C’era una volta il saluto romano

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di Marcello Veneziani

Non prendete questa cicalata sul saluto romano per un pezzo di nostalgismo politico e nemmeno per una chiosa alla cerimonia di Acca Larenzia, di cui abbiamo già scritto, e un commento alle previste condanne per apologia di fascismo. Sarebbe surreale e insensato, fuori luogo, fuori tempo. Questo è puro vintage, racconto di colore, dove la nostalgia assume tratti sentimentali, emotivi ed estetici, non politici, storici e ideologici; temperati dall’ironia.

Novantanove anni fa entrava in vigore un decreto governativo che rendeva obbligatorio il saluto romano nei luoghi pubblici e nelle sedi amministrative. Non fu una trovata di qualche oscuro gerarca; l’idea originaria veniva da D’Annunzio ed evocava il romano Ave Caesar.

Ci restano nelle memorie degli anni passati, distese di saluti romani ai funerali di Almirante e Romualdi, di Rauti e di Buontempo, ma anche di Giano Accame e di altri meno famosi personaggi. Il camerata officiante gridava il nome del defunto e la comunità ripeteva in coro “Presente!”, facendo tutti il saluto romano.  Anche a chi era estraneo al piccolo mondo antico del cameratismo, quel rito d’addio pareva avere una forza liturgica e rituale così intensa e corale che nemmeno la funzione religiosa riusciva a esprimere. Raccontava una vita e una morte, una storia e una comunità. Nulla di retorico o di minaccioso. Mi colpirono da ragazzo i saluti romani indirizzati alla bara del Principe Junio Valerio Borghese. Erano allora un atto di epica strafottenza verso il mondo e il potere, la viltà dei benpensanti e l’arroganza dei pugni chiusi accompagnati da spranghe e catene. Li vedevo con gli occhi di un ragazzo colpito dai gesti simbolici in luoghi sacri. Erano gli anni settanta, duemila anni fa.

“Selva di braccia tese”, cantava Lucio Battisti e i ragazzi con la testa “fasciata” pensarono orgogliosi che si riferisse a loro. Vero o falso, come poi mi disse il suo paroliere, Mogol, quella frase entrò nel mito, nei cuori e nelle mani di molti ragazzi. Lucio è nostro, Lucio è nostro…

I più teatranti allungavano il braccio al cielo, i più ispirati ne rivolgevano pure lo sguardo, i più timidi accennavano una manina atrofizzata, i più fanatici salutavano alla tedesca, i più coreografici accompagnavano il saluto romano con un batter di tacchi e il mento in alto. Comodi, riposo, dicevano i più ironici e chi sapeva distinguere tra la storia e la parodia. Al saluto romano i più scettici con licenza ginnasiale rispondevano: Ave Caesar morituri te salutant. E il camerata dopo il saluto romano usava la stessa mano per una più prosaica grattata ai genitali. “A noi!” gridavamo in sezione al vecchio camerata sordastro. “Tutto a noi e niente a loro”, rispondeva sempre lui. Un altro lo chiamavano Mani di fata, l’unico gay capitato tra i virili camerati, che salutava romanamente con la manina delicata; poco fascio ma tanta grazia. Se a un democristiano stringere le mani in campagna elettorale portava voti, a un candidato missino li toglieva. Ogni mano stretta era un saluto romano in meno. Sarà un traditore, un badogliano, non avrà le mani pulite. I camerati duri e puri, invece, non si accontentavano del Saluto Romano, preferivano il saluto personale con l’avambraccio, uno avvinto all’altro. L’intensità del saluto misurava il camerata in purezza. Ammazza che forza, sarà un camerata de core e de fegato, un centurione.

Il saluto romano cominciò a declinare quando cominciarono le vie di mezzo, i saluti a mezz’asta, le manine ambigue con leggera motilità, per dissimulare l’atto impuro, come quelle che si usavano nelle auto kitsch di un tempo appiccicate ai lunotti.

Sono grotteschi i saluti romani a babbo morto in epoca democratica e antifascista. Ma ancora più ridicolo era far scattare la denuncia d’apologia di fascismo per un saluto innocuo e antico, come se il folclore fosse criminalità; per giunta in una cerimonia funebre. Il fatto che le cerimonie fasciste coi saluti romani siano avvenute tutte ai funerali dimostra ancora di più che il fascismo è terra dei morti e in articulo mortis non c’è articolo di legge che regga. La nostalgia è un sentimento, a volte un risentimento, ma non un delitto, e nemmeno un reato. Si può esser giudicati fessi per un saluto romano, non delinquenti. Anacronisti, non terroristi. Tanto per fare archeologia comparata, non mi dispiace neanche il pugno chiuso, ha una forza simbolica raccolta e concentrata, una promessa che coincide con una minaccia, ma indica la fierezza di un movimento in lotta. Il saluto romano è un segno più estroverso, meno cattivo, più classico, più latino, più naturale, più socievole e più teatrale, perfino autoironico…

Il saluto romano evitava con un gesto unico e collettivo giri prolissi con fastidiose strette di mano, scambi di cortesi e sudate ipocrisie del tipo “piacere, onorato, molto lieto”, e via coglionando il prossimo con ricevuta di ritorno. 

Mi sovvenne il saluto romano dopo una conferenza in un Lions o in un Rotary club, quando alcune persone stringendomi la mano, mi tastarono con un dito il polso; pensai che fossero medici ma poi mi dissero che era un saluto massonico. Se era ridicolo il primo, non vi pare ridicolo pure il secondo? Erano un po’ comici i camerati che a fascismo sepolto andavano in camicia nera, ma non trovate un po’ comici pure i fratelli col cappuccio e il grembiulino nelle loro sedute segrete?

Rimpiansi, invece, il saluto romano affacciandomi a Bologna da osservatore a un’assemblea nazionale di An. Dovevo urinare con una certa urgenza (fui precursore della Meloni incontinente) ma entrando in bagno fui bloccato da una fiumana di postfascisti reduci dai gabinetti – si vede che dopo Fiuggi la parola d’ordine, categorica e impegnativa per tutti, era: Mingere e Mingeremo – e mi strinsero tutti calorosamente la mano. Considerando che, secondo statistica, uno su due uscendo dal bagno non si lava le mani, e la statistica non mi pare limitata all’arco costituzionale, fu una catastrofe sanitaria. Rimpiansi allora i tempi d’oro del saluto romano, più rapido, più igienico, come diceva Trilussa e poi Almirante. Memorie prostatiche alla ricerca del tempo perduto.

La Verità – 13 gennaio 2024

In ricordo di Alberto Giaquinto, assassinato 41 anni fa. Domani convegno al Cis di Roma

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Aveva 17 anni, Alberto Giaquinto, quando venne ucciso da un poliziotto in borghese. Stava partecipando alla commemorazione della strage di Acca Larenzia, avvenuta un anno prima. Era il 10 gennaio 1979 e “uccidere un fascista non era reato”, chiunque lo facesse. Così per lui, come per tanti altri giovani missini che pagarono con la vita la loro militanza, non ci fu giustizia. L’agente Alessio Speranza, quattro processi e quasi 10 anni dopo, ricevette sì una condanna, ma non per omicidio. “Eccesso colposo di legittima difesa”, sentenziò la Cassazione. Pena comminata: 6 mesi.

Il ricordo di Alberto Giaquinto al Cis di piazza Tuscolo

A 41 anni di distanza, il sacrificio di Alberto Giaquinto sarà ricordato, come ogni anno, alla sala convegni del Cis di piazza Tuscolo, a Roma, che proprio al giovane missino è intitolata. L’appuntamento è per giovedì 9 alle 18, per un incontro al quale parteciperanno il saggista Adalberto Baldoni, il senatore Domenico Gramazio e il giornalista Piergiorgio Francia. Interverranno, inoltre, Antonella Mattei, sorella di Virgilio e Stefano, e Francesca Mancia, sorella di Angelo.

La stagione dell’odio politico

L’incontro, dunque, sarà l’occasione per una riflessione sulla stagione di odio politico che insanguinò l’Italia e sulle responsabilità – istituzionali, culturali, politiche – che troppo spesso relegarono i morti missini a morte di serie B. Tra colpevole incapacità di rintracciare gli assassini e infami connivenze nel coprire quelli che erano stati identificati.

Da https://www.secoloditalia.it/2020/01/in-ricordo-di-alberto-giaquinto-assassinato-41-anni-fa-domani-convegno-al-cis-di-roma/

Acca Larentia, un simbolo di lotta da onorare. Per sempre

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Acca Larentia, anche senza giustizia quel martirio resta incancellabile

42 anni e il ricordo non svanisce.Anzi, la memoria resta ancorata a quel sacrificio. Franco, Francesco e Stefano, martiri di Acca Larentia: i loro nomi rimangono per l’eternità nel cuore di una comunità che non smette di versare lacrime. Con loro c’erano Enzo, Maurizio e Pino, che riuscirono a portare a casa la pelle in quella che era una guerra senza fine.

Roma insanguinata, quel 7 gennaio del 1978. Il brutale eccidio di quella sera come un’azione militare: i terroristi rossi assassinarono Bigonzetti e Ciavattadavanti alla sezione martire. Poi cadde a terra, ucciso anche lui, Stefano Recchioni che stava lì come tutti, incredulo per quella strage. Abbattuto da una pallottola che il capitano dei carabinieri Sivori negò di aver sparato. E il tribunale gli diede ragione. Chissà chi fu….

Poi Giaquinto. E Mancia…

Un anno dopo toccò, a Centocelle, ad Alberto Giaquinto. Chiunque militava, in quegli anni terribili, si smarriva, perché ogni sera, al rientro a casa, poteva toccare a lui. O persino al mattino, come un paio di anni dopo accadde ad un altro indimenticabile, Angelo Mancia.

Sono storie drammatiche, incancellabili soprattutto per chi le ha vissute. Nel maggio dell’anno dopo spararono ancora, sempre davanti a quella sezione. C’eravamo noi. E ci salvammo, per pura fortuna. O per un miracolo. Quella destra era un bersaglio: fare politica bei quartieri più popolari, era considerato un crimine dal terrorismo rosso che si organizzava contro di noi.

Acca Larentia, un simbolo

Acca Larentia non si dimentica perché è diventata un simbolo. Per alcuni, la strage rappresentò uno spartiacque, il segnale che bisognava difendere la nostra gioventù. Si separavano le strade, tra chi sceglieva la strada della giustizia armata e chi cercava ancora quella che sembrava impossibile, quella della militanza. Il sangue non finiva di scorrere.

Il Msi subì un autentico martirio in quegli anni, decine e decine di Caduti per una bandiera. Per un’idea. Per una testimonianza. Non si ambiva al potere, in quel tempo: in gioco c’era la sopravvivenza. Ecco perché chi fa politica oggi – anche ai più alti livelli – non deve mai dimenticare quel sangue. Ed è importante soprattutto ora che la destra italiana risorge. È una storia che merita profondo rispetto quella del Msi, anche nella simbologia, soprattutto di questi tempi in cui è così facile bollare il nemico come fascista, per non avere rimorsi nel colpirlo. Né fisicamente, né con la parola, i titoli, le inchieste fasulle.

Fieri di quei martiri. Per sempre

Quel sangue rappresenta ancora oggi un segno di lotta senza la quale tutto sarebbe finito. Il coraggio di quei militanti – e per alcuni di loro persino la vita – ha preceduto il cammino di oggi: dobbiamo continuare ad esserne fieri. Si moriva per un’idea. La nostra idea. Ecco perché non riusciamo proprio a cambiarla. Nessuno si permetta mai di dubitare dell’amore per la democrazia da parte di quei nostri martiri. L’apertura di una sezione era una conquista territoriale, per i comunisti rappresenta a una sconfitta, per chi viveva di odio e antifascismo un’onta.

Ciascuno di noi era là. Ieri fisicamente, oggi spiritualmente. Quel Presentesignifica soprattutto questo. Vale per Franco, Francesco e Stefano. E vale per ciascuno di noi. Ora e per sempre.
Anche per loro vale la domanda di giustizia che non si ottiene ancora.

Da https://www.secoloditalia.it/2020/01/acca-larentia-anche-senza-giustizia-quel-martirio-resta-incancellabile/