La mafia di Messina Denaro è già morta da anni

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Non è facile trovarci d’accordo con editoriali di “Domani”, quotidiano progressista. Ma, stavolta, molti elementi (non tutti) di questo articolo ci trovano d’accordo e riteniamo utile riproporli (n.d.r.)

Attilio Bolzoni
18 gennaio
È un mafioso quasi morto che appartiene a una mafia già morta. Il suo arresto non è altro che il bollo dello stato su una battaglia vinta almeno una quindicina di anni fa, il sigillo sulla disfatta di Corleone inteso come potere mafioso, terrorismo, come ricatto alle istituzioni. Con l’ultimo dei boss di quella generazione dannata cade però anche l’ultimo alibi.

D’ora in poi vedremo (o, forse, non lo vedremo mai) quale sfida sarà lanciata agli organismi criminali che infestano l’Italia. C’è una mafia degli incensurati che sembra ancora intoccabile, una mafia “trasparente” – per usare la felice definizione di una giudice siciliana – che si è fatta sistema infetto.

LA MAFIA CHE NON C’È PIÙ

La cattura di Matteo Messina Denaro è uno spartiacque, è il confine tra un’epoca e l’altra ma anche il momento nel quale si può misurare la capacità e la volontà dello stato di non farsi sopraffare un’altra volta.
In queste ultime ore ho sentito e letto tante stupidaggini e grossolane interpretazioni intorno alla fine della latitanza del boss: «La mafia è stata sconfitta»; «L’antimafia non ha più senso»; «Cosa nostra addio, basta 41 bis e leggi speciali».

Le stesse parole le avevo ascoltate anche nel dicembre del 1987, subito dopo le condanne al maxi processo di Palermo. Inni al trionfo. Nemmeno un mese dopo il Csm umiliò Giovanni Falcone non nominandolo consigliere istruttore a Palermo, due anni dopo ci fu l’attentato contro di lui sulla scogliera dell’Addarura, nel 1992 lo fecero saltare in aria insieme a Paolo Borsellino. Andrei molto cauto nel cantare vittoria con tanta sicumera. Sarebbe magari più giusto dire: una mafia è stata sconfitta, “una” e non “la” mafia.

LA POLITICA CHE “ARRESTA” I BOSS

Bisogna ragionare a freddo su Matteo Messina Denaro e non farsi prendere la mano o sbracare come fa quel titolo di giornale (“Bingo, preso un altro boss con la destra al governo”), personalmente sono contento quando arrestano un mafioso durante i governi di centrodestra e quando li arrestano durante i governi di centrosinistra, perché in realtà ad arrestare sono stati i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale, il Ros, comandante Pasquale Angelosanto, da non confondere con il Ros di trent’anni fa, comandante Mario Mori, quello del covo non perquisito al capo dei capi Totò Riina.

Torniamo a lunedì. Comprensibile l’euforia per la cattura di un mafioso che sembrava imprendibile e che ha fatto girare la testa ai cacciatori di latitanti, comprensibile anche la speranza che il fermo possa portare allo sviluppo di indagini interessanti e alla scoperta di altri complici. Ma c’è altro nella vicenda da esaminare.
Fin da subito si è diffusa la voce che l’arresto di Matteo Messina Denaro non sia stato il risultato delle investigazioni dei carabinieri, ma che lui si sia consegnato.

Qualcuno ha parlato anche di una telefonata arrivata al 112 («Venite a prendere Messina Denaro: è qui») e che, addirittura, all’altro capo del telefono ci fosse proprio lui. Non credo che le cose siano andate così. Credo piuttosto che l’inchiesta – lunga, complicata, con intercettazioni che hanno scoperto la malattia del boss indirizzando i carabinieri nella clinica di Palermo – sia arrivata quando Matteo Messina Denaro era da molti mesi rassegnato.

IL CANCRO E LA RASSEGNAZIONE

Il cancro, la fuga sempre più difficile, la rete di protezione sempre più smantellata, addosso il fiato dei reparti antimafia più efficienti e agguerriti. Se non andassimo incontro a fraintendimenti, potremmo anche chiamarla resa, ma un arrendersi dolcemente al nemico, senza gesti plateali, senza patti né scambi.

Era stanco Matteo Messina Denaro, stava male. Sapeva che, prima o poi, l’avrebbero intrappolato. Da una parte c’è l’indagine come andava fatta, dall’altra c’è l’uomo che si stava spegnendo. È ragionevole pensare che la cattura di Matteo sia il risultato perfetto di circostanze intrecciate. Un amico, ieri sera, con arguzia mi ha fatto notare la “serenità” delle immagini che riprendono Matteo sulla scena, fuori dalla clinica, filmati ufficiali e amatoriali tutti molto soft, morbidi, senza tensione alcuna.

Quanto sia grave il suo tumore non lo sappiamo ma sostenere che il boss sia in perfetta forma mi pare azzardato. Quanta vita gli rimane? Tre mesi? Un anno? Dieci anni? Il tempo è decisivo. Perché tutti intanto si chiedono: parlerà o non parlerà, cederà o non cederà?

VUOTERÀ IL SACCO?

Interesse a svelare segreti, in teoria non ne ha. Tiene famiglia. Il fratello Salvatore, le quattro sorelle, i cognati, la madre Lorenza, la figlia Lorenzina. Se apre bocca consuma tutti. Anche economicamente, visto il patrimonio che ha accumulato con i suoi affari fra l’eolico e la grande distribuzione. Meglio stare zitti.

Ha pur sempre una reputazione da mafioso da difendere, soprattutto se è convinto che non abbia molto da vivere. Ma non si sa mai. La mente umana è imprevedibile e, chissà, se il boss di Castelvetrano non smentisca sé stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco.
La lista potrebbe comprendere: i mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993; le protezioni di cui ha goduto; l’archivio di Totò Riina che, secondo alcuni pentiti, sarebbe in suo possesso; le relazioni che ha intessuto con imprenditori in mezza Sicilia.
Primo punto. Con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano è l’unico ormai in vita (Leoluca Bagarella si è curato in Cosa nostra solo della macelleria) che conosce i segreti degli accordi stipulati da Totò Riina con «quelli di lassù», Roma e Milano, nell’anno e mezzo che separano Capaci e via D’Amelio dal fallito attentato all’Olimpico, passando naturalmente dal massacro dei Georgofili di Firenze del maggio 1993. È uno degli ultimi testimoni mafiosi di quella spaventosa stagione italiana.

Secondo punto. Per restare alla macchia trent’anni serve una montagna di denaro e protezioni di alto livello, che non possono includere soltanto quel centinaio di vivandieri che gli hanno assicurato riparo fra Castelvetrano e Marsala, fra Campobello e Palermo. Ci vuole ben altro per conquistarsi la libertà per oltre un quarto di secolo. Amici dappertutto, anche fra le forze di polizia. Spiate. Una singolare coincidenza – ma attenzione è solo una coincidenza temporale – è l’arresto che avviene appena un mese dopo l’entrata nel carcere milanese di Opera dell’ex sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì, rampollo di un’aristocratica famiglia trapanese che con i Messina Denaro ha storicamente avuto stretti rapporti.

D’Alì è stato condannato definitivamente in Cassazione a 6 anni di reclusione per concorso esterno, doveroso ricordare però che il suo «essersi speso a favore dell’associazione denominata Cosa nostra» è cessato nel 2006. In trenta giorni, ecco la coincidenza, sono finiti tutti e due in galera.

Terzo punto. L’arma letale è il tesoro di Totò Riina, le carte che non sono state recuperate nella villa di via Bernini a Palermo perché una squadretta di mafiosi ha ripulito le stanze accuratamente grazie a un “disguido” dei carabinieri di Mori, che invece avrebbero dovuto sorvegliare ogni movimento intorno alla villa. «Ci sono cose da far tremare l’Italia», hanno confessato più collaboratori di giustizia ai procuratori di Palermo. L’archivio sarebbe nelle mani di Matteo. Una bomba. Se lo facesse ritrovare, ci sarebbe veramente di che scrivere.

IL GIRO DEI SOLDI

Quarto punto. L’abbiamo sempre dipinto come il mafioso imprenditore che controllava ogni piccola e grande attività economica sul suo territorio. Se andiamo nell’area commerciale di Castelvetrano, appena fuori dallo svincolo autostradale della Palermo-Mazara del Vallo, si può fare una conta di chi è riuscito per esempio a piazzare il suo business proprio lì, nel regno di Matteo Messina Denaro pur provenendo da lontane zone dell’isola.

Se spulciamo gli atti della confisca del patrimonio – valutato un paio di miliardi (sì, miliardi) di euro dal tribunale per le misure di prevenzione di Trapani – di Carmelo Patti, morto qualche anno fa e patron del gruppo Valtur, colosso del turismo e considerato molto vicino a Matteo Messina Denaro, troveremo nomi e cognomi di imprenditori che rimandano ad altre sconce vicende siciliane dove gli affari si legano ai segreti, intesi come servizi e intesi come misteri.

A proposito di Carmelo Patti, in origine uno dei principali fornitori di componentistica elettronica della Fiat, un giorno del 1998 è ritornato in Sicilia per investire i suoi soldi. Il più famoso prestanome di Matteo Messina Denaro si è presentato al circolo della stampa del teatro Massimo esordendo così: «Dopo tanto tempo sono ancora qui perché, ormai, è evidente a tutti, che la mafia non c’è più». Che brutto vizio quello di negare. Porta anche male.

Pentimento Grande Aracri, terremoto giudiziario in caso di conferma delle dichiarazioni

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di AMDuemila

Se le dichiarazioni del boss Nicolino Grande Aracri venissero riscontrate da parte degli inquirenti si scatenerebbe un vero e proprio terremoto giudiziario, non solo contro la ‘Ndrangheta ma anche nei confronti di quel “mondo di mezzo” composto dai cosiddetti “colletti bianchi”, professionisti e funzionari infedeli compiacenti.
Sopratutto le sue dichiarazioni potrebbero andare a incidere su molti filoni investigativi e processuali in corso o conclusi in assoluzione, in virtù del ruolo apicale ricoperto per molto tempo all’interno della consorteria criminale.
Ma se la sua decisione di collaborare con la giustizia da un lato potrebbe portare notevole beneficio all’azione giudiziaria, dall’altro solleva molte domande. Andiamo per ordine.
Nicolino Grande Aracri oltre ad essere stato condannato a molteplici ergastoli per essere stato il mandante di sette delitti che insanguinarono il Crotonese negli anni tra il ’99 e il 2000 e per l’omicidio di Giuseppe Ruggero, commesso a Brescello nel ’92 ed eseguito da un commando di killer travestiti da carabinieri, ha anche subito diverse altre condanne detentive ed è tutt’ora implicato in numerosi processi penali su cui potrebbero piovere come macigni le sue presunte confessioni. Come ad esempio, il processo Scacco Matto, nel quale Aracri è stato condannato a 17anni di carcere (ormai esauriti) per associazione mafiosa e in cui si è sancito come la famiglia Grande Aracri si era legata con i Nicoscia di Isola Capo Rizzuto per scalzare il comando dei Dragone a Cutro e degli Arena a Isola Capo Rizzuto, è direttamente collegato ad un altro un altro processo, denominato Kyterion – in cui si è scoperto che il boss della famiglia Dragone, Raffale, venne ucciso da Grande Aracri – citato nel maxi processo “Rinascita Scott” in corso a Lamezia Terme. Vedremo quindi il boss Grande Aracri testimoniare davanti ai pm dell’aula bunker?
Sarà in grado di dirci qualcosa in merito anche ad altri avvenimenti in cui è implicato? Come ad esempio sull’assoluzione decisa dalla corte di appello di Bologna per i suoi presunti sodali, Angelo Greco, Antonino Ciampà e Antonio Lerose finiti sotto processo per l’uccisione di Nicola Vasapollo, compiuto a Reggio Emilia; o anche in merito ai quattro omicidi commessi nei primi anni novanta dal pentito Salvatore Cortese, suo ex braccio destro; c’è poi il processo Grimilde contro le “nuove leve” della cellula emiliana di ‘Ndrangheta e l’inchiesta FarmaBusiness, in cui i suoi familiari (di Grande Aracri n.d.r) sono stati accusati di aver messo le mani sullo smercio e la vendita dei farmaci e di aver cercato un accordo con l’ex presidente del consiglio regionale Domenico Tallini.
Poi ancora c’è l’inchiesta Thomas contro i presunti colletti bianchi del clan e le indagini più recenti contro la cosca di San Leonardo di Cutro, ritenuto organico della “provincia” di ‘Ndrangheta fondata da Grande Aracri, E sulla faida scoppiata in Emilia negli anni di piombo? Continua a leggere

Quando Aquarius collaborava coi boss del traffico di esseri umani

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Aquarius e Al-Bija

La cordiale cooperazione tra alcune ONG e la Milizia di Zawiya è durata per ben due anni, fino agli accordi presi tra il governo italiano e il Presidente del Governo di Accordo Nazionale della Libia, al-Serraj, che ha portato anche all’arresto dei membri di Al-Bija

Pubblicato da Antonio Schiavone

Sta facendo tanto scalpore in queste ore il blocco dei porti italiani ad opera del governo nei confronti della nave Aquarius. Con una lettera alle autorità di Malta il titolare del Viminale Matteo Salvini (LEGA) ha chiesto di far approdare alla Valletta l’imbarcazione con 629 migranti a bordo essendo quello il «porto più sicuro» e, con il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli (M5S), ha negato all’imbarcazione, di proprietà dell’ONG Sos Mediterranée, l’autorizzazione ad approdare in Italia.

Subito le solite accuse di razzismo, xenofobia, fascismo hanno fatto la loro comparsa sui giornali e sulla bocca delle anime belle dell’accoglienza ad ogni costo (che fa girare tanti miliardi in quello che è diventato un vero e proprio business).

Da parte nostra, ricordiamo ancora una volta come siano spesso proprio le ONG a mettere a rischio l’incolumità dei migranti e come quest’ultime spesso abbiano rapporti diretti con i trafficanti di esseri umani. Continua a leggere

Matteo Messina Denaro, ritratto del boss invisibile (e dei suoi incredibili pizzini)

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Segnalazione Linkiesta

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Matteo Messina Denaro, ritratto del boss invisibile (e dei suoi incredibili pizzini)
Ha fama di playboy esuberante. È appassionato d’arte e archeologia oltre che di automobili e abbigliamento di lusso. Un estratto del libro “L’Invisibile” di Giacomo Di Girolamo, in cui si racconta della comunicazione nella latitanza del boss dei boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, e di come e perché la vecchia carta abbia ancora la meglio sui pixel (LEGGI)

Linkiesta | Longread è una collaborazione tra Linkiesta e il Saggiatore, storica casa editrice milanese, di cui ogni domenica pubblicheremo l’estratto di un libro, non necessariamente una novità editoriale, che si lega all’attualità dei sette giorni appena trascorsi.  

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