LA CHIESA E LA QUESTIONE EBRAICA: VADEMECUM MAGISTERIALE PER I NUOVI ERETICI: I “CRISTIANI GIUDAIZZANTI”

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di Matteo Castagna

Herman de Vries de Heekelingen (1880-1942) era uno studioso e autore olandese che visse la seconda metà della sua vita in Svizzera. Fu professore di paleografia all’Università cattolica di Nijmegen e ne diresse la biblioteca dal 1923 al 1927.

Antonio Gramsci scrisse che egli “ha collaborato alla «Critica fascista». (Sull’organizzazione di questo Centro cfr le notizie pubblicate nella «Nuova Antologia» del 16 gennaio 1928). Il Centro fa un servizio di informazione per chiunque su ogni argomento che possa avere rapporto col fascismo”. (Quaderni dal Carcere, n. 3 (XX) § (106).

Fu autore cattolico prolifico. Tra le sue fatiche letterarie troviamo “Juifs et catholiques”, Parigi, 1939, e da qui pubblichiamo alcuni degli stralci più attuali e, per alcuni, probabilmente inediti.

“Questo, come altri scritti dello stesso genere, che anche nella terminologia risentono del clima politico di quegli anni, vale unicamente come documento storico”.

Nonostante il fatto che in Italia, la finestra di Overton costruita dai comunisti e dai loro figliocci politici, impedisca la trattazione di questi argomenti con la serietà e la serenità date dal racconto dei fatti, al netto di ideologie o interessi partigiani, ci sono attenti studiosi, che raccolgono documenti e testimonianze, cui la finestra chiude anche le imposte, ma che contengono contenuti chiari e ben difficili da smentire.

Nondimeno, illustrando obiettivamente l’atteggiamento della Chiesa tradizionale nei confronti della questione ebraica, queste pagine di Vries De Heekelingen conservano un interesse ancora maggiore, soprattutto in tempi come i nostri, caratterizzati da deferenza, se non addirittura da servilismo, verso i “fratelli maggiori”.

Ma se un “dialogo” ha da essere, che sia almeno un dialogo fra pari.

Scrive Vries De Heekelingen: “avversari e difensori degli ebrei invocano spesso l’autorità della Chiesa. Fra gli atti dei concili o delle bolle papali ognuno cerca ciò che più gli conviene. Perdendo di vista i princìpi generali, non ci si rende conto che questi atti, ancorché dissimili, non sono affatto contraddittori” (…)

“Così si esagera, nell’uno e nell’altro senso. Si scade nel tifo e si abbandona il rigore per la verità”.

“I giudeofili, ad esempio, in questi ultimi tempi, sono riusciti ad accreditare l’idea che una difesa abbastanza vigorosa contro l’influenza ebraica sarebbe contraria allo spirito della Chiesa (…)

Certo, la Chiesa ha sempre condannato le vessazioni e le persecuzioni. Essa non si è mai sognata di proibire il culto ebraico, ma ha costantemente rammentato ai Capi di Stato che bisognava tenere lontani gli ebrei dalle funzioni pubbliche”.

“La storia, a partire dalla Rivoluzione Francese, ha dimostrato quanto questo atteggiamento avesse fondamento. Cacciando Dio dal governo e aprendo la porta agli ebrei, si è consegnato loro il mondo” – scrive il Prof. Herman de Vries de Heekelingen.

Nella legislazione medievale l’opposizione al giudaismo religioso era accompagnata da una tolleranza basata su una un’altrettanta precisa convinzione religiosa. “Successivamente questa tolleranza per convinzione religiosa si è trasformata in una tolleranza per indifferenza, e si è finito per non distinguere più ciò che bisognava tollerare da ciò che bisognava proibire”.

Balbettando la parola “tolleranza” si pensava di aver fatto il proprio dovere. “Ma la vera tolleranza di fatto esige l’intolleranza di principio, mentre ora si è tolleranti di principio e spesso intolleranti di fatto”. Possiamo riferirci a molti, cosiddetti “Pro-Pal” dei centri sociali o dei circoli anarchici attuali, che hanno fatto della parola “tolleranza” il loro grido di battaglia, ma sono grottescamente smentiti dai loro violenti comportamenti di piazza e dalle loro brutali invettive social.

Essendo ormai scomparso l’antigiudaismo teologico, equilibrato e motivato, governato dalle leggi della Chiesa e degli Stati, ha finito per affermarsi l’antisemitismo razziale (…).

“Taluni, poco al corrente delle dottrine della Chiesa, fanno una distinzione fra i Papi filosemiti e i Papi antisemiti. Questo è un errore. Dalle origini ai giorni nostri la dottrina della Chiesa sul problema ebraico non è mai cambiata – scrive correttamente il docente olandese. Con la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II (1962-1965) si è trasformata in senso ecumenista, arrivando perfino a sdoganare posizioni condannate dai primi Concili della Chiesa proposte dai cosiddetti “giudeo-cristiani”.

Sia chiaro che “la Chiesa condanna l’odio, le persecuzioni e l’omicidio. La Chiesa condanna le accuse non fondate ed ogni atto contrario alla giustizia e alla carità, si tratti degli ebrei o di altri popoli. Ma la Chiesa ordina di difendere la verità, l’onestà negli affari, i buoni costumi e l’ordine costituito”.

La Chiesa ci obbliga alla difesa dei valori cristiani – incalza il Prof. de Vries de Heekelingen.

“Su tutti questi punti i Papi non hanno mai cambiato, ma si sono sforzati di trovare una soluzione all’eterna questione ebraica. Le loro misure furono adattate all’epoca in cui sono state prese.

“Se un Papa ha usato la dolcezza per giungere ad una soluzione e se il suo successore, constatando il risultato disastroso di certe misure, le ha abrogate e sostituite con altre più severe, non è esatto definire il primo Papa un giudeofilo e il secondo un antisemita”, come la società delle etichette è abituata a fare con tutti.

“Ma per quale ragione i Papi sono costretti a utilizzare metodi differenti?

Essi si sono visti obbligati a proteggere gli ebrei, perché i popoli cercavano di liberarsi dall’oppressione giudaica con la violenza e l’omicidio.

E perché i popoli erano ricorsi a questi mezzi estremi?

Perché essi non avevano seguito le prescrizioni della Chiesa di tenere gli ebrei lontani dal potere e di avere a che fare il meno possibile con loro.

La Chiesa non è mai cambiata nel suo insegnamento. La politica dei Papi verso gli ebrei, malgrado le divergenze apparenti, è di una notevole uniformità.

La Chiesa ha sempre rispettato gli ebrei in quanto individui, ha autorizzato il loro culto, ma li ha tenuti lontani dal potere per impedire che nuocessero ai cristiani e al cristianesimo; ha semplicemente ordinato misure di difesa”. Mons. Delassus riassume in modo felicissimo la regola che ispira la legislazione della Chiesa verso gli ebrei: «Bisogna lasciarli vivere in sicurezza, ma bisogna impedire che i cristiani cadano in loro potere»[1]. L’ab. Joseph Lémann definisce così l’atteggiamento della Chiesa:

«Piena di rispetto, compassione e misericordia, ma anche circospetta e prudente» [2] (…)

In un discorso al Gran Sanhedrin, riunito da Napoleone, Isaac Avidgor ricordava che i Papi hanno sempre protetto gli ebrei contro le persecuzioni e che spesso hanno accordato loro asilo ad Avignone e a Roma. Ricordava Gregorio Magno, che li protesse nel VI secolo[3], Alessandro II, che fece lo stesso nel X secolo, Innocenzo II, Alessandro III, Gregorio IX, che facilitarono agli ebrei i mezzi d’istruzione, Clemente VI, che accordò loro asilo ad Avignone[4].

Si potrebbero aggiungere a questo elenco Onorio III e Urbano V, che proibirono il battesimo coatto degli ebrei, Sisto V, che accordò loro alcuni privilegi, ed altri Papi ancora. Alessandro II e Gregorio IX protessero gli ebrei contro gli eccessi sanguinosi dei Crociati, Clemente VI li protesse contro i Pastorelli, altri Papi li difesero dall’accusa di avvelenare le fonti.

Un’altra prova della loro mansuetudine verso gli ebrei ci è fornita dallo storico protestante Basnage, il quale scrive all’inizio del XVIII secolo:

«Abbiamo voluto conoscere in modo più esatto il numero e l’attuale situazione delle loro sinagoghe nello Stato Pontificio. Se ne contano nove a Roma e diciannove nella campagna, trentasei nelle Marche di Ancona, dodici nel patrimonio di S. Pietro, undici a Bologna e tredici nella Romagna … Questo censimento fa vedere che c’è ancora un numero considerevole di sinagoghe nella parte del mondo in cui la Chiesa romana regna con maggiore autorità» [5].

«Gli ebrei – scrive il p. Weiss – furono trattati con la più grande mitezza fino a quando, per colpa loro, non persero la protezione di cui erano oggetto, per via della loro innata abilità a tagliare le cinghie sulla pelle dei cristiani, protezione di cui godettero nel medioevo troppo spesso a spese e con grande malcontento dei popoli cristiani» [6].

«A Roma più che altrove gli ebrei, quando si sforzavano di essere meno usurai e meno fanatici, furono difesi e protetti» [7], ma ogni volta il loro comportamento obbligò i Papi a ritornare sulle misure prese a loro favore.

Se il loro pontificato era di durata abbastanza lunga, l’atteggiamento degli ebrei li obbligò a fare marcia indietro, a revocare le misure prese nei confronti degli ebrei e a rimanere rigorosamente entro i limiti della giustizia. Se il loro pontificato era breve, furono i loro successori a revocare le misure generosamente emanate dai loro predecessori.

Dopo la liberalità di Martino V, i comportamenti degli ebrei costrinsero Eugenio IV a prendere misure estremamente severe contro di essi. Quando Nicola V e Callisto III si mostrarono tolleranti nella speranza di convertirli, gli ebrei divennero così invadenti che un secolo dopo Paolo IV fu costretto a relegarli nel loro quartiere e ad isolarli dalle loro vittime.

Pio IV fu tollerante e fece loro delle concessioni. Il suo successore, San Pio V, fu costretto a ristabilire i canoni in tutto il loro rigore. Sisto V non fu più fortunato; pochi anni dopo il suo pontificato, Clemente VIII dovette convenire che «tutti soffrono delle loro usure, dei loro monopoli, delle loro frodi; hanno ridotto sul lastrico una moltitudine di infelici: principalmente i contadini, il popolino e i poveri» [8].

Siffatti comportamenti determinarono altresì l’istituzione della “rouelle”, un segno distintivo, generalmente di color giallo, che gli ebrei erano costretti a portare in bella mostra sui loro vestiti.

Nel 1215 il Concilio del Laterano generalizzò questa usanza, già osservata in molte regioni.

La Chiesa non aveva affatto l’idea di imporre agli ebrei un segno infamante, ma voleva semplicemente distinguerli dai cristiani con un qualche tratto particolare del loro abbigliamento. Si voleva avvertire la gente del popolo che aveva a che fare con un ebreo e dunque doveva essere prudente.

San Tommaso d’Aquino spiegava alla duchessa di Brabante, la quale gli aveva chiesto dei consigli, che in ogni regno cristiano e in qualsiasi momento bisognava che gli ebrei di entrambi i sessi fossero distinti dai cittadini con un segno esteriore.

Una misura del genere apparirebbe del tutto singolare in un’epoca come la nostra, dove quasi tutti si vestono allo stesso modo, ma nel medioevo, quando ogni classe vestiva in modo diverso, non c’era nulla di strano in tutto questo.

Le esternazioni di Graetz e Dubnow, che parlano di un trattamento barbaro, di una stigmate di Caino, di un segno d’infamia, sono quanto meno esagerate [9].

Questo segno distintivo dell’ebreo era, peraltro, lungi dall’essere peculiare al diritto cristiano. Già Tolomeo Filopatre ne aveva fatto uso [10].

Nell’VIII secolo, Almanzor obbligò gli ebrei a vestirsi in modo particolare [11].

In Persia gli ebrei furono obbligati a portare un segno distintivo sino alla fine del XIX secolo, quando fu sostituito da un altro, che raffigurava il libro della Legge e due mani intrecciate [12].

Le ragioni che spinsero a queste misure dovevano essere molto serie, se è vero che, in epoche così lontane tra di loro, si sentì la necessità di distinguere gli ebrei.

D’altro canto vediamo che i Papi vi attribuirono una grande importanza, poiché a più riprese richiamarono all’osservanza delle loro ordinanze in materia. Clemente VIII aggiunse ad esse anche quella di portare, nel Contado Venassino, il cappello giallo, misura di cui ancora nel 1704 si esigeva una scrupolosa osservanza. Un editto del 1751 proibiva a chiunque, perfino al vescovo maggiordomo e al cardinale legato, di accordare deroghe a questa norma pena la destituzione e la perdita della propria carica.

Ad ogni modo, è ormai assodato che per lunghi secoli i Papi hanno avvertito la necessità imperativa di distinguere gli ebrei dal loro entourage.

Al tempo stesso la Chiesa si è sforzata di aprire gli occhi degli ebrei di fronte alla verità. Essa non si è limitata a pregare pubblicamente, il Venerdì Santo, perché gli ebrei ritrovino la verità: Oremus et pro perfidis judaeis, “preghiamo anche per gli infedeli giudei, affinché il Signore nostro Dio tolga il velo che copre il loro cuore”.

Pur condannando le persecuzioni, la Chiesa si adoperò attivamente a preservare i cristiani contro l’influenza sia spirituale che materiale degli ebrei. Ricorderemo alcuni esempi attraverso i secoli.

Il primo concilio che si occupò degli ebrei è quello di Elvira, che proibì i matrimoni misti. Altri concili, nei secoli V e VI, ribadirono questo divieto e vi aggiunsero quelli di mangiare con gli ebrei o di assistere alle loro feste. Il concilio di Orléans (538) prese diverse misure per proteggere gli schiavi degli ebrei; un ebreo che traviava uno schiavo era punito con la perdita di tutti i suoi schiavi.

Il concilio di Mâcon (581) vietò agli ebrei tutte quelle funzioni che permettevano loro di comminare pene contro i cristiani. Era il primo divieto di entrare nella magistratura di cui siamo a conoscenza. Lo stesso concilio proibì agli ebrei di possedere schiavi cristiani. Il concilio di Toledo (633) prescrisse che tutti gli schiavi di un ebreo ottenessero la libertà se fra di loro si trovava un cristiano.

Diversi concili vietarono di affidare agli ebrei una carica pubblica, civile o militare; tale divieto fu esteso anche ai figli di ebrei convertiti.

Nel IX secolo Papa Stefano VI richiamava l’attenzione di Carlo il Semplice sulla povertà del clero e sull’opulenza degli ebrei. Un secolo dopo Gregorio VII rammenta ad Alfonso III, re di Castiglia, che è vietato sottomettere i cristiani all’autorità e al potere degli ebrei. «Questo significa svilire la Chiesa di Dio ed innalzare la sinagoga di Satana». Il concilio di Roma rimproverò parimenti al re di aver concesso agli ebrei la parità dei diritti coi cristiani.

Nel XII secolo è vietato abitare con gli ebrei. Alessandro III lamenta che Luigi VII accordi loro troppa libertà.

All’inizio del XIII secolo Innocenzo III segnala al giovane Filippo Augusto i pericoli determinati dalla debolezza di suo padre verso gli ebrei. In una lettera del gennaio 1204 il Papa ricorda al re tutto ciò che gli ebrei si permettono in Francia: bestemmie e attacchi contro la religione, violazione dei canoni dei concili lateranensi, usure e rapine intollerabili. Arrivano, dice, perfino all’omicidio commesso segretamente.

Il Papa lamenta che tutti questi atti restino impuniti e dice che è impossibile per i cristiani farsi giustizia, perché la loro testimonianza non è ammessa, mentre è ammessa quella degli ebrei, in quanto i funzionari reali si fanno corrompere dagli ebrei [15].

Quando, in seguito a queste rimostranze, il re espulse gli ebrei, il Papa non protestò. «Dunque, non trovò eccessiva questa misura» [16]. Lo stesso Papa si lamenta presso Sancho III, re di Castiglia, dei privilegi accordati agli ebrei.

Il quarto concilio lateranense ribadisce diversi divieti, soprattutto quelli relativi all’ammissione degli ebrei alle cariche pubbliche. Peraltro, già nel 1209, in occasione della sottomissione del conte di Tolosa, capo degli Albigesi, Innocenzo III aveva preteso da lui l’allontanamento degli ebrei da tutte le cariche pubbliche.

Il concilio di Vienna, in Austria, presieduto nel 1267 da un legato del Papa, fra le altre prese una decisione che ricorda singolarmente certe misure dei giorni nostri: se un ebreo copula con una donna cristiana sarà punito con la prigione e con un’ammenda di almeno dieci marchi, mentre la donna sarà frustata e cacciata dalla città [17].

Una bolla di Onorio III vieta parimenti agli ebrei di occupare cariche pubbliche. Gregorio IX proibisce loro di impiegare domestici cristiani. Innocenzo IV ribadisce il divieto per i cristiani di impiegare balie ebree. Lo stesso Papa autorizzò San Luigi ad espellere gli ebrei. Fra i numerosi concili del XIV secolo citiamo ancora quello di Avignone del 1337, che dopo una serie di divieti così conclude: «Ogni cristiano deve respingere e disprezzare i fetidi servigi degli ebrei. Costoro, da parte loro, si stanno innalzando troppo al di sopra della condizione servile che è loro propria» [18].

Ricordiamo che questo concilio si tenne negli Stati del Papa, dove gli ebrei, secondo quanto essi stessi ammettono, furono sempre trattati con umanità, cosa che tuttavia non impediva alla Chiesa di metterli al posto loro se era necessario.

Passiamo al XV secolo. Benedetto XIII vieta agli ebrei di Avignone le professioni di medico, chirurgo, sensale e speziale. Eugenio IV vieta agli ebrei di vivere in comune coi cristiani e di esercitare funzioni pubbliche. Callisto III conferma queste misure. Nel secolo XVI le ribadisce anche Paolo IV, il quale vi aggiunge il divieto di esercitare ogni genere di industria, di possedere beni immobili, di lavorare la domenica, di avere domestici cristiani, di farsi chiamare signore dai cristiani poveri, di servirsi nei loro libri contabili di caratteri che non siano quelli latini, di vendere pegni prima di diciotto mesi da quando li hanno ricevuti etc.

Successivamente questo Papa fa alcune concessioni agli ebrei e fra l’altro permette loro di acquistare beni immobili. Ma il comportamento degli ebrei obbligò Pio V a ritornare su queste decisioni ispirate alla moderazione e a ristabilire in tutto il loro rigore le ordinanze di Paolo IV. Infine, nel 1569, li espulse dagli Stati della Chiesa, ad eccezione di Roma ed Ancona.

Gregorio XIII vieta ai cristiani malati di farsi curare da ebrei. Clemente VIII vieta agli ebrei di Avignone di vendere oggetti nuovi. Egli inoltre conferma la bolla di Paolo IV ed osserva che gli ebrei non hanno risposto alla mitezza dei suoi predecessori.

Si dirà che tutto ciò è lontano da noi.

Passiamo allora al XVIII secolo. Benedetto XIII vieta ai cristiani di mangiare con gli ebrei, di giocare o ballare con loro. Proibisce agli ebrei di fabbricare tessuti e di vendere oggetti nuovi. Benedetto XIV ribadisce diversi divieti e riconosce l’omicidio rituale di Andrea da Rinn.

«La Chiesa – scrive l’ab. Joseph Lémann – tanto nel X quanto nel XVIII secolo non ammette che un ebreo possa entrare in possesso o in compartecipazione di ciò che è una funzione essenziale nella società cristiana; che, ad esempio, un ebreo possa insegnare a dei cristiani, sedere su uno scranno di magistrato sotto un crocifisso, contribuire alla formazione delle leggi di uno Stato cristiano. La sua linea di condotta è sempre la stessa: tollerarli, trattarli bene, avere compassione di loro, ma a condizione che vivano fra di loro, a casa loro, e non siano introdotti in seno alla società cristiana, perché una volta entrati nel suo seno arriverebbero subito al cuore della società oppure ostacolerebbero le sue normali funzioni. Per questo il suo “Non possumus” è sempre così energico» [19].

Molte delle decisioni citate sono state inserite nel Corpus juris canonici. Un vescovo austriaco, mons. Kohn, nipote di ebrei battezzati, ex docente di diritto canonico, afferma che tali decisioni non sono state mai abrogate.

Secondo il Corpus juris canonici è vietato abitare con ebrei, partecipare ai loro banchetti, fare il bagno assieme a loro, impiegarli come medici, allattare i loro figli o semplicemente essere al loro servizio come domestici. Si deve vegliare a che gli ebrei non ricoprano alcuna carica pubblica [20].

In un foglio devoto alla causa ebraica si afferma, felicitandosene, che tutto ciò non è più valido: «Se vedere gli ebrei frammischiati a cristiani nelle città e negli edifici pubblici, abitare nella stessa casa, o ebrei che hanno come domestici cristiani di ambo i sessi, ebrei che si dedicano soprattutto al commercio e diventano ricchi poteva essere oggetto di scandalo nel XVIII secolo, non lo è più nel XX secolo» [21]. Senza volerlo, l’autore giudeo-cristiano indica la piaga di cui soffriamo, ci mostra fin dove siamo caduti. Ciò che stupiva nel XVIII secolo, non stupisce più ai giorni nostri (…)

«Queste norme canoniche – scrive mons. Delassus – hanno ispirato un gran numero di ordinanze reali, grazie alle quali, per tanti secoli, la Francia è stata preservata dall’invasione semitica così minacciosa ai giorni nostri» [22] (…)

L’ab. Joseph Lémann osserva parimenti che le ordinanze contro gli ebrei erano emanate per limitare e fermare la loro libertà di conquista.

«Gli accessi che portano al cuore della società cristiana sono chiusi loro accuratamente. La grande regola di prudenza adottata nei loro confronti è la seguente: nessuna carica strettamente connessa con la struttura stessa della società cristiana può essere affidata loro» [23] (…)

 

Fonte: https://www.2dipicche.news/la-chiesa-e-la-questione-ebraica-vademecum-magisteriale-per-i-nuovi-eretici-i-cristiani-giudaizzanti/

 

 

NOTE BIBLIOGRAFICHE:

[1] Mgr. Henry Delassus, La conjuration antichrétienne, Lille, 1910, t. III, p. 1119.

[2] Ab. J. Lémann, L’entrée des Israélites dans la société française, 1886, p. 251.

[3] È curioso osservare che gli ebrei ricordano volentieri che questo Papa biasimò il vescovo di Terracina per aver tolto una sinagoga agli ebrei, ma dimenticano di accennare al fatto che questo stesso Papa si era rifiutato di dare al vescovo di Palermo e a quello di Cagliari il permesso di costruire sinagoghe. Era concesso loro di conservare le sinagoghe già esistenti, ma era proibito costruirne di nuove [Altrove però l’autore sottolinea che le parole di Avidgor non erano sincere, perché dettate al solo fine di accattivarsi la simpatia di Napoleone e dei cristiani di Francia].

[4] J. Crétineau-Joly, L’Église romaine en face de la révolution, 1860 [recte: 1859], t. I, pp. 399-402.

[5] J. Basnage, Histoire des Juifs, 1707, cit. Dall’ab. J. Lémann, op. cit., p. 164.

[6] A.M. Weiss, Apologie du christianisme, Paris, 1894, t. VI, p. 33.

[7] Dominique Roland-Gosselin, in «Roma», 8 luglio 1937, p. 293.

[8] Mons. Delassus, op. cit., t. III, p. 1160.

[9] H. Graetz, Volkstümliche Geschichte der Juden, Wien-Berlin, t. II, pp. 453-454; S. Dubnow, Weltgeschichte des jüdischen Volkes, Berlin 1925-1930, t. V, pp. 12, 22.

[10] Il p. Constant, Les juifs devant l’Église et l’histoire, Paris, 1897, p. 131.

[11] H. Graetz, op. cit., t. II, pp. 453-454.

[12] I due segni distintivi sono stati riprodotti in «Témoignage de notre Temps», settembre 1933, p. 25.

[15] Ch. Auzias-Turenne, La question juive et le droit ecclésiastique, «Revue catholique des institutions et du droit». Octobre 1893, p. 296 [Trad. it.: La questione ebraica e il diritto ecclesiastico, in «La Questione Ebraica», I , Agosto 1998, pp. 89- 104].

[16] Il p. Constant, op. cit., p. 56.

[17] Ch. Auzias-Turenne, op. cit., p. 296.

[18] Ivi, p. 297.

[19] Ab. J. Lémann, op. cit., p. 286.

[20] Ch. Auzias-Turenne, op. cit., p. 198.

[21] Oskar de Férenzy, in «La Juste Parole», 5 gennaio 1938, p. 5.

[22] Op. cit., t. III, p. 1162.

[23] Op. cit., p. 202.

Libertà e Verità

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di Matteo Castagna

La rivista Sodalitium n. 43 dell’Aprile-Maggio 1996 ha pubblicato un’omelia dal grande contenuto teologico, di Mons. Michel Guérard de Lauriers, O.P. (1898-1988), il cui contenuto è attualissimo, soprattutto perché una certa predicazione tomista non è facile da ascoltare.

La libertà non esclude forse ogni restrizione? Non è questo un fatto evidente? E, soprattutto, non è alquanto seducente questo modo di vedere? È un fatto che vi sono cristiani oggi che la pensano proprio così e, quel che più conta, conformano la loro vita a questa concezione, anche se a sostegno di essa accampano argomenti apparentemente solidi. “Dove c’è lo Spirito del Signore, là è la libertà” (II Cor. III, 17); “Il vento soffia dove vuole e la sua voce è bene udibile… e così egualmente accade a chiunque è nato nello Spirito” (Gv. III, 8). “Popolo di Dio”, “popolo di profeti”, “popolo di adulti mosso dallo Spirito, per te la libertà non consiste nel togliere di mezzo ogni restrizione e ogni legge?”; “Ama e fa quel che vuoi”; S. Agostino, il Dottore della Grazia non si è forse espresso cosi?

Ma questo è solo il primo aspetto della questione. Ve n’è infatti un secondo: “Voi siete stati chiamati alla libertà cristiana. Ma fate in modo che la libertà non finisca col divenire un pretesto per soddisfare la carne” (Gal. V, 13). E, sempre S. Paolo, raccomanda poi di praticare, attraverso la carità, l’aiuto scambievole che è, inevitabilmente, e per tutti, oneroso e vincolante. Del resto, il comportamento manifestamente pregiudizievole per tutti, di rigettare ogni regola, che si vorrebbe giustificare con il diritto di essere liberi, mostra a sufficienza che questo preteso diritto è fondato sopra una falsa concezione della libertà. “Ama e fa quello che vuoi”;

“Se ami, tu non puoi fare quello che vuoi”. È mai possibile che S. Agostino abbia contraddetto S. Paolo? Chi allora dei due ha ragione? Insomma l’uomo, il cristiano, è libero o non lo è? Esiste oppure no un’altra alternativa fra il dovere e la libertà, fra il conformismo e la contestazione? Prima di tutto cerchiamo di non cadere in uno stato di sovreccitazione. Solo così la Grazia, che non viene negata mai a nessuno, può portare i suoi frutti. “Bisogna imparare direttamente dallo Spirito in che cosa consiste la libertà, che si trova appunto solo dove lo Spirito è presente” (II Cor. III, 17). Lo “Spirito del Signore”, che garantisce “questa libertà della quale gode il cristiano, perché Cristo lo ha affrancato” (Gal. V, 1), è evidentemente lo “Spirito di Gesù Cristo” (Fil. I, 19); è lo “Spirito del Figlio, che grida dentro di noi Abba Pater” (Gal. IV, 6). Si tratta quindi dello “Spirito di Verità” (Gv. XV, 26), poiché procede non soltanto dal Padre, ma anche dal Figlio “che è la Verità” (Gv. XVI, 13). E “lo Spirito della Verità conduce alla pienezza della verità” (Gv. XVI, 13).

La libertà del cristiano, essendo quindi frutto dello Spirito, è regolata dalla Verità per la imperativa ragione che lo Spirito non può essere che Spirito di Verità, dato che Esso procede dal Figlio che è, Lui stesso, la Verità. È necessario insistere su questo punto. Lo Spirito è Verità per sua intima essenza. Procedendo infatti il suo essere “dal Figlio”, come “dal Padre”, niente è a Lui più intrinsecamente proprio che essere la Verità per il fatto stesso che Egli viene “da Colui che è la Verità”.

Se dunque il cristiano è costituito in modo da poter “andare dove vuole, perché egli segue il soffio dello Spirito”, questo può però avvenire alla sola condizione che la libertà di cui gode consiste per lui nell’essere integrato nello Spirito, nello sposare – se è possibile esprimersi così lo Spirito integralmente, sia nella Sua Sorgente, sia nei suoi frutti. E siccome lo Spirito, ovunque ci conduca, non può condurre che alla Verità perché è Spirito di Verità, così la libertà, che risiede nello Spirito, procede dalla Verità.

Questa libertà, proprio in virtù di questa sua permanente genesi, è intimamente conforme alla Verità. Pertanto, a causa di quanto comporta la sua intima essenza, la libertà, in chiunque ne rivendichi il privilegio, deve essere assolutamente conforme alle esigenze della Verità. E se il cristiano (quello cioè) che viene liberato dal Figlio, “è libero nella verità” (Gv. XVI, 39), ciò avviene perché lo Spirito, che dà questa libertà, conduce alla pienezza della Verità (Gv. XVI, 13). La conclusione, di necessità, è una sola: la vera libertà è regolata dalla Verità.

E si tratta – bisogna chiaramente precisarlo – di un principio essenziale: principio incluso – in diritto – nell’essenza stessa della libertà, principio facente parte concreta della natura di questa, e principio che gioca, di conseguenza, un ruolo immanente nell’evolversi stesso della vita. E bisogna denunciare come pernicioso errore l’opinione corrente, seconda la quale la libertà non è ancorata a regole, quando non consisterebbe addirittura, arrivando logicamente al limite, proprio nel fatto di rifiutare ogni regolamentazione.

Queste riflessioni teologiche danno al Cristiano, alla luce della Fede, una profonda convinzione, anzi la convinzione più profonda. Tali riflessioni non contrastano affatto con i cosiddetti “argomenti di ragione”, anche quando questo rapporto fosse sottinteso. È estremamente opportuno ricordare – con S. Tommaso – che la libertà sta nel libero arbitrio soltanto come derivazione. L’atto del libero arbitrio infatti consiste nello scegliere. Ora, appunto l’esercizio di questo atto è fondato sull’affinità che esiste in maniera positiva fra colui che sceglie e la cosa da lui scelta. La cosa scelta viene infatti considerata come “il bene” ed “il fine” mentre ciò che rimane escluso dalla scelta è appunto quello che non viene assimilato alla finalità scelta.

Il “bene” è esattamente l’oggetto della volontà, ed il “fine”, che nel pensiero di ciascuno definisce il “bene”, è, in concreto, la legge immanente della volontà. Ne segue che l’atto del libero arbitrio, lungi dal ridursi ad una pura opzione incondizionata nella quale si vorrebbe far consistere la libertà, è in effetti l’espressione della volontà, la quale è essa stessa, in un giuoco spontaneo, conforme al “bene” ed al “fine”. La libertà sta originariamente nella volontà e vi è regolata dal rapporto fra la stessa volontà e la natura, vale a dire da ciò che fa, della creatura ragionevole e della sua stessa volontà, in maniera divina, una sola cosa.

La libertà è regolamentata dalla verità. È altrettanto necessario in questo tempo di “crisi”, ricordare che la libertà, secondo S. Agostino, consiste nello scegliere quanto non può essere eliminato. La definizione è certamente transrazionale, ma perfettamente rispondente dal punto di vista esistenziale. L’esigenza di libertà, che vibra nell’intimo di ciascuno, deve in effetti essere soddisfatta, perché essa è sanzionata “…dalla nostra santa vocazione, che ha la sua origine non nelle opere nostre ma nel decreto di Dio e nella Sua Grazia” (II Tim. 1, 9). E questa esigenza è così assoluta che essa esclude ogni contrasto esterno.

Ciò comporta, come necessario presupposto, che il desiderio non deve essere frustrato e ciò, a sua volta, presuppone che l’uomo non desideri che quanto non può essere eliminato. S. Agostino ammette dunque chiaramente che la libertà non sopporta costrizioni; ma, d’altra parte, l’assoluto della libertà è, secondo lui innestato in un desiderio che vede solamente beni quei che non possono essere eliminati, e cioè in un desiderio regolato da Leggi superiori.

E siccome i beni che non possono essere eliminati, sono soltanto i veri beni, i beni validi per una creatura dotata dell’immortalità, ne segue ancora che la libertà ha spazio soltanto nella Verità. L’opposizione creata fra il “dovere” e la “libertà”, la necessità di optare che discende da questa opposizione, i comportamenti pratici che esprimono questa opzione e spesso vanno bene al di là di essa, tutto ciò ha per origine una vera confusione: “Parvus error in principio, fit magnus in fine”.

La confusione deriva dal non saper distinguere due tipi di necessità. Una si impone ad un essere autonomo cominciando dal punto in cui lui cessa di essere se stesso, l’altra è immanente alla natura della quale non fa altro che esprimere la determinazione. Correlativamente, per ogni operazione, ci sono due tipi di leggi. Quelle che la circoscrivono dall’esterno e sono sottoposte a restrizioni, e quelle che sono concomitanti al principio stesso dell’operazione e sono, nei confronti di questa, metro di misura.

Se si confondono questi due tipi di legge e di necessità, se si osserva – non senza ragione – che restrizione e libertà sono termini incompatibili, la logica conclusiva non può essere che una sola: la libertà deve essere priva di regolamentazione. La conclusione è giusta, senonché, essendo falsa la prima premessa ne segue che egualmente è falsa la conclusione cui si giunge. La libertà non è priva di regolamentazione; è priva di una regolamentazione esterna, perché ha in se stessa la valida regolamentazione. S. Tommaso esprime magnificamente Mons. Guérard des Lauriers o.p., durante una predica questo concetto, con queste parole: “Lex nova est instinctus Spiritus Sancti”, “la nuova legge è istinto dello Spirito Santo”.

Non crediamo ci sia bisogno di ricordare che per S. Tommaso, come per tutti i cristiani, lo Spirito Santo è lo Spirito di Verità. La libertà dunque, e particolarmente la libertà cristiana, che è “quella della Gerusalemme celeste” (Gal. IV 26 ) e della Nuova Legge, la libertà, dunque, come dicevamo, è regolata dalla Verità, da tutta la Verità.

E tutti quelli che, rifiutando ogni restrizione, rifiutano anche la Verità come regolatrice della libertà, sono nell’errore: essi non sono affatto liberi, dato che come è provato dall’esperienza essi aspirano continuamente a divenire tali. Essi aspirano – inconsciamente senza dubbio – ad essere “liberati dal peccato” (Rom. VI, 22), ad essere “liberati dal male” (Mt. VI, 13 ), da ogni male, ed in particolare dalla “corruzione” (Rom. VIII, 21) mentale che consiste nel misconoscere la natura della creatura spirituale e, di conseguenza, la natura stessa della libertà.

Questi poveri esseri smarriti non potranno essere soddisfatti nel loro legittimo desiderio che convertendosi; non potranno essere soddisfatti se non volgendosi a questo suggerimento che lo Spirito Santo (non si può fare a meno di sperarlo) loro silenziosamente dà” (Giov. 14, 26). Allora “essi conosceranno la Verità e la Verità li farà liberi” (Giov. 8 32). E noi, i cristiani, siamo liberi? Certamente non lo siamo tanto da non doverlo divenire ancora di più. Infatti la libertà, che è “la gloria dei figli di Dio” (Rom. 8 21) è infinita come il desiderio ed assoluta come la Verità. La sua non offuscabile grandezza sta nell’essere regolata dalla Verità ma soltanto dalla Verità e dal non avere altri metri di misura. Doppia esigenza alla quale dobbiamo, per intima vocazione, soddisfare in tutte le circostanze.

In questo tempo di “crisi”, e come in tutti i tempi, essere libero vuol dire essere lo strumento attraverso il quale Dio realizza il suo disegno, vuol dire essersi conformati a questo disegno e pertanto essere regolati dalla Verità: essere liberi, in pratica, vuol dunque dire sottomettersi a tutto ciò che Dio manifesta essere la Sua volontà. In tempo di “crisi”, come sempre e dovunque, ma in maniera tutt’affatto particolare quando questa crisi proviene dal fatto che è l’autorità stessa a non essere più regolata dalla Verità, esser liberi significa non chiedere come un favore ciò che è soltanto un sacro diritto, diritto del quale il principio necessitante è la Verità stessa.

Sarebbe infatti soltanto una adulazione alle Autorità, riconoscerle indirettamente che essa ha il diritto di forgiare leggi false, contrarie alla Verità; in ultima analisi si tratterebbe di riconoscere, come fatto legittimo, che la Verità non è l’unica regolatrice della libertà, ma può essere sostituita da una qualunque costrizione: e questo sarebbe peccato contro la Verità, e rinunciare alla libertà. In tempo di “crisi” e particolarmente nella crisi attuale, è la Verità che rende liberi.

La libertà “di favore” può ingannare la fame di coloro che cenano con “il padre della menzogna” (Giov. VIII, 44); ma non può assolutamente soddisfare tutti coloro che “Dio ha chiamato dalle tenebre per condurli alla Sua impareggiabile Luce” (1 Pt. 2, 9), e che, sotto pena “di essere gettati fuori, debbono rimanere in Colui” (Giov. XV, 6) “che è la Verità” (Giov. XIV, 6).

Non c’è altra Libertà vera da quella di “conoscere la Verità” (Giov. VIII, 3), non c’è altra libertà che quella di far brillare in tutto il suo fulgore la Luce, facendo trionfare la Verità.

Fonte: https://www.informazionecattolica.it/

Quel che dovrebbe fare un Papa secondo sant’Alfonso Maria de’ Liguori

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di Altaterradilavoro

Dopo la morte di papa Clemente XIV (1769-1774) si stava preparando il conclave che avrebbe dovuto eleggere il suo successore. Alfonso Maria de Liguori, allora vescovo di Sant’Agata dei Goti e già molto stimato negli ambienti della curia romana (si ricorda che assistette papa Clemente XIV sul letto di morte e partecipò ai suoi funerali in bilocazione perché non lasciò mai la sua diocesi), venne contattato dal suo amico Cardinale Castelli che gli chiese di scrivere una lettera al riguardo dei provvedimenti che avrebbe dovuto prendere il nuovo Papa per riformare la Chiesa afflitta dal rilassamento generale. Riportiamo qui di seguito la lettera alfonsiana.

«Amico mio e Signore, circa il sentimento che si desidera da me intorno agli affari presenti della Chiesa e circa l’elezione del Papa che sentimento voglio dar io miserabile ignorante, e di tanto poco spirito qual sono? Dico solo che vi bisognano orazioni e grandi orazioni, mentre, per sollevare la Chiesa dallo stato di rilassamento e confusione in cui si trovano universalmente tutti i ceti, non può darvi rimedio tutta la scienza e prudenza umana, ma vi bisogna il braccio onnipotente di Dio.

Tra’ vescovi, pochi sono quelli che hanno vero zelo delle anime. Le comunità religiose quasi tutte, e senza quasi, sono rilassate; poiché nelle religioni, nella presente confusione delle cose, L’osservanza è mancata e l’ubbidienza è perduta.

Nel clero secolare vi è di peggio: onde vi è necessità precisa di una riforma generale per tutti gli ecclesiastici, per indi dar riparo alla grande corruzione de’ costumi, che vi è ne’ secolari. E perciò bisogna pregar Gesù Cristo che ci dia un Capo della Chiesa, il quale, più che di dottrina e di prudenza umana, sia dotato di spirito e di zelo per l’onore di Dio, e sia totalmente distaccato da ogni partito e rispetto umano; perché se mai, per nostra disgrazia, succede un Papa che non ha solamente la gloria di Dio avanti gli occhi, il Signore poco l’assisterà, e le cose, come stanno nelle presenti circostanze, andranno di male in peggio. Sicché le orazioni possono dar rimedio a tanto male, con ottenere da Dio che egli vi metta la sua mano e dia riparo…

Aggiungo: Amico, anch’io desidererei, come V. S. Ill.ma, vedere riformati tanti sconcerti presenti; e sappia che su questa materia mi girano mille pensieri nella mente, che bramerei di farli noti a tutti; ma rimirando poi la mia meschinità, non ho animo di farli comparire in pubblico, per non parere ch’io volessi riformare il mondo. Le partecipo non però con confidenza, per mio sfogo, i miei desideri.

Bramerei primieramente che il Papa venturo (giacché ora mancano molti Cardinali che si han da provvedere) scegliesse, fra quelli che gli verranno proposti, i più dotti e zelanti del bene della Chiesa, ed intimasse preventivamente a’ Principi, nella prima lettera in cui darà loro parte della sua esaltazione, che, quando gli domanderanno il Cardinalato per qualche loro favorito, non gli proponessero se non soggetti di provata pietà e dottrina; perché altrimenti non potrà ammetterli in buona coscienza.

Bramerei inoltre che usasse fortezza in negare più benefizi a coloro che stanno già provveduti de’ beni della Chiesa, per quanto basta al loro mantenimento secondo quel che conviene al loro stato. Ed in ciò si usasse tutta la fortezza avverso gl’impegni che s’affacciano.

Bramerei, di più, che s’impedisse il lusso nei prelati, e perciò si determinasse per tutti (altrimenti a niente si rimedierà) si determinasse, dico, il numero della gente di servizio, giusta ciò che compete a ciascun ceto de’ prelati: tanti camerieri e non più; tanti servitori e non più; tanti cavalli e non più; per non dare più a parlare agli eretici. Di più, che si usasse maggior diligenza nel conferire i benefizi solamente a coloro che han servito la Chiesa, non già alle persone particolari.

Di più, che si usasse tutta la diligenza nell’eleggere i vescovi (da’ quali principalmente dipende il culto divino e la salute dell’anime) con prendersi da più parti le informazioni della loro buona vita e dottrina necessaria a governare le diocesi; e che, anche per quelli che siedono nelle loro chiese, si esigesse da’ metropolitani e da altri, segretamente, la notizia di quei vescovi, che poco attendono al bene delle lor pecorelle.
Bramerei ancora che si facesse intendere da per tutto che i vescovi trascurati, e che difettano o nella residenza o nel lusso della gente che tengono al loro servizio, o nelle soverchie spese di arredi, conviti e simili, saranno puniti colla sospensione o con mandar vicari apostolici a riparare i loro difetti; con darne l’esempio da quando in quando, secondo bisogna.

Ogni esempio di questa sorta farebbe stare attenti a moderarsi tutti gli altri prelati trascurati. Bramerei ancora che il Papa futuro fosse molto riserbato nel concedere certe grazie che guastano la buona disciplina; come sarebbe il concedere alle monache l’uscir dalla clausura per mera curiosità di vedere le cose del secolo, il concedere facilmente a’ religiosi la licenza di secolarizzarsi, per mille inconvenienti che ne vengono.

Sovra tutto desidererei che il Papa riducesse universalmente tutti i religiosi all’osservanza del loro primo Istituto, almeno nelle cose più principali.

Or via, non voglio più tediarla. Altro non possiamo fare che pregare il Signore, che ci dia un Pastore pieno del suo spirito, il quale sappia stabilir queste cose da me così accennate in breve, secondo meglio converrà alla gloria di Gesù Cristo».

 

Fonte: https://www.altaterradilavoro.com/quel-che-dovrebbe-fare-un-papa-secondo-santalfonso-maria-de-liguori/

L’udienza di San Pio X a Theodor Herzl, fondatore del sionismo

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Il 26 gennaio, 1904, Theodor Herzl ebbe udienza da Papa San Pio X, in Vaticano, per chiedere il suo sostegno allo sforzo sionista di stabilire uno stato ebraico in Palestina.
Questa è la sua versione dell’incontro, registrata nel suo diario.
Fui condotto dal Papa passando per un gran numero di piccoli saloni. Egli mi ricevette in piedi e mi tese la mano, che io non baciai… […] Io gli sottoposi brevemente il mio problema. Egli rispose con tono severo e categorico:
«Noi non possiamo sostenere questo movimento [sionista]. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme, ma in nessun caso possiamo sostenere la cosa. Anche se non è sempre stata santa, la terra di Gerusalemme è stata santificata dalla vita di Gesù Cristo. Come capo della Chiesa io non posso dirvi altro. Gli Ebrei non hanno riconosciuto Nostro Signore, e per questo noi non possiamo riconoscere il popolo ebraico». […]
Ecco, pensai, ricomincia il vecchio conflitto fra Roma e Gerusalemme; lui rappresenta Roma, io Gerusalemme […].
«Ma che dice, Santo Padre, della situazione attuale?» – gli chiesi –
Ed egli mi rispose: «Io so che è spiacevole vedere i Turchi in possesso dei nostri luoghi santi. Siamo costretti a sopportalo. Ma sostenere gli Ebrei perché ottengano essi i luoghi santi è una cosa che non possiamo fare».
Io feci notare che la nostra motivazione era il disagio degli Ebrei, e che intendevamo lasciare da parte le questioni religiose.
«Sì» – mi disse – «ma noi, e in particolare io, come capo della Chiesa, non possiamo farlo». Due sono i casi che possono presentarsi: o gli Ebrei rimangono fedeli alla loro credenza e continuano ad attendere il Messia, che per noi è già venuto; e in questo caso essi negano la divinità di Gesù e noi non possiamo fare alcunché per loro; o essi vanno in quelle terre senza alcuna religione, e in questo caso noi possiamo sostenerli ancora meno. La religione ebraica è stata la base della nostra, ma essa è stata rimpiazzata dalla dottrina di Cristo e da allora noi non possiamo più riconoscere la sua esistenza. Gli Ebrei, che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere Gesù Cristo, fino ad oggi non l’hanno fatto.»
Io stavo per dirgli: «E’ quello che accade in tutte le famiglie. Nessuno è profeta nella sua famiglia», e invece gli dissi: «Il terrore e le persecuzioni non erano certo i mezzi migliori per illuminare gli Ebrei»
E questa volta egli replicò con una semplicità disarmante: «Nostro Signore è giunto senza disporre di alcuna potenza. Era povero. E’ venuto in pace. Egli non ha perseguitato alcuno, ma è stato perseguitato. Anche gli Apostoli lo hanno abbandonato. E’ solo dopo che Egli è cresciuto: è solo dopo tre secoli che la Chiesa è stata stabilita. Quindi gli Ebrei hanno avuto tutto il tempo per riconoscere la divinità di Gesù Cristo senza alcuna pressione esterna. Ma non l’hanno fatto e continuano a non farlo fino ad oggi»
«Ma Santo Padre» – gli dissi – «la situazione degli Ebrei è spaventosa. Io non so se Vostra Santità si rende conto di tutta l’ampiezza di questo dramma. Noi abbiamo bisogno di un paese per i perseguitati».
Ed egli ha replicato: «E questo dev’essere Gerusalemme?»
 «Noi non chiediamo Gerusalemme» – ho replicato – «ma la Palestina, solo il paese profano» Ed egli mi ha risposto: «Noi non possiamo sostenere questa cosa».
«Santo Padre, lei conosce la situazione degli Ebrei?» gli chiesi.
«Sì, l’ho conosciuta a Mantova» – mi ha risposto – «dove vi sono degli Ebrei, D’altronde, io ho sempre avuto delle buone relazioni con gli Ebrei. Recentemente, una sera, sono venuti in visita da me due Ebrei. E’ vero che esistono dei rapporti che si collocano al di fuori della religione: dei rapporti di cortesia e di carità; noi non rifiutiamo agli Ebrei né gli uni né gli altri. Del resto, noi preghiamo per loro, affinché si illumini il loro spirito. Proprio oggi noi celebriamo la festa di un miscredente che, sulla via di Damasco si è convertito in maniera miracolosa al vero credo [San Paolo]. Così, se voi andate in Palestina e lì stabilite il vostro popolo, noi prepareremo delle chiese e dei sacerdoti per battezzarvi tutti».

L’eresia antiliturgica dai Giansenisti a Giovanni XXIII

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di don Francesco Ricossa

La Liturgia, considerata in generale, è l’insieme dei simboli, dei canti e degli atti per mezzo dei quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio” (Dom Guéranger. Institutions Liturgiques). Questa definizione della Sacra Liturgia ci fa apprezzare l’importanza capitale del culto pubblico che la Chiesa rende a Dio. Nell’Antico Testamento Dio stesso si fa, per così dire, liturgista, precisando nei minimi particolari il culto che Gli dovevano rendere i fedeli (cfr. il Libro Levitico; e anche Pio XII, Mediator Dei, 12). Tanta importanza per un culto che non era che l’ombra (Ebrei, 10,1) di quello sublime del Nuovo Testamento che Gesù, Sommo Sacerdote, vuole continuato fino alla fine del mondo per mezzo della Sua Chiesa…!. Nella Divina Liturgia della Chiesa Cattolica tutto è grande, tutto è sublime, fin nei minimi particolari; è questa la verità che fece pronunciare a Santa Teresa d’Avila queste celebri parole: “Darei la mia vita per la più piccola delle cerimonie della Santa Chiesa”. Non si stupisca quindi il lettore dell’importanza che daremo in quest’articolo alle rubriche liturgiche e l’attenzione che presteremo alle “riforme” (che potrebbero essere giudicate minori) che hanno preceduto quelle del Concilio Vaticano II. Consci dell’importanza della Liturgia sono sempre stati, d’altro canto, i nemici della Chiesa: dobbiamo ricordare che da sempre la corruzione della Liturgia fu un veicolo, da parte degli eretici, per attentare alla Fede stessa? Lo fu con le antiche eresie cristologiche, e poi, via via, col luteranesimo e l’anglicanesimo nel XVI secolo, con le riforme illuministe e gianseniste nel XVIII secolo… per concludere con lo stesso Concilio Vaticano II che non a caso iniziò i suoi lavori di “Riforma” proprio con lo schema sulla Liturgia, sfociato nel “Novus Ordo Missae”.

ORIGINI DELLA “RIFORMA” LITURGICA DEL VATICANO II

La “Riforma” liturgica voluta dal Vaticano II e realizzata nel post-concilio è una vera rivoluzione: “la via aperta dal Concilio è destinata a cambiare radicalmente il volto delle assemblee liturgiche tradizionali” ammette Mons. Annibale Bugnini, uno dei principali artefici di detta “riforma”, aggiungendo che si tratta di un “reale stacco dal passato”. (Bugnini, La Riforma Liturgica [1948-1975] CLV Edizioni Liturgiche – 1983) Ora, nessuna rivoluzione esplode improvvisamente, ma è il frutto di lunghi assalti, lente cadute e progressivi cedimenti. Lo scopo del nostro articolo è di mostrare al lettore, dopo un’introduzione di carattere storico, le origini della rivoluzione liturgica specialmente dopo un esame delle riforme delle rubriche avvenute nel 1955 e nel 1960. Infatti, se “una radicale rottura con la Tradizione si è compiuta ai nostri giorni con l’introduzione del Novus Ordo Missae e dei nuovi libri liturgici (…) è doveroso domandarsi dove affondino le radici di tanta desolazione liturgica. Che esse non siano da ricercare esclusivamente nel Concilio Vaticano II sarà chiaro ad ogni persona di buon senso. La Costituzione liturgica del 4 dicembre 1963 rappresenta la conclusione temporanea di una evoluzione le cui cause molteplici e non tutte omogenee risalgono a un lontano passato”. (Mons. Klaus Gamber. Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und Problematik. pag. 9 e 10 dell’ed. italiana).

L’ILLUMINISMO

“La piena fioritura della vita ecclesiale nell’età barocca (Controriforma e Concilio di Trento. N.d.R.) fu investita, verso la fine del sec. XVIII, dal gelo dell’Illuminismo. Si era insoddisfatti della Liturgia tradizionale perché si reputava che troppo poco corrispondesse ai problemi concreti del tempo”. (Mons. Gamber, op. cit., pagg. 15-16). L’Illuminismo razionalista trovò il terreno preparato ed un solido alleato nell’eresia Giansenista, che come il protestantesimo, di cui era la quinta colonna, avversava la Liturgia Romana tradizionale. Giuseppe II nell’Impero Asburgico, l’episcopato gallicano in Francia, quello toscano in Italia, riunito nel Sinodo di Pistoia, attuarono riforme ed esperimenti liturgici “che somigliano in modo sorprendente agli attuali: sono altrettanto fortemente orientati verso l’uomo ed i problemi sociali”. (Gamber. op. cit., pag. 16) “Possiamo pertanto affermare che nell’Illuminismo affonda la più tenace radice dell’attuale desolazione liturgica. Molte idee di quell’epoca hanno trovato piena attuazione soltanto nel nostro tempo, in cui si assiste a un nuovo illuminismo”. (Gamber. op. cit., pag. 17) L’avversione alla tradizione, la smania di novità e riforme, la sostituzione graduale del latino col volgare, e dei testi ecclesiastici e patristici con la sola Scrittura, la diminuzione del culto della Madonna e dei Santi, il razionalismo contro i miracoli ed i fatti straordinari narrati nelle letture liturgiche dei Santi, la soppressione del simbolismo liturgico e del mistero, la riduzione infine della Liturgia, giudicata eccessivamente ed inutilmente lunga e ripetitiva…: ritroveremo tutti questi capisaldi delle riforme liturgiche gianseniste nelle riforme attuali, ad incominciare da quella di Giovanni XXIII. La Chiesa, nei casi più gravi, condannò i novatori: così Clemente IX condannò il Rituale della Diocesi d’Alet nel 1668, Clemente XI condannò l’oratoriano Pasquier Quesnel (1634-1719) nel 1713 (Denz. 1436), Pio VI dannò il Sinodo di Pistoia ed il Vescovo Scipione de’ Ricci con la Bolla “Auctorem Fidei” del 1794. (Denz. 1531-1533)

IL MOVIMENTO LITURGICO

“Una reazione al gelo illuministico è rappresentata dalla restaurazione del secolo XIX.(…) Sorsero allora la grande abbazia benedettina di Solesmes, in Francia, e quella della Congregazione di Beuron”. (Gamber. pag. 17) Dom Prosper Guéranger (1805-1875), Abate di Solesmes, restaurò in Francia l’antica liturgia latina e diede la nascita ad un movimento, poi chiamato “liturgico”, teso a far amare ed a difendere la liturgia tradizionale della Chiesa. Tale movimento operò per il bene della Chiesa fino a San Pio X, che con le sue decisioni rimise in onore il canto gregoriano e trovò un equilibrio ammirabile tra ciclo Temporale (feste del Signore, Domeniche e ferie) e quello Santorale (feste dei Santi).

DEVIAZIONI DEL MOVIMENTO LITURGICO

Dopo San Pio X, poco a poco, il cosidetto “Movimento Liturgico” deviò dai suoi intenti, per raggiungere, con una rivoluzione copernicana, le tesi che combatteva nel suo nascere. Tutte le idee dell’eresia antiliturgica – come Dom Guéranger chiamava le tesi liturgiche del XVIII secolo – furono riprese negli anni venti e trenta da liturgisti come Dom Lambert Beauduin (1873-1960) in Belgio e Francia, Dom Pius Parsch e Romano Guardini in Austria e Germania.Partendo dalla “Messa dialogata”, a causa di “una eccessiva enfasi data alla parte attiva dei fedeli nelle funzioni liturgiche”, (Gamber. pag. 17) i riformisti degli anni ’30 e ’40 giunsero (specialmente nei campi scout e nelle associazioni giovanili e studentesche) ad introdurre de facto nientemeno che la Messa in volgare, la celebrazione su di un tavolo faccia al popolo, la concelebrazione… Fra i giovani sacerdoti che si dilettavano di esperimenti liturgici c’era a Roma, nel 1933, il cappellano della F.U.C.I., tal Giovanni Battista Montini, per fortuna contrastato dal Cardinal Vicario. (Fappani-Molinari. Montini giovane. Ed. Marietti 1980. pagg. 282-292). In Belgio, Dom Beauduin dava al Movimento Liturgico un fine dichiaratamente ecu-menista, ipotizzando una Chiesa Anglicana “unita (alla cattolica), ma non assorbita” e fondando un “Monastero per l’unione” con gli “ortodossi” orientali, col risultato di “convertire” molti dei suoi monaci allo scisma orientale. Roma interviene: l’Enciclica contro il Movimento ecumenico, “Mortalium animos” (1928) è seguita, nel 1929 e 1932 da (troppo) discreti richiami che lo distolgono temporaneamente dalle sue attività. (Cfr. Bonneterre. Le Mouvement Liturgique. Ed. Fideliter. 1980. pagg. 35-42). Gran protettore del Beauduin era – naturalmente – il Card. Mercier, iniziatore dell’ecumenismo “cattolico” e definito dal “Sodalitium Pianum” come “amico di tutti i traditori della Chiesa”. (Poulat. Intégrisme et catholicisme integral. Castermann. pag. 330). Negli anni ’40 il lavoro di sabotaggio di simili liturgisti aveva già ottenuto il sostegno di vaste parti dell’episcopato, specialmente in Francia (col C.P.L.: centro di pastorale liturgica) e nel Reich tedesco. All’inizio del 1943, il 18 gennaio, “venne lanciato l’attacco più serio contro il Movimento Liturgico (…) da parte di un eloquente e vigoroso membro dell’episcopato, l’Arcivescovo di Friburgo (in Brisgau) Conrad Gröber. (…) In una lunga lettera indirizzata ai confratelli Vescovi, Gröber raccoglieva in 17 punti le sue preoccupazioni concernenti la Chiesa. (…) Criticava la teologia kerigmatica, il movimento di Schönstatt, ma soprattutto il Movimento Liturgico (…) coninvolgendo implicitamente anche il Card. Theodor Innitzer. (…) Pochi sanno che il p. Karl Rahner s.j. che viveva allora a Vienna (diocesi del Card. Innitzer. N.d.R.), scrisse (…) una risposta a Gröber. (Robert Graham s.j. Pio XII e la Crisi liturgica in Germania durante la guerra. La Civiltà Cattolica. 1985 pag. 546). Ritroveremo Karl Rahner come esperto conciliare dell’episcopato tedesco al Concilio Vaticano II assieme ad Hans Küng e Schillebeeckx. La questione arrivò a Roma: nel 1947 l’Enciclica di Pio XII sulla liturgia, “Mediator Dei”, avrebbe dovuto sancire la condanna del Movimento liturgico deviato. Pio XII “espose fortemente la dottrina cattolica” (…) “ma questa enciclica fu sviata nel suo senso dai commenti che ne fecero i novatori; e Pio XII, se ricordò i principi, non ebbe il coraggio di prendere delle misure efficaci contro le persone; si sarebbe dovuto sciogliere il C.P.L. e vietare un buon numero di pubblicazioni. Ma queste misure avrebbero avuto come conseguenza un conflitto aperto con l’episcopato francese”. (Jean Créte. Le Mouvement Liturgique. Itinéraires. Gennaio 1981. pagg. 131-132). Misurata la debolezza di Roma, i novatori capirono di poter andare (prudentemente) avanti: dalle sperimentazioni si passò alle riforme ufficiali romane.

LE RIFORME DI PIO XII

io XII non stimava gravissimo il problema liturgico che metteva a confronto i Vescovi tedeschi: “Produce in noi una strana impressione”, scriveva a Mons. Gröber, “se, quasi al di fuori del tempo e del mondo, la questione liturgica viene presentata come il problema del momento”. (Lettera di Pio XII a Mons. Gröber del 22 agosto 1943. Cit. in R. Graham, op. cit. pag. 549) Se con queste parole sconfessava gli esponenti del Movimento liturgico, Pio XII ne sottovalutava anche il pericolo. I novatori seppero così infiltrare il loro cavallo di Troia nella Chiesa attraverso la porta, quasi incustodita, della Liturgia, approfittando della poca attenzione di Papa Pacelli in materia e coadiuvati da persone molto vicine al Pontefice come il suo stesso confessore Agostino Bea s.j., futuro Cardinale ed esponente di spicco dell’Ecumenismo (cfr. mio articolo su “Sodalitium”: Il Gran Sinedrio in Vaticano per il XX del Concilio). È illuminante questa testimonianza di Mons. Bugnini: “la Commissione (per la riforma della Liturgia istituita nel 1948) godeva della piena fiducia del Papa, tenuto al corrente da Mons. Montini e, più ancora, settimanalmente, dal P. Bea, confessore di Pio XII. Grazie a questo tramite si potè giungere a risultati notevoli anche nei periodi nei quali la malattia del Papa impediva a chiunque di avvicinarlo”. (Op. Cit., pag. 22) Padre Bea fu all’origine della prima riforma liturgica di Pio XII, ovverosia la nuova traduzione liturgica dei Salmi, che sostituì quella della Volgata di San Gerolamo così invisa ai protestanti in quanto traduzione ufficiale della Sacra Scrittura nella Chiesa, dichiarata “autentica” dal Concilio di Trento. A questa riforma (Motu proprio “In cotidianis precibus” del 24 marzo 1945) il cui uso era, almeno in teoria, facoltativo e che ebbe poca fortuna, ne fecero seguito altre più durature ed ancora più gravi: 18 maggio 1948: costituzione, con a segretario Annibale Bugnini, di una commissione Pontificia per la Riforma della Liturgia (simile, anche nel nome, al “consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” istituito da Paolo VI nel 1964 e che partorita la “Nuova Messa”); 6 gennaio 1953 (Costituzione Ap. “Christus Dominus”) sulla riforma del digiuno eucaristico; 23 marzo 1955, (decreto “Cum hac nostra aetate”), riforma (non pubblicata negli A.A.S. e non stampata nei libri liturgici) delle rubriche del Messale e del Breviario; 19 novembre 1955 (decreto Maxima Redemptionis), nuovo rito della Settimana Santa, già iniziato per quanto riguarda il Sabato Santo, ad experimentum, nel 1951. Alla riforma della Settimana Santa dedicheremo il capitoletto seguente; che dire, nel frattempo, di quella delle Rubriche e del Messale, operata lo stesso anno da Pio XII? Essendo state dichiarate facoltative, si tende a dimenticarle: esse furono tuttavia una tappa considerevole della Riforma Liturgica. Assorbite ed aumentate dalla riforma di Giovanni XXIIII, le esamineremo in dettaglio con quelle del successore. Basti dire, per ora, che la Riforma del 1955 tendeva ad abbreviare l’Ufficio divino e diminuire il culto dei santi: tutte le feste di rito semidoppio e semplice diventavano semplici commemorazioni, in quaresima e passione diveniva libera la scelta tra l’ufficio di un santo e quello feriale, veniva diminuito il numero delle vigilie e ridotte a tre le ottave. Soppressi i “Pater, Ave e Credo” da recitare prima delle ore liturgiche, veniva tolta anche l’antifona finale alla Madonna (tranne che a Compieta) ed il Simbolo di Sant’Atanasio (tranne che una volta l’anno). Il Bonneterre, nella sua opera citata, pur riconoscendo che le riforme della fine del pontificato di Pio XII sono “le prime tappe dell’autodemolizione della liturgia romana” (non vediamo come la Liturgia possa “autodemolirsi” N.d.R.) cerca di garantire la loro perfetta legittimità a causa della “santità” di chi le ha promulgate. “Pio XII” scrive “ha dunque intrapreso con ogni purezza d’intenzione delle riforme rese necessarie dai bisogni delle anime senza rendersi conto – E NON LO POTEVA – che scuoteva la liturgia e la disciplina in uno dei periodi più critici della loro storia, e soprattutto senza realizzare che metteva in pratica il programma del movimento liturgico deviato”, (pagg. 105, 106, 111) Commenta Jean Crété: “Don Bonneterre riconosce che questo decreto segna l’inizio della sovversione della liturgia, ma cerca di scusare Pio XII dicendo che a quell’epoca nessuno, tranne gli uomini del partito della sovversione, potevano rendersene conto. Posso, al contrario, dargli una testimonianza categorica su questo punto. Mi rendevo benissimo conto che questo decreto non era che l’inizio di una sovversione totale della liturgia; e non ero il solo. Tutti i veri liturgisti, tutti i sacerdoti attaccati alla tradizione, erano costernati. La congregazione dei riti non era favorevole a questo decreto, opera di una commissione speciale. Quando, cinque settimane più tardi, Pio XII annunciò la festa di San Giuseppe operaio (che spostava la festa antichissima degli Apostoli Filippo e Giacomo e sopprimeva la Solennità di San Giuseppe Patrono della Chiesa N.d.R.) l’opposizione si manifestò apertamente: durante più di un anno la congregazione dei riti rifiutò di comporre l’ufficio e la messa della nuova festa. Furono necessari molti interventi del Papa perché la congregazione dei riti si rassegnasse, malvolentieri, a pubblicare alla fine del 1956 un’ufficio così mal composto che si può chiedere se non sia stato sabotato volontariamente. Ed è solo nel 1960 che furono composte le melodie (che sono dei modelli di cattivo gusto) dell’ufficio e della messa. Raccontiamo questo episodio poco noto per dare un’idea della violenza delle reazioni suscitate dalle prime riforme liturgiche di Pio XII”. (Crété. Op. cit., pag. 133)

IL NUOVO RITO DELLA SETTIMANA SANTA

”Il rinnovamento (liturgico) ha mostrato chiaramente che le formule del messale romano dovevano essere riviste ed arricchite. Il rinnovamento è stato iniziato dallo stesso Pio XII con la restaurazione della veglia pasquale e dell’Ordo della Settimana Santa, CHE COSTITUÌ LA PRIMA TAPPA DELL’ADATTAZIONE DEL MESSALE ROMANO AI BISOGNI DELLA NOSTRA EPOCA”. Sono queste le parole stesse di Paolo VI nella “promulgazione” del nuovo messale. (“Cost. Ap. Missale Romanum” del 3 aprile 1969). Analogamente, da sponda diversa, scrive Mons. Gamber: “Il primo Pontefice che abbia apportato un vero e proprio cambiamento al Messale tradizionale fu Pio XII, con l’introduzione della nuova liturgia della Settimana Santa. Riportare la cerimonia del Sabato Santo alla notte di Pasqua sarebbe stato possibile senza grandi modifiche. A lui seguì Giovanni XXIII con il nuovo ordinamento delle rubriche. Anche in queste occasioni, comunque, il Canone della Messa restò intatto (Quasi. Ricordiamo l’introduzione del nome di San Giuseppe nel Canone, voluta da Giovanni XXIII durante il Concilio, contro la tradizione che vuole nel Canone solo nomi di Martiri, da unire al Grande Martire Gesù nel Suo Sacrificio N.d.R.), non venne minimamente alterato, ma dopo questi precedenti, è vero, furono aperte le porte a un ordinamento della Liturgia Romana radicalmente nuovo”. (Op. cit., pag. 22). Il decreto “Maxima Redemptionis” col quale si introduce nel 1955 il nuovo rito parla esclusivamente del cambiamento di orario delle cerimonie del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, per facilitare ai fedeli l’assistenza ai Riti sacri riportati dopo secoli alla sera; ma in nessun passaggio del decreto si fa il minimo accenno al drastico mutamento dei testi e delle cerimonie stesse instaurato col nuovo rito e per nulla giustificato da un qualsivoglia motivo pastorale! In realtà il nuovo rito della settimana Santa fu una prova generale della riforma; lo testimonia il domenicano modernista Chenu: “Padre Duployé seguiva tutto ciò con una lucidità appassionata. Mi ricordo che mi disse un giorno, ben più tardi: – Se riusciamo a restaurare la vigilia pasquale nel suo valore primitivo il movimento liturgico avrà vinto; mi do dieci anni per questo -. Dieci anni dopo era cosa fatta.” (Un théologien en liberté. J. Dunquesne interroge le P. Chenu. Le Centurion. 1975. pag. 92-93) Infatti, il nuovo rito della Settimana Santa, inserendosi come un corpo estraneo nel resto del messale ancora tradizionale, seguiva i principi che ritroveremo nelle riforme di Paolo VI nel 1965. Facciamo alcuni esempi: Paolo VI sopprimerà nel 1965 l’ultimo vangelo: nel 1955 è soppresso dalla settimana Santa. Paolo VI sopprimerà il Salmo “ludica me” con le preghiere ai piedi dell’altare: lo stesso anticipava la Settimana Santa del 1955. Paolo VI (seguendo Lutero) vorrà la celebrazione della Messa “faccia al popolo”: il Novus Ordo della Settimana Santa inizia con l’introdurre tale uso ogni volta che è possibile (specialmente il giorno delle Palme). Paolo VI vuole diminuito il ruolo del sacerdote, sostituito ad ogni piè sospinto dai ministri: nel 1955, di già, il celebrante non legge più le letture, epistole e Vangeli (Passio) che sono cantate dai ministri -benchè facciano parte della Messa- e va a sedersi, dimenticato, in un angolo. Paolo VI, nella stessa Nuova “Messa” del 1969, col pretesto di restaurare l’antico rito romano, sopprime dalla Messa tutti gli elementi della liturgia “gallicana” (anteriore a Carlo Magno) seguendo un cattivo “archeologismo” condannato da Pio XII. Scompare così l’offertorio (con gaudio dei protestanti) sostituito con un rito talmudico che con l’antico rito romano non c’entra niente. Seguendo lo stesso principio il nuovo rito della Settimana Santa sopprime tutte le orazioni di benedizione delle Palme (tranne una), l’epistola, offertorio e prefazio che precedevano, la messa dei presantificati il Venerdì Santo… Paolo VI, sfidando gli anatemi del concilio di Trento, sopprime l’ordine sacro del Suddiaconato; il nuovo rito della Settimana Santa lascia in scena un Suddiacono sempre più inutile, visto che lo sostituisce il Diacono (Orazioni del Venerdì Santo al “levate”) o il coro ed il celebrante (all’adorazione della croce). Paolo VI vuole l’ecumenismo? La nuova Settimana Santa lo inaugura, chiamando l’orazione del Venerdì Santo per la conversione degli eretici: “orazione per l’unità della Chiesa” ed introducendo la genuflessione all’orazione per i Giudei che la Chiesa negava loro in odio al delitto compiuto il Venerdì Santo. I simbolismi medioevali sono soppressi (apertura della porta della Chiesa al canto del Gloria Laus, per esempio) la lingua volgare introdotta (promesse bettesimali), il Pater Noster recitato da tutti (venerdì santo), le orazioni per l’Impero sostituite da altre per i governanti la “cosa pubblica” dal sapore molto moderno. Nel Breviario si sopprime il così commovente “Miserere” ripetuto a tutte le ore. Viene rivoluzionato il Preconio Pasquale sopprimendo il simbolismo delle sue parole; sempre il Sabato Santo otto letture su dodici sono soppresse. Il canto della Passione, così toccante, subisce dei gravissimi tagli: scompare persino l’ultima Cena, nella quale Gesù, già tradito, ha celebrato per la prima volta nella storia il Sacrificio della Messa. Il Venerdì Santo viene distribuita la comunione, contrariamente alla tradizione della Chiesa ed alla condanna di San Pio X contro chi voleva instaurare questo uso. (Decreto Sacra Tridentina Synodus – 1905) Tutte le rubriche, poi, del nuovo rito del 1955, insistono continuamente sulla “partecipazione” dei fedeli da un lato, mentre d’altro canto deprecano come abusi molte delle devozioni popolari (così care ai fedeli) che accompagnano la Settimana Santa. Questo seppur sommario esame della riforma della Settimana Santa consente al lettore – così almeno pensiamo – di rendersi conto di come i “periti” che fabbricheranno 14 anni dopo la Nuova “Messa” avevano usato – e sfruttato – la Settimana Santa per compiere su di essa -tamquam in corpore vili- i loro esperimenti rivoluzionari da applicare a tutta la Liturgia.

GIOVANNI XXIII

A Pio XII succede Giovanni XXIII, Angelo Roncalli. Professore al Seminario di Bergamo, fu inquisito perché seguiva i testi del Duchesne, proibiti, sotto San Pio X in tutti i seminari italiani, e la cui opera “Histoire ancienne de l’Eglise”, finì all’Indice. (Poulat. Catholicisme, démocratie et socialisme. Pag. 246 e 346; Maccarrone: Mgr. Duchesne et son temps. 1975. pag. 469-472) Nunzio a Parigi, Roncalli svelerà la sua adesione alle tesi del Sillon, condannate da San Pio X (si legga tutto il testo della condanna, pubblicato in “Sodalitium” n. 4, Agosto-Settembre-Ottobre 1984), con una lettera alla vedova di Marc Sangnier, fondatore del movimento proscritto, nella quale, tra l’altro, scrive: “Il fascino potente della sua parola (di Sangnier N.d.r.), della sua anima, mi avevano incantato e conservo della sua persona e della sua attività politica e sociale il ricordo più vivo di tutta la mia giovinezza sacerdotale”, (lettera del 6 giugno 1950. Cfr. Itinéraires, n. 247, nov. 1980, pag. 152-153). Nominato Patriarca di Venezia, Mons. Roncalli darà pubblico benvenuto ai socialisti giunti nella sua città per il congresso del partito. Divenuto Giovanni XXIII crea Cardinale Mons. Montini, indice il Concilio Vaticano II e scrive l’Enciclica “Pacem in terris” nella quale afferma di già, cammuffandola con una frase volutamente ambigua, quella libertà religiosa che sarà proclamata dal Concilio, come testimonia il neo-Cardinale Pavan, collaboratore di Giovanni XXIII. L’atteggiamento di Giovanni XXIII, alla morte di Pio XII nel 1958, non poteva essere diverso, in materia liturgica, a quello dimostrato negli altri campi. Ben lo sapeva Dom Lambert Beauduin, ormai noto al lettore come quasi capostipite del movimento liturgico modernista, ed amico di Roncalli dal lontano 1924. P. Bouyer testimonia che Dom Beauduin gli disse il giorno della morte di Pio XII: “Se eleggessero Roncalli, tutto sarebbe salvato: sarebbe capace di convocare un Concilio e di consacrare l’Ecumenismo…”. (Bouyer. Dom L. Beauduin, un homme d’Eglise. 1964. pag. 180-181). Il 25 luglio 1960 Giovanni XXIII pubblica il Motu proprio “Rubricarum Instructum”. Già aveva deciso di convocare il Vaticano II e di procedere alla riforma del Diritto Canonico; con questo Motu Proprio Giovanni XXIII assorbe ed aggrava le riforme delle rubriche del 1955-56: ”Siamo arrivati alla decisione” scrive “che si doveva presentare ai Padri del futuro Concilio i principi fondamentali concernenti la riforma liturgica, e che non si doveva differire ulteriormente la riforma delle rubriche del Breviario e del Messale romano”. In questo quadro così poco ortodosso, con artefici così dubbi, in un clima già “conciliare”, nascono il Breviario ed il Messale di Giovanni XXIII, concepiti come “Liturgia di transizione” destinata a durare, come durò, tre o quattro anni: transizione tra la liturgia cattolica consacrata al Concilio di Trento e quella eterodossa preconizzata dal Vaticano II.

“L’ERESIA ANTILITURGICA” NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII

Abbiamo visto precedentemente come il grande Dom Guéranger definì “eresia antiliturgica” l’insieme dei falsi principi liturgici del XVIII secolo ispirati dall’illuminismo e dal Giansenismo. Vorrei mostrare in questo capitoletto la somiglianza, a volte letterale, tra le riforme di quel secolo lontano e quelle di Giovanni XXIII.

  • Riduzione del Mattutino a tre lezioni. L’Arcivescovo (terzaforzista, cioè filo-giansenista) di Parigi, Vintimille, nella sua riforma del Breviario del 1736 “ridusse la maggior parte degli Uffici a tre lezioni, per renderli più corti”. (Guéranger. Institutions Liturgiques. Extraits. Ed. Chiré. p. 171) Giovanni XXIII nel 1960 riduce anch’egli a 3 sole lezioni la quasi totalità degli Uffici. Ne consegue la soppressione di un terzo della Sacra Scrittura, dei due terzi delle vite dei Santi e dei quasi tre terzi (la totalità) dei commenti dei Padri alla Scrittura. Per aiutare il lettore gli mostriamo, in un piccolo schema, ciò che resta del Mattutino (tranne che nelle feste di I e II classe) dopo la riforma,tenendo presente che il Mattutino è una parte considerevole del Breviario.
  • Diminuzione delle formule di stile ecclesiastico a favore della Sacra Scrittura. “Il secondo principio della setta antiliturgica è di rimpiazzare le formule di stile ecclesiastico con delle letture della Sacra Scrittura”. (Guéranger. op. cit., p. 107) Mentre il Breviario di San Pio X faceva commentare la Sacra Scrittura dai Padri, quello di Giovanni XXIII, lasciate praticamente intatte le lezioni scritturali, come abbiamo visto sopra, le lascia senza il commento della Chiesa, sopprimendo il commento patristico (soppresso il commento all’Antico Testamento o alle epistole, 5 o 6 righe di commento al Vangelo della domenica).
  • Togliere le feste dei santi dalla Domenica. “È il loro (dei giansenisti. N.d.r.) grande principio della santità della domenica che non permette che si degradi questo giorno fino a consacrarlo al culto di un santo, nemmeno della Santa Vergine. (…) A più forte ragione i doppi maggiori o minori, che diversificano così piacevolmente per il popolo fedele la monotonia delle domeniche, ricordandogli gli amici di Dio, le loro virtù e la loro protezione, non dovevano essere rinviati per sempre a giorni infrasettimanali nei quali la loro festa passerebbe silenziosa ed inavvertita?”. (Dom Guéranger. Pag. 163) Giovanni XXIII, andando ben oltre la riforma equilibrata di San Pio X, raggiunge quasi alla lettera l’ideale degli eretici giansenisti: solo nove feste di Santi possono vincere sulla domenica (S. Giuseppe di marzo e di maggio, tre feste mariane: Annunciazione, Assunzione e Immacolata, S. Giovanni Battista, SS. Pietro e Paolo, S. Michele e Ognissanti) contro le 32 che contava il calendario di San Pio X, molte delle quali erano antiche feste di precetto. Per di più, la Domenica, Giovanni XXIII abolisce le memorie dei Santi. Per ottenere questi scopi, la riforma del 1960 eleva tutte le domeniche al rango di I e II classe, e riunisce quasi tutti i santi in una III classe creata ex novo, annullando, come vediamo dallo schema, quei doppi maggiori o minori che loda Dom Guéranger.
  • Favorire l’ufficio della feria alle feste dei Santi. Dom Guéranger descrive poi così le mosse gianseniste: “Il calendario sarà ormai epurato e lo scopo, ammesso da Grancolas (1727) e dai suoi complici, è di fare che il clero preferisca l’officio della feria a quello dei Santi. Che spettacolo pietoso! Vedere penetrare nelle nostre chiese delle massime infette di calvinismo e così volgarmente opposte a quelle della Sede Apostolica, che da due secoli non ha cessato di fortificare il calendario della Chiesa con l’arrivo di nuovi protettori!”, (op. cit. pag. 163) Giovanni XXIII ha soppresso totalmente 10 feste dal calendario (11 in Italia, con la festa della Madonna di Loreto) ha ridotto 29 feste di rito semplice e 9 di rito più elevato al rango di commemorazione, facendo così prevalere l’ufficio feriale; con la soppressione di quasi tutte le ottave e le vigilie ha sostituito altre 24 ferie a uffici di Santi (calcolando per difetto, non tenendo conto dei calendari particolari e delle feste mobili); infine, con le nuove regole di quaresima che vedremo poi, altri 9 Santi, ufficialmente nel calendario, non verranno mai festeggiati. Concludendo, la riforma del 1960-1962 sacrifica ad una “massima calvinista”, epurandole, circa 81, 82 feste di santi.

Dom Guéranger precisa che i Giansenisti soppressero le feste dei Santi in quaresima (op. cit. pag. 163). Allo stesso modo si comporta Giovanni XXIII, salvando solo le feste di I e II classe; poiché la loro festa cade sempre in Quaresima, non si festeggerà mai più un S. Tommaso d’Aquino, un S. Gregorio Magno, S. Benedetto, S. Patrizio, S. Gabriele Arcangelo ecc.

  • Censurare i miracoli dalle vite dei Santi che sembrano leggendarie. Era il principio dei liturgisti illuministi (“le vite dei santi furono spogliate di una parte dei loro miracoli e dei loro racconti pii” Dom Guéranger, pag. 171). Abbiamo visto che la riforma del 1960 sopprime 2 delle 3 lezioni del 2° Notturno, in cui si leggono le vite dei Santi. Ma ciò non bastava. Come abbiamo detto 11 feste sono totalmente soppresse, probabilmente perché “leggendarie” per i razionalisti preconciliari: per esempio S. Vitale, l’Invenzione della S. Croce, il martirio incruento di S. Giovanni alla Porta Latina, l’apparizione di S. Michele sul Gargano, S. Anacleto, S. Pietro in Vincoli, l’Invenzione ( = Ritrovamento) di S. Stefano, la Madonna di Loreto (una casa che vola!!. Ci si può credere nel XX secolo?); tra le votive, S. Filomena (che stupido il Curato d’Ars che ci credeva). Altri Santi poco illuministi sono eliminati più discretamente: la Madonna del Carmelo e della Mercede, S. Giorgio, S. Alessio, S. Eustachio, le stimmate di S. Francesco, restano come memoria in un giorno feriale. Partono anche due Papi, sembra senza motivo: S. Silvestro (troppo Costantiniano?) e S. Leone II. Quest’ultimo, forse, perché condannò Papa Onorio, e Giovanni XXIII… Segnaliamo infine un “capolavoro” che ci tocca da vicino. Dall’orazione della Messa della Madre del Buon Consiglio la riforma del 1960 ha tolto le parole che parlavano della apparizione miracolosa della Sua immagine. Se la Casa di Nazareth non può volare a Loreto, figuriamoci se un quadro che era in Albania può volare a Genazzano.
  • Spirito antiromano. I Giansenisti soppressero una delle 2 feste della Cattedra di San Pietro, al 10 gennaio, come pure l’Ottava di San Pietro (Dom Guéranger, pag. 170). Identiche misure con Giovanni XXIII.
  • Soppressione del Confiteor prima della comunione dei fedeli. (Messale di Trojes)(Dom Guéranger, pag. 149, 150, 156). Medesima cosa nel 1960.
  • Riforma del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo. Nel 1736, col Breviario di Vintimille, “fatto gravissimo e, ancor più, dolorosissimo per la pietà dei fedeli” (Dom Guéranger, pag. 170, 171). Qui Giovanni XXIII è stato preceduto, come abbiamo visto! Idem con la soppressione di quasi tutte le Ottave (uso, che si trova già nel Vecchio Testamento, di solennizzare le grandi feste per otto giorni) anticipata dai Giansenisti nel 1736 (pag. 171) e ripetuta nel 1955-60.
  • Fare, insomma, un Breviario cortissimo e senza ripetizioni. Era il sogno dei liturgisti rinascimentali (Breviario di S. Croce, abolito da S. Pio V) e poi degli Illuministi. Commenta Dom Guéranger: vogliono un Breviario “senza queste Rubriche complicate che obbligano il Sacerdote a fare dell’Ufficio Divino uno studio serio; dal resto le rubriche stesse sono tradizioni, ed è giusto che scompaiono. (…) Senza ripetizioni (…) e molto corto: ecco il grande mezzo di successo! (…). Si vuole un Breviario corto. Lo si avrà; e si troveranno dei Giansenisti per redigerlo”, (pag. 162, e anche 159). Questi tre principi saranno il vanto pubblico delle Riforme del 1955 e 1960: scompaiono le lunghe “Preces”, le memorie, i suffragi, i “Pater, Ave, Credo”, le Antifone alla Madonna, il Simbolo di S. Atanasio, 2/3 del Mattutino, e… chi più ne ha più ne metta!

L’ECUMENISMO NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII…

A questo i Giansenisti non ci avevano pensato. La Riforma del 1960 sopprime dalle orazioni del Venerdì Santo l’aggettivo latino “perfidis” ( = senza fede) riferito ai Giudei, ed il sostantivo “perfidiam” ( = empietà) riferito a “Giudaica”. È la porta aperta alla visita alla Sinagoga dei nostri giorni. Al numero 181 delle Rubriche del 1960 si legge: “la Messa contro i pagani venga chiamata: per la difesa della Chiesa. La Messa per togliere lo scisma, venga detta: per l’unità della Chiesa” (solita eresia che nega che la Chiesa è UNA! N.D.R.). Questi cambiamenti rivelano il liberalismo, pacifismo e falso ecumenismo di chi li ha concepiti. Un ultimo punto, ma tra i più gravi. Nel “Breve Esame Critico” contro la “nuova Messa” presentato dai Cardinali Ottaviani e Bacci si dichiara giustamente che è “un chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente (cioè da solo. N.d.r.), di tutte le salutationes (cioè “Dominus vobiscum” ecc.) e della benedizione finale” (pag. 18). Infatti, anche se solo, il sacerdote nel celebrare la Messa o dire il Breviario prega a nome di tutta la Chiesa e con tutta la Chiesa. Verità questa negata da Lutero. Ora, questo attentato al dogma era già compiuto dal Breviario di Giovanni XXIII che al sacerdote che lo recita da solo impone di non dire più “Dominus vobiscum – il Signore sia con voi” ma “Domine exaudi orationem meam – Signore, ascolta la mia preghiera”, pensando, con una “professione di pura fede razionalista” (Breve Esame Critico, pag. 18) che il Breviario non sia più la preghiera pubblica della Chiesa, ma una lettura privata.

CONCLUSIONE NECESSARIA

Non serve a nulla la teoria, se non la si applica. Questo articolo non può concludersi senza un caldo invito, innanzitutto ai sacerdoti, a ritornare alla liturgia “canonizzata” dal Concilio di Trento ed alle Rubriche promulgate da San Pio X. Scrive Mons. Gamber: “Molte delle innovazioni promulgate in materia liturgica negli ultimi 25 anni – a cominciare dal decreto sul rinnovamento della Liturgia della Settimana Santa del 9 febbraio 1951 (ancora sotto Pio XII) e dal nuovo Codice delle Rubriche del 25 luglio 1960 (ormai di nuovo superato) fino alla riforma, per continue piccole modificazioni, dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969 – si sono dimostrate inutili e dannose alla vita spirituale”. (Op. cit. pag. 44-45). Purtroppo nel campo “tradizionalista” regna la confusione: chi si ferma al 1955, chi al 1965 o 1967; la Fraternità San Pio X, dopo aver adottato la riforma del 1965 è tornata a quella del 1960, di Giovanni XXIII (accordata ora dall’indulto del 1984) benché ci si permetta di introdurre usi anteriori e posteriori! Nei Distretti di Germania, Inghilterra e Stati Uniti, dove si recitava il Breviario di San Pio X, è stato imposto quello di Giovanni XXIII, e ciò non solo per motivi legalistici ma di principio, mentre si tollera a malapena la recitazione privata del Breviario di S. Pio X. Ci illudiamo, sperando che questo, o altri studi, aiutino a capire che la Riforma è UNA in tante tappe, e che tutta si deve rifiutare se non si vuole (absit) accettarla tutta? Solo con l’aiuto di Dio ed idee chiare si potrà ottenere una restaurazione che non duri un’estate di San Martino.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/leresia-antiliturgica-dai-giansenisti-giovanni-xxiii/

Il ricordo di un grande tomista: padre Guido Mattiussi

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dal Centro Studi Federici

P. Guido Mattiussi. Cento anni dalla morte

“Vogliamo ricordare padre Mattiussi come scrittore, conferenziere professore e in tutti i modi uno dei più potenti promotori del Movimento tomistico tanto in Italia quanto all’estero. Anzi diremmo uno dei più brillanti restauratori di quella filosofia perenne a cui mette l’ultima mano e il suo perfezionamento”.

Con queste parole di don Paolo de Töth (e con quelle che di seguito riporteremo fra virgolette) il centro studi omonimo vuole riproporre il contributo della nostra rivista al riguardo e ricordare la grande figura di padre Mattiussi dopo un secolo dalla sua dipartita da questo mondo, “colui il cui nome costituiva l’onore massimo della povera opera nostra in questo periodico [Fede e Ragione] e noi con quanti combattono le sante battaglie della verità e della chiesa e per il trionfo di Cristo nelle anime e nella società abbiamo acquistato presso il trono di Dio nel cielo un nuovo patrono e intercessore di più”.

“La sua opera nel volume Le XXIV Tesi della filosofia di San Tommaso d’Aquino è la sintesi più bella e completa del pensiero filosofico dell’angelico dottore, che fissa chiaramente e per sempre i principi fondamentali, per non deviare dietro a false interpretazioni e correnti tomistiche di puro nome ma non di sostanza e di fatto”

Segue la lettera di sua Eccellenza illustrissima il Cardinal Ludovico Billot “desideroso anch’egli di commemorare il padre Mattiussi compagno di lui nel lavoro e nelle lotte oltre che fratello dello spirito, nella mente, nel cuore, nelle aspirazioni e nella fede”.

Facciamo nostro il seguente auspicio che si eleva anche come preghiera a Dio per continuare ancor oggi la strenua battaglia contro il modernismo riedito e ripresentato in tante sue forme, che allontana le anime dalla Verità e quindi da Cristo Nostro Signore, che continua a insegnarci nel Suo Vangelo: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37-38).

“Ne faremo un’immagine e un ritratto riandando ai suoi ammonimenti e ai suoi consigli, alle sue virtù e ai suoi esempi, e anche alle sue lotte e ai dolori dai quali pure la sua strada quaggiù fu disseminata, al suo amore coraggioso alla Chiesa, al Papa, alla verità. Prenderemo animo a seguirne le orme così da meritare anche noi la fiducia, la confidenza e più ancora la pace e la gioia Celeste che illuminò gli ultimi giorni del suo terreno passaggio e la sua morte veramente preziosa” R.I.P.

Fonte: https://www.centrostudifederici.org/il-ricordo-di-un-grande-tomista-padre-guido-mattiussi/

Il ricordo di due difensori della Fede cattolica

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Il ricordo di due difensori della Fede cattolica

Il 27 febbraio ricorre l’anniversario di morte di mons. Umberto Benigni (+ 1934) e di mons. Guérard des Lauriers (+ 1988).

“Bonum certamen certavi, cursum consumavi et fidem servavi” (2 Tim 4, 7).

Mons. Umberto Benigni, Perugia, 30 marzo 1862 – Roma, 27 febbraio 1934
https://www.sodalitium.biz/mons-benigni/
https://www.sodalitiumshop.it/prodotto/sodalitium-n-74-numero-speciale-in-difesa-di-mons-umberto-benigni/

Mons. Michel Louis Guérard des Lauriers, o.p.
Suresnes, 25 ottobre 1898 – Cosne-Cours-sur-Loire 27 febbraio 1988.
https://www.sodalitium.biz/mons-guerard-des-lauriers/
https://www.sodalitiumshop.it/prodotto/breve-esame-critico-del-novus-ordo-missae-dei-cardinali-ottaviani-e-bacci/

 

Fonte: https://www.centrostudifederici.org/il-ricordo-di-due-difensori-della-fede-cattolica/

Le piaghe della globalizzazione e la cura possibile

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.informazionecattolica.it/2024/12/29/le-piaghe-della-globalizzazione-e-la-cura-possibile/

SE SAN TOMMASO METTESSE D’ACCORDO IL PROF. TREMONTI E PAPA PIO IX

“La storia ci ha fatti molto complessi, ma è proprio la storia che ci dà speranza. In fondo, possiamo notare che la nostra decadenza è iniziata un millennio e mezzo fa, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. (…) Se lo vogliamo possiamo ancora recuperare. E possiamo farlo, soprattutto sulla base di condizioni di impegno che si possono riassumere in due sole ma essenziali parole: verità e serietà”.

Così si esprime il Prof. Giulio Tremonti, nel suo “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile” (Ed. Solferino, Milano 2022) che vede due soluzioni alle crisi contemporanee: “mettere a punto una cura che freni il dominio assoluto del mercato e recuperare le risorse e i valori di fondo della nostra comunità”.

Il docente, già Ministro dell’Economia, conclude, sostenendo che “il pensiero e le politiche dominanti si sviluppano in opposta direzione”, rispetto alle sue idee in campo finanziario e politico. La scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenar, in “Memorie di Adriano” (1953), scriveva, forse meno rassegnata, che “sopravviveranno le catastrofi e le rovine, trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine” e il Prof. Tremonti la ricorda, come a volerla prendere ad esempio.

La formula su cui ancora nel 2011 si basava una una riforma in discussione al Parlamento, che non ebbe esito, era quella dell’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti modesti, ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante patrimonio della Repubblica (per cui si può e si deve introdurre un regime speciale, anche urbanistico), titoli assistiti da questo diktat: “Esenti da ogni imposta, presente o futura”.

Tremonti, evidentemente, aggiunge che questa è “l’alternativa rispetto all’imposta patrimoniale, rispetto alla Troika, rispetto alle perdite in linea capitale”. Nel libro, il Prof. Tremonti parla anche della possibilità di battere nuova moneta, chiedendosi quanti italiani la riconoscerebbero e chi potrebbe firmare le banconote.

Per il Prof. Tremonti va rigettata la teoria del “debito buono”, presentata da Mario Draghi sul Financial Times del 25/03/2020. “E’ in ogni caso essenziale che tutti insieme – chiosa Tremonti – ora più che mai, si abbia una proiezione patriottica, comunitaria e sociale”, che vada a ridurre il debito pubblico, in favore dei servizi e del welfare.

La prima legge Tremonti del 1994 detassava chi investiva e chi assumeva. In parte, l’attuale governo ha ripreso questo principio, pur non avendo le risorse per potenziarlo, anche a sostegno dei rimpatri industriali all’estero.

Un’altra proposta, formulata su “Le Monde” del 12/9/2001 dal Prof. Tremonti era quella di favorire che gli esercizi commerciali si convenzionassero con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, ottenendo, in cambio, la rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti da parte dell’Unione Europea. L’Italia lanciò l’idea, ma fu subito respinta dalla UE. Oggi, più che mai, sarebbe utile, magari anche sul piano migratorio.

Sul piano cattolico, Vittorio Messori, nel suo testo “Pensare la storia” (Ed. Paoline, Milano 1982) dedica un capitolo al “Syllabus”, messo da Papa Pio IX come appendice all’Enciclica “Quanta Cura” del 1864, ma talmente preciso da essere sempre attuale.

Si tratta dell’ “elenco dei principali errori dell’età nostra”, che imbarazza non pochi sedicenti credenti, oppure crea orrore e sarcasmo nei laicisti, che lo additano come esempio della “cecità oscurantista” della Chiesa.

Ma – come osserva acutamente Messori – al quarto paragrafo, il Sillabo condanna: Socialismus, Communismus, Societates Secretae, Societates Biblicae, Societates Clerico-Liberales.

Socialismo e comunismo sono definiti solennemente dal Santo Padre Pio IX come “pestilenze dell’umanità”. Messori, poi, racconta di un episodio accadutogli in un servizio televisivo di sandinisti, i marxisti del Nicaragua, sconfitti dal “pueblo”. Notò frati e suore cantare l’Internazionale e salutarsi col pugno chiuso.

Forse pochi sanno che quel gesto era il simbolo di Prometeo, ben conosciuto dalla cultura classica, poiché significava l’uomo che si ribellava agli dèi. La civiltà greco-romana guardava a quel segno con orrore, come a una bestemmia. Al pugno levato in alto, per sfidare Dio, veniva contrapposto dai religiosi il pugno chiuso rivolto verso il basso, a minacciare gli Inferi. Segno distintivo del cristiano era, altresì, levare le mani aperte verso l’alto, disponibili ad accogliere lo Spirito e la volontà divina, come si nota già in molti affreschi catacombali.

Per quanto siano diversi ed eterogenei il Prof. Tremonti e il dott. Messori hanno qualcosa in comune, per chi scrive: un’attenzione particolare per il bene comune. Chiaramente non sempre si può concordare con le loro affermazioni, ma riconoscere una certa onestà intellettuale ad entrambi mi sembrerebbe una cosa giusta.

Probabilmente sarebbero d’accordo sul concetto di “Tolleranza”, così come proposto da S. Tommaso d’Aquino: “Essa è fondata sul bene comune della Società. Ci si astiene dall’opposizione alla legge ingiusta, perché si prevede che essa danneggerebbe più severamente il bene comune che non la tolleranza della legge ingiusta. In breve la si tollera, solo per non peggiorare la situazione; come quando si ha il mal di denti, ma vi è un’infezione, si è costretti a tollerare il dente malato, sino a che l’infezione non sia stata debellata da antibiotici, e solo allora si potrà estrarre il dente cariato”. (Sintesi di Filosofia della Politica, pag. 84, Ed. Effedieffe, 2018).

Il “male minore” non significa compromesso

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di Matteo Castagna per www.informazionecattolica.it

I grandi maestri della tradizione cattolica S. Tommaso d’Aquino, S. Agostino, S. Alfonso hanno insegnato un aspetto della teologia morale che è il “male minore”. L’assolutismo morale di altri, in ambito cattolico, non appartiene al concetto classico stabilito dai Dottori della Chiesa.
Chi ignora la dottrina tomista inerente l’analogia, non riesce a cogliere la definizione di male come assenza di bene, in tutte le sue implicazioni.
“Un artefice sapiente produce un male minore per evitarne uno maggiore: come il medico taglia un membro perché l’intero corpo non perisca” (S. Tommaso, Summa Teologica I, q. 48, art. 6).
Saggiamente, il ricercatore e scrittore, dottore in Scienze religiose, Prof. Fabrizio Cannone, nel suo “Per una resistenza cattolica” (Ed. Solfanelli, 2016) afferma che in certa pubblicistica cattolica, poco accorta nella pratica, si è consolidata “l’idea peregrina” secondo cui il male minore non esisterebbe o, comunque da evitare, perché indice di compromesso.
Invece, infinite volte, la Chiesa, i Santi, i Pontefici e i prìncipi cattolici ne hanno fatto ricorso, optando, nello stato di necessità, per qualcosa che non era esente dal male, che lo rendeva privo di qualche o molte perfezioni.
L’intera questione 49 della prima parte della Summa Teologica è dedicata alle cause del male, con la premessa della questione 48 sull’esistenza di due mali: quello della colpa e quello della pena. Quest’ultimo è anche un bene, e senza alcuna contraddizione. Chi non comprende l’analogia intesa dell’Angelico non valuterà mai il fatto che il male minore possa essere, altresì, il bene maggiore che si può praticare in un determinato momento storico.
Il male, in quanto assenza di Bene, più che una realtà positiva, è una privazione di giustizia, di carità, di purezza, di fede, di umiltà, di moralità, di continenza, di potere e ricchezze leciti ecc., che viene da ciò che già esiste, come la natura o l’uomo. Così, paradossalmente, il male deriva dal bene. S. Agostino scrive, infatti, che “non c’è altra sorgente che il bene da cui possa derivare il male”.  Ovviamente lo è accidentalmente e indirettamente. S. Tommaso stabilisce che dio non è causa del male morale, ma può essere causa del male (analogico) , della corruzione o distruzione di una cosa. Infatti, il Signore “fa morire e fa vivere” (1, Sam 2,6).
Ad esempio, sul tema dell’aborto, sappiamo tutti che la legge 194 è male e andrebbe abolita. Inserirla come “diritto universale” è ancor peggio. Perciò il legislatore che si opponesse ad esso e che favorisse la presenza dei cattolici nei consultori, salverebbe moltissime vite. Questa opzione per il male minore, che produce il maggior bene possibile, è assolutamente conforme alla morale cattolica, così come concepita dal tomismo. Questo atteggiamento non va visto come compromissorio, ma come prudente e, soprattutto, metafisicamente fondato.
Ammettiamo che vi siano dei candidati (democraticamente) alle elezioni, che nella loro storia personale e politica si siano distinti più di altri nel rispetto dei princìpi cristiani, sebbene in altre occasioni, per vari motivi, abbiano sbagliato e optato per il male. Altri, invece, si sono sempre comportati da anti-cristiani, amorali, immorali, oppressori del popolo, giungendo perfino al satanismo, proponendo disvalori che gridano vendetta al cospetto di Dio.
Dovrei – si chiede p. Eriberto Jone, OFM, nel suo “Compendio di Teologia morale”, dotato di imprimatur, sotto il Pontificato di Pio XII (Ed. Marietti, 1955) – astenermi dal votare il candidato migliore, poiché comunque non buono in tanti aspetti, rischiando di contribuire all’elezione del candidato nettamente peggiore, come fanno quelli che non votano mai, non essendoci attualmente alcun partito conforme alla dottrina sociale della Chiesa? Evidentemente no. E’ doverosa la scelta del “male minore”, suffragata dalle risposte di S. Tommaso d’Aquino, del Magistero e della prassi secolare della Chiesa. Padre Dragone, nella sua “Spiegazione del catechismo di San Pio X”, Sodalitium, 2009, pag. 296-297, che dispone di imprimatur, dice: “Dio è padrone della vita. Non è quindi lecito uccidere. eccetto in tre casi: in guerra, per legittima difesa, per decisione dell’autorità competente. Ci sono, dunque, delle “eccezioni” in casi particolari.
“La cooperazione nell’approvazione di una legge cattiva è peccato. Si fa eccezione soltanto quando i deputati, con la loro cooperazione possono impedire qualche male peggiore” – continua p. Dragone (pag. 155, n. 295). Il massimalismo moralista, dunque, non è mai appartenuto alla storia ed alla dottrina cattolica, quanto è molto presente nella dimensione protestante e puritana, di cui non abbiamo bisogno, soprattutto in questi tempi in cui i veri cattolici non sono molti e vengono messi in un angolo dalla secolarizzazione.

 

Bergoglio a Verona: Volantinaggio e Rosario riparatore del Circolo Christus Rex-Traditio

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di Redazione www.2dipicche.news

Riceviamo e pubblichiamo integralmente il comunicato stampa del Circolo Christus Rex-Traditio.

I CATTOLICI TRADIZIONALISTI VERONESI: “BERGOGLIO NON È VERO PAPA, QUINDI NON È BEN ACCETTO A VERONA!”

Nei giorni scorsi i militanti cattolici tradizionalisti e sedevacantisti del Circolo Christus Rex-Traditio hanno distribuito 5.000 volantini a Verona e provincia, pubblicato sulla pagina Facebook del gruppo, per invitare i fedeli cattolici a pregare un Rosario di Riparazione per la conversione di Bergoglio al Cattolicesimo dal “modernismo”, di cui oggi si fa portavoce, come TUTTI i suoi predecessori, che, pur con stili diversi, hanno applicato il Concilio Vaticano II (1962-1965).

Abbiamo trovato tante persone d’accordo con noi e critiche verso Bergoglio e le sue uscite” – commenta il Portavoce del Circolo tradizionalista Avv. Andrea Sartori. “Anche se sabato ci sarà tanta gente, come ovvio, molti saranno coloro che staranno a casa o andranno solo per curiosità perché questo “pontificato” non piace. Il cattolico sincero non sente la voce del suo Pastore e si disperde”.

“Rompendo drasticamente con la Tradizione Apostolica – dice il Portavoce del Circolo Christus Rex-Traditio Avv. Andrea Sartori – chi aderisce al Vaticano II e alle riforme moderniste successive si pone fuori dalla Chiesa Cattolica.

L’unico modo possibile per interpretare quell’ assemblea è nell’ermeneutica della rottura con il Magistero Perenne della Chiesa, fino alla predicazione alterata di alcuni passi evangelici.  Nel suo sillabo di condanna degli errori modernisti, Papa San Pio X ha respinto l’idea che le scoperte della scienza o della storia dovessero portare a un ‘adattamento’ della dottrina (Decreto Lamentabilli sane, 64). Nel Gaudium et Spes, il Vaticano II del 1965 ha affermato che “i risultati della scienza sollevano nuove domande, che necessitano di nuove indagini teologiche (GS 62)”.

Prosegue l’Avv. Sartori:

“Desideroso di eliminare il modernismo, San Pio X lo ha denunciato infallibilmente nell’Enciclica Pascendi Dominici Gregis (1907) come presupposto errato, soprattutto perché prevedeva che, ogni volta che alcune questioni di Fede o Morale confliggono con gli insegnamenti della Chiesa, nella storia, gli insegnamenti della Chiesa dovessero sempre cambiare. Non è la Chiesa a dover cambiare, per piacere al mondo, perché si deve piacere a Dio, non ai capricci e ai desideri sregolati o ai peccati degli uomini.

Infatti – incalza il Portavoce del Circolo Christus Rex-traditio – Gesù Cristo ha detto: «se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”.

Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno a voi tutto questo a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato». (Gv. 15,18-21)

Bergoglio e i suoi predecessori fino a Roncalli, nonché la gran parte dei religiosi e fedeli sedicenti cattolici degli ultimi 60 anni predicano una nuova dottrina,  diversa.

Ma San Paolo, nella Lettera ai Galati (1,6-10) scrive, quasi profeticamente:

«Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro Vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! Infatti, è forse il consenso degli uomini che cerco, oppure quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!».

“Costoro, dunque, e mi riferisco a tutti i modernisti – conclude l’Avv. Andrea Sartori – si sono posti fuori dall’unica Chiesa di Cristo, Cattolica, Apostolica, Romana, per abbracciare altri principi ed altre idee, come se la Chiesa fosse una Ong travestita da chierico. Ci pensi, il Sig. Bergoglio, perché corrispondendo alla Grazia non è mai tardi per diventare cattolici”.

L’Addetta alle Relazioni Esterne per il Circolo Christus Rex-Traditio Lucia Rezzonico

 

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