Don Bosco: convertire i selvaggi alla Fede cattolica

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Segnalazione del Centro Studi Federici

San Giovanni Bosco non credeva al mito del buon selvaggio, perché conosceva le ferite che il peccato originale ha lasciato nella natura umana. Il testo che segnaliamo (che oggi sarebbe condannato dal politicamente corretto) si riferisce a un sogno che Don Bosco ebbe nel 1872, col quale veniva annunciato il futuro apostolato missionario dei salesiani. Tre anni dopo partì da Valdocco, a Torino, la prima spedizione missionaria per la Patagonia, guidata da don Giovanni Cagliero, futuro cardinale.
 
I Fioretti di Don Bosco – Il primo sogno missionario
 
Questo è il sogno che convinse don Bosco a iniziare l’apostolato missionario dei suoi figli Salesiani. Lo ebbe nel 1872 e lo raccontò per la prima volta a Pio IX nel marzo del 1876.
 
«Mi parve, disse, di trovarmi in una regione selvaggia e affatto sconosciuta. Era un’immensa pianura tutta incolta, nella quale non si scorgevano né colline né monti. Ma nelle estremità lontanissime la profilavano tutta scabrose montagne. Vidi in essa turbe di uomini che la percorrevano. Erano quasi nudi, di un’altezza e statura straordinaria, di un aspetto feroce, con i capelli ispidi e lunghi, di colore abbronzato, vestiti solo di pelli di animali, che loro scendevano dalle spalle. Erano armati di lunghe lance e di fionde.
 
Queste turbe di uomini, sparse qua e là, offrivano allo spettatore scene diverse: alcuni correvano dando la caccia alle fiere; altri portavano conficcati sulle punte delle lance pezzi di carne sanguinolenta. Da una parte gli uni si combattevano tra di loro, altri venivano alle mani con soldati vestiti all’europea, e il terreno era sparso di cadaveri. Io fremevo a quello spettacolo; ed ecco spuntare all’estremità della pianura molti personaggi, i quali, dal vestito e dal modo di agire, conobbi missionari di vari Ordini.
 
Costoro si avvicinavano per predicare a quei barbari la religione di Gesù Cristo. Io li fissai ben bene, ma non ne conobbi alcuno. Andarono in mezzo a quei selvaggi; ma i barbari, appena li videro, con un furore diabolico, con una gioia infernale, li assalivano, li massacravano con feroce strazio.Dopo aver osservato quegli orribili assassini, dissi tra me: «Come fare a convertire questa gente così brutale?»
 
Intanto vedo in lontananza un drappello di altri missionari che si avvicinavano ai selvaggi con volto ilare, preceduti da una schiera di giovinetti. Io tremavo pensando: «Vengono a farsi uccidere».
 
E mi avvicinai a loro: erano chierici e preti. Li fissai con attenzione e li riconobbi per nostri Salesiani. I primi mi erano noti, e sebbene non abbia potuto conoscere personalmente molti altri che seguivano i primi, mi accorsi essere anch’essi Missionari Salesiani, proprio dei nostri.
Non avrei voluto lasciarli andare avanti ed ero lì per fermarli. Mi aspettavo da un momento all’altro che incorressero la stessa sorte degli antichi Missionari. Volevo farli tornare indietro, quando vidi che il loro comparire mise in allegrezza tutte quelle turbe di barbari, le quali abbassarono le armi, deposero la loro ferocia e accolsero i nostri Missionari con ogni segno di cortesia.
 
Meravigliato di ciò, dicevo fra me: «Vediamo un po’ come va a finire!». E vidi che i nostri Missionari si avanzavano verso quelle orde di selvaggi; li istruivano ed essi ascoltavano volentieri la loro voce; insegnavano ed essi mettevano in pratica le loro ammonizioni.
 
Stetti a osservare, e mi accorsi che i Missionari recitavano il santo Rosario, mentre i selvaggi, correndo da tutte le parti, facevano ala al loro passaggio e di buon accordo rispondevano a quella preghiera. Dopo un poco i Salesiani andarono a disporsi al centro di quella folla che li circondò, e s’inginocchiarono. I selvaggi, deposte le armi per terra ai piedi dei Missionari, piegarono essi pure le ginocchia. Ed ecco uno dei Salesiani intonare: “Lodate Maria, o lingue fedeli…”, e tutte quelle turbe, a una voce, continuare il canto, così all’unisono e con tanta forza di voce, che io, quasi spaventato, mi svegliai.
 
 

Mons. Versiglia e don Caravario, martiri salesiani

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Segnalazione del Centro Studi Federici

“Siamo Missionari. Perché dovremmo aver paura di morire?”
 
Nei primi giorni del febbraio 1930 giunse al centro missionario salesiano di Shiuchow il giovanissimo missionario don Callisto Caravario (26 anni). Veniva dalla piccola comunità cristiana di Lin-chow, la più lontana dal centro della Missione. Doveva accompagnare il vescovo monsignor Versiglia (57 anni) a visitare le sue due scuolette e i suoi duecento cristiani, piccolo seme nella città di 40 mila abitanti, turbata e devastata dall’interminabile guerra civile.
Gli corsero incontro festosi diversi bambini che don Caravario aveva salvato dal caos e dalla miseria portandoli nell’Orfanotrofio e nell’Istituto Don Bosco di Shiu-chow.
23 febbraio. I bagagli per la partenza sono pronti: una ventina di colli con merce di ogni genere: abiti, paramenti sacri e materiale inviati dalla carità dei benefattori d’Italia, e il cibo occorrente per il viaggio di sette persone, che dovrà durare otto giorni (per superare una distanza di 90 chilometri!).
I confratelli salesiani hanno visto don Caravario darsi da fare attorno a tutto quel bagaglio e gli fanno allegre congratulazioni: «Quanta grazia di Dio!». E lui, con il solito sorriso buono: «Purché non vada tutto in bocca al lupo!». Poi, stringendosi nelle spalle: «Ad ogni modo, sia fatta la volontà del Signore!». Tutti sanno che questa ultima è l’espressione abituale di don Caravario «il santino». In quei giorni don Caravario ha scritto una lunga lettera a sua madre, a Torino, datandola «13 febbraio».
Partenza all’alba del 24 febbraio. Sveglia alle quattro, santa Messa, raduno dei partenti. Sono il vescovo Versiglia, don Caravario, due giovani maestri diplomati all’Istituto Don Bosco (Thong Chong Wai, pagano; M Pan Ching, cristiano), le loro due sorelle (Thong Su Lien Maria, 21 anni, maestra; M Yu Tee Paola, 16 anni, che lascia gli studi e torna in famiglia). C’è anche Tzen Tz Yung Clara (22 anni, si reca a Lin-chow come catechista). Michele Arduino, vescovo successore di monsignor Versiglia, depose: «I giovani e le giovani che venivano in collegio o tornavano in famiglia, erano sempre accompagnati dai Missionari. I genitori imponevano questa condizione ai Missionari, per lasciar partire le loro figlie. In questo caso i due giovani maestri, le loro sorelle e la catechista avevano atteso appositamente per fare il viaggio con il Vescovo e don Caravario ed esserne protetti da possibili aggressioni di pirati».
 
Sulla barca verso Nord
La comitiva, capeggiata dal vescovo Versiglia, si mosse in treno dalla stazione ferroviaria di Shiu-chow alle 8,30 del 24 febbraio. Alle 17 giunse a Lin-kong-how, sede di una Missione salesiana. Li attendeva il sacerdote don Cavada, che li accompagnò alla Missione dove pernottarono.
Il giorno dopo, 25 febbraio, monsignor Versiglia e don Caravario dissero la Messa. Poi tutti salirono sulla barca che doveva risalire verso Nord il fiume Lin-chow, e portarli alla Missione di Lin-chow dove li aspettava la piccola comunità cristiana di don Caravario. Erano le 7 del mattino. Se il viaggio in treno era durato otto ore e mezza, quello in barca (per superare una distanza quasi uguale) era previsto di sette giorni. Alla comitiva si erano aggiunti il ragazzo cristiano Luk Apiao Pietro, di 10 anni, che si recava alla scuola di don Caravario per iniziare gli studi, e un’anziana catechista che doveva affiancare il lavoro della giovane Clara. I barcaioli erano quattro: l’anziana padrona della barca, suo figlio ventenne, due robusti lavoratori (che stando a riva avrebbero trascinato la barca controcorrente nei punti più difficili).
La barca cinese è come una piccola casa: la prua è scoperta, ma la poppa è avvolta da una specie di baracca che la trasforma nella casa di chi viaggia. Sulla prua venne posto un drappo bianco con la scritta Tin Tchu Tong (Missione Cattolica). Doveva essere una specie di salvacondotto: tutti sapevano che i missionari non erano ricchi e lavoravano per la povera gente. Ma poteva essere anche un’esca che attira i malvagi…
 
25 febbraio: agguato sul fiume
Mezzogiorno. Sulla barca si prega. D’un tratto si sente un grido imperioso: «Fermate la barca!». Quella decina di uomini è vicina. Puntano fucili e pistole. Gridano: «Chi portate?». Il barcaiolo risponde: «II Vescovo e un padre della Missione». Gridano: «Non potete portare nessuno senza la nostra protezione. I Missionari devono pagarci 500 dollari in carta europea, o vi fucileremo tutti!». Le donne, udito il dialogo, capiscono subito di che si tratta. Presa la corona del Rosario, pongono la faccia sulle ginocchia, si coprono il capo con le mani e pregano.
Il Vescovo dice a don Caravario: «Di’ loro che siamo missionari, e perciò non abbiamo con noi tanto denaro».
Sentita la risposta, alcuni pirati saltano sulla barca e la esplorano. Il bambino Apiao si dichiara lestamente figlio del barcaiolo. La vecchia catechista non è degnata di uno sguardo. Ma quando i banditi scorgono le ragazze, gridano: «Portiamo via le loro mogli!». Don Caravario spiega: «Non sono nostre mogli, ma nostre alunne che accompagniamo a casa». Con bei modi (com’è d’obbligo!) i Missionari trattengono i banditi fuori della baracca. Con i loro corpi chiudono l’entrata. I pirati allora gridano: «Diamo fuoco alla barca!». Pochi metri più in là è ferma una barca carica di legna. Trasportano fascine sulla prua e appiccano il fuoco. Ma la legna è grossa e verde, stenta ad accendersi, e il Vescovo riesce a soffocare le prime fiamme. Furiosi, i pirati tirano fuori dalle fascine i rami più grossi e iniziano una terribile bastonatura sui corpi dei Missionari. Dopo molti minuti, sanguinante e sfinito, il Vescovo cade. Don Caravario resiste ancora qualche minuto, poi cade anche lui mormorando: «Gesù, Giuseppe e Maria…».
A terra, i pirati legarono i due Missionari dopo averli frugati e depredati di ogni cosa. Sul triangolo erboso della congiunzione dei due fiumi, furono gettati i Missionari e le donne, tutti in preda al dolore e allo smarrimento. «Noi dobbiamo ammazzarvi – gridò uno verso i Missionari –. Non avete paura di morire?». Il Vescovo rispose: «Siamo Missionari. Perché dovremmo aver paura di morire?».
 
Cinque colpi di fucile
I pirati ordinarono a quelli della barca di tornare a Lin-kong-how. Su di essa erano rimasti, con i barcaioli, il piccolo Apiao, l’anziana catechista, i fratelli di Maria e Paola. Quello stesso pomeriggio del 25 febbraio, alle 17, giunsero alla missione di don Cavada e diedero la triste notizia. Più rapidamente possibile furono avvertite le autorità, che fecero appello a reparti dell’esercito regolare stanziati non molto lontano.
Intanto sul fiume si consumava la tragedia. Maria testimoniò: «Distavamo dai missionari non più di tre metri. Vidi che don Caravario, chinato il capo, parlava sottovoce al Vescovo». Si stavano confessando a vicenda. La catechista Clara testimoniò a sua volta: «II Vescovo e don Caravario ci guardavano, c’indicavano con gli occhi il cielo e pregavano. L’aspetto loro era gentile e sorridente, e pregavano ad alta voce».
A un ordine dei pirati, i Missionari s’incamminarono per la stradetta che segue il corso del Shiu-pin. Li guardavano alcuni curiosi dei vicini casolari. Uno di loro sentì il Vescovo dire ai briganti: «Io sono vecchio, ammazzatemi pure. Ma lui è giovane. Risparmiatelo!».
Le donne, mentre erano spinte verso una piccola pagoda bianca, sentirono cinque fucilate. Maria testimonia: «Circa dieci minuti dopo gli esecutori tornarono e dissero ai compagni di aver loro sparato cinque colpi di fucile». «Sono cose inspiegabili – dissero –. Ne abbiamo visti tanti… Tutti temono la morte. Questi due invece sono morti contenti, e queste ragazze non desiderano altro che morire…». Era il primo pomeriggio del 25 febbraio.
 
I Martiri
Frattanto don Cavada e don Lareno (segretario del vescovo Versiglia), accompagnati dal capo della polizia di Shiu-pin, avevano ritrovato i resti dei martiri. Entrambi avevano la testa sfracellata.
La sera di domenica 2 marzo, le tre ragazze liberate dalla prigionia s’inginocchiarono a pregare davanti alle spoglie mortali dei due Missionari che avevano dato la vita per difenderle.
Monsignor Luigi Versiglia, nato a Oliva Gessi (Pavia), era entrato da ragazzino nell’Oratorio di don Bosco, nel lontano 1873. Affascinato da una spedizione di Missionari a cui assistette nella Basilica di Maria Ausiliatrice, aveva deciso di essere missionario anche lui. Nel 1906 aveva guidato la prima spedizione missionaria salesiana in Cina.
Don Callisto Caravario, nato a Cuorgnè, si era trasferito a Torino che aveva solo quattro anni. Il papà, il fratello, la sorella, e specialmente la sua dolcissima mamma Rosa, gli avevano permesso di partire appena ventunenne per le Missioni della Cina.
La lettera che don Callisto aveva scritto alla mamma il 13 febbraio (dodici giorni prima di essere ucciso), mamma Rosa la ricevette dopo che i Salesiani, con la massima delicatezza possibile, le avevano comunicato il martirio di suo figlio. Quella lettera, che conserviamo con venerazione, ha le parole leggermente confuse dalle lacrime di mamma Rosa. Don Callisto le diceva: «Fatti coraggio, mia buona mamma! Passerà la vita e finiranno i dolori: in paradiso saremo felici. Nulla ti turbi, mia buona mamma; se porti la tua croce in compagnia di Gesù, sarà molto più leggera e piacevole…».