andrea Zock

Come ampiamente previsto il tema della pressione migratoria si sta ripresentando con forza. Naturalmente in questa rinnovata salienza gioca un ruolo anche l’opportunità di mettere le promesse del governo Meloni alla prova dei fatti, ma questo rientra nel legittimo gioco politico delle opposizioni (e dell’esteso apparato mediatico che ne rispecchia le posizioni).
Tuttavia il punto di fondo è che ogni crisi degli equilibri internazionali si ripercuote più severamente sugli anelli più deboli, e il doppio colpo Covid + Guerra Russo-Ucraina rappresenta la più pesante crisi dalla Seconda Guerra Mondiale. Ora arriva semplicemente il conto relativo.
In Italia gli anni esplosivi dell’immigrazione sono stati quelli tra il 2011 e il 2017, e seguono la combinazione tra effetti mondiali della crisi subprime (dal 2008) e avvio delle cosiddette “primavere arabe” (dal 2010).
Il tema migratorio è il primo tema che ha esplicitato l’inadeguatezza dell’Unione Europea al ruolo di cui era stata accreditata.
Si tratta infatti di uno dei pochi temi in cui l’appello ad un’azione europea coordinata sembrerebbe la strada maestra per una soluzione, ed è parimenti un tema in cui si è manifestato nel modo più chiaro il carattere meramente predatorio e opportunista dell’UE, che si è presentata non come una potenza geopolitica, ma come un club dello scaricabarile (“beggar-thy-neighbour” policies).
In ogni singolo momento della gestione migratoria (come per ogni altro tema di rilevanza economica) abbiamo assistito ad un penoso balletto di singoli paesi o alleanze ad hoc, per sfruttare a proprio favore alcune condizioni contingenti, e lasciare gli altri “partner europei” con il cerino in mano. (Il sistema degli accordi di Dublino è esemplare a questo proposito, in quanto mirava a utilizzare i paesi di primo sbarco come “barriera naturale” per quelli interni, impedendo che si spostassero dai paesi d’arrivo a quelli più ambiti del Nord Europa.)
Il fallimento europeo peraltro è tutto tranne che inaspettato. I rapporti europei rispetto all’Africa seguono precisamente il medesimo indirizzo che informa i rapporti interni e in generale tutti i rapporti internazionali nella visione dei trattati europei: si tratta di un modello neoliberale di sfruttamento, massimizzazione del profitto e acquisizione di vantaggi competitivi a breve e medio termine. Non c’è qui nessuna visione politica, salvo la responsività alle lobby economiche interne, che in un’ottica neoliberale sono i più legittimi rappresentanti dell’interesse pubblico.
Così, i rapporti con l’Africa sono sempre stati improntati ad una politica di aiuti ad hoc, che permettevano di tenere le elité africane a catena corta, e ad una politica di trattati di scambio ineguale, che permettevano a questo o quel paese europeo di ritagliarsi un accesso favorevole ad una qualche area di risorse naturali.
E’ però importante capire qual è stata la natura specifica del fallimento europeo nella politica verso l’Africa (e più in generale verso i paesi in via di sviluppo).
Ciò che l’UE ha mancato di fare è stato di subentrare al sistema degli equilibri della Guerra Fredda, cercando di costruire nuovi rapporti di alleanza di lungo periodo.
Alla faccia degli storici della domenica che ti spiegano come “le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno”, bisogna osservare come l’epoca delle migrazioni di massa in Europa dall’area del mediterraneo inizia con la caduta dell’URSS e quindi con il trionfo nella Guerra Fredda dell’Occidente a guida americana.
Per l’Italia la data simbolica dell’inizio del “problema migratorio” è il 1991, con il grande sbarco degli albanesi nel porto di Bari.
Questo non è un caso. La Guerra Fredda, forma rudimentale di multipolarismo, cercava di contendersi i paesi in via di sviluppo, e lo faceva in vari modi, talora in forma cruenta (Corea, Vietnam), più spesso in forma di collaborazione. Questa situazione, per quanto precaria, coltivava l’interesse per una conservazione degli equilibri regionali. Nessuna “primavera araba” sarebbe potuta venire alla luce in quel contesto, perché tutti sapevano che eventuali sommovimenti interni ad un paese sarebbero stati nient’altro che mosse di uno dei due blocchi per finalità proprie. Questo equilbrio, cinico e ostile fin che si vuole, stimolava comunque l’interesse di entrambi i blocchi alla conservazione tendenziale degli equilibri nelle aree in via di sviluppo.
Con il venir meno di questo fattore equilibrante, cioè con il venir meno dell’URSS, il mondo in via di sviluppo (e anche buona parte di quello sviluppato) divenne libero terreno di caccia dei paesi in cima alla catena alimentare capitalistica (USA in testa).
A questo punto l’equilibrio regionale era molto meno importante per i decisori politici delle occasioni di profitto create dagli squilibri.
Ecco, questa prospettiva ci consente di vedere da che punto di vista potrebbe arrivare, nel medio periodo, una soluzione alla colossale questione dei processi migratori (per l’Europa).
A fronte della pelosa impotenza dell’UE, i cui colonnelli sono tutti indaffarati ad accaparrarsi piccoli vantaggi per questa o quella multinazionale di riferimento, subentrerà (sta già subentrando) una forma di competizione geopolitica simile alla Guerra Fredda.
Russia e Cina stanno già operando in questo modo verso molti paesi in via di sviluppo, soprattutto in area africana. Naturalmente non lo fanno per “umanitarismo” (diffidate sempre quando uno stato afferma di muoversi per “ragioni umanitarie”). Lo fanno perché hanno una visione strategica di lungo periodo, in cui associazioni stabili con stati che siano davvero “in via di sviluppo” – e non semplicemente “condannati ad una sfrutttabile arretratezza” – è nel loro interesse.
Russia e Cina si muovono oggi come attori sovrani su uno scenario geopolitico di lungo periodo, e questo è sufficiente a rovesciare il tavolo alla cultura da “robber barons” del neoliberalismo occidentale e a instaurare un nuovo equilibrio (per quanto intrinsecamente precario).
Dunque alla fine, se qualcosa ci salverà dall’essere travolti da una migrazione incontrollata, questo sarà probabilmente proprio l’insediarsi di un nuovo equilibrio multipolare, la cui alba abbiamo davanti agli occhi.

L’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2023/03/13/loccidente-ha-provocato-la-guerra-in-ucraina/

SECONDO LO STORICO AMERICANO BENJAMIN ABELOW SONO GLI STATI UNITI E LA NATO A ESSERE I PRINCIPALI RESPONSABILI DELLA CRISI UCRAINA

Venerdì 10 Marzo 2023 il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato al programma Big Game di Channel One: “… Contro la Russia si stanno usando un linguaggio, una retorica e delle azioni estremamente aggressive, soprattutto sotto forma di sanzioni illegali e senza precedenti. L’Occidente lo ha deciso da solo che questa è una guerra all’ultimo sangue. […] La filosofia “con noi o con la Russia” è stata alimentata dall’Unione Europea fin dall’inizio della situazione geopolitica, dopo la scomparsa dell’URSS“.

Quando c’è di mezzo una guerra di potere geopolitico, la propaganda di parte domina, perciò sono necessarie letture il più possibile super partes, perché in tali frangenti e, soprattutto, quando qualcuno vincerà, scriverà la storia a modo suo, imponendo un pensiero unico, che, molto spesso è lontano dalla verità. La filosofia “o con noi [Occidente], o con la Russia” non è un’invenzione di Lavrov ma la realtà che viviamo tutti i giorni. L’impressione è che si tratti di un espediente per impedire di ricercare e raccontare i fatti, senza la mediazione della propaganda. Ma non tutti si piegano a questa superficialità, non per essere dei “bastian contrari”, ma perché se i fatti diventano crimini e le menzogne vengono scoperte, il giudizio diventa più realistico.

Nonostante un consenso generale in ascesa, il governo Meloni non trova il sostegno del 57% del popolo italiano, secondo un sondaggio condotto da Iai e Laps, in merito al sostegno militare in Ucraina. Con un debito ormai al 150% del Pil, servito interamente dal risparmio privato mondiale, l’Italia non può permettersi una politica come quella ungherese di Victor Orban, che, invece, ha un debito sovrano al 75% del Pil e vanta la possibilità di praticare una politica monetaria indipendente col 20% di inflazione annuo.

Secondo lo storico americano Benjamin Abelow sono gli Stati Uniti e la NATO a essere i principali responsabili della crisi ucraina. Attraverso una storia trentennale di decisioni politiche sbagliate e di provocazioni, iniziate durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Washington e i suoi alleati europei hanno posto la Russia in una situazione considerata insostenibile da Putin e dal suo staff militare. Attraverso il libro “Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina” (Fazi Editore, Febbraio 2023 eu. 10,00) all’autore bastano 70 pagine per mostrare in modo chiaro e convincente come l’Occidente abbia innescato il conflitto ucraino, mettendo i propri cittadini e il resto del mondo di fronte al rischio reale di una guerra nucleare. Abelow dà voce ad autorevoli analisti politici, militari e funzionari governativi degli Stati Uniti – tra questi John J. Mearsheimer, Stephen F. Cohen, George F. Kennan, Douglas Macgregor – che ci fanno comprendere le ragioni più profonde, mistificate o taciute, della tragedia in corso.

Tutti questi esperti di politica estera sull’ espansione della NATO in Europa orientale dissero al loro grande e superpotente Paese che tale politica avrebbe commesso un pericoloso errore strategico. George Kennan, che si può ritenere il più insigne statista americano del secolo scorso, mise in guardia già nel 1997: “L’allargamento della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana in tutta l’era post guerra fredda”. Kennan aggiungeva poi, l’anno successivo, in un’intervista a Thomas Friedman: “Ma davvero non lo capiamo? Le nostre divergenze durante la guerra fredda erano con il regime comunista sovietico. E adesso stiamo voltando le spalle proprio alle persone che hanno organizzato la più grande rivoluzione incruenta della storia per rimuovere quel regime”. Fiona Hill, ben inserita negli ambienti di Washington e convinta antirussa, in una intervista pubblicata di recente sulla rivista online “Politico” ammette che gli Stati Uniti hanno commesso dei terribili errori.

Quanto a Putin, la Hill ha specificato: “Penso ci sia un piano razionale e metodico che risale a molto tempo fa, almeno al 2007, quando [Putin] mise in guardia il mondo, e certamente l’Europa, che Mosca non avrebbe accettato un’ulteriore espansione della NATO. E poi, nel giro di un anno, nel 2008, la NATO ha aperto le porte alla Georgia e all’Ucraina. Risale certamente a quel frangente”. Ciò dimostra che già nel lontano 2007, sette anni prima dell’annessione della Crimea, l’intelligence americana era consapevole che esisteva “un rischio reale e concreto” che, in risposta all’espansione della NATO, la Russia annettesse la Crimea, così come sapeva che questa espansione ad est avrebbe potuto innescare una vasta azione militare russa, molto più ampia, estesa all’Ucraina ed alla Georgia.

Abelow analizza, di fatto, una storia controfattuale, ma molto utile a comprendere la situazione: “Se gli Stati Uniti non avessero esteso la NATO fino ai confini con la Russia; se non avessero schierato sistemi di lancio di missili con capacità nucleare in Romania e non li avessero messi in cantiere in Polonia e forse anche in altri Paesi; se non avessero contribuito al rovesciamento del governo ucraino democraticamente eletto nel 2014; se non si fossero ritirati dal trattato ABM e dal trattato sui missili nucleari a raggio intermedio, e non avessero poi ignorato i tentativi russi di negoziare una moratoria bilaterale su tali dispiegamenti; se non avessero condotto esercitazioni a fuoco vivo in Estonia per addestrarsi a colpire obiettivi all’interno della Russia; se non avessero raccordato l’esercito americano con quello ucraino, se gli stati Uniti e i loro alleati NATO non avessero fatto tutte queste cose, la guerra in Ucraina probabilmente non sarebbe scoppiata”. Penso sia una affermazione ragionevole. In una recente intervista, il professore emerito di Politica russa ed europea all’Università del Kent Richard Sakwa ha asserito che Zelensky avrebbe potuto ricercare la pace con la Russia pronunciando solo cinque parole: “L’Ucraina non aderirà alla NATO”. Ha, altresì, fatto il contrario a causa della continua ingerenza di USA e NATO.

“Oggi – conclude Benjamin Abelow – i leader politici di Washington e delle capitali europee, assieme ai mezzi di informazione allineati e codardi che riportano acriticamente le loro sciocchezze, cercano di tirarsi fuori dal fango ma ci sono dentro fino al collo. E’ difficile pensare come coloro che sono stati talmente sciocchi da infilarsi in quel fango possano trovare la saggezza per uscirne prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi”.

La responsabilità dei governanti nel conflitto ucraino

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di Thierry Meyssan

Fonte: Voltairenet

In occasione del primo anniversario dell’intervento russo, l’Alleanza Atlantica glorifica l’Ucraina. La osserviamo servirsi della più ingannatrice delle propagande; la vediamo maneggiare omissioni, nonché talvolta menzogne. A differenza di quanto sostiene la Nato, l’attacco della Russia non è mai stato illegale, sebbene oggi appaia a molti non più necessario, quindi da interrompere. Ma le cause che hanno portato alla guerra permangono e il Cremlino prevede un secondo round del conflitto: non per annettere l’Ucraina o la Moldavia, ma per salvare la Transnistria.
Gli Occidentali hanno approfittato del primo anniversario dello scontro militare Oriente-Occidente in Ucraina per convincere le opinioni pubbliche che si trovano “dalla parte giusta della Storia” e che la vittoria è “inevitabile”.
Non c’è da sorprendersi. È normale che i governi divulghino il proprio operato. Ma in questo caso le informazioni sono menzogne per omissione e i commenti sono propaganda. Siamo di fronte a un tale rovesciamento della realtà che c’è da chiedersi se, in definitiva, gli sconfitti della seconda guerra mondiale non siano oggi al potere a Kiev.

“La guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”
Tutti gli interventi occidentali ribadiscono con forza che l’Occidente condanna la “guerra illegale, ingiustificabile e non-provocata della Russia”. È oggettivamente falso.
Lasciamo da parte l’attributo “ingiustificabile”, che rinvia a una posizione morale indegna. Nessuna guerra è giusta. Ogni guerra è risultato non di un errore, ma di un fallimento. Analizziamo invece la definizione di guerra “non-provocata”.
Secondo la diplomazia russa la vicenda è cominciata con l’operazione statunitense-canadese del 2014 e il rovesciamento del presidente ucraino democraticamente eletto, Viktor Janucovič, in violazione della sovranità ucraina, quindi della Carta delle Nazioni Unite. Non si può negare che Washington abbia svolto un ruolo determinante nella cosiddetta “rivoluzione della dignità”: l’allora vicesegretaria di Stato per l’Europa e l’Eurasia, Victoria Nuland, si è esibita alla testa dei golpisti.
Secondo la diplomazia cinese, che ha da poco pubblicato due documenti sulla questione, non bisogna fermarsi all’operazione del 2014: per individuare la prima violazione della sovranità ucraina e della Carta delle Nazioni Unite bisogna risalire alla “rivoluzione arancione” del 2004, anch’essa organizzata dagli Stati Uniti. La Russia non vi fa riferimento perché, a differenza che nel 2014, vi svolse un ruolo.
Gli Occidentali sono talmente assuefatti alla disinvoltura degli Stati Uniti nel manipolare folle e rovesciare governi da aver smarrito la capacità di percepire la gravità di questi atti. Dal rovesciamento del 1953 di Mohammad Mossadeq in Iran a quello del 2018 di Serge Sarkissian in Armenia, gli Occidentali si sono abituati ai cambiamenti forzati di regime. Non importa che i politici rovesciati fossero buoni o cattivi governanti. In ogni caso è inammissibile che uno Stato straniero ne abbia organizzato il rovesciamento nascondendosi dietro oppositori nazionali. Sono atti di guerra senza intervento militare.
I fatti sono testardi. La guerra in Ucraina è stata provocata dalle violazioni della sovranità ucraina del 2004 e 2014, indi da otto anni di guerra civile.
La guerra non è illegale nemmeno secondo il diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite non vieta il ricorso alla guerra. Il Consiglio di Sicurezza ha persino il potere di dichiararla (articoli da 39 a 51). La particolarità della situazione attuale è che la guerra oppone membri permanenti del Consiglio.
La Russia ha cofirmato gli Accordi di Minsk per mettere fine alla guerra civile. Tuttavia, non essendo nata ieri, ha presto capito che gli Occidentali non volevano la pace, bensì la guerra. Sicché, cinque giorni dopo la conclusione degli Accordi di Minsk, li ha fatti avallare dal Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione 2202; poi ha costretto l’oligarca russo Konstantin Malofeïev a ritirare i suoi uomini dal Donbass ucraino. Mosca ha inoltre fatto aggiungere alla risoluzione una dichiarazione in cui i presidenti di Francia, Ucraina, Russia e la cancelliera tedesca si facevano garanti dell’applicazione degli Accordi, impegnando i rispettivi Paesi.
Nei giorni successivi la firma degli Accordi il presidente ucraino Petro Poroshenko ha subito dichiarato che era fuori questione ogni cessione territoriale, anzi, gli abitanti del Donbass andavano puniti.
L’ex cancelliera Angela Merkel ha dichiarato a Die Zeit che con la firma degli Accordi voleva solo guadagnare tempo per permettere alla Nato di armare Kiev. Merkel ha chiarito la sua posizione in una discussione con un provocatore che si spacciava per l’ex presidente Poroshenko.
L’ex presidente François Hollande ha confermato al Kyiv Independent le affermazioni di Angela Merkel.
La Russia invece il 24 febbraio 2022 ha iniziato un’operazione militare speciale in ottemperanza alla “responsabilità di proteggere” assunta con la firma degli Accordi. Sostenere che l’intervento russo in Ucraina è illegale equivale a dire, per esempio, che l’intervento della Francia durante il genocidio in Rwanda era illegale e che si doveva lasciar continuare il massacro.
Le e-mail del consigliere speciale del presidente russo Putin, Vladislav Surkov recentemente rivelate dagli ucraini, non fanno che confermare questo svolgimento dei fatti. Negli anni successivi agli Accordi la Russia ha aiutato le Repubbliche ucraine del Donbass a prepararsi mentalmente all’indipendenza. Un’ingerenza illegale, ma che rispondeva a un’ingerenza altrettanto illegale degli Stati Uniti, che non armavano l’Ucraina bensì i nazionalisti integralisti ucraini. La guerra era già iniziata, ma combattuta solo da ucraini. Ha fatto 20 mila morti in otto anni. Gli Occidentali e la Russia intervenivano solo indirettamente.
Bisogna capire la portata di quanto affermato da Merkel e Hollande: fingendo di negoziare la pace hanno commesso il peggiore dei crimini. Infatti, secondo il Tribunale di Norimberga, i “crimini contro la pace” sono più gravi addirittura dei “crimini contro l’umanità”, perché non sono causa di questo o quest’altro massacro, ma sono causa della guerra. Per questa ragione il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha chiesto la convocazione di un nuovo Tribunale di Norimberga per giudicare Merkel e Hollande. L’istanza di Volodin non è stata diffusa dalla stampa occidentale.
L’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia del 16 marzo 2022 ha stabilito a titolo cautelativo che la “Federazione di Russia deve sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina” (rif.: A/77/4, paragrafi da 189 a 197). Mosca non ha ubbidito, ritenendo che la Corte fosse stata chiamata a giudicare sulla natura genocidaria di quanto perpetrato da Kiev contro la sua stessa popolazione, non sull’operazione militare finalizzata a proteggere la popolazione ucraina.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha da parte sua adottato molte risoluzioni, l’ultima è la A/ES-11/L.7 del 23 febbraio 2023 che afferma: “Si esige nuovamente l’immediato, completo e incondizionato ritiro di tutte le forze militari della Federazione di Russia dal territorio ucraino all’interno delle proprie frontiere internazionalmente riconosciute e si chiede la cessazione delle ostilità”.
Nessuno di questi testi dichiara l’intervento russo illegale. Entrambi ordinano o pretendono che l’esercito russo si ritiri. 141 Stati su 193 ritengono che la Russia debba cessare l’intervento. Alcuni di questi Stati giudicano l’intervento illegale, ma la maggior parte crede che “non è più necessario” ed è causa di inutili sofferenze. Non è affatto la stessa cosa.
L’ottica degli Stati è diversa da quella dei giuristi. Il diritto internazionale può sanzionare solo ciò che esiste. Gli Stati invece devono proteggere i cittadini dai conflitti che si profilano, prima che sia troppo tardi per porvi rimedio. Per questa ragione il Cremlino non ha ottemperato alle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Non si è ritirato dal campo di battaglia. Per otto anni ha infatti osservato la Nato armare l’Ucraina e preparare la guerra. Sa anche che il Pentagono sta pianificando una seconda puntata della guerra: in Transnistria. Quindi deve proteggere la popolazione da questa seconda operazione. Così come ha deciso la data dell’intervento in Ucraina sulla base di informazioni di un imminente un attacco di Kiev in Donbass, successivamente confermate, ora ha deciso di liberare tutta la Novorossia, Odessa inclusa. Una decisione inaccettabile giuridicamente fino a quando non ci saranno prove dei maneggi occidentali, ma sin da ora necessaria dal punto di vista della responsabilità.
Evidentemente queste ottiche diverse non sono sfuggite agli osservatori. Il fatto di giudicare l’intervento russo “non più necessario” non va confuso con il sostegno all’Occidente. Infatti solo 39 Stati su 191 partecipano alle sanzioni occidentali contro la Russia e inviano armi in Ucraina.

L’Ucraina è una “democrazia”
Il secondo cavallo di battaglia dei dirigenti occidentali è che l’Ucraina è una “democrazia”. Prescindendo dal fatto che il termine democrazia ha perso ogni significato perché le classi medie spariscono e il divario di ricchezza è il più importante di tutta la storia dell’umanità, e quindi è sempre più divergente dall’ideale di uguaglianza, l’Ucraina è tutto meno che una democrazia.
L’Ucraina è l’unico Paese al mondo ad avere una Costituzione razzista. L’articolo 16 stabilisce infatti che “Preservare il patrimonio genetico del popolo ucraino è dovere dello Stato”; un passaggio redatto da Slava Stetsko, vedova del primo ministro nazista ucraino.
Questo è il punto dolente. Almeno dal 1994 i nazionalisti integralisti (da non confondere con i nazionalisti tout court), ossia coloro che si richiamano all’ideologia di Dmytro Dontsov e ll’azione di Stepan Bandera, occupano alti ranghi nello Stato ucraino. Di fatto questa ideologia si è radicalizzata con il tempo. Durante la seconda guerra mondiale ha assunto un significato diverso rispetto alla prima. Fatto sta che dal 1942 Dmytro Dontsov fu uno degli ideatori della “soluzione finale delle questioni ebraica e zigana”. Fu amministratore dell’organo del III Reich incaricato di assassinare milioni di persone per la loro origine etnica, l’Istituto Reinhard Heydrich di Praga. Quanto a Bandera, fu il capo militare dei nazisti ucraini. Ordinò molti pogrom, nonché massacri di massa. Contrariamente a quello che sostengono i suoi attuali seguaci, non fu mai internato in un campo di concentramento, ma fu messo agli arresti domiciliari nella periferia di Berlino, nella sede dell’amministrazione dei campi di concentramento. Peraltro finì la guerra dirigendo le truppe ucraine agli ordini diretti del führer Adolf Hitler.
A un anno dall’inizio dell’intervento militare russo, in Ucraina si vedono simboli nazionalisti integralisti ovunque. Il giornalista di Forward, Lev Golinkin, che ha iniziato una ricognizione in tutto il mondo dei monumenti in memoria di criminali implicati nei crimini nazisti, ha redatto uno sbalorditivo elenco dei monumenti di questo tipo anche in Ucraina. Secondo Golinkin, sono quasi tutti di epoca successiva al colpo di Stato del 2014. È perciò evidente che le autorità uscite dal colpo di Stato fanno riferimento proprio al nazionalismo integralista, non al nazionalismo tout court. E per chi dubita che il presidente ebreo Zelensky celebri i nazisti, rammentiamo che due settimane fa ha conferito alla 10a Brigata d’assalto autonoma da montagna “il titolo onorifico Edelweiss”. Edelweiss fa riferimento alla 1a Divisione da montagna nazista che “liberò” (sic) Kiev, Stalino, i passaggi del Dnepr, nonché Karkiv.
Poche sono le personalità occidentali che hanno assentito alle affermazioni del presidente Putin e del ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, sulla questione. Tuttavia l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett e l’ex ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno più volte dichiarato che l’Ucraina doveva sottostare alle ingiunzioni di Mosca almeno su questo punto: Kiev deve distruggere tutti i simboli nazisti esposti. Poiché Kiev si rifiuta di farlo, Israele non consegna armi all’Ucraina: nessun’arma israeliana sarà messa nelle mani dei successori dei massacratori di ebrei. Evidentemente questa posizione può mutare con il governo di coalizione di Benjamin Netanyahu, egli stesso erede dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky che si allearono con i nazionalisti integralisti contro i sovietici.
L’attuale politica del governo di Zelensky è incomprensibile. Da un lato le istituzioni democratiche funzionano; dall’altro, non solo si celebrano ovunque i nazionalisti integralisti, ma sono stati vietati i partiti politici di opposizione e la Chiesa ortodossa che fa riferimento al Patriarcato di Mosca; sono stati distrutti milioni di libri perché scritti o stampati in Russia; sei milioni di ucraini sono stati dichiarati “collaboratori dell’invasore russo” e sono stati uccisi personaggi che li sostengono.
(traduzione di Rachele Marmetti)

 

Mediterraneo: epicentro del conflitto tra civiltà e barbarie atlantica

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di Luigi Tedeschi

Fonte: Italicum

Siamo alle soglie di un’epoca di transizione. La guerra tra USA e Russia in Ucraina, con la relativa crisi energetica, così come la pandemia, a cui ha fatto seguito l’incipit della quarta rivoluzione industriale e della transizione ambientale, sono eventi destinati a sconvolgere gli equilibri geopolitici preesistenti e con essi, il modello economico – politico neoliberista globale. L’area mediterranea, già emarginata nel contesto geopolitico mondiale, è destinata ad assumere un ruolo di protagonista nel futuro nuovo ordine mondiale multipolare, scaturito dal declino dell’unilateralismo americano.
Dopo la fine del bipolarismo della Guerra fredda, le sponde mediterranee del sud e dell’est, oltre ad essere sconvolte dalle guerre mediorientali e dai conflitti delle “primavere arabe”, sono divenute l’epicentro delle migrazioni di massa provenienti dall’Africa e dall’Asia. Il fenomeno migratorio è del tutto connaturato al modello di sviluppo neoliberista globale, che prevede la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali. Pertanto, le migrazioni di massa, comprese le tragedie del mare, sono eventi che si inseriscono in un contesto socio – economico mondiale, in cui i paesi più arretrati vengono deprivati delle migliori risorse umane necessarie al loro sviluppo e i paesi più avanzati importano masse di lavoratori a basso costo al fine di comprimere i salari e rendere più competitive le loro economie nel mercato globale.
Con l’avvento della UE, l’asimmetria economica, culturale e politica tra l’Europa del nord e quella del sud si è accentuata. Allo sviluppo del nord Europa, ha fatto riscontro il depauperamento e la subalternità dell’Europa mediterranea e all’accentuarsi del sottosviluppo dei paesi del Nord Africa. Si è dunque determinata una scala gerarchica dello sviluppo e del potere politico tra il nord e il sud europeo in base ai parametri del sistema economico neoliberista.
Del resto, in virtù del primato dell’asse franco – tedesco in Europa, la UE è sempre stata concepita come una unificazione che avesse il suo baricentro economico e politico nell’Europa carolingia, con relativa marginalizzazione dell’area mediterranea e dei suoi rapporti con il MENA (Medio Oriente – Nord Africa). L’Europa ha sempre denunciato una grave carenza di visione strategica, nel concepire il Mediterraneo un’area integrata nelle logiche ideologiche e strategiche dell’Occidente, prima nel bipolarismo tra Oriente e Occidente scaturito dalla Guerra fredda e in seguito all’interno della divaricazione tra il Nord capitalista e il Sud sottosviluppato del mondo, sancita dall’ordine mondiale unilateralista americano.
La guerra russo – ucraina ha inciso profondamente anche nei rapporti di supremazia interni all’Europa. Con la fine della interdipendenza economica ed energetica tra la UE e la Russia, la Nato ha assunto il controllo politico e strategico dell’Europa, con il declassamento della potenza tedesca e la devoluzione della leadership europea all’Anglosfera britannico – scandinava e dei paesi baltici, con la Polonia assurta a prima potenza militare europea. Il baricentro strategico dell’Europa si è spostato a nord est, con il declassamento del Mediterraneo ad area marginale europea, anche a seguito del disimpegno americano nel MENA.
I mutamenti strategici della Nato in chiave russofobica, potrebbero favorire una maggiore libertà di azione dei paesi dell’Europa mediterranea, nella prospettiva di fuoriuscita dalla condizione post storica di irrilevanza geopolitica in cui oggi appare confinata. La subalternità europea alla Nato è sempre stata funzionale ai disegni imperialisti americani di estendere il proprio dominio assoluto nel Mediterraneo, concepito come lago atlantico. Ben altra configurazione geopolitica esso è invece destinato ad assumere nell’incipiente mondo multipolare. Attraverso il Mediterraneo transita il 28% delle forniture di idrocarburi del mondo ed il “Mare nostrum” è divenuto lo snodo strategico per l’accesso al Mar Rosso e all’area dell’Indo – Pacifico.
Il Mediterraneo è dunque destinato ad assumere il ruolo geopolitico di Medioceano, come ben descritto da Salvo Ardizzone nel suo saggio “Medioceano e Medio Oriente: appunti per un teatro cruciale”: “Il Mediterraneo è sempre stato area di scambi, mare di commerci e traffici per eccellenza ma, da alcuni anni, è evoluto a Medioceano, bacino allargato alle coste atlantiche del Maghreb e della Penisola Iberica a Occidente, fino al Corno d’Africa attraverso il Mar Rosso a sud-est, connessione fra l’area indo-pacifica e l’Atlantico. Di recente amputato del Mar Nero e delle crescenti connessioni con la Russia e l’Asia Centrale dal conflitto ucraino ma, a seguito di esso, elevato ad area di confronto-scontro fra Unipolarismo egemonico e Multipolarismo”.
Il Mediterraneo sarà infatti un’area di confronto tra gli USA e le potenze emergenti del BRICS, da cui dipende anche il suo destino di lago atlantico o di Medioceano. L’Occidente ha concepito il Mediterraneo come l’area dello “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington, quale necessario conflitto per affermare il primato americano nel mondo. In realtà, il conflitto è assai più profondo e non è solo bellico, ma anche culturale ed esistenziale per i popoli dell’area: tra globalismo e sovranità degli stati, cosmopolitismo e identità dei popoli, tra individualismo e comunitarismo, tra materialismo e fedi religiose.

Il pluriverso mediterraneo scomparso

Il Mediterraneo evoca un insieme di tradizioni storico – culturali che sono parte integrante della nostra identità, una sensibilità, una estetica, una concezione della vita e dell’uomo quali valori unificanti dei popoli dell’area.
Le radici storiche della nostra civiltà hanno origine nell’area mediterranea. Il Mediterraneo fu certo teatro di guerre e contrapposizioni tra Islam e Cristianesimo, ma tuttavia fu anche epicentro del connubio tra civiltà diverse, di scambi commerciali e terreno di confronto culturale, religioso, scientifico. L’area mediterranea rappresentò un pluriverso di civiltà, il cui incontro / scontro contribuì alla evoluzione e all’arricchimento dei valori culturali e religiosi dei popoli. Affermò intorno al 1100 Fulcherio di Chartres, nella sua “Historia Hierosolymitana”: “Ora, noi che fummo occidentali, siamo diventati orientali. Chi fu latino o franco, in questa terra è diventato galileo o palestinese. Chi fu cittadino di Reims o di Chartres, ora è diventato cittadino di Tiro o di Antiochia. Ormai ci siamo dimenticati dei nostri luoghi natii: la maggior parte di noi non li ha mai visti, o addirittura mai sentiti nominare. C’è chi già possiede le proprie case e i propri servi come se fossero cose tramandategli in eredità, e c’è anche chi ha preso in moglie non una compatriota, ma una siriana, un’armena e talvolta addirittura una saracena”.
In questo mondo multietnico, aperto alla integrazione tra i popoli, si generò un processo di assimilazione tra due culture: quella islamica, erede delle culture greco – giudaiche e quella europea, dall’identità romano – cristiana. Questa moltitudine di popoli, civiltà, fedi religiose diverse e contrapposte, diede vita ad una particolare simbiosi identitaria identificabile con quel pluriverso mediterraneo, la cui memoria storica oggi è quasi scomparsa. L’era della globalizzazione ha ridotto il Mediterraneo ad una entità geografica, identificabile dalle masse dell’Occidente con le suggestioni virtuali orientalistiche e con l’immagine mediatica dei villaggi turistici.
La disgregazione del Mediterraneo ha origini lontane. Tra l’800 e il ‘900 il MENA fu oggetto delle conquiste coloniali europee e tale dominio si accentuò con la dissoluzione dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Il processo di frantumazione del MENA si perpetuò anche in epoca post – coloniale, in concomitanza della Guerra fredda: la Turchia e i paesi del Golfo Persico furono integrati nell’Occidente americano, mentre Egitto, Libia, Siria e Algeria aderirono al blocco sovietico. Aggiungasi, che la fondazione dello stato di Israele generò uno stato di guerra permanente nell’area mediorientale.
Ma fu soprattutto la trasformazione della Nato da alleanza strategica difensiva ad apparato militare aggressivo a determinare un’insanabile frattura tra l’Occidente e il mondo islamico che coinvolse il Mediterraneo, le cui opposte sponde divennero teatro di un conflitto geopolitico ancora in corso. Il nuovo atlantismo si affermò sulla scorta di disegni strategici espansionisti americani su scala globale. Con gli attentati dell’11 settembre, gli USA intrapresero una strategia aggressiva di “guerra al terrorismo” che, oltre alle guerre “preventive” in Afghanistan e Iraq (a cui fecero seguito le aggressioni alla Libia e alla Siria), comportò un espansionismo politico ed economico che si estese anche all’area mediterranea. L’Europa, già emarginata nello status post – storico di irrilevanza geopolitica, divenne, con il moltiplicarsi delle basi Nato sul proprio territorio, una piattaforma strategica per l’espansionismo americano, estesosi, oltre che nel MENA, anche ai confini con la Russia, che, ritenendosi assediata e minacciata nella sua sicurezza dall’Occidente, ha poi invaso l’Ucraina.
Le “primavere arabe”, quale strategia della Nato volta alla destabilizzazione degli stati islamici del MENA, sono fallite. Anzi hanno costituito l’occasione propizia per l’inserimento di nuovi attori dalle mire espansionistiche nell’area mediterranea, quali la Turchia, la Russia, gli Emirati arabi. L’estromissione dell’Europa dall’area è ormai un dato di fatto. La sola Francia mantiene una presenza neocoloniale nei paesi del Sahel e parzialmente in quelli del Maghreb, sempre più osteggiata dai popoli dell’area e contrastata dall’espansionismo in Africa di Russia, Turchia e Cina.

Al disimpegno americano nel MENA, ha fatto riscontro la creazione di una nuova alleanza filoccidentale tra Israele e alcuni stati arabi in funzione anti iraniana, denominata “Patto di Abramo”. E’ stata costituita infatti, una nuova Nato mediorientale, in conformità del mutamento della strategia americana nella geopolitica mediorientale, che prevede l’implementazione di un dominio americano indiretto nel MENA. Questa nuova Nato mediorientale è comunque destinata a sfaldarsi, data la diversificazione delle strategie politiche delle potenze del MENA. Israele e la maggioranza dei paesi arabi sono contrari alle politiche sanzionatorie messe in atto dagli USA nei confronti della Russia e l’Arabia Saudita ha concluso rilevanti accordi economici con la Cina.
L’espansionismo americano concepisce il Mediterraneo come un lago atlantico. Ma il mondo multilaterale avanza. E potranno anche ricomporsi le fratture interne al Mediterraneo, a condizione però che l’Europa possa assumere un ruolo autonomo dalla Nato nell’area. Così si espresse Danilo Zolo al riguardo nel suo saggio “La questione mediterranea”: “Ma tutto questo può diventare possibile solo a un’ultima condizione: che l’Europa, ritrovate le sue radici mediterranee, si mostri capace di erigersi a soggetto internazionale, dotato di una forte identità culturale e politica e perciò libero dai vincoli dell’atlantismo e aperto alla collaborazione con il mondo islamico e al confronto con le potenze asiatiche emergenti. Queste sono le condizioni di un rilancio dell’unità, della originalità e della grandezza civile del Mediterraneo che possono essere ragionevolmente pensate come un’ <alternativa>”.

Il divario economico incolmabile tra l’Occidente e il MENA

Tra le sponde nord e sud del Mediterraneo esiste una evidente asimmetria economica e tecnologica. I paesi europei della sponda nord detengono l’80% del Pil complessivo dell’area mediterranea. E tale divario nello sviluppo ha costituito il pretesto per i progetti di colonizzazione economica del MENA da parte dell’Occidente. Il fenomeno migratorio ne è una tragica conseguenza. Il debito dei paesi arabi nei confronti della UE è aumentato a dismisura negli ultimi decenni.
Alla fine del XX° secolo fu avviato un programma di partenariato economico e per la politica di sicurezza tra la UE e i paesi del MENA, denominato “processo di Barcellona”. Tali accordi avrebbero dovuto condurre all’integrazione economica dell’area mediterranea, con la prospettiva di creare una Zona di libero scambio. Tuttavia tali progetti fallirono, data l’impossibilità per i paesi arabi, dalle economie troppo deboli, di sostenere la competitività con le economie dei paesi più avanzati della UE. Tali forme di cooperazione, nel contesto del sistema neoliberista globale si sono sempre rivelate un capestro i paesi sottosviluppati. Comportano inevitabilmente un indebitamento insostenibile e quindi l’imposizione da parte del FMI di manovre di aggiustamento strutturale che conducono fatalmente i paesi meno sviluppati al default.
Occorre inoltre rilevare che il MENA è afflitto anche dalla dipendenza alimentare dal nord del pianeta, che peraltro si è gravemente accentuata con la guerra russo – ucraina. La UE ha adottato da sempre politiche protezionistiche nel settore agricolo nei confronti del MENA. L’agricoltura dei paesi del sud europeo è da decenni falcidiata dalla concorrenza selvaggia del mercato mondiale, eppure, impone paradossalmente un regime protezionistico alle importazioni dal sud del Mediterraneo.
Il dialogo e la cooperazione tra i popoli del nord e del sud del mondo sono oggi impossibili, dato il differenziale di potenza economica e politica tra l’Occidente e gli stati sottosviluppati. Ma, con l’affermarsi del multilateralismo e la dedollarizzazione dell’economia mondiale, tale divario potrà senz’altro ridursi e il Mediterraneo, trasformatosi in Medioceano, potrebbe divenire assai determinate nella costituzione di un nuovo ordine mondiale. Solo infatti in un ordine multilaterale, in cui a tutti i popoli viene riconosciuta pari dignità, potrà esserci tra gli stati dialogo, cooperazione, pacificazione.

Decostruire il fondamentalismo atlantico

Le due sponde del Mediterraneo sono oggi separate da un abisso socio – culturale incolmabile. Il dialogo è reso impossibile dal fatto che l’Europa si identifica con i valori dell’Occidente. Pertanto, considerando l’Occidente l’incarnazione di valori universali e irrinunciabili, quali i diritti del’uomo, lo Stato di diritto, la liberaldemocrazia, il libero mercato globale, sulla base di tale primato, gli USA e la UE pretendono di imporre i propri valori ai paesi islamici, come a tutto il mondo. L’Occidente americano è dunque da considerarsi un nuovo eurocentrismo atlantico, che, quale civiltà superiore, si ritiene legittimato alla colonizzazione culturale, economica e politica del mondo islamico. In virtù della sua autoreferenza, l’Occidente americano impone al mondo il suo sistema ideologico – politico con sanzioni, propaganda mediatica e guerre umanitarie. Tra l’altro, l’Occidente americano vuole esportare con le armi un sistema democratico ormai degenerato in oligarchia finanziaria e tecnocratica e pertanto assai lontano dal modello originario della democrazia rappresentativa.
Tra le sponde del Mediterraneo è in atto da decenni un conflitto politico – ideologico in cui si contrappongono le modernità occidentale e i paesi islamici, la cui cultura si è rivelata incompatibile con il processo di globalizzazione cosmopolita e neoliberista imposto dall’unilateralismo americano. Anzi, la civiltà islamica si è rivelata un elemento di resistenza al dominio globale della superpotenza americana.
Due visioni del mondo in conflitto, che si rivelano inconciliabili in quanto gli USA sono una potenza geneticamente unilaterale, incapaci di concepire “l’altro da sé”. Un mondo composto da una molteplicità di culture e identità differenziate è per gli USA inconcepibile. All’ordine mondiale unipolare fondato sui diritti dell’uomo, dovrebbe subentrare un mondo multipolare basato sul primato dei diritti dei popoli. In un ordinamento in cui l’uomo, anziché essere considerato un’entità astratta, secondo i dettami dell’ideologia liberale, ma come in individuo appartenente e partecipe di una comunità strutturata su valori culturali, politici e religiosi identitari, potrebbero essere maggiormente tutelate le liberà individuali, i diritti delle minoranze e delle classi subalterne. Allo stesso modo, nel contesto geopolitico, il primato dei diritti dei popoli, conferirebbe pari dignità a tutti gli stati e pertanto si affermerebbe un ordine che garantisca la sovranità e l’indipendenza degli stati e salvaguardi le loro identità culturali, affrancando i popoli più deboli e meno sviluppati dalla schiavitù del debito, che costituisce oggi il principale strumento del dominio occidentale.
Nel Mediterraneo si sono scontrati due fondamentalismi contrapposti. Quello islamico è infatti un fenomeno sorto come reazione esasperata al fondamentalismo del mercato, dei diritti umani, del “destino manifesto”, quale valore identitario degli USA di origine veterotestamentaria. Occorre dunque che l’Europa decostruisca il fondamentalismo dei “valori occidentali” imposto dalla occupazione americana del secondo dopoguerra. Per istaurare un dialogo occorre che ad entrambi gli interlocutori venga riconosciuta pari dignità. Attraverso il dialogo con i popoli del MENA, l’Europa potrebbe ritrovare e riconoscere se stessa, riappropriandosi della propria memoria storica, riscoprire le sue radici identitarie (in primis il cristianesimo), le origini della sua cultura premoderna. Secondo quanto afferma Franco Cassano nel suo saggio “Necessità del Mediterraneo”: “Dal divieto dell’usura al forte rilievo dato ai doveri di assistenza agli altri membri della comunità, l’Islam può essere una sponda importante per decostruire un gioco che è alla base del fondamentalismo dell’Occidente, il solipsismo dell’individualismo radicale, l’apologia di un soggetto totalmente sradicato da qualsiasi legame sociale, un’idea della libertà sempre più anomica, costruita sul modello del consumatore più che su quello del cittadino”.
Dal dialogo con l’Europa gli stessi paesi islamici potrebbero ricavare idee e progetti per creare un modello di sviluppo e modernizzazione compatibile con la propria identità culturale onde far emancipare le loro società dalle attuali condizioni di arretratezza e sottosviluppo che hanno costituito un humus assai fertile per la proliferazione del fondamentalismo islamico.
L’Europa dovrebbe dunque effettuare una decostruzione del fondamentalismo americanista che ha determinato la dissoluzione progressiva della sua identità culturale. Ossia, dar luogo ad una rivoluzione culturale al suo interno, per assumere un ruolo da protagonista nell’era del mondo multipolare ormai alle porte. Il fondamentalismo atlantico è in una fase di declino irreversibile e la UE, mai esistita come entità geopolitica autonoma dalla Nato, è in via di progressiva dissoluzione. Così si esprime al riguardo Serge Latouche nel suo saggio “La voce e le vie di un mare dilaniato”: “Tuttavia, è proprio vero che l’Europa può rinnegare la sua progenie e sciogliere il legame di solidarietà con il “mostro” che essa stessa ha generato? A dispetto delle rivalità e degli antagonismi di ogni sorta, l’Europa resta profondamente complice e solidale con gli Stati Uniti. Per affermare e rafforzare la sua differenza, l’Europa dovrebbe ricollegarsi alle sue radici premoderne e precapitaliste, come la visione mediterranea, e ritrovare la sua parentela con il suo versante orientale e ortodosso che è sempre rimasto ai margini. Queste due Europe, del sud e dell’est, confinano con l’altro: il vicino, il medio, l’estremo Oriente e, soprattutto, confinano con il mondo musulmano nelle sue varianti turca, persiana, curda, mongola, berbera e araba. Gli scambi incessanti, anche violenti, e le complicità di ogni sorta hanno preservato sempre (o almeno per lungo tempo) queste parti d’Europa dall’autismo dell’Europa atlantica che sconfina nella dismisura americana”.
Questa Europa, oggi scristianizzata e ridotta a periferia atlantica, dovrà fuoriuscire dall’Occidente e, onde liberarsi dal dominio dell’Anglosfera oggi imperante nella UE, dovrà riscoprire la sua vocazione mediterranea per poi proiettarsi nel Medioceano.
Non si riscontrano tuttavia ad oggi segni premonitori di una possibile resurrezione dell’Europa dal baratro atlantico della post storia in cui è precipitata. Ma chi farà riemergere dall’oblio secolare il pluriverso mediterraneo?

Nota: I saggi di Danilo Zolo “La questione mediterranea”, di Franco Cassano “Necessità del Mediterraneo” e di Serge Latouche “La voce e le vie di un mare dilaniato” sono stati pubblicati nel libro di AA. VV. “L’alternativa mediterranea” a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo, Feltrinelli 2007.

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