UE: La vergogna della blasfemia

Condividi su:

di Raffaele Amato

UE, la vergogna della blasfemia – Quel tempio dei “diritti” – ma soprattutto dei dritti – che è l’Europarlamento si appresta, in occasione della presidenza svedese, ad ospitare una mostra della sedicente “artista” Elisabeth Ohlson, tra le cui “opere” figurerebbe l’immagine di Gesù omosessuale circondato da apostoli in tenuta sadomaso.

L’iniziativa viene promossa dall’organizzazione “The Left”. Diventa difficile trattenere il turpiloquio di fronte a tanta indecenza, eppure, a considerare le cose con la logica della rana bollita, piuttosto che della “Finestra di Overton”, ci troviamo di fronte all’esito annunciato di un processo che viene da lontano.

La Carta di Nizza

Più precisamente dall’approvazione della Carta di Nizza del 2000, embrione della Costituzione Europea del 2004, documento che non riconosceva le radici cristiane dell’Europa.

Quella Carta fu il simbolo di una frattura, che appare ogni giorno di più insanabile, tra l’Europa, fonte di civiltà trimillenaria, e l’Unione Europea, costruzione burocratica, artificiosa e astratta.

Non possiamo non dirci cristiani

Negare il valore e l’importanza per l’Europa delle sue radici cristiane significa negare la Storia e la realtà.

Lo stesso uso del termine “Europa” è relativamente recente.

Nei tempi antichi, a cominciare dal tanto vituperato Medioevo – in cui fiorirono le prime università, in cui nacquero i primi ospedali, in cui vennero trascritti i classici greci e latini attraverso l’opera dei monasteri benedettini e tante altre “atrocità” del genere – il Vecchio Continente era infatti identificato con il nome di “Cristianità”.

Il cristianesimo ha permeato la cultura dell’Occidente nel corso dei secoli, forgiandola con il proprio sistema di valori e con la propria ispirazione.

Nel 1942 Benedetto Croce, liberale e perciò sostenitore di una visione laica dello Stato, pubblicò un saggio intitolato “Non possiamo non dirci cristiani”, in cui, tra l’altro, si legge: “…la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità”.

Basterebbe solo questo per capire quanto deviata e pervertita possa essere la concezione dell’Unione blustellata che si è preteso forzatamente di costruire.

Una volontà luciferina

Ma a piccoli passi, senza che quasi ce ne si accorgesse, come la rana fatta bollire aumentando lentamente la temperatura dell’acqua, ecco che l’UE ha compiuto un ulteriore scatto di decadenza.

Non paga, infatti, di essere senza Dio, ora ambisce ad essere contro Dio.

La martellante propaganda LGBTQ impone una nuova casta a cui ci si deve rapportare con il capo perennemente cosparso di cenere, titolare di ogni diritto, a cui ogni capriccio è dovuto.

La blasfemia è la cifra di questa casta, che ne fa sfoggio in ogni gay pride oltre che in una serie interminabile di opere ignobili spacciate per artistiche.

La casta LGBTQ è l’avanguardia di quella società fluida tanto cara al pensiero unico di cui l’UE è diventata patria. Poco importa se si diverte a calpestare i sentimenti e la sensibilità di milioni di credenti. Anzi, tanto meglio.

Raffaele Amato

Articolo completo: https://www.2dipicche.news/ue-la-vergogna-della-blasfemia/

Catechismo Maggiore di san Pio X – Della settimana santa

Condividi su:

di Istituto Mater Boni Consilii, Centro Librario Sodalitium

 

Catechismo Maggiore di san Pio X – Della settimana santa

§ 3. – Della settimana santa in generale

45 D. Perché l’ultima settimana di Quaresima si dice santa?

R. L’ultima settimana di Quaresima si dice santa, perché in essa si celebra la memoria dei più grandi misteri operati da Gesù Cristo per la nostra redenzione.

46 D. Di qual mistero si fa memoria nella domenica delle Palme?
R. Nella domenica delle Palme si fa memoria dell’entrata trionfante che Gesù Cristo fece in Gerusalemme sei giorni avanti la sua passione.

47 D. Per qual causa Gesù Cristo valle entrare trionfante in Gerusalemme avanti la sua passione?
R. Gesù Cristo avanti la sua passione volle entrare trionfante in Gerusalemme, come era stato predetto:
1.    per animare i suoi discepoli dando loro in tal maniera una chiara prova che andava a patire spontaneamente;
2.    per insegnarci che colla sua morte egli trionferebbe del demonio, del mondo e della carne, e che ci aprirebbe l’entrata in cielo.

48 D. Qual mistero si celebra nel giovedì santo?

R. Nel giovedì santo si celebra l’istituzione del santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

49 D. Qual mistero si ricorda nel venerdì santo?
R. Nel venerdì santo si ricorda la passione e morte del Salvatore.

50 D. Quali misteri si onorano nel sabato santo?
R. Nel sabato santo si onorano la sepoltura di Gesù Cristo e la sua discesa al limbo e dopo il segno del Gloria si comincia ad onorare la sua gloriosa resurrezione.

51 D. Che cosa dobbiamo noi fare per passare la settimana santa secondo la mente della Chiesa?
R. Per passare la settimana santa secondo la mente della Chiesa dobbiamo fare tre cose:
1.    unire al digiuno un maggior raccoglimento interno, e un maggior fervore di orazione;
2.    meditare di continuo con ispirito di compunzione i patimenti di Gesù Cristo;
3.    assistere se si può, ai divini uffici con questo medesimo spirito.

§ 2. – Di alcuni riti della settimana santa.

52 D. Perché la domenica della settimana santa si dice delle Palme?

R. La domenica della settimana santa si dice delle Palme a cagione della processione che si fa in questo giorno, in cui si porta in mano da’ fedeli un ramo d’olivo o di palma.

53 D. Perché nella domenica delle Palme si fa la processione portando rami d’olivo o palme?
R. Nella domenica delle Palme si fa la processione portando rami di olivo o palme per ricordare l’entrata trionfante di Gesù Cristo in Gerusalemme, incontrato dalle turbe con rami di palma in mano.

54 D. Perché nel ritorno della processione delle Palme si batte tre volte alla porta della Chiesa prima che si apra?
R. Nel ritorno della processione delle Palme si batte tre volte alla porta della Chiesa, prima che si apra, per significare che il paradiso era chiuso pel peccato di Adamo, e che Gesù Cristo ce ne ha meritato l’ingresso colla sua morte.

55 D. Chi furono quelli che andarono incontro a Gesù Cristo allorché entrò trionfante in Gerusalemme?
R. Allorché Gesù Cristo entrò trionfante in Gerusalemme, gli andò incontro il popolo semplice ed i fanciulli, non già i grandi della città; così disponendo Iddio per farci conoscere che la superbia rese questi indegni di aver parte nel trionfo di nostro Signore, che ama la semplicità di cuore, l’umiltà e l’innocenza.

56 D. Perché non si suonano le campane dal giovedì santo al sabato santo?
R. Dal giovedì sino al sabato santo non si suonano le campane in segno di grande afflizione per la passione e morte del Salvatore.

57 D. Perché si conserva nel giovedì santo un’ostia grande consacrata?
R. Nel giovedì santo si conserva un’ ostia grande consacrata:
1.    affinché si tributino speciali adorazioni al sacramento dell’ Eucaristia nel giorno in cui venne istituito;
2.    perché si possa compiere la liturgia nel venerdì santo, in cui non si fa dal sacerdote la consacrazione.

58 D. Perché nel giovedì santo dopo la Messa si spogliano gli altari?
R. Nel giovedì santo dopo la Messa si spogliano gli altari per rappresentarci Gesù Cristo spogliato delle sue vesti per essere flagellato e affisso alla croce; e per insegnarci che per celebrare degnamente la sua passione dobbiamo spogliarci dell’uomo vecchio, cioè d’ogni affetto mondano.

59 D. Perché si fa la lavanda dei piedi nel giovedì santo?
R. Nel giovedì santo si fa la lavanda dei piedi:
1.    per rinnovare la memoria di quell’atto di umiliazione con cui Gesù Cristo si abbassò a lavarli ai suoi Apostoli;
2.    perché Egli medesimo esortò gli Apostoli e, in persona di essi, i fedeli ad imitare il suo esempio;
3.    per insegnarci, che dobbiamo purificare il nostro cuore da ogni macchia, ed esercitare gli uni verso degli altri i doveri della carità ed umiltà cristiana.

60 D. Perché nel giovedì santo i fedeli si recano alla visita del Santissimo Sacramento in più chiese pubblicamente nelle processioni, o privatamente?
R. Nel giovedì santo i fedeli si recano alla visita del Santissimo Sacramento in più chiese in memoria de’ dolori sofferti da Gesù Cristo in più luoghi, come nell’orto, nelle case di Caifa, di Pilato e di Erode, e sul Calvario.

61 D. Con quale spirito si devono fare le visiti nel giovedì santo?
R. Nel giovedì santo si devono fare le visite non per curiosità, per abitudine o per divertimento, ma per sincera contrizione dei nostri peccati, che sono la vera cagione della passione

e morte del nostro Redentore, e con vero spirito di compassione delle sue pene, meditandone i vari patimenti; per esempio nella prima visita quel che soffri nell’orto; nella seconda, quel che soffrì nel pretorio di Pilato; e così dicasi delle altre.

62 D. Perché nel venerdì santo la Chiesa, in modo particolare, presa il Signore per ogni sorta di persone, anche per i pagani e per i giudei?
R. La Chiesa nel venerdì santo, in modo particolare, prega il Signore per ogni sorta di persone per dimostrare che Cristo è morto per tutti gli uomini e per implorare a beneficio di tutti il frutto di sua passione.

63 D. Perché nel venerdì santo si adora solennemente la croce?
R. Nel venerdì santo si adora solennemente la Croce, perché essendovi Gesù Cristo stato inchiodato ed essendovi morto in quel giorno, la santificò col suo sangue.

64 D. L’adorazione si deve al solo Dio, perché adunque si adora la Croce?
R. Si deve adorazione al solo Dio, e però quando si adora la Croce, la nostra adorazione si riferisce a Gesù Cristo morto su di essa.

65 D. Qual cosa è da considerarsi specialmente nei riti del sabato santo?
R. Nei riti del sabato santo è da considerarsi specialmente la benedizione del cero pasquale e del fonte battesimale.

66 D. Che cosa significa il cero pasquale?
R. Il cero pasquale significa lo splendore e la gloria, che Gesù Cristo risuscitato apportò al mondo.

67 D. Perché si benedice nel sabato santo il fonte battesimale?
R. Nel sabato santo si benedice il fonte battesimale, perché anticamente in questo giorno, come ancora nella vigilia della Pentecoste, si conferiva il Battesimo solennemente.

68 D. Che cosa dobbiamo fare mentre si benedice il fonte battesimale?
R. Mentre si benedice il fonte battesimale, dobbiamo ringraziare il Signore d’averci ammessi al Battesimo, e rinnovare le promesse che allora abbiamo fatto.

 

Segui l’articolo completo: https://www.sodalitium.biz/catechismo-s-pio-x-settimana-santa/

Il valore del Santo Sacrificio della Messa

Condividi su:

Segnalazione del Centro Studi Federici

“Con Te mi offro anch’io”, di don Piergiorgio Coradello (Sodalitium n. 73, pagg. 57 n- 68).
Con questo articolo cercheremo di spiegare perché l’assistenza alla Messa è così importante e non è solo un’opera comandata dalla Chiesa nei giorni di festa.
Per la lettura dell’articolo: https://www.sodalitium.biz/sodalitium_pdf/73.pdf  pagg. 57 – 68

Un florilegio sulla grandezza di san Giuseppe

Condividi su:

Il 19 Marzo si festeggia San Giuseppe, Patrono della Chiesa Cattolica, padre putativo di Gesù. Giungendo quest’anno la festa di Domenica, la Messa di San Giuseppe viene celebrata domani (non di precetto). Lo si dice sommessamente per non urtare la suscettibilità di chi non crede. San Giuseppe la urta lo stesso con l’esempio della Sua vita di padre esemplare, vergine e gran lavoratore, che ha aderito pienamente alla difficile chiamata del Signore.

Segnalazione Redazione I Tre Sentieri

Dal Vangelo: Giuseppe da Nazareth, figlio di Davide, uomo giusto, marito di Maria, padre di Gesù, salvatore della vita del Salvatore. 

Dalla liturgia: Certa speranza della nostra vita, sostegno del mondo, illustre per meriti, ministro della nostra salute, padre del Verbo, vincitore dell’inferno, servo fedele e prudente, quasi padre del Re, padrone della sua casa e principe di ogni sua possessione, procuratore della Chiesa di Dio. 

Da Origene: Giusto nella legge, nelle parole, nei fatti, nel giudizio della grazia; umilissimo, stimasi indegno di stare con Maria.

Da sant’Eusebio di Cesarea: In lui un esimio pudore, una modestia e una prudenza somma; eccellente nella pietà verso Dio, splendeva di una meravigliosa bellezza anche nel sembiante. 

Da sant’Ilario di Poitiers: La sua vita è tipica: egli fu come gli Apostoli, alle cui cure fu affidato Cristo, perché lo portassero traverso il mondo; perciò esemplare e figura degli uomini apostolici.

Da sant’Efrem il Siro: Paradiso di delizie, sollievo della Madre di Dio. Pare di sentirlo: « E donde a me questo, ch’io sia sposo alla Madre del mio Dio? Donde a me che il Figlio di Dio sia diventato mio figlio? Ecco che mi è stata resa la corona di Davide, dal momento che il Signore di Davide è venuto nelle mie mani!»

Da san Basilio Magno: Qual Angelo o Santo meritò di essere padre del Figlio di Dio? Solo Giuseppe. Quindi egli è «Fatto tanto più grande degli Angeli, quanto più di loro ha ereditato un nome sovraeccellente!» (Cf Ebr 1, 4).

Da san Gregorio Nisseno: I sacerdoti d’Israele furono guidati divinamente nello scegliere Giuseppe a sposo di Maria. 

Da sant’Epifanio: Grande tra gli uomini, fedele nei costumi, pio nello stesso suo sembiante.

Da san Giovanni Crisostomo: Era colmo di straordinaria riverenza per il Bambino Gesù, e, quando Maria lo poso nella mangiatoia, Giuseppe s’inchino a contemplarlo, il suo cuore fu inondato di gioia, ma non osò toccarlo. Insigne in tutto, fornito d’ogni sorta di virtù, sapiente oltre la legge, era sempre intento alla meditazione dei Profeti.

Da san Girolamo: Più custode che marito per Maria, dovette essere vergine per poter essere chiamato padre del Signore. Intanto fu il Salvatore dell’onore della Madre di Dio.

Da sant’Agostino d’Ippona: Vero marito di Maria, benché vergine; e vero padre di Gesù, benché non l’abbia procreato: se, adottando un figlio di una donna qualsiasi, avrebbe avuto diritto di dirsi suo padre, tanto più allevando come suo il Figlio della sua consorte! Chi dice non doversi chiamare padre Giuseppe per non avere generato Gesù, cerca nel procrear figli più la libidine che l’affetto: Giuseppe ottenne colla carità meglio assai di quel che altri colla carne; e anche quelli che adottano figli, castamente li procreano coll’affetto meglio che colla carne. Come Cristo morente non affidò che a un vergine la sua Madre Vergine, così nemmeno l’avrebbe data in sposa a Giuseppe, se questi non fosse stato più che vergine! Onore della verginità e guardiano della castità, adunque!

Da san Pier Crisologo: È detto «giusto» per il pieno e perfetto possesso di tutte le virtù.

Da san Gregorio Magno: L’unico tra gli uomini trovato degno di essere sposo di Maria!

Da sant’Isidoro di Siviglia: È la creatura più d’ogni altra amata da Gesù e da Maria.

Da san Giovanni Damasceno: A lui, solo fra tutti gli uomini, fu dato il nome di padre del Figlio di Dio, e fu dato liberamente, con tutti gli affetti e l’autorità di padre !

Da san Pier Damiani: È fede della Chiesa che Dio non si contentò di una Madre Vergine, ma vergine volle anche colui, che doveva figurare suo padre.

Da Ruperto di Mästricht: Giuseppe, paradiso di voluttà, in cui c’erano tutte le delizie!

Da san Bernardo di Chiaravalle: Senza dubbio dovette essere uomo ben buono e fedele questo Giuseppe, a cui fu sposata la Madre del Salvatore; fedele servo, cui Dio costituì sollievo di sua Madre, nutrizio della carne di Dio, solo in terra coadiutore fedelissimo del gran consiglio; figlio di Davide, per santità, fede e devozione; il più fedele cooperatore dell’Incarnazione, signore e padrone della Sacra Famiglia, consolatore di Maria nelle sue prove e tribolazioni. Quale felicità per lui nel portare Gesù, carezzarlo, baciarlo!

Da Ssant’Alberto Magno: Modello ai sacerdoti e ai prelati, che governano la Chiesa di Dio!

Dal Gersone: Chi non predicherà la più pura e perfetta pudicizia di Giuseppe, che, vergine, sposò una vergine e la custodì vergine? Primo tra gli uomini, egli insegnò a praticare nel matrimonio un santo e intero celibato. In lui il fomite del peccato originale fu estinto o almeno smorzato, perché l’avvenente aspetto della Vergine non fosse pregiudizievole alla sua virtù. Ci fu chi lo disse santificato nel seno materno. È la terza persona della trinità terrestre. Quale dignità, o Giuseppe, che Maria ti chiami suo signore e il Dio fatto Uomo suo padre! O gloriosa trinità terrena! nulla di più grande, di più buono, di più eccellente. E anche in cielo, quando il padre prega il Figlio, la preghiera vien presa come un comando.

Da san Bernardino da Siena: Per operazione di virtù, doveva essere somigliantissimo alla Vergine; perciò io lo penso mondissimo nella castità, profondissimo nell’umiltà, ardentissimo nella carità, altissimo nella contemplazione, per essere un aiuto simile alla Vergine: con tutto l’affetto del cuore Maria l’amava sincerissimamente e dal tesoro del suo cuore davagli quanto egli ne poteva ricevere. A lui poi è debitrice la Chiesa per avere egli ordinatamente e onestamente introdotto nel mondo il Divin Redentore; onde, se la Chiesa onora Maria, per averci dato il Cristo, dopo che a Maria, tanto devesi a Giuseppe. È la chiave del Vecchio Testamento, in cui la dignità dei Patriarchi e dei Profeti consegue il frutto promesso: egli solo corporalmente possedette Colui, che ad essi era stato promesso. Non si può dubitare che Cristo continui in cielo a lui quella famigliarità, riverenza e sublimissima dignità accordatagli in terra: anzi è da credere che in cielo compia e perfezioni tutte queste cose.

Da san Giovanni d’Avila: Capo della immensa moltitudine dei tribolati! 

Da santa Teresa di Gesù: Io non capisco come si possa pensare a Maria tutta occupata nelle sue cure al Bambino Gesù, senza ringraziare san Giuseppe per tutti gli aiuti, che presto in quel tempo alla Madre e al Figlio! San Giuseppe è maestro d’orazione e di vita interiore: chi non ha chi gl’insegni a pregare, prenda per maestro questo glorioso Santo, e non fallirà la strada. Egli è il mio avvocato e protettore, padre e signore!

Da san Pietro Canisio: Caro a Dio e agli uomini (Eccles., XLI, I). Poiché rifulse per eminente virtù, è giusto che a tutti venga proposto in esempio da imitare per vivere bene e santamente.

Dal padre Suarez: Tre privilegi ebbe san Giuseppe: essere santificato nell’utero materno, essere insieme confermato in grazia, essere perciò esente dagli stimoli della concupiscenza. L’opinione che superi tutti i Santi in grazia e in gloria, io non credo che sia avventata e improbabile, bensì. Il suo ministero, nella sua qualità, fu più perfetto di quello dell’apostolato, perché appartiene all’unione ipostatica.

Da san Francesco di Sales: Non è solo patriarca, ma corifeo dei patriarchi; non è solo confessore, ma più che confessore, perché nella sua confessione sono racchiuse la dignità dei vescovi e la generosità dei martiri e di tutti gli altri Santi. Quale unione tra san Giuseppe e Maria! Per questa unione Nostro Signore, come apparteneva a sua Madre, apparteneva anche a san Giuseppe, non secondo la natura, ma secondo la grazia; perché questa unione lo faceva partecipe di tutto ciò che apparteneva alla sua Sposa: Maria, quasi specchio, riceveva nella sua anima i raggi del Sole eterno di giustizia, e l’anima di Giuseppe, quasi altro specchio, anch’essa di faccia a Maria ne raccoglieva perfettamente i raggi riflessi. Più perfetto degli Angeli nella verginità, eminentissimo in sapienza, compitissimo in ogni sorta di perfezione, anch’egli morì di amore, non altrimenti della Vergine sua Sposa, e, com’Essa, fu sollevato in anima e corpo al cielo.

Da Cornelio a Lapide: Giuseppe è più un angelo che un uomo in tutta la sua condotta!

Dal venerabile Olier: Fu dato alla terra per esprimere visibilmente le adorabili perfezioni di Dio Padre. Nella sola sua persona egli portava la bellezza, la purità, l’amore, la sapienza e la prudenza, la misericordia e la compassione di Lui. Un Santo solo è destinato a rappresentare Dio Padre, mentre che un’infinità di creature, una moltitudine di Santi sono necessari per rappresentare Gesù Cristo; poiché tutta la Chiesa non opera se non per manifestare le virtù e le perfezioni del suo adorabile Capo: il solo san Giuseppe rappresenta il Padre Eterno! Tutti gli Angeli insieme sono creati per rappresentare Dio e le sue perfezioni: un uomo solo rappresenta tutte le grandezze di Lui! Egli è perciò l’essere più grande, più celebre, più incomprensibile e, in proporzione, come Dio Padre, nascosto e invisibile nella sua persona, incomprensibile nel suo essere e nelle sue perfezioni: sotto questo riguardo, è incomparabile e costituisce un ordine a parte.

Da Paolo Aresi di Tortona: Da tutte le Persone della Santissima Trinità ebbe privilegi singolarissimi: dalla prima, di essere padre del Verbo Incarnato; dalla seconda, di essere giusto e figlio di Davide; dalla terza, di essere sposo di Maria. Quand’anche non fosse stato santo, lo sarebbe diventato sposando Maria, secondo la parola dell’Apostolo (1 Cor 7,14). Dovette essere poi somigliantissimo a Cristo e nella bellezza del volto e nella gentilezza del tratto; e l’arguisco da questo che, avendo Cristo voluto passare per suo figlio, la gente doveva riscontrare in Lui le fattezze di Giuseppe per crederlo suo vero padre, benché non lo fosse.

Dal padre Paolo Segneri: Fu niente per sé, ma tutto per Cristo. Fu sposo della Vergine, solo quanto ciò doveva valere a salvare l’onore di Gesù; del resto, la lasciò intatta, come fa l’olmo, che si sposa alla vite, ma non ha parte alcuna nel suo frutto, che pure aiuta a portare. Fu padre a Cristo, ma solo di affetto e assistenza per la sollecitudine, che gli doveva prestare: del resto, non doveva vederne la gloria, e anche delle sue azioni solo doveva sapersi quanto era necessario a lumeggiare Gesù, e anche dopo morte per dei secoli rimase incognito e inglorioso.

Dal Bossuet: Fatto custode dei tre più preziosi depositi -la Verginità di Maria, la Persona di Gesù, il Mistero dell’Incarnazione Divina- li custodi fedelmente. Nessun dubbio perciò che sia stato fornito delle tre virtù necessarie a custodire tali depositi: purità, fedeltà, umiltà. Se fu la verginità di Maria, che trasse dal cielo in terra il Verbo, Giuseppe è a parte di questo miracolo, perché la purità di Maria è deposito di Giuseppe, anzi bene suo, per il matrimonio e le cure, con cui la custodì; tanta parte quindi ha ben anche nel frutto di Lei. Cristo aveva un Padre in cielo, che l’avrebbe poi abbandonato sulla Croce, e anche da quando venne in terra sembrò abbandonarlo, viceversa L’affidò a Giuseppe, qual padre terreno; e Giuseppe raccolse il mandato e non visse più che per Gesù, tutto viscere di padre; ciò che non è per natura, lo è per affetto, poiché Dio gli ha mutato il cuore, come a Saul (1 Re 10, 9), onde non è meraviglia che comandi e tutto si sacrifichi per Lui. La sua missione è diversa da quella degli Apostoli: Gesù è loro rivelato, perché lo predichino; a Giuseppe invece per celarlo. Quelli sono fiaccole, che Lo mostrano al mondo; questi un velo, che Lo copre: velo misterioso, che coprì la verginità di Maria e gli splendori del Figlio di Dio. Giuseppe vide Gesù e tacque; Lo godette e non parlò; adempì la sua vocazione di ministro e compagno della vita nascosta.

Da san Leonardo da Porto Maurizio: Come Maria è Regina degli Angeli e dei Santi, così per legge san Giuseppe suo sposo è re degli Angeli e dei Santi: onde, se onorate Maria con questo titolo, così anche si deve dire a san Giuseppe: «Re degli Angeli, re dei Santi, prega per noi!» Dio volle che S. Giuseppe fosse protettore speciale d’ogni classe di persone e intercessore universale, perché tutti possano sentirsi protetti da lui.

Da sant’Alfonso M. de’ Liguori: Non si deve dubitare che Giuseppe, vivendo con Cristo, crebbe tanto in meriti e santità da sorpassare tutti i Santi. Egli è speciale protettore dei moribondi, perché la sua intercessione presso Gesù è più potente di quella d’ogni altro Santo, e perché ha maggior potere contro i demoni, e perché fu assistito in morte da Gesù e Maria. Da Giuseppe ottiene più grazie chi più lo prega: la più grande grazia, che fa ai suoi devoti, è un tenero e ardentissimo amore a Gesù.

Da Pio IX: È il Patrono della Chiesa Cattolica. Per la grande dignità e posizione concessagli da Dio, la Chiesa lo tiene nel più alto onore e massima considerazione, dopo Maria, e con preferenza a lui rivolge le sue preghiere nelle sue necessità.

Da Leone XIIIS’avvicina in grandezza, grazia, santità e gloria a Maria quanto nessun altro mai, e non meno grandeggia quale custode e padre putativo di Gesù. Modello ai padri di famiglia, ai coniugi, ai vergini, ai nobili, ai ricchi, ai proletari, operai o poveri: è cosa conveniente e sommamente degna di lui, che, come già la Sacra Famiglia, Egli copra e difenda col suo patrocinio la Chiesa di Cristo. 

Da San Pio X: Qual era la professione di S.Giuseppe? San Giuseppe, benché fosse di stirpe reale di David, era povero, e ridotto a guadagnarsi il vitto colla fatica delle sue mani.

Da Benedetto XV: Col fiorire così della devozione dei fedeli verso san Giuseppe, aumenterà insieme, per necessaria conseguenza, il loro culto verso la Sacra Famiglia di Nazareth, di cui egli fu l’augusto Capo, sgorgando queste due devozioni l’una dall’altra spontaneamente. poiché per san Giuseppe noi andiamo direttamente a Maria, e per Maria al fonte di ogni santità, Gesù Cristo, il quale consacrò le virtù domestiche colla sua obbedienza verso san Giuseppe e Maria. A questi meravigliosi esemplari di virtù Noi quindi desideriamo che le cristiane famiglie si ispirino e completamente si rinnovellino.

Da Pio XI: Ecco un santo che entra nella vita e si spende interamente nell’adempimento d’una missione unica da parte di Dio, la missione di custodire la purezza di Maria, di proteggere nostro Signore e di nascondere, con la sua ammirabile cooperazione, il segreto della redenzione. Nella grandezza di questa missione ha le sue radici la santità singolare e incomparabile di san Giuseppe, poiché una tale missione non fu affidata a nessun altro santo… è evidente che, in virtù d’una missione così alta, Giuseppe possedeva già il titolo di gloria che è suo, quello di patrono della Chiesa universale. Tutta la Chiesa, infatti, è già presente presso di lui allo stato di germe fecondo.

Da Pio XII: È facile dunque, è dolce rappresentarci questa santa Famiglia di Nazareth all’ora della consueta preghiera. Nell’alba dorata o nel violaceo crepuscolo della Palestina, sulla piccola terrazza della loro bianca casetta, rivolti verso Gerusalemme, Gesù, Maria e Giuseppe sono in ginocchio; Giuseppe, come capo della famiglia, recita la preghiera ma è Gesù che la ispira, e Maria unisce la sua dolce voce a quella grave del santo Patriarca. Futuri capi di famiglia! Meditate e imitate questi esempio, che troppo uomini oggi dimenticano.

 

Gli amici e i nemici di San Tommaso d’Aquino

Condividi su:

Segnalazione del Centro Studi Federici

Festeggiamo san Tommaso d’Aquino, il Dottore angelico, segnalando un saggio di don Paolo De Töth in difesa del Tomismo contro i suoi falsi amici e i dichiarati nemici.
Lo studio è consultabile sul sito del “Centro Studi De Töth”, dedicato al battagliero sacerdote e giornalista antimodernista.
Sac. Paolo De Töth, Della preminenza, in sè secondo le dichiarazioni dei Sommi Pontefici LEONE XIII, PIO X, BENEDETTO XV E PIO XI, della Filosofia e Teologia Tomistica, a proposito di un opuscolo su “La Scolastica e i suoi campiti odierni”, Tipografia “La Commerciale” – Acquapendente, Anno 1936.
INDICE
I. — Gran Dottore San Tommaso, ma morto e sepolto … pag. 3
II. — Sguardo retrospettivo su l’opuscolo “La Scolastica e i suoi compiti odierni “ e osservazioni generali … pag. 6
III. — Esiste una Filosofia cristiana? … pag. 9
IV. — Filosofia cristiana e Filosofia scolastica … pag. 11
V. — Lodi che nascondono pugnalate … pag. 15
VI. — Dove sono da cercare le vere cause della decadenza della Scolastica … pag. 19
VII. — La Scolastica e i suoi compiti odierni … pag. 25
VIII. — San Tommaso nelle prescrizioni dei Pontefici Leone XIII, Pio X, Benedetto XV e Pio XI … pag. 39
IX. — Le XXIV tesi filosofiche espressione genuina del pensiero tomista e fondamento della sana e vera filosofia … pag. 50
X. — Le prescrizioni dei Papi Leone XIII, Pio X, Benedetto XV e la Compagnia di Gesù … pag. 60

“Io, tradizionalista, dico che sulla messa in latino Bergoglio ha ragione”

Condividi su:

Il Circolo Christus Rex si riconosce perfettamente nelle parole di questo articolo dell’amico Mattia Rossi. Bergoglio cerca di troncare con l’ambiguità dei predecessori e di stabilire che la lex orandi della lex credendi prodotta dal Concilio Vaticano II (1962-1965) è espressa nel Novus Ordo e non nella Messa tridentina. I fautori della “terza via” clerical-democristiana, in ambito conservatore e tradizionalista sono disperati per qualcosa che ci auguriamo riescano a comprendere grazie alla coerenza di Francesco, anche se costerà qualcosa in termini di comodità: niente più chiese, altari maestosi, basiliche. Niente più inciuci coi conciliari. Ora la prova è nella sostanza, ovvero nella Fede autentica. Noi ci auguriamo che abbiano, nell’abbracciare la Tradizione cattolica senza compromessi, la coerenza di Bergoglio e il coraggio di Mons. De Castro Mayer. (n.d.r.)

di Mattia Rossi

Al direttore – È curioso doverlo ammettere  – dal momento che, chi scrive, è da annoverarsi nella schiera di quanti vengono, più o meno propriamente, definiti “tradizionalisti” – ma Bergoglio, con Traditionis custodes, ha agito bene. La posizione del Summorum pontificum ratzingeriano del vetus e novus ordo quali “due usi dell’unico rito” era palesemente ossimorica: le due ecclesiologie che soggiacciono alle due messe sono antitetiche e incompatibili. L’ecclesiologia comunitaria veicolata dal Vaticano II, ponendo a fondamento la categoria di “popolo di Dio” e, dunque, esigendo le dimensioni collegiali ed ecumeniche, è chiaramente differente da quella precedente, ovvero di una chiesa nella quale l’autorità viene prima della comunità e la conversione prima del dialogo. E allora, se con la riforma liturgica di Paolo VI la chiesa si è data una nuova lex orandi per una nuova lex credendi, è impossibile che due lex orandi differenti possano rispecchiare un’unica lex credendi. Ecco perché, nel chiedere espressamente ai fedeli che intendano celebrare vetus ordo la chiara accettazione del Concilio, Traditionis custodes, dal suo punto di vista, ne ha pienamente diritto.

Ma le restrizioni per l’uso del vetus ordo all’interno della chiesa postconciliare sono ovvie anche perché se si ritiene che Paolo VI avesse autorità (e io non sono tra quelli) occorre riconoscere che con la costituzione apostolica Missale Romanum ebbe la netta intenzione di abrogare la Quo primum di Pio V: “Quanto abbiamo qui stabilito e ordinato vogliamo che rimanga valido ed efficace, ora e in futuro, nonostante quanto vi possa essere in contrario nelle costituzioni e negli ordinamenti dei Nostri Predecessori”. E nel concistoro del 24 maggio 1976, Montini precisò: “Il nuovo ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio tridentino”. Perché ciò che vale per un papa del ’500 non può valere, se se ne riconosce l’autorità, per un suo successore del ’900? E infatti il Codice di diritto canonico, sia nell’edizione del 1917 che in quella riformata del 1983, precisa che “la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente”.

E ancora, per quale motivo Wojtyla, nel concedere limitatamente l’uso del messale del ’62, utilizzò lo strumento dell’indulto, che giuridicamente è l’esenzione dalla potenziale pena? Significa, evidentemente, che il messale precedente non era più “legale”. Quando Bergoglio pone restrizioni sulla “messa in latino” lo fa con coerenza e incarnando l’ecclesiologia del Vaticano II dalla quale, seppur dissimulando, neppure Ratzinger, riconoscendo il “valore e la santità” del nuovo rito, ovviamente mai si distaccò salvo promulgare un motu proprio illusorio. Con Francesco è tutto più chiaro: o di qua o di là senza un piede nel vetus e uno nel novus.

Fonte: https://www.ilfoglio.it/chiesa/2021/10/02/news/-io-tradizionalista-dico-che-sulla-messa-in-latino-papa-francesco-ha-ragione–3063112/

«Ma il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra?»

Condividi su:

Segnalazione Corrispondenza Romana

di Mauro Faverzani

In Germania la crisi interna alla Chiesa cattolica diviene sempre più acuta ed ormai oltre un terzo dei tedeschi – il 36%, per la precisione – è convinto di uno scisma imminente con Roma: a rivelarlo, è un sondaggio promosso dal settimanale cattolico Die Tagespost. Il 42% degli intervistati non sa e non intende sbilanciarsi, solo il 22% è convinto che, alla fine, tutto sia destinato a rientrare. Le percentuali divengono ancora più drammatiche, qualora si consideri un campione costituito dai soli cattolici: in questo caso, ben il 42% degli intervistati prevede lo scisma, peraltro a breve, il 29% non sa e solo il restante 29% è convinto del lieto fine. Mentre nel Vecchio Continente prosegue quell’«apostasia silenziosa», già chiaramente espressa nel 2003 da Giovanni Paolo II al n. 9 dell’Esortazione apostolica Ecclesia in Europa, altrove, in Africa per la precisione, Nigeria e Kenya risultano essere i due Paesi al mondo con la più alta percentuale di cattolici praticanti. Il che ha dell’incredibile, trattandosi di territori segnati dal sangue del terrorismo islamico con organizzazioni quali Boko Haram nel primo caso e al-Shabaab nel secondo, aree cioè in cui essere e dirsi cristiani non è scontato, né facile, né prudente. Eppure, a confermarlo è l’indagine condotta dal World Values Survey sulla base di dati provenienti da 36 Paesi del mondo.

Tutto indurrebbe a ritenere che nelle terre della jihad sia necessario non ostentare la propria fede, viverla in modo nascosto, per evitare di pagare con la vita tale coraggio. Invece, accade proprio il contrario: nell’Occidente, dove – teoricamente – tutto sarebbe possibile, ci si vergogna non solo di dirsi cattolici, ma ancor più di vivere i valori e le virtù, insegnati dalla Dottrina, dal Magistero e dal diritto naturale; nell’Africa, in cui professare il proprio credo può costare il martirio, si è pronti al sacrificio, pur di non rinunciare e di non rinnegare Dio.

Così, ecco in Nigeria il 94% degli adulti cattolici recarsi alla santa Messa ogni settimana; in Kenya fa altrettanto il 73% dei fedeli, in Libano il 69%. Seguono Filippine (56%), Colombia (54%) e solo al sesto posto si trova il primo Paese europeo, la Polonia, col 52%. E poi ancora Ecuador (50%), Bosnia-Erzegovina (48%), Messico (47%), Nicaragua (45%), Bolivia (42%), Slovacchia (40%), Italia (34%), Perù (33%), Venezuela (30%), Albania (28%), Spagna e Croazia (27%), Nuova Zelanda e Regno Unito (25%), Ungheria e Slovenia (24%), Uruguay (23%), Australia ed Argentina (21%), Portogallo e Repubblica Ceca (20%), Austria e Usa (17%; negli Stati Uniti era il 24% prima del Covid), Lituania (16%), Germania e Canada (14%), Lettonia e Svizzera (11%), Brasile e Francia (8%) e Paesi Bassi (7%). Si può notare come la maggior parte dei Paesi, culla della societas christiana, si trovino nella zona più bassa della classifica, da una parte confermando le previsioni di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI circa il suicidio spirituale dell’Europa, dall’altra contestualizzando meglio la portata e le dimensioni di un eventuale scisma in una Germania, in cui, indipendentemente da esso, la presenza cattolica è già oggi quasi irrilevante e ridotta ai minimi storici. Viceversa gli Stati, caratterizzati da maggiore instabilità sociale, violenza e miseria, sono anche quelli, ove più salda risulta l’appartenenza religiosa degli intervistati. E questo è un dato molto significativo, su cui il cosiddetto Occidente dovrebbe riflettere.

L’indagine individua anche una relazione tra il Pil pro capite e la religiosità di un Paese: maggiore è il primo, minore è la seconda, come se il benessere immanentizzasse il cuore degli uomini, anziché spalancarlo alla dimensione spirituale (non foss’altro che per una doverosa gratitudine nei confronti della Divina Provvidenza). Viceversa il gruppo di nazioni con un Pil pro capite inferiore ai 25 mila dollari registra le percentuali più alte di religiosità dichiarata. Sono dati significativi, perché la dicono lunga non solo con numeri e grafici, bensì con i contenuti, per intuire cosa alberghi nel cuore dell’uomo. Ed allora riecheggia, forte e grave come una condanna, la domanda che Nostro Signore Gesù Cristo pose: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8).

 

Don Ricossa scrive a Valli sul caso Gnocchi

Condividi su:

di Redazione

Interpellato sulla questione da più parti nel mondo della cosiddetta “tradizione cattolica” e non, il nostro Responsabile Nazionale Matteo Castagna ha così risposto: “Ho conosciuto Alessandro Gnocchi ai tempi in cui scriveva libri e teneva conferenze con Mario Palmaro. Le differenze dottrinali ci hanno sempre diviso, al di là della simpatia umana. Chi è “una cum” e comprende la critica necessaria alle presunte autorità romane, nel medio e lungo termine si trova in un conflitto interiore. Io l’ho risolto nel 2007, aderendo a quella che mi pare la soluzione che la Chiesa stessa propone a credere nei Suoi diversi atti: il sedevacantismo, per non incorrere nell’errore fallibilista, che fa molto male alle anime. Gnocchi ha compiuto un grave atto di apostasia, che mi ha sorpreso anche perché non credo che, oltre a Dio, il suo scrittore preferito, Giovannino Guareschi approverebbe. Mi dispiace e pregherò per lui, vittima di ambienti di dottrina ambigua, un po’ modernista, un po’ tradizionalista, fondamentalmente fallibilista. Nella sostanza quel “Centro che porta a sinistra” di cui è in libera vendita un ottimo libricino, dove la Fede diventa dialettica intellettualista”.

Dal sito di Sodalitium:

Don Francesco Ricossa è intervenuto sul blog di Aldo Maria Valli sul caso relativo al passaggio di Alessandro Gnocchi dal Cattolicesimo all’eterodossia moscovita.

Caro Valli,

 ho letto su Duc in altum la recensione del libro di Alessandro Gnocchi Ritorno alle sorgenti. Il mio pellegrinaggio a Oriente nel cuore dell’Ortodossia e sto seguendo il dibattito in corso nel blog, dibattito che reputo di una assoluta gravità. Non si può mettere infatti tra le questioni disputate l’appartenenza o meno alla Chiesa cattolica romana, fuori della quale non vi è salvezza.

La cosa più paradossale è che questa simpatia per l’“ortodossia” (uso le virgolette giacché i discepoli di Fozio e Michele Cerulario non sono ortodossi ma eterodossi, veri scismatici, senza virgolette, ed eretici), nasce tra cattolici stimati come più o meno “tradizionalisti”, e pertanto più o meno, in teoria, avversi al modernismo e agli errori del Vaticano II.

Da un lato, infatti, essi denunciano la protestantizzazione del “cattolicesimo” (scambiando erroneamente la Chiesa cattolica con i modernisti che l’hanno occupata e dei quali riconoscevano l’autorità), dall’altro ne sono degli esemplari rappresentanti.

Infatti, il Vaticano II promuove l’ecumenismo, in primis proprio con le “chiese ortodosse”, che da tempo fanno parte del Consiglio ecumenico delle Chiese; la riforma liturgica ha sistematicamente abbandonato la tradizione romana non solo in favore del protestantesimo, ma anche della tradizione liturgica orientale; ha cercato di mettere da parte il Primato papale e la monarchia pontificia, per sostituirla con un modello collegiale e sinodale di Chiesa simile al modello orientale; si orienta con Amoris laetitia all’accettazione del divorzio prendendo anche qui a modello la disciplina degli scismatici orientali, e potremo continuare a lungo con le similitudini tra le riforme conciliari e gli errori bizantini

È veramente paradossale che per disgusto del modernismo si cada in un’altra forma di modernismo, ignorando tra l’altro quanto la cosiddetta “ortodossia” sia influenzata dalla teologia protestante, in particolare anglicana. Nel suo articolo Gulisano esprime persino l’opinione che Lewis, che non entrò mai nella Chiesa cattolica ma che avrebbe appartenuto a un cristianesimo non confessionale, non sarebbe stato scismatico o eretico, quando la sua posizione assomiglia tanto agli esperimenti di Taizé.

Se poi ci si chiede come sia possibile che dei cattolici “tradizionalisti” abbiano potuto compiere questo passo o lo giustifichino, si deve rispondere che questi cattolici “tradizionalisti” non lo sono stati mai, ma sono piuttosto dei confusionari, influenzati nel contempo dal cattolicesimo modernista e dal Tradizionalismo fallibilista. 

In particolare a Paolo Gulisano, dopo aver letto la sua recensione, vorrei chiedere: ha aderito anche lui, come Gnocchi, alla “chiesa” moscovita (sempre pronta ad obbedire al padrone di turno, fosse anche Stalin)? E se non lo ha fatto, cosa lo trattiene dal farlo? Dal suo articolo, sinceramente, non lo capisco.

don Francesco Ricossa

https://www.aldomariavalli.it/2023/02/02/no-duc-in-altum-non-sostiene-la-religione-scismatica-come-potete-pensarlo/

Fonte: https://www.sodalitium.biz/don-ricossa-e-il-caso-gnocchi/

IL DE CIVITATE DEI DI SANT’AGOSTINO

Condividi su:

A cura di Luigi Beretta per http://www.cassiciaco.it/navigazione/scriptorium/settimana/2010/beretta.html

PREMESSA

La città di Dio ovvero De Civitate Dei è un’opera famosissima che Agostino scrisse in ventidue volumi probabilmente tra il 412 e il 426. L’opera, che cercheremo di analizzare, si pone come il primo organico tentativo di costruire una visione della storia dal punto di vista cristiano, soprattutto per controbattere le accuse che la società pagana rivolgeva contro i cristiani. L’occasione fu il sacco di Roma del 410. Morto Stilicone, Alarico aveva capito che era giunto il momento di affondare la sua azione militare contro l’impero romano d’Occidente.

Con Stilicone, Alarico aveva finito sempre per accordarsi, ma questa volta l’umore del barbaro era cambiato. Alarico era stato spesso imbrigliato col pagamento di grosse somme in danaro ed ora tutti consigliavano l’imperatore a far pace col barbaro: Onorio però fu irremovibile e non volle. Le trattative con Alarico si erano arenate perché questi aveva ormai accresciute le sue pretese, chiedeva la Venezia, il Norico, la Dalmazia e pensava forse di costituirsi così un forte regno adriatico-balcanico.

Ma Onorio rifiutò. Del resto anche la situazione di Alarico era difficile. Da anni combatteva e concludeva tregue e alleanze. Vincitore, ma in paese nemico, la sua era pur sempre piuttosto una ribellione più che una guerra o una invasione vera e propria. Una sua spedizione inviata contro la ricca e prosperosa Africa era fallita miseramente e aveva dovuto togliere anche l’assedio di Ravenna, la città dell’imperatore. Alarico si era convinto che doveva concludere e presto il suo peregrinare per le terre d’Italia.

Per mostrare che faceva sul serio pensò di incutere un terrore infinitamente più grande di tutte le paure che aveva provocato nel passato. Decise di marciare su Roma e il 24 agosto del 410, per la porta Salaria, i Goti entravano nella città, che fu abbandonata per tre giorni al saccheggio. Il 27 Alarico la abbandonò per dirigersi verso l’Italia meridionale con l’intento di passare in Sicilia e forse di dirigersi in Africa. Distrutte le navi nello stretto di Messina dovette ritornare sui suoi passi, ma nel viaggio lo colse la morte. Il pericolo goto si stava dissolvendo, ma l’effetto psicologico e morale sarebbe sopravvissuto a lungo, uno spartiacque insanabile nella storia occidentale. Fin dal primo assedio di Roma e per tutti i mesi successivi fino al saccheggio della città, e anche dopo di questo, una folla di profughi aveva abbandonato l’Italia, dirigendosi verso l’Africa e verso l’Oriente. San Girolamo dovette dedicarsi completamente ai doveri dell’ospitalità, esercitata largamente da lui e dai suoi compagni in favore dei cristiani che s’erano rifugiati in Palestina.

Anche l’Africa accolse un buon numero di profughi membri spesso di famiglie nobili, che avevano in quei territori vasti possedimenti. Agostino aveva risentito, come tutti, il duro colpo delle calamità che si accanivano sui romani e in particolare della caduta e del sacco di Roma. In questo momento drammatico Agostino tuttavia profonde parole di conforto: al prete Vittoriano aveva scritto che non smarrisse la fede nella giustizia di Dio; a due coniugi, Armentario e Paolina raccomandò di non tardare a realizzare il loro proponimento di darsi a Dio, ora che il sacco di Roma dimostrava quanto fossero vani e passeggeri i beni del mondo. Scrisse anche ai fedeli d’Ippona per ammonirli a non tralasciare, in occasioni così tragiche, le loro abitudini caritatevoli.

Ma Agostino maturò l’idea che il suo compito, in quel momento, più che l’organizzare i soccorsi, era quello di elargire parole di fede e di conforto, capaci di rianimare gli spiriti abbattuti. Tanto più che ora i pagani rialzavano il capo e gridavano dovunque le loro lamentele contro i cristiani: nulla di simile, sostenevano, era mai accaduto quando Roma non aveva impedito la venerazione degli antichi dei. Agostino a Ippona sentiva le querimonie e soprattutto vedeva con i suoi occhi la leggerezza dei profughi pagani che, appena sbarcati in Africa, sentendosi al sicuro, avevano ripreso la loro vita spensierata, affollavano i teatri e andavano pazzi per giochi e attori. La parola di Agostino si levò alta: una parola che chiedeva fiducia in Dio e rivendicava la forza dei valori spirituali per la vita dei popoli.

Nel suo sermone 81 si ritrova un monito, una sicurezza e una forza morale, un guardare le cose in faccia, quali possono venire solo da una fede sicura di sé. “Ecco – dice Agostino – in tempi cristiani, Roma perisce. Forse Roma non perisce; forse é stata flagellata, ma non tolta di mezzo; forse é stata castigata, non distrutta, forse Roma non perisce, se non periscono i Romani. Ché non periranno, se loderanno Dio; periranno, se lo bestemmieranno. Che cos’é infatti Roma, se non i Romani? Giacché non si tratta di pietre o di legname, degli alti caseggiati o delle mura maestose. Tutto questo era stato fatto, perché un giorno crollasse. Quando l’uomo edificò tutto questo, pose pietra su pietra; quando lo distrusse, staccò pietra da pietra. L’uomo fece tutto questo, e l’uomo lo distrusse. Si fa forse un’offesa a Roma, perché si dice: cade? … Cielo e terra trapasseranno: che meraviglia, se un giorno una città avrà fine …”

Così parlava Agostino, nella previsione della caduta di Roma, che i cristiani non meno dei pagani credevano eterna e inviolabile. Agostino non poteva fare a meno di rispondere ai pagani che protestavano contro il cristianesimo e ripetevano le accuse di Simmaco che sosteneva che Roma era diventata grande venerando gli antichi dei e che ora, abbandonato l’antico culto a favore del cristianesimo, l’Impero decadeva e la città vittoriosa diventava preda dei barbari. Per Simmaco gli dei di Roma l’avevano aiutata, il nuovo invece trascurava persino di proteggerla. Ma per Agostino e per tutti i cristiani ristabilire il culto pagano era sostenere che gli déi veri erano quelli del politeismo, era negare la verità stessa del cristianesimo. Bisognava replicare, tuttavia la risposta di Agostino non venne subito, perché, se i Goti erano passati come una bufera assai rapida, la frattura donatista nella Chiesa africana non poteva attendere. Il 411 fu l’anno della conferenza con i donatisti, l’anno della controversia accanita e decisiva, durante il quale Agostino non si occupò d’altro, rimandando ogni cosa a tempo più opportuno. Così il De civitate Dei non fu iniziato prima del 412 e non dopo l’anno seguente perché Marcellino, al quale Agostino dedicò l’opera, fu decapitato il 13 di settembre del 413. Agostino si trovava a Cartagine e fece di tutto per salvare l’amico, ma ne fu impedito dalla condotta ambigua di un altro potente personaggio, il prefetto al pretorio Ceciliano.

Esordio dell’opera

Gli esordi sia del primo che del secondo libro ricordano Marcellino: con ogni probabilità furono dunque scritti e divulgati prima della sua morte: anche il terzo libro un prologo, dove però Marcellino non é più nominato. Parlando del De civitate Dei Agostino nelle Ritrattazioni (II, 43) accenna a un piano: “L’opera mi ha tenuto occupato per alcuni anni in quanto continuavano a frapporsi molte altre indilazionabili incombenze al cui disbrigo ero tenuto a dare la precedenza. Questa estesa opera su la Città di Dio finì col comprendere, una volta terminata, ben ventidue libri.

I primi cinque libri confutano coloro secondo i quali l’umana prosperità esigerebbe come condizione necessaria il culto dei molti dèi venerati dai pagani, mentre sarebbe la proibizione di tale culto a provocare l’insorgere e il moltiplicarsi di tanti mali. I successivi cinque libri sono rivolti contro coloro secondo i quali nella vita dei mortali questi mali non sono mai mancati in passato e non mancheranno mai in futuro e, ora grandi ora piccoli, variano a seconda del tempo, del luogo e delle persone. Ritengono però che il culto di molti dèi, con i sacrifici che comporta, sia utile ai fini della vita che verrà dopo la morte. I primi dieci libri, dunque, contengono la confutazione di queste due inconsistenti dottrine contrarie alla religione cristiana. Per evitare però l’accusa di criticare le teorie altrui senza esporre le nostre, abbiamo deputato a questo la seconda parte di quest’opera, che comprende dodici libri, benché anche nei precedenti ci sia capitato di esporre le nostre idee e di confutare nei dodici successivi quelle degli avversari. Di questi dodici libri i primi quattro trattano la nascita delle due città, quella di Dio e quella di questo mondo, i quattro successivi della loro evoluzione e del loro sviluppo, gli altri quattro, che sono anche gli ultimi, dei dovuti fini di ciascuna di esse. Tutti i ventidue libri, pertanto, pur trattando di entrambe le città, hanno mutuato il titolo dalla migliore, la Città di Dio.”

Fino dove questo piano sia stato prestabilito è difficile sapere. Agostino certamente iniziò a scrivere, sapendo bene quel che doveva dire, ma senza uno schema troppo rigido. Dal testo pare che fino a lavoro inoltrato egli non avesse maturato l’idea di quella suddivisione che sottolinea nelle Ritrattazioni a opera compiuta. Il carattere intrinseco del De Civitate Dei, ricco di molte digressioni, dove Agostino ama sfoggiare la sua erudizione e parla di tutto ciò che gli sta a cuore, è lì a dimostrare la costruzione dell’opera in itinere. Agostino spesso non esaurisce gli argomenti affrontati nelle digressioni, ma ritorna al tema principale e rimandando il lettore ad altre parti dell’opera.

Questo zigzagare controllato dimostra che una traccia Agostino doveva pure averla sotto gli occhi, ma essa non era, probabilmente, del tutto certa fin dall’inizio. Ragionevolmente non potrebbe essere altrimenti per un’opera che fu portata a termine in dodici o tredici anni. La sua menzione nelle Ritrattazioni, dove essa é indicata a ventiquattro opere dalla fine, costringe a fissarne il completamento intorno al 425 o al 426.

Libro 1

L’opera comincia con una introduzione, che cerca di chiarire cosa si propone l’autore. Agostino esprime la volontà di affrontare, con l’aiuto di Dio, il compito vasto e arduo di difendere la Città di Dio. Il suo proposito è giustificato dalla condizione di questa, sia in quanto, vivendo di fede, é ancora quasi pellegrina in questa vita, sia in quanto é destinata al trionfo e alla pace nei cieli. La sua difesa è contro coloro che al suo fondatore, il Cristo, preferiscono i molti déi del paganesimo. Agostino entra subito in argomento sottolineando che le atrocità commesse dai barbari nel sacco di Roma non furono poi tali e tante, da non trovar precedenti e giustificazione negli usi di guerra. Al contrario propria dei tempi cristiani é la clemenza, per cui anche i barbari rispettarono i templi e chi vi si era rifugiato. Una possibile obiezione spinge Agostino ad affrontare la questione dei beni temporali, che sono comuni a giusti e ingiusti: conclude che se ogni peccato fosse punito subito sulla terra non resterebbe materia per il giudizio finale, e se tutti restassero impuniti non si crederebbe più alla divina provvidenza. Come nel sacco di Roma e in altre calamità, buoni e cattivi sono colpiti insieme senza distinzioni: il problema della sofferenza dei buoni riconduce necessariamente a quello di Giobbe e alle afflizioni in generale che costituiscono una prova per i buoni. Perdendo i beni temporali, aggiunge Agostino, il cristiano non perde nulla. A proposito della prigionia, ricorda l’esempio di Attilio Regolo, che contraddice coloro che reputano unici beni veri quelli del mondo. Condanna senza appello la corruzione dei costumi a cui i pagani vorrebbero tornare e termina ammonendo il cittadino della Città di Dio di non essere troppo superbo né sicuro perché anche tra gli avversari possono esserci i suoi futuri concittadini. Anzi, a monito, ricorda che nella città di Dio si trovano ora, nel mondo, molti, che non conosceranno né i santi né la beatitudine dopo il giudizio. Le due città e i suoi abitanti sono infatti talmente intrecciate e mescolate insieme nel mondo, che non potranno essere distinte se non solo nel giudizio finale. Agostino promette di parlare del loro processo e dei loro ultimi fini.

Libro 2

Il secondo libro é tutto dedicato a dimostrare l’immoralità del culto pagano. Punto di partenza di tutto il ragionamento é l’assunto che i veri mali sono quelli morali. Il culto osceno della Magna Mater, così come tutti gli altri culti pagani e gli episodi della storia romana che, come il ratto delle Sabine, sono veri e propri delitti, forniscono ad Agostino ottimi motivi per condannare la decadenza dei costumi romani. E in questo ricorda di essere in buona compagnia con Cicerone e Sallustio.

I falsi déi sono per Agostino dei demoni: pur di ingannare gli uomini si lasciano insultare e proporre a esempio di azioni immorali, come nella famosa scena dell’Eunuco di Terenzio. In realtà gli déi romani non si sono mai curati di Roma né della decadenza morale della città: e poi, dov’erano quando Roma fu presa dai Galli? Il libro, dopo aver insistito con numerosi altri esempi sulla immoralità dei riti pagani, termina con una esortazione al popolo romano “progenie dei Regoli, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi” affinché si converta alla verità cristiana e si decida a rifiutare l’esistenza tra gli déi di esseri che, per la loro immoralità, i romani stessi non vorrebbero avere come concittadini.

Libro 3

Agostino affronta l’argomento dei mali materiali. Dopo aver ricordato la caduta di Troia e l’adulterio di Paride, si prende facilmente gioco di tutta la mitologia antica. In particolare prende di mira gli déi di Roma ed esaminando la storia della città nei tempi più antichi, non accetta le lodi che la tradizione romana riservava loro. Inglorioso e addirittura immorale viene definito il loro intervento nella guerra tra Roma e Alba. Agostino con meticolosità passa quindi in rassegna tutte le sventure di Roma, le sconfitte, le stragi, le pestilenze, gli esempi di ingratitudine sociale, le carestie, le guerre civili, dal tempo dei re fino ad Augusto e aggiunge, in opposizione alle opinioni dei pagani, “di tanti mali accusino dunque i loro déi, quelli che sono ingrati a Cristo nostro per tanti benefici.”

Libro 4

Nel quarto libro Agostino pone l’interrogativo se, quando non ci si lascia sedurre dal vano suono di parole altisonanti come popoli o regni, valga veramente la pena di combattere tanto, per procurarsi un grande impero. Acutamente lo paragona ad un vaso di vetro, splendido ma fragile. E’, in altre parole, più felice un uomo tranquillo e di modesta agiatezza o il ricchissimo Creso sempre in angustie ? La risposta, per Agostino, é chiara: utile veramente, anche per i popoli sottomessi a Roma, é il vasto impero dei buoni. I buoni sono, s’intende, coloro che amano l’unico Dio vero e lo servono con timore e con i buoni costumi. «Tolta di mezzo la giustizia – grida Agostino con una affermazione socialmente dirompente – che cosa sono i regni se non grandi atti di brigantaggio e che sono gli atti di brigantaggio se non piccoli regni?».

Il portar dunque guerra ai vicini e poi procedere ad altre guerre per la sola ambizione di dominio; schiacciare e soggiogare popoli che non fanno male ad alcuno, che altro si può chiamare se non un brigantaggio in grande? Brutto desiderio, sottolinea Agostino, quello di avere chi odiare o chi temere, per giustificare l’esistenza di qualcuno da vincere. L’impero di Roma tuttavia ha un suo senso nel disegno divino, perché contro la volontà di Dio i Romani non avrebbero potuto fondarlo. Se si fossero accontentati di venerare lui, avrebbero ottenuto la medesima potenza politica e, dopo di questa, la partecipazione al regno eterno di Dio.

Libro 5

Non c’é infatti regno che non provenga da Dio, secondo l’ordine voluto dalla Provvidenza. La grandezza dell’Impero romano é stata dunque permessa e voluta da Dio. Agostino a questo punto difende l’azione libera della Provvidenza divina contro tutti i suoi avversari. Perciò parecchi capitoli vengono dedicati a combattere il determinismo, gli astrologi o comunque tutti i fatalisti. Proprio per l’intrinseca libertà della Provvidenza, Agostino aggiunge che leggi e consigli, esortazioni, lodi e rimproveri non sono inutili, come non sono inutili le preghiere per ottenere tutte quelle cose, che Dio sapeva già che avrebbe concesso ai preganti. Dimostrato che una Provvidenza esiste, Agostino si chiede perché i Romani hanno meritato la benevolenza di Dio. Comincia quindi l’elogio dei grandi Romani, che viene condotto sulla falsariga del celebre parallelo sallustiano tra Cesare e Catone.

Libro 6

Nella sua analisi giunge a occuparsi di quei filosofi che non chiedono agli dei i grossolani beni materiali. Nella sua confutazione Agostino mette a profitto le sue conoscenze di Varrone, i cui scritti avevano talmente screditato il paganesimo, che non c’era bisogno di aggiungere di più. Le favole dei poeti e la mitologia dell’antica religione cittadina forniscono ad Agostino l’occasione di fare sfoggio d’erudizione a buon mercato e di mettere in evidenza le contraddizioni, le puerilità, l’immoralità degli antichi miti.

Libro 7

Motivi evemeristici ritornano nelle pagine di questo libro, dedicato in gran parte alla categoria, stabilita da Varrone, degli dei selecti. Agostino confuta queste teorie per cui ad alcuni dei si attribuiscono funzioni assai più umili di quelle esercitate dai loro inferiori, i quali per di più non commettono le azioni vergognose dei primi. Tutta questa teologia varroniana non é che un tessuto di contraddizioni, che Agostino si diverte a sottolineare e a colorire con aneddoti, insistendo altresì sulla immoralità dei culti misterici.

Libro 8

Con questo libro si avvia un nuovo percorso in cui Agostino si mette a confronto con le teorie dei filosofi tra i quali egli sceglie, come superiori a tutti, i platonici. Platone, nota Agostino, era giunto a concepire l’unità del divino. Tuttavia ritenne, incoerentemente, che si dovessero venerare molti déi. Gli argomenti che seguono vengono destinati a confutare il conterraneo Apuleio, che aveva posto i démoni come intermediari tra l’uomo e il divino, poiché riteneva indegno che gli uomini potessero comunicare direttamente con gli déi. Gli ultimi capitoli del libro contengono citazioni dei celebri libri attribuiti a Ermete Trismegisto, contro i culti egiziani, e accolgono gli spunti evemeristici dove Agostino trova la confutazione della affermazione che i cristiani prestavano un vero culto ai loro martiri.

Libro 9

Tutta la trattazione é interamente dedicata a stabilire una distinzione tra le tipologie dei démoni. Agostino incomincia col discutere delle passioni umane e trova modo così di confutare la dottrina stoica, mostrando che nel cristiano ci sono passioni virtuose. Ma allo stesso tempo ravvede la necessità di un intermediario tra Dio e l’uomo e lo riconosce nel Cristo. Di lui e non di un essere come i démoni di Apuleio, ha bisogno l’uomo per giungere alla beatitudine.

Libro 10

Agostino avvia l’argomento incominciando dall’asserzione che, se beatitudine é, anche per i platonici, partecipazione di Dio, gli angeli, se ci amano e sono beati, devono volere che anche noi veneriamo Dio. Agostino pertanto respingere ogni culto reso invece a loro. A Dio solo é dovuto il sacrificio, che tuttavia non gli é necessario: vero sacrificio é ogni opera, grazie alla quale noi possiamo aderire a Dio mediante una unione santa. Il ricordo della promessa fatta ad Abramo conduce Agostino a parlare dei miracoli, quelli veri compiuti da Dio, anche per mezzo dégli angeli, e quelli falsi, opera dei démoni.

Da questo punto in poi l’argomento del libro diventa la purificazione dell’anima per riconoscersi in Dio e con l’affermazione dell’unità di Dio Agostino si apre la via a discorrere del Cristo. Solo in Cristo é la vera purificazione dell’anima, e soltanto per la fede che riposero in lui i giusti del tempo antico potettero vivere in modo puro e pio. Preannunciato anche dalla Sibilla pagana il Cristo é finalmente venuto a mostrare agli uomini la via maestra, la sola che conduce al regno. A questo punto Agostino ha ormai dedicato dieci libri alla confutazione di tutti quelli che vorrebbero ristabilire il paganesimo.

Libro 11

Esauriti gli argomenti polemici, Agostino affronta la questione delle origini, dello sviluppo e dei fini ultimi delle due città, che in questo mondo procedono intrecciate e mescolate insieme. Per trattare dell’origine della città di Dio, Agostino prende in esame tutta la storia della umanità e inizia dalla creazione del mondo e la fa con un nuovo commento ai primi capitoli del Genesi. Nella sua lettura il mondo é stato creato da Dio mediante il Verbo: ciò lo porta a discorrere della Trinità e delle sue azioni nel mondo, nella natura umana e di quella sensibilità interiore, ben superiore ai sensi corporei, per mezzo della quale sentiamo ciò che é giusto e ingiusto. Il giusto lo cogliamo mediante la sua bellezza intelligibile, l’ingiusto attraverso la privazione di questa.

Libro 12

Il libro dodicesimo continua la trattazione degli angeli. Una sola é la natura degli angeli sia buoni che dei malvagi, contrari non nella loro essenza quanto nelle loro volontà e tutto ciò perchè il male é un difetto, una negazione, una privazione. Il passo successivo è un discorso intorno alla creazione del genere umano e qui Agostino contrasta l’opinione sia di coloro che ritengono eterni il mondo e l’umanità, sia di coloro che sostengono le dottrine cicliche, parlando di un inesauribile ritorno delle cose dopo un certo periodo di tempo, forse secoli. Agostino è convinto che il genere umano discende da un solo progenitore. Se Adamo non avesse peccato, avrebbe ottenuto immediatamente l’immortalità e la beatitudine in compagnia degli angeli, invece, peccando, fu destinato alla morte e a una vita bestiale. Dio ha previsto la caduta dell’uomo, ma anche la redenzione delle persone pie attraverso la grazia. L’uomo fu creato a immagine di Dio e il lui erano già presenti, non in modo chiaro, ma secondo la prescienza di Dio, l’una e l’altra città: da Adamo discendono tutti gli uomini, sia quelli destinati a essere uniti con gli angeli ribelli, sia quelli destinati ad ottenere l’unione con gli angeli buoni.

Libri 13-14

I due libri che seguono contengono una corposa ed esauriente esposizione di tutta quanta la dottrina agostiniana del peccato originale. Le posizioni sostenute riprendono quelle tenute durante gli anni dell’aspra polemica contro Pelagio e Celestio, e trattano della condizione di Adamo ed Eva prima e dopo il peccato. Nel libro tredicesimo Agostino polemizza contro chi nega la risurrezione dei corpi, e vi dedica un approfondimento per spiegare quale sarà il corpo spirituale. Nel libro seguente avvia la trattazione spiegando che “vivere secondo la carne” si riferisce anche ai vizi dell’animo, perché non la carne, ma l’anima é quella che pecca. Si può affermare, analogamente, che esista un “vivere” secondo l’uomo e un vivere secondo Dio. La prima modalità coincide con un vivere secondo il demonio.

Ed ecco presentarsi le due città, distinte secondo le due volontà, i due amori: il peccato fu la disobbedienza a Dio, e fu preceduto da una volontà di male, suggerita dalla superbia, pertanto l’uomo, disubbidiente a Dio, fu punito dalla disubbidienza del suo corpo, viziato dalla libidine. Questa, e non l’unione coniugale o la procreazione della prole, é peccato. Le due città furono dunque generate da due diversi amori, la città terrena dall’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, la celeste dall’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé. Il quattordicesimo libro, d’importanza fondamentale per la comprensione del De civitate Dei, segna una transizione netta, di carattere più teorico rispetto ai successivi, che sono destinati a illustrare il cammino percorso dalle due città nella storia dell’uomo.

Libro 15

Impostato negli argini fissati da Agostino nei libri precedenti, il discorso viene ora acquistando sempre più il carattere di un commento totale ed escatologico della Bibbia. Iniziatori e prototipi delle due città sono i figli di Adamo, Abele e Caino. Agostino traccia la storia della città celeste, non senza numerose digressioni e osservazioni di carattere esegetico e teorico, fino all’arca di Noé, che rappresenta simbolicamente la Chiesa.

Libri 16-17

Il libro sedicesimo conduce la narrazione biblica attraverso l’età dei patriarchi fino all’ingresso degli Ebrei in Palestina; il diciassettesimo giunge, fermandosi lungamente a parlare di Davide e delle profezie messianiche contenute nei Salmi, fino a Cristo.

Libro 18

Agostino affronta a questo punto la storia della città terrena. Più che una vera storia, tuttavia, egli espone una serie di sincronismi dedotti dalle cronache di Eusebio e Girolamo e da altre opere consimili. Agostino riferisce l’oracolo acrostico della Sibilla Eritrea intorno al Cristo, e, giunto a parlare dei profeti d’Israele, rammenta anche i loro vaticini messianici e ne esalta l’autorità. Questo lo invoglia anche a parlare del Cristo e delle profezie che si sono avverate in lui e nella Chiesa, che in questo mondo comprende, mescolati con i buoni, anche molti malvagi. Agostino sostiene quindi che la città di Dio è sostanzialmente sempre perseguitata in questo mondo. Quanto poi alla questione dell’epoca dell’ultima persecuzione e della venuta dell’Anticristo, non fa previsioni perché nessuno può dirlo. Agostino ricorda a tal proposito, per confutarlo, l’oracolo pagano secondo cui il culto di Cristo sarebbe durato 365 anni.

Libro 19

Per spiegare i fini delle due città, Agostino incomincia a chiedersi quali sono gli scopi assegnati alla vita umana dai filosofi. La Città di Dio, contro l’opinione di tutti i filosofi, afferma che sommo bene è la vita eterna, sommo male la morte eterna: in questo mondo pertanto nessuno può essere felice, perché tutti si trovano a combattere contro le passioni e nessuna virtù può sopprimere definitivamente il male che è in ogni uomo. La beatitudine dunque si raggiunge e si gode solo nella pace eterna. Ma tutto, quaggiù, aspira alla pace e l’inizio di ogni pace è per Agostino nell’amore di Dio. Dopo aver accennato alla schiavitù, alla vita politica, ai diversi ideali delle due città, dopo aver sostenuto che non esiste un vero popolo, né un vero Stato, dove non c’è giustizia, cioè la vera religione, Agostino conclude che dove non c’è religione non vi è neppure virtù autentica.

Libri 20-21

Il libro ventesimo tratta del giudizio. Non dei giudizi che Dio opera nel quotidiano, ma del giudizio finale, in cui si manifesterà pienamente la giustizia di Dio. Agostino descrive le testimonianze bibliche che richiamano il giudizio finale, specialmente quelle riferite nelle parole di Gesù. Ciò gli fornisce l’occasione per parlare delle due risurrezioni. Agostino ripudia decisamente il cosiddetto millenarismo e dà dei versetti biblici coinvolti una spiegazione che è praticamente identica alla interpretazione proposta da Ticonio nel suo commento all’Apocalisse. La prima risurrezione è il battesimo e i mille anni rappresentano, con una cifra simbolica, tutto il tempo, indeterminato, tra la passione del Cristo e il giudizio finale. E’ il periodo di tempo cioè nel quale si può compiere la prima risurrezione.

Ne consegue che il regno di Dio e il regno dei cieli è ora la Chiesa, nei suoi vivi e nei suoi morti. Ma non tutti coloro che ora sono nella Chiesa entreranno nel regno eterno di Cristo. Prima di quel giorno verrà la prova suprema, allorché, secondo l’Apocalisse, il diavolo sarà sciolto e combatterà coi cristiani. Agostino passa quindi all’esame dei numerosi testi dell’Antico e del Nuovo Testamento relativi al giudizio e alla resurrezione finali. Affronta una lunga discussione, che esamina anche alcuni passi di Malachia, concludendo con l’affermazione che nell’Antico Testamento, quando si parla del giudizio finale risulta abbastanza chiaro che giudice sarà il Cristo. Da ultimo vaglia le teorie sul giudizio finale tra cui l’opinione di Origene, che è contrario all’eternità delle pene, di coloro che si aspettano nel giudizio finale l’intercessione dei santi e anche di quanti sostengono che il battesimo basti ad assicurare la salvezza. A tutti costoro Agostino ha qualche cosa da obiettare.

Coglie l’occasione per far osservare che oggi la preghiera è necessaria, ma si prega soltanto per coloro che sono ancora suscettibili di pentimento, e che la Chiesa ora prega per tutti, solo perché non c’è certezza per la sorte di alcuno. La salvezza, chiarisce, è data dal mangiare il pane vivente disceso dal cielo (Giovanni, VI, 51): non v’è dunque salvezza fuori della Chiesa, pertanto solo chi è in essa e partecipa al sacramento dell’altare mangia e beve davvero il corpo e il sangue di Cristo. Quanto all’elemosina, crudamente ammonisce che essa non vale nulla senza la carità, cioè l’amore del prossimo e di Dio. Termina con l’esortazione che ciascuno dunque incominci col farla a sè stesso, amando Dio.

Libro 22

L’ultimo libro si apre con un capitolo riassuntivo d’importanza fondamentale. Poi Agostino riprende la polemica contro chi non ammette la risurrezione dei corpi. L’argomento che sostiene la certezza della risurrezione umana è quella del Cristo: anche il mondo credette agli apostoli che la predicarono, perché la verità della loro testimonianza era comprovata dai miracoli che essi fecero. Di miracoli ne avvengono ancora: Agostino ne racconta una lunga serie, che sono accaduta a Cartagine, in diverse località africane, e nella stessa Ippona, presso le memoriae che Agostino stesso aveva fatto erigere. Agostino, un uomo preciso, ordinato e amante della documentazione esauriente, aveva imposto che tutti coloro che ricevevano nella sua diocesi benefici soprannaturali dalla grazia divina lasciassero un resoconto circostanziato dell’episodio miracoloso. Questi libelli erano poi letti in chiesa a edificazione dei fedeli. In due anni Agostino ne ha raccolto già più di settanta.

Ma non bisogna dimenticare, ammonisce Agostino, che i miracoli sono compiuti nel nome di Cristo da martiri che hanno avuto fede in lui. Dopo questo excursus Agostino ritorna alle obiezioni sollevate contro la risurrezione in casi particolari o pietosi. Quanto agli aborti, Agostino non sa dare una risposta definitiva, ma è certo che se si possono considerare alla stregua dei morti, dovranno risorgere. Anche gli aborti per lui hanno un’anima e pensa che risorgeranno quali avrebbero potuto essere, secondo tutte le possibilità di sviluppo insite in loro. I corpi inoltre risorgeranno coi loro sessi, perché non nel sesso è il male, bensì nella concupiscenza della carne. Saremo dunque rifatti, e senza imperfezioni: le membra amputate verranno restituite e solo nei corpi dei martiri si vedranno le loro gloriose cicatrici. Questa rinnovata “carne spirituale” sarà sottomessa allo spirito, ma quale sarà tuttavia non possiamo dire. Infine sono descritte la beatitudine, la pace e la visione di Dio nella Gerusalemme celeste. Sottomessa la carne allo spirito, ciascuno avrà libera la volontà del bene, anzi non desidererà altro. Saremo noi stessi il sabato, benedetti e santificati da Dio, riposando in lui, conoscendolo, pieni di lui che sarà “tutto in tutti”.

Epilogo

Se consideriamo il De Civitate Dei nel suo insieme, comprendiamo ora le ragioni della sua grande popolarità per tutto il Medioevo e comprendiamo però che tanto citato e ricordato da tutti, il De civitate Dei è ora invece letto per intero da pochissimi. Un autore moderno che volesse esporre o dimostrare la stessa tesi di Agostino, probabilmente se la caverebbe con un saggio di un centinaio di pagine o poco più. Il De civitate Dei invece è un’opera immensa. Ma è anche fuor di dubbio che si riflette nell’opera la particolare propensione dell’ingegno di Agostino, la sua grande curiosità per ogni cosa, quel suo bisogno di veder chiaro in ogni questione che gli si presenta, anche se d’interesse secondario. Si riflette anche la tendenza all’enciclopedia, che pure è nello spirito e nella sensibilità culturale di Agostino, e in una certa misura, dei suoi contemporanei, ma assai più diffusa nei medievali.

Da questo punto di vista, Agostino adempì, all’inizio delle invasioni barbariche, a una funzione storica di altissima importanza e diede un esempio efficacissimo di salvaguardia della cultura antica. E si capisce altresì l’interesse per la critica moderna della ricerca, bene avviata ma tutt’altro che esaurita, delle fonti del De civitate Dei. Ma, pur valorizzando questi aspetti, non si rende ancora ad Agostino la dovuta giustizia. Gli eruditi medievali lessero il libro con straordinario interesse per tutte le notizie e le informazioni che vi trovavano sulla storia, la scienza e la superstizione degli antichi.

Ma nel contempo si nutrirono anche del suo pensiero agostiniano e questo operò nei loro cuori e nelle loro menti e si mantenne vivo a lungo. Inoltre è diventato quasi luogo comune il parlare del De civitate Dei come di una, o della prima, filosofia della storia, ma, anche qui, Agostino ha una visione incomparabilmente più vasta e più elevata degli accadimenti umani. Possiamo pure chiederci se questa visione, questa stessa filosofia della storia sono tutte ed esclusivamente frutto del pensiero e della ricerca di Agostino.

È chiaro, intanto, che Agostino deve moltissimo a Ticonio: la stessa concezione fondamentale delle due città, che si ritrova in tanti altri scritti agostiniani a cominciare almeno dal De catechizandis rudibus, nonché l’interpretazione del millennio e, si potrebbe dire, tutta l’escatologia del De civitate Dei derivano principalmente da Ticonio. Ma, per un fenomeno che è strano solo in apparenza, il laico Ticonio è, in tutti i suoi scritti che conosciamo, infinitamente più arido e più impregnato di tecnicismo esegetico che non il vescovo teologo. E poi le idee di Ticonio sono state assimilate da Agostino in maniera così piena e in seguito ad una esperienza personale così ricca, che si possono sicuramente considerarle sue. Solo Agostino in realtà ne comprese appieno il valore apologetico e edificativo, applicandolo sistematicamente alla storia, e saldò intimamente tra loro queste idee in una sintesi grandiosa e possiamo dire, imperitura.

E che cos’è, infine, questa Città di Dio? A volte, indubbiamente, per dichiarazione esplicita di Agostino, essa rappresenta la Chiesa; a volte sembra identificarsi invece con la Gerusalemme celeste; a volte comprende i santi dell’antico Testamento, a volte sembra restringersi, a volte farsi più accogliente. Nella realtà la Chiesa non si identifica né si risolve in assoluto nella Città di Dio, perché la Chiesa comprende accanto agli eletti anche i reprobi. Reciprocamente, anche tra i nemici della Chiesa possono trovarsi gli eletti di domani. Per delineare la posizione di Agostino conviene prendere le mosse da quel primo capitolo del libro ventiduesimo, che è fondamentale per la comprensione dell’intera opera. Lì scopriamo che nella visione agostiniana Dio ha creato in origine il mondo e, tra le tante cose buone, superiori a tutte, gli spiriti “ai quali diede l’intelligenza, e la capacità di contemplarlo: li strinse in una società, che noi chiamiamo la città santa, e superna, nella quale egli è la loro vita e il sostentamento della loro beatitudine.

A questi spiriti Dio concesse il libero arbitrio, in modo ch’essi potevano, volendo, abbandonar Dio, cioè la loro beatitudine, a patto però dell’immediata infelicità; e pur sapendo nella sua prescienza che alcuni di questi angeli, superbamente credendosi di bastare alla propria beatitudine, si sarebbero ribellati, tuttavia non tolse loro questa facoltà, ritenendo che fosse miglior cosa e maggior manifestazione della sua potenza trarre anche dal male il bene, che non permettere il male.

Il male è dunque – soggiunge subito Agostino – non creato, ma permesso da Dio, e in vista d’un bene. Fece poi l’uomo, dotato del medesimo libero arbitrio: animale terreno, ma degno del cielo, se fosse rimasto unito al suo Fattore, e invece sottoposto anch’egli a un’infelicità adatta alla sua natura, se l’avesse abbandonato; e neanche a Dio, pur sapendo che avrebbe peccato, tolse il libero arbitrio, sapendo anche in questo caso il bene ch’egli avrebbe ricavato da quel male.”

La Città di Dio è dunque, in realtà, costituita dagli angeli e dai predestinati; dei quali nessuno sa il numero. I predestinati sono coloro ai quali Dio concede e la grazia che cancella il peccato originale e la capacità di perseverare nel bene sino alla fine.

D’altra parte il peccato originale si cancella col battesimo, attraverso il quale si entra nella Chiesa: i predestinati vanno dunque cercati in essa. Tuttavia la grazia è un libero dono di Dio e può essere concessa a chiunque, anche a chi non fa attualmente parte della Chiesa, ai giusti dell’Antico Testamento, o a qualche giusto del mondo pagano. Ma è altrettanto certo che non si può parlare di salvezza, e nemmeno di autentica virtù, dove non sono la fede e l’amore di Dio. Questa fede e questo amore sono a loro volta un dono, che Dio fa all’uomo, di per sé incapace di credere in Dio e di amarlo. Agostino non afferma che l’Ecclesia peregrinans è la civitas Dei, ma piuttosto che l’Ecclesia è peregrinans in hoc saeculo in civitas Dei.

La Chiesa è anche il corpo di Cristo: in questo senso essa è veramente il popolo dei predestinati, la Città di Dio, unita con tutti coloro che si salvarono o si sono salvati, unita con gli angeli, la Gerusalemme celeste. Sulla terra, tuttavia, e fino al giudizio finale, il corpo di Cristo non è puro. Radicalmente opposta alla Città di Dio nell’origine, nelle aspirazioni e nei destini, ma nel nostro mondo frammista e confusa con essa vive la Città terrena, il corpo del demonio.

La separazione fra le due Città avverrà solo nel giudizio finale. Agostino rammenta che non è lecito conoscere a noi né la sorte né il numero dei predestinati. Ci è solo vietato di separarci da essi, di uscire dalla Chiesa, perché caratteristica della Città di Dio in questo mondo è l’unità, l’umiltà, il servizio reciproco: proprio in questo i capi della Chiesa si distinguono nettamente dai principi della Città terrena. Per Agostino, che ha affrontato con tenacia tante battaglie per estirpare l’eresia, lo staccarsi della Chiesa è una prova di superbia, una colpa anche maggiore di quelle dei malvagi di cui si è voluto evitare il contatto. Assieme a Cipriano, l’insigne vescovo africano testimone della fede cristiana, Agostino può ben dire che non v’è salvezza al di fuori della Chiesa.

Il piano grandioso della Provvidenza per la redenzione del genere umano è, per Agostino, una prova meravigliosa della bontà e della perfezione di quel Dio, ordinatore dell’universo, che sa trarre dal male il più grande bene.

A lui Agostino china il capo, china la sua intelligenza, grato della sua misericordia, persuaso della sua giustizia, qualunque sia la sorte che gli è stata riservata. Ormai è appagato dall’avere cercato di capire per poter credere, ed ora, assai di più, è desideroso di ricevere la fede che lo metta in grado di capire e di riposare il suo cuore inquieto nella pace eterna di Dio.

L’elezione del Papa

Condividi su:

di Redazione

Questo articolo di don Francesco Ricossa scrive cose di grande interesse ed attualità, soprattutto ora, che qualcuno si appresta a indire un “conclave”, dopo la morte del “non-papa” Benedetto XVI. Don francesco, con grande franchezza e carità, trae spunto da alcune affermazioni di Mons. Mark Pivarunas (del quale noi non siamo fedeli) per allargare una critica ai sedevacantisti simpliciter, quali noi siamo per la maggior parte. I vescovi residenziali nel 2022 non esistono più perché, come spiega don Anthony Cekada, il rito di consacrazione episcopale del 1968 è “del tutto invalido e assolutamente nullo” (Ed. Sodalitium). Sul piano strettamente personale (da dottori o semplici studiosi privati) riteniamo plausibile che il Concilio imperfetto composto da vescovi non residenziali possa eleggere un legittimo sovrano Pontefice, proprio per la motivazione addotta da don Francesco, ovvero la situazione di assoluta straordinarietà del momento presente. E’ chiaro che non è nostra intenzione rimbeccare il Superiore dell’Istituto al quale ci rivolgiamo come fedeli, ma semplicemente porre una nostra rispettosa osservazione, tra “non una cum”.   

di don Francesco Ricossa

Articolo pubblicato su Sodalitium n 55 (dicembre 2002)

Mons. Mark Pivarunas CMRI (un vescovo consacrato da Mons. Carmona) invia periodicamente ai suoi fedeli una lettera intitolata Pro grege (1). Quella del 19 marzo 2002 ha particolarmente attirato la mia attenzione. Il prelato statunitense – che segue la tesi della sede vacante – risponde (a pag. 5) a due obiezioni del locale superiore di distretto della Fraternità San Pio X, padre Peter Scott.

Scrive Padre Scott: “Ciononostante è assurdo dire, come fanno i sedevacantisti, che non c’è stato nessun Papa da almeno 40 anni, perché questo distruggerebbe la visibilità della Chiesa, e la possibilità stessa dell’elezione canonica di un futuro Papa”.

Le obiezioni non sono nuove (2); più interessante è la risposta di Mons. Pivarunas.

Quanto alla prima difficoltà (quella del prolungarsi della vacanza della sede apostolica) Mons. Pivarunas risponde allegando l’esempio storico del Grande Scisma d’Occidente. Padre Edmund James O’Really S.J. (3), nel suo libro, edito nel 1882, intitolato The Relations of the Church to Society, scriveva a questo proposito: “Possiamo ora smettere di indagare su che cosa è stato detto in quel tempo della posizione dei tre pretendenti e dei loro diritti riguardo al papato. In primo luogo c’era sempre, dalla morte di Gregorio XI nel 1378, un Papa – con l’eccezione naturalmente delle vacanze creatisi tra le morti e l’elezioni. C’era, penso, in ogni momento un Papa, realmente investito della dignità di Vicario di Cristo e Capo della Chiesa, sebbene opinioni diverse possano esistere circa la sua legittimità; non nel senso che un interregno che coprisse l’intero periodo sarebbe stato impossibile o inconciliabile con le promesse di Cristo, perché questo è evidente, ma che di fatto non ci fu questo interregno” (Pivarunas, p. 5).

La cosa appunto è talmente evidente che non vale la pena di insistere.

Più difficile è invece rispondere alla seconda difficoltà. Vediamo quanto scrive al proposito Mons. Pivarunas:

«Quanto alla seconda ‘difficoltà’ proposta dalla Fraternità San Pio X contro la posizione sedevacantista, in altre parole quella dell’impossibilità dell’elezione di un futuro Papa se la sede è vacante dal Vaticano II, si può leggere ne ‘La Chiesa del Verbo Incarnato’ di Mons. Charles Journet: “Durante la vacanza della sede apostolica, la Chiesa ed il Concilio non possono contravvenire alle disposizioni prese per determinare il modo valido dell’elezione (Card. Gaetano o.p., De comparata…, cap. XIII, n°202). Tuttavia, in caso di permesso, per esempio se il Papa non ha previsto niente che vi si opponga, o in caso di ambiguità, per esempio se si ignora quali siano i veri cardinali, o chi è vero Papa, com’è accaduto ai tempi del grande scisma, il potere di ‘applicare il papato a tale persona’ è devoluto alla Chiesa universale, alla Chiesa di Dio (ibid., n° 204)”» (4).

Con questa citazione Mons. Pivarunas pensa di aver sufficientemente risposto a Padre Scott: in assenza di cardinali – e solo in assenza di cardinali (5) – il Papa può essere eletto, per devoluzione (6), dalla Chiesa.

Ma in realtà la difficoltà cambia solamente di oggetto: cosa si intende, infatti, in questo contesto, per “Chiesa universale”?

Mons. Pivarunas, nella sua lettera, non lo precisa. Neppure lo precisa Journet nel luogo citato. Ma poiché Journet fa propria la posizione del Cardinal Gaetano (7), citando la sua opera De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii cum apologia eiusdem tractatus (8), possiamo facilmente stabilire il significato di questa espressione consultando il Gaetano stesso.

Il Card. Gaetano, col termine “Chiesa universale”, intende designare il Concilio generale

Abbiamo visto come, in casi straordinari, il Papa possa essere eletto, in assenza di cardinali, dalla “Chiesa universale”; ma cosa intende il Cardinale Gaetano con questo termine?

Basta sfogliare il De comparatione per trovare la risposta – indubitabile – al nostro quesito. Già il titolo lo indica: De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii, seu Ecclesiæ universalis (n° 5) (Sulla comparazione dell’autorità del Papa e del Concilio, ovvero della Chiesa universale): la Chiesa universale ed il Concilio sono tutt’uno. Ma è nel capitolo V (n° 56) che Gaetano procede ad un’esplicita definizione dei termini:

“Dopo aver esaminato la comparazione tra il potere del Papa e quello degli apostoli in ragione del loro apostolato, dobbiamo adesso comparare il potere del Papa e il potere della Chiesa universale, ovvero del Concilio universale, adesso da un punto di vista generale, in seguito, come abbiamo annunciato, in alcuni casi ed eventi (particolari). E poiché gli opposti, messi a confronto, diventano più chiari, apporterò prima di tutto le ragioni principali nelle quali si trova il valore (degli argomenti) con il quale è provato [dagli avversari, N.d.T.] che il Papa è sottomesso al giudizio della Chiesa, ovvero del Concilio universale. E affinché non capiti più spesso di mettere assieme Chiesa e Concilio [preciso che] sono presi come sinonimi, poiché si distinguono solo come chi rappresenta e chi è rappresentato” (9). Il contesto generale dell’opera, d’altronde, ci indica chiaramente che il Gaetano per “Chiesa universale” intende il Concilio generale; il De comparatione in effetti risponde alle obiezioni dei conciliaristi, secondo i quali il Papa è inferiore alla Chiesa, cioè al Concilio (9). Ma c’è di più. Proprio quando parla dell’elezione del Papa, il Gaetano usa promiscuamente i termini “Chiesa” e “Concilio”: “in Ecclesia autem seu Concilio” (n° 202). Anzi, quando si tratta di presentare il caso concreto di elezione straordinaria di un Papa, il Gaetano non parla tanto di “Chiesa universale” ma piuttosto di Concilio generale: “si Concilium generale cum pace Romanæ ecclesiæ eligeret in tali casu Papam, verus Papa esset ille qui electus sic esset” (n° 745) (“se in questo caso il Concilio generale eleggesse il Papa con la pace [l’accettazione pacifica] della Chiesa romana, chi fosse eletto in questo modo sarebbe un vero Papa”).

È evidente quindi che, per Mons. Journet ed il Cardinal Gaetano, è il Concilio generale imperfetto (10) che ha il compito, in assenza di cardinali, di eleggere il Sommo Pontefice.

I vescovi residenziali, in quanto membri di diritto di questo Concilio generale, potrebbero eleggere il Papa

Appurato che gli elettori straordinari del Papa (in assenza di cardinali) sono i membri del Concilio generale, resta da vedere chi possa partecipare, di diritto, al Concilio generale. Il Codice di diritto canonico – trattando del Concilio ecumenico – elenca i membri di diritto del Concilio con voto deliberativo, al canone 223:

§ 1. Sono chiamati al Concilio ed hanno in esso il diritto al voto deliberativo:

1° I Cardinali di Santa Romana Chiesa, anche se non sono Vescovi;

2° I Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi residenziali, anche se non consacrati;

3° Gli Abati o prelati nullius;

4° L’Abate Primate, gli Abati Superiori di Congregazioni monastiche, i Superiori generali delle congregazioni clericali esenti, ma non delle altre religioni, a meno che il decreto di convocazione non disponga diversamente;

§ 2. Anche i Vescovi titolari, chiamati al Concilio, ottengono il voto deliberativo, a meno che non sia previsto esplicitamente il contrario nella convocazione.

§ 3. I teologi e i canonisti, eventualmente invitati al Concilio, hanno solo un voto consultivo.

Questo canone non esprime solo il diritto positivo, ma anche la natura stessa delle cose. Notiamo infatti che i Vescovi titolari, privi di giurisdizione, possono non essere convocati al Concilio o non avere diritto di voto. Al contrario, i Cardinali, i Vescovi residenziali, gli Abati o i prelati nullius (11) anche se non consacrati vescovi partecipano di diritto al Concilio, perché hanno giurisdizione su di un territorio (12). Questo significa che di per sé il criterio per essere un membro del Concilio è quello di appartenere alla gerarchia in ragione della giurisdizione e non dell’ordine sacro (per questa distinzione, di diritto divino, vedi il can. 108§3).

Stando così le cose, ci sembra che Mons. Pivarunas (e con lui tutti i sedevacantisti simpliciter, quelli cioè che non seguono la tesi di padre Guérard des Lauriers) non abbia sufficientemente risposto alla difficoltà posta dalla Fraternità San Pio X. Infatti, in una posizione strettamente sedevacantista, non si vede dove siano i vescovi residenziali cattolici che possano e vogliano eleggere il Papa, giacché tutti i vescovi residenziali (ed altri prelati che avrebbero giurisdizione) o sono stati nominati invalidamente da degli antipapi o sono comunque formalmente eretici e fuori della Chiesa – aderendo agli errori del Vaticano II – o sono in ogni caso in comunione con Giovanni Paolo II, capo della nuova “Chiesa conciliare”. La Chiesa gerarchica insomma sarebbe totalmente scomparsa, non solo in atto e formalmente, ma anche in potenza e materialmente (13).

I Vescovi senza giurisdizione non possono eleggere il Papa

Abbiamo visto che l’elezione del Papa in circostanze anormali – secondo il pensiero dei teologi che hanno trattato della questione – spetta al Concilio generale imperfetto, ovverosia ai Vescovi ed ai prelati che godono, nella Chiesa stessa, di giurisdizione. Il Papa, infatti, è Vescovo della Chiesa universale: è quindi normale che eccezionalmente lo eleggano quei prelati della Chiesa universale che, con lui e sotto di lui, governano una porzione del gregge. Abbiamo visto altresì che per la natura stessa delle cose, ed in conseguenza di quanto detto, sono esclusi dal novero degli elettori per accidens del Papa i Vescovi titolari, Vescovi consacrati col mandato romano, ma privi di giurisdizione nella Chiesa.

A più forte ragione sono esclusi dal numero degli elettori – proprio perché esclusi dal Concilio generale – i Vescovi consacrati senza mandato romano nelle condizioni eccezionali dell’attuale vacanza (formale) della Sede Apostolica. Tali Vescovi, infatti, sono stati consacrati validamente e persino, a nostro parere – almeno in alcuni casi – lecitamente; tuttavia essi sono però – nel modo più assoluto – privi di giurisdizione, in quanto la giurisdizione del Vescovo deriva da Dio solo tramite la mediazione del Papa che, nel nostro caso, è esclusa (14). Poiché sono privi di giurisdizione, non appartengono alla Gerarchia della Chiesa secondo la giurisdizione, non sono perciò membri di diritto del Concilio e pertanto non sono abilitati ad eleggere validamente il Papa, neppure in casi straordinari.

Questo punto di dottrina, già assodato in sé stesso, è confermato dall’impossibilità pratica di eleggere un Papa certo e non dubbio seguendo questa via. Chi stabilirà in maniera certa, tra i molti Vescovi che sono stati e saranno ancora consacrati in questo modo, quelli che hanno diritto di partecipare all’elezione e quelli che non lo hanno? Chi ha il diritto di convocare il Conclave e chi no? Chi è da considerarsi legittimamente consacrato e chi no? Non essendoci un criterio di discernimento (il mandato romano, la sede residenziale) non vi è di per sé limite a queste consacrazioni né da parte di chi le può autorizzare (il Papa) né da parte della porzione di territorio da governare (la diocesi). Il numero degli elettori può quindi crescere a dismisura senza nessuna garanzia della loro cattolicità, come è avvenuto in concreto. E, di fatto, si è già proceduto a svariate elezioni che non hanno avuto alcun seguito, neppure tra i sostenitori del “conclavismo”, sempre pronti a “fare il passo”, ma solamente in teoria.

A maggior ragione, i laici non possono eleggere il Papa

Se i Vescovi titolari, pur nominati dal Papa non possono eleggere il Papa, se non lo possono neppure i Vescovi puramente consacrati, senza mandato romano, ancor meno lo potranno i semplici sacerdoti. In maniera ancora più radicale sono esclusi da ogni elezione ecclesiastica i laici.

Questa conclusione è confermata dal diritto positivo della Chiesa, sia per quanto riguarda ogni elezione ecclesiastica in genere, sia per quanto riguarda l’elezione del Papa.

A proposito di ogni elezione ecclesiastica, il canone 166 stipula che “se i laici, contro la canonica libertà, si fossero immischiati in qualunque modo in un’elezione ecclesiastica, l’elezione è invalida per il diritto stesso” (Si laici contra canonicam libertatem electioni ecclesiasticæ quoque modo sese immiscuerint, electio ipso iure invalida est).

A proposito dell’elezione papale, fa testo l’apposita costituzione Vacante Sede Apostolica promulgata da San Pio X il 25 dicembre 1904. Il principio generale è espresso al n. 27: “Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ed esclusivamente (privative) ai Cardinali di Santa Romana Chiesa, essendo assolutamente escluso ed allontanato l’intervento di qualsiasi altra dignità ecclesiastica o laica potestà di qualunque grado e ordine”. Al numero 81, San Pio X rinnova la condanna già da lui sancita, con la Costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904, del cosiddetto diritto di Veto o di Esclusiva da parte del potere laico, concludendo: “Questa proibizione vogliamo sia estesa a qualunque intervento, intercessione o altro modo con il quale le autorità laiche di qualunque ordine e grado volessero immischiarsi nell’elezione del Pontefice”. Il Santo Papa fa riferimento a quanto accadde durante il Conclave che lo elesse al Sommo Pontificato, quando l’Imperatore Francesco Giuseppe, tramite il Cardinale Arcivescovo di Cracovia, pose il suo veto all’elezione del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, già segretario di Stato di Leone XIII. Nella Costituzione Commissum San Pio X afferma che questo presunto diritto di “Veto”, già condannato dai suoi predecessori Pio IV (In eligendis), Gregorio XV (Aeterni Patris), Clemente XII (Apostolatus officium) e Pio IX (In hac sublimi, Licet per Apostolicas e Consulturi) è contrario alla libertà della Chiesa. Il suo ufficio, scrive il Santo Pontefice, è quello di far sì che “la vita della Chiesa si svolga in modo del tutto libero, allontanato ogni intervento esterno, come volle che si svolgesse il suo Divino Fondatore, e come lo richiede assolutamente la sua eccelsa missione. Ora, se c’è una funzione nella vita della Chiesa che richiede più di ogni altra questa libertà, essa deve essere considerata senza dubbio quella che riguarda l’elezione del Romano Pontefice; in effetti ‘non si tratta di un membro, ma di tutto il corpo, quando si tratta del capo’ (Gregorio XV, Aeterni Patris)”. L’esclusione dell’intervento delle autorità civili include naturalmente quello di qualunque altro membro del laicato: “Stabiliamo che non è lecito ad alcuno, neppure ai capi di stato, sotto qualsiasi pretesto, interporsi o ingerirsi nella grave questione dell’elezione del Romano Pontefice”.

Come si vede, l’esclusione di ogni intervento laicale è considerato da San Pio X non come una disposizione transitoria, ma come assolutamente necessario perché la Chiesa sia come l’ha voluta il suo Fondatore, Cristo Gesù.

Quanto disposto dal Codice di diritto Canonico e da San Pio X è perfettamente conforme a tutta la tradizione. Il Codice stesso rinvia al Corpus iuris canonici (l’antico diritto ecclesiastico) ove le decretali di Gregorio IX (libro I, titolo VI, de electione et electi potestate) prevedono l’invalidità dell’elezione fatta dai laici: il cap. 43 cita il IV Concilio Lateransense del 1215 (Costituzione XXV: “Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l’elezione e diventi ineleggibile…”); il cap. 56 cita un documento di Gregorio IX del 1226 col quale si dichiara invalida l’elezione di un vescovo fatta dai laici e dai canonici, secondo una consuetudine che è piuttosto chiamata una “corruttela”.

Potremmo citare altri documenti ecclesiastici al proposito, tra i quali vari Concili Ecumenici: il secondo di Nicea, dell’anno 787 (DS 604), il secondo di Costantinopoli dell’anno 870 (DS 659), il primo del Laterano, dell’anno 1123, contro le investiture dei laici (DS 712)…

Se nel passato la Chiesa doveva difendere la sua libertà dall’influenza dei Principi nelle elezioni, con la Rivoluzione dovette difenderla dalla pretesa democratica di far eleggere i Vescovi dal popolo. Fu così che Papa Pio VI condannò la Costituzione civile del clero votata dall’Assemblea Nazionale, con il Breve Quod aliquantulum del 10 marzo 1791. Non a caso, Papa Braschi collegava le decisioni in materia dei rivoluzionari francesi, coi più antichi errori di Wiclif, Marsilio da Padova, Jean de Jandun e Calvino (cf Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, 81-82, e Pie VI, Ecrits sur la Révolution française, Ed. Pamphiliennes, pp. 16-20).

Qual è il valore, allora, della partecipazione popolare ad alcune antiche elezioni? Lo ricorda ancora il Journet: “Nei tempi passati hanno preso parte all’elezione, a titoli diversi: il clero romano (per un titolo che sembra primo e diretto), il popolo (ma nella misura in cui dava il suo consenso e la sua approvazione all’elezione fatta dal clero), i principi secolari (sia lecitamente, dando solamente il loro consenso e il loro appoggio all’eletto; sia in maniera abusiva vietando, come fece Giustiniano, che l’eletto fosse consacrato prima dell’approvazione dell’imperatore), infine i cardinali, che sono i primi tra i chierici romani, in sorta che è al clero romano che è di nuovo affidata, oggi, l’elezione del Papa” (op. cit., p. 977) (15).

Un voto solo consultivo o approvativo, quindi, quello del popolo fedele; e le cose stanno così per una esigenza dogmatica fondata sulla distinzione e subordinazione nella Chiesa tra clero e fedeli, distinzione che è di diritto divino. Lo ricorda, tra gli altri, il teologo romano Cardinal Mazzella: “In terzo luogo, dai medesimi documenti, ne segue sia la distinzione tra i Chierici e i Laici, sia il fatto che la gerarchia costituita nell’ordine clericale è di diritto divino; e quindi che per il medesimo diritto divino la forma democratica è esclusa dal governo della Chiesa. Questa forma democratica sussiste quando la suprema autorità si trova in tutta la moltitudine; non in quanto tutta la moltitudine comandi e governi in atto, il che sarebbe impossibile; ‘ma in quanto – come dice Bellarmino (de Rom. Pont. l. 1, c. 6) – dove vige il regime popolare, i magistrati sono costituiti dallo stesso popolo, e ricevono da esso la loro autorità; non potendo il popolo legiferare da se stesso, deve almeno costituire altri che lo facciano in suo nome’. Ma, supposta una gerarchia divinamente costituita nell’ordine clericale, è ad essa e non a tutto il popolo che l’autorità è stata comunicata da Cristo; e perciò per istituzione di Cristo non risiede nel popolo il diritto di costituire i governanti, e questi non reggono la Chiesa in nome del popolo. Per una migliore comprensione di quanto detto, osserviamo:

come dice Bellarmino (de mem. Eccles. l. 1 c. 2), ‘nella creazione dei Vescovi sono contenute tre cose: l’elezione, l’ordinazione e la vocazione o missione; l’elezione non è nient’altro che la designazione di una persona determinata alla prelatura ecclesiastica; l’ordinazione è una sacra cerimonia con la quale, mediante un rito determinato, viene unto e consacrato il futuro Vescovo; la missione o vocazione conferisce la giurisdizione, e per il fatto stesso fa il Pastore e il presule’

Per cui sono cose molto diverse l’eleggere, il chiedere e il rendere testimonianza. Infatti, chi rende testimonianza in favore di qualcuno o chiede che questi sia eletto, non gli conferisce un diritto a ottenere una dignità; ma svolge solo il ruolo di una persona che loda e che chiede. Colui invece che elegge, chiama canonicamente alla dignità, e conferisce un vero diritto a riceverla (…)” (16).

Riassumendo: nelle elezioni ecclesiastiche il popolo può rendere testimonianza delle qualità di un soggetto (testimonium reddere) e chiederne l’elezione (petere) ma non può assolutamente votare in una elezione canonica, e quindi eleggere un candidato a una carica ecclesiastica dandogli il diritto a ricevere – in quanto persona eletta – la medesima carica. E questa conclusione si fonda su di un principio che appartiene alla fede e alla volontà del Signore: il fatto cioè che la Chiesa non sia una società democratica, ma gerarchica (e persino monarchica) (17) fondata sulla distinzione – di diritto divino – tra il Clero e i Laici. I “tradizionalisti” che attribuiscono a persone che non fanno parte della gerarchia di giurisdizione, e persino a dei semplici fedeli, il potere di eleggere persino il Sommo Pontefice, sono paradossalmente inquinati dall’eresia di una Chiesa democratica così diffusa tra i “modernisti” stile “comunità di base” o “la Chiesa siamo noi”.

Il Clero romano e l’elezione del Papa

Abbiamo escluso dal potere di eleggere il Papa i laici ed i Vescovi senza giurisdizione (a maggior ragione i semplici sacerdoti). Ci resta da vedere un soggetto particolare del diritto di eleggere il Papa: il clero romano. Se “per natura delle cose, e quindi per diritto divino” – scrive Journet a p. 977 – “il potere di eleggere il Papa appartiene alla Chiesa presa assieme al suo capo, il modo concreto in cui si farà l’elezione, dice Giovanni di San Tommaso, non è stato determinato in qualche luogo della Scrittura: è il semplice diritto ecclesiastico che determinerà quali persone nella Chiesa potranno validamente procedere all’elezione”.

Il diritto ecclesiastico attuale (e questo a partire dal 1179) prevede che solo i Cardinali possono eleggere validamente il Papa. In questo modo si mantiene in fondo la più antica tradizione ecclesiastica, che vuole che il Vescovo sia eletto dal suo clero e dai Vescovi circostanti. I Cardinali infatti sono i membri principali del Clero romano (diaconi e sacerdoti), uniti ai Vescovi delle diocesi limitrofe, dette suburbicarie (anch’essi Cardinali). Il Gaetano scrive che è normale che il Papa sia eletto dalla sua chiesa, che è la chiesa Romana e la Chiesa universale, in quanto il Papa è il Vescovo di Roma ed il Vescovo della Chiesa Cattolica (n° 746). Anzi, Gaetano prevede che “morti tutti i Cardinali, succede in maniera immediata [nel potere di eleggere il Papa] la Chiesa Romana, dalla quale è stato eletto [il Papa San] Lino prima di ogni disposizione di diritto umano a noi conosciuto” (n° 745). “La Chiesa Romana” infatti “rappresenta la Chiesa universale nel potere elettivo” (n° 746). Come ci siamo chiesti a proposito della “Chiesa universale”, così ci dobbiamo chiedere chi sono i membri della “Chiesa Romana” che potrebbero eleggere il Papa in mancanza dei cardinali, che della Chiesa Romana sono i membri principali. Gaetano spiega (n° 202): che l’elezione spetti a tale o tale diacono o sacerdote delle chiese romane, detti Cardinali, e non ad altri (come ad esempio i canonici di San Pietro o di san Giovanni in Laterano), o a tale o tal altro Vescovo suburbicario, e non ad altri, è disposizione di diritto positivo ecclesiastico, e non di diritto divino. La Chiesa non può mutare queste disposizioni di diritto ecclesiastico (n° 202), ma in caso di scomparsa di tutti i Cardinali si può supporre che gli altri membri del clero romano potrebbero eleggere il proprio Vescovo. È evidente che per essere membri del clero romano non basta essere nati o risiedere a Roma! Occorre essere incardinati nella diocesi e probabilmente avere cura pastorale del popolo romano o delle diocesi vicine. È facile rendersi conto che anche in questo caso non si vede chi mai potrebbe, concretamente, potere o volere eleggere il papa dato che il clero romano (parroci, vescovi limitrofi, ecc.) è attualmente in comunione con Giovanni Paolo II.

Il Papa non può essere designato direttamente dal Cielo (perché Dio non lo vuole)

Di fronte alla situazione gravissima che sta vivendo la Chiesa, che ha portato alla privazione dell’Autorità, c’è chi ha pensato che la soluzione poteva solo venire da un intervento – eccezionale – di Dio. Questo pensiero si fonda su di una intuizione vera: la Storia e la Chiesa sono nella mani di Dio, e “nulla è impossibile a Dio” (Lc I, 37). Alcuni hanno pensato a un intervento di Enoch e Elia, identificati (a mio parere, a torto) nei due testimoni dell’Apocalisse. Altri hanno ipotizzato la sopravvivenza dell’Apostolo Giovanni. Altri ancora immaginano un’elezione papale fatta direttamente da Cristo e dagli Apostoli Pietro e Paolo (18). A questo proposito non sono mancati coloro che hanno pubblicato profezie di Santi in favore di questa opinione (19).

Mons. M.-L. Guérard des Lauriers, nella sua intervista a Sodalitium (n. 13, p. 20) affermava a proposito del sedevacantismo stretto: “La persona fisica o morale che ha, nella Chiesa, qualità per dichiarare la vacanza totale della Sede Apostolica è identica a quella che, nella Chiesa, ha qualità per provvedere alla provvisione della stessa Sede Apostolica. Chi dichiara attualmente: ‘Mons. Wojtyla non è affatto Papa [neanche materialiter] deve: o convocare il Conclave [!] o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente ed immediatamente Legato di Nostro Signore Gesù Cristo [!!]”. Abbiamo finora dimostrato l’impossibilità, rebus sic stantibus, di convocare un Conclave; vediamo nel presente capitolo se è possibile a qualcuno presentarsi con le credenziali che lo costituirebbero Legato di Gesù Cristo o suo Vicario.

Al di là dell’improbabilità fattuale di un simile avvenimento, sottolineata dai due punti esclamativi apposti da Mons. Guérard dopo avere esposto questa ipotesi, mi sembra che riguardo alla possibilità teologica di questa ipotesi abbia correttamente risposto Mons. Sanborn:

“I sedevacantisti completi propongono una seconda soluzione alla crisi attuale: è Cristo stesso che designerà un successore, con un intervento miracoloso. Se Nostro Signore agisse in tal modo, e certamente lo potrebbe, l’uomo che sceglierebbe per essere Papa sarebbe certamente il suo vicario sulla terra, ma non sarebbe successore di san Pietro. Scomparirebbe l’apostolicità, perché quest’uomo non potrebbe risalire fino a san Pietro mediante una linea di successione legittima ininterrotta. Certo, come san Pietro sarebbe scelto da Cristo. Ma in realtà Nostro Signore creerebbe una nuova Chiesa.

D. Ma Nostro Signore non potrebbe essere un elettore legittimo? Perché non potrebbe scegliere un Papa che sarebbe anche successore di san Pietro?

R. Si, evidentemente Nostro Signore potrebbe scegliere un Papa, esattamente come ha scelto san Pietro. Ma un intervento divino come quello che immaginano i sedevacantisti completi equivarrebbe a una nuova rivelazione pubblica, il che è impossibile. La rivelazione pubblica è definitivamente chiusa con la morte dell’ultimo apostolo. È un articolo di fede. Tutte le rivelazioni che si sono svolte dopo la morte dell’ultimo Apostolo appartengono all’ambito delle rivelazioni private. Per i sedevacantisti completi quindi, è una rivelazione privata che rivelerebbe l’identità del Papa.

Non c’è bisogno di dire che una tale soluzione distrugge la visibilità e la legalità della Chiesa cattolica, e rende la sua stessa esistenza dipendente da dei veggenti. Non c’è bisogno di aggiungere neppure che essa abbandona il papato alle elucubrazioni degli apparizionisti.

La missione della Chiesa consiste nel far conoscere al mondo la divina rivelazione. Se la designazione del Papa – proprio colui che fa conoscere questa rivelazione – dipendesse da una rivelazione privata, crollerebbe l’intero sistema. La più alta autorità della Chiesa sarebbe allora il veggente, che potrebbe fare o disfare i Papi. Non ci sarebbe più alcun principio di autorità per poter determinare se il veggente è o non è un mistificatore. Ogni atto di fede dipenderebbe, alla fin fine, dall’onestà di un veggente.

La Chiesa cattolica, al contrario, è una società visibile ed ha una vita legale. Nostro Signore è il capo invisibile della Chiesa. La Chiesa non potrebbe più attribuirsi la visibilità se la sua gerarchia fosse designata da una persona [a noi] invisibile, fosse pure Nostro Signore in persona.

Anche ammettendo per un istante questa possibilità: la persona che Nostro Signore designerebbe in tal modo non sarebbe un successore legittimo di san Pietro. La successione è legittima solo se soddisfa le esigenze del diritto ecclesiatico o della consuetudine. Ma una successione per intervento divino non soddisfa alcuna di queste esigenze. Conseguentemente il Papa così designato non sarebbe il legittimo successore di san Pietro” (20).

Gesù potrebbe quindi (di “potenza assoluta”) scegliere nuovamente un Papa, ma non lo farà mai (21) (è impossibile di “potenza ordinata”) poiché Egli stesso ha stabilito che la Sua Chiesa, fondata su Pietro, sarebbe stata indefettibile: “le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. E questa verità dell’indefettibilità della Chiesa ci dà di già il motivo di fondo di quanto sosteniamo nel titolo del prossimo capitoletto.

La Chiesa non può restare totalmente priva di elettori del Papa

Il Concilio Vaticano I ha solennemente definito:

Se dunque qualcuno dirà che non è per istituzione dello stesso Cristo Signore ovvero per diritto divino che il Beato Pietro ha sempre dei successori nel primato della Chiesa universale; o che il Romano Pontefice non è il successore del Beato Pietro in questo primato, sia anatema” (D.S. 3058, Cost. dogmatica Pastor Aeternus, canone del capitolo 2).

È una verità di fede, pertanto, che “per sempre” vi sarà un Successore di Pietro: questa verità fa parte di quella concernente l’indefettibilità della Chiesa: se la Chiesa fosse priva di Papa, non esisterebbe più quale l’ha fondata Gesù. Per tornare al cardinal Gaetano, “Christus Dominus statuit Petrum in successoribus perpetuum: Cristo Signore ha stabilito (che) Pietro (sia reso) perpetuo nei suoi successori” (n. 746).

Naturalmente, questa definizione non può e non deve essere intesa nel senso che vi sarà sempre, in ogni istante, in atto, un Papa seduto sulla Cattedra di Pietro: durante la Sede vacante (ad esempio nel periodo che passa tra la morte di un Papa e l’elezione del suo successore). Ciò non conviene. In che senso dunque bisogna intendere la definizione vaticana?

Ce lo spiega ancora – per anticipazione – il Gaetano: “impossibile est Ecclesiam relinqui absque Papa et potestate electiva Papæ: è impossibile che la Chiesa sia lasciata senza Papa e senza il potere di eleggere il Papa” (n. 744). Durante la Sede vacante, pertanto, deve rimanere in qualche modo la persona morale che può eleggere il Papa: “papatus, secluso Papa, non est in Ecclesia nisi in potentia ministraliter electiva, quia scilicet potest, Sede vacante, Papam eligere, per Cardinales, vel per seipsam in casu: il Papato, tolto il Papa, si trova nella Chiesa solo in una potenza ministralmente elettiva, poiché essa può, durante la Sede vacante, eleggere il Papa mediante i Cardinali o, in un caso (accidentale) per mezzo di sé stessa” (n. 210).

È assolutamente necessario, pertanto, che – durante la Sede vacante – sussista ancora la possibilità di eleggere il Papa: lo esigono l’indefettibilità e l’apostolicità della Chiesa (22).

L’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa

Era appunto questa l’obiezione mossa da Mons. Lefebvre ai sedevacantisti, e ripresa da don Scott contro Mons. Pivarunas. Certamente, una obiezione non può annullare una dimostrazione, e Mons. Pivarunas ha ragione – e don Scott torto – sul fatto che la Sede sia attualmente vacante. Abbiamo visto però che il sedevacantismo simpliciter, se è capace di dimostrare la vacanza della Sede, non è però capace di spiegare come sussista ancor oggi il potere di eleggere un successore. I vari tentativi di spiegazione, fin qui analizzati, risultano tutti inconcludenti: non possono eleggere il Papa i semplici fedeli, e neppure i semplici sacerdoti, e neanche i Vescovi non residenziali. D’altra parte, nella prospettiva strettamente sedevacantista, non sussisterebbero più attualmente dei cardinali o dei Vescovi residenziali cattolici, in quanto tutti quelli esistenti avrebbero aderito alla “Chiesa conciliare”, divenendo formalmente eretici.

L’unica soluzione possibile a questa difficoltà viene, ci sembra, dalla Tesi detta di Cassiciacum, esposta da Padre Guérard des Lauriers, Tesi che i sedevacantisti si ostinano a rifiutare senza rendersi conto che essa è l’unica che permetta di difendere veramente la tesi della Sede vacante.

Secondo questa Tesi, nella situazione attuale dell’autorità nella Chiesa, il potere di eleggere il Sommo Pontefice sussiste ancora nella Chiesa non in atto, formalmente, ma in potenza, materialmente, e questo è sufficiente per assicurare la continuità della Successione Apostolica e per garantire l’indefettibilità della Chiesa.

Un’elezione del Papa è per il momento impossibile sia perché la Sede è ancora occupata materialmente e legalmente da Giovanni Paolo II, sia perché, e lo abbiamo dimostrato in questo articolo, non vi sono, in atto, elettori capaci di procedere a questa elezione.

L’elezione è però possibile in potenza, sia perché in principio non può essere altrimenti, come abbiamo visto prima, sia perché di fatto, sussistono materialmente gli elettori canonicamente abilitati ad eleggere il Papa. Secondo la Tesi, infatti, i Cardinali creati dai “papi” materialiter conservano il potere di eleggere il Pontefice, come pure i Vescovi, nominati dai “papi” materialiter alle varie sedi episcopali, le occupano materialmente e potrebbero, ritornati alla pubblica ed integrale professione della Fede, essere elettori del Papa in assenza di Cardinali. Lo stesso “papa” che occupa solo materialmente la Sede potrebbe, anatematizzando tutti gli errori e professando integralmente la Fede, divenire a tutti gli effetti Papa anche formalmente. Come si vede, la Tesi di Cassiciacum risponde alle obiezioni sollevate dai “modernisti” e dai “lefebvriani” al sedevacantismo, mentre le altre tesi sedevacantiste non ne sono capaci. Per la dimostrazione di questo punto della Tesi, rimandiamo il lettore a quanto già scritto al proposito (23).

Il dovere dei cattolici

Giunti al termine di questa esposizione, naturalmente sommaria, della questione dell’elezione del Papa nella situazione attuale della Chiesa, possiamo tirare alcune conclusioni da quanto scritto.

Qual è il dovere dei cattolici, attualmente? Innanzitutto, conservare la fede. Questo dovere (conservare la fede) ne implica (di per sè) immediatamente un altro: quello di non riconoscere “l’autorità” di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II. Riconoscere l’autorità di Giovanni Paolo II e del Concilio Vaticano II implica, infatti, l’adesione al loro insegnamento che è – su alcuni punti – in contraddizione con la fede cattolica infallibilmente definita dalla Chiesa.

Il semplice cattolico però non può e non deve andare oltre. Non spetta al semplice fedele (e neppure ai sacerdoti e ai vescovi senza giurisdizione) dichiarare con autorità, ufficialmente e legalmente, la vacanza della Sede Apostolica e provvedere all’elezione di un autentico Pontefice. Il dovere del cattolico però è quello di pregare e lavorare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie competenze, affinché questa dichiarazione ufficiale – ad opera del collegio dei cardinali o del concilio generale imperfetto – divenga possibile. La tragedia dei nostri tempi – che detta la gravità della crisi presente – consiste proprio nel fatto che nessuno dei membri della gerarchia ha finora svolto questo ruolo. Attualmente, sembra impossibile che i Vescovi o i Cardinali giungano a condannare gli errori del Vaticano II e pongano l’occupante della Sede apostolica nella condizione di anatematizzare anch’egli questi errori, sotto pena di essere dichiarato formalmente eretico (e pertanto deposto, anche materialmente, dalla Sede); ma ciò che è impossibile agli uomini, ricordiamolo, è possibile a Dio. Ed in questo caso, sappiamo che Dio non può abbandonare la Sua Chiesa, perché le porte dell’inferno non prevarranno contro di Essa, ed Egli sarà con Essa fino alla fine del mondo.

Appendice

Esulano direttamente dalla nostra questione (la possibilità di eleggere un Papa allo stato attuale) due argomenti riguardanti pur sempre l’elezione del Papa: quello della certezza della validità dell’elezione papale a causa dell’accettazione pacifica di questa elezione da parte della Chiesa, e quello della santità dell’elezione. Di entrambi parla Journet nell’opera citata. Ne parlerò brevemente anch’io, poiché si tratta di due argomenti che possono servire da obiezione alla nostra posizione (la vacanza formale della Sede Apostolica).

L’accettazione pacifica come certezza della validità dell’elezione papale

Un’elezione, fosse anche l’elezione papale, può essere invalida o essere dubbia; lo ricorda lo stesso Journet, al seguito di Giovanni di San Tommaso (L’elezione del Papa. V. Validità e certezza dell’elezione). “La Chiesa – scrive Journet – possiede il diritto di eleggere il Papa, e quindi il diritto di conoscere con certezza l’eletto. Finché persiste il dubbio sull’elezione e che il consenso tacito della Chiesa universale non ha rimediato ai vizi possibili dell’elezione, non c’è il Papa, ‘Papa dubius, Papa nullus’. In effetti, fa notare Giovanni di San Tommaso, finché l’elezione pacifica e certa non è manifesta, è come se essa durasse ancora” (p. 978). Tuttavia, ogni incertezza sulla validità dell’elezione è dissipata dall’accettazione pacifica dell’elezione fatta dalla Chiesa universale: “l’accettazione pacifica della Chiesa universale, che si unisce attualmente a tale eletto come al capo al quale essa si sottomette, è un atto nel quale la Chiesa impegna il suo destino. E’ quindi di per sè un atto infallibile, ed è immediatamente conoscibile come tale. (Conseguentemente e mediatamente, risulterà che tutte le condizioni pre-richieste alla validità dell’elezione sono state realizzate)” (pp. 977-978). Quanto affermato da Journet si ritrova in quasi tutti i teologi.

Questa dottrina include un’obiezione gravissima contro ogni sedevacantismo (inclusa la nostra Tesi). L’abbé Lucien non nascondeva questa difficoltà, scrivendo: “Senza rispondere ai nostri argomenti, alcuni dichiarano che [la nostra tesi] è certamente falsa, poiché la sua conclusione, secondo loro, è contraria alla fede o almeno prossima all’eresia. Ricordano in effetti che la legittimità di un Papa è un fatto dogmatico, e aggiungono che il segno infallibile di questa legittimità è l’adesione della Chiesa universale. Ora, fanno notare, svariati anni dopo il 7 dicembre 1965 [data a partire della quale Paolo VI non era certamente più Papa formalmente] nessuno ha messo in causa, pubblicamente, nella Chiesa, la legittimità di Paolo VI. È quindi impossibile, concludono, che abbia cessato di essere papa legittimo in questa data, poiché la Chiesa universale continuava a riconoscerlo. Questi obbiettori affermano parimenti che ancor oggi la Chiesa universale aderisce a Giovanni Paolo II, poiché nessun membro della gerarchia di magistero lo ha ricusato: ora, questa gerarchia (l’insieme dei vescovi residenziali uniti al Papa) rappresenta autenticamente la Chiesa universale” (24). Rinvio il lettore alla magistrale risposta che dà l’abbé Lucien a questa obiezione. Da un lato, egli ricorda che la Costituzione Cum ex apostolatus di papa Paolo IV – che se non ha più valore giuridico è pur sempre un atto del magistero – insegna una dottrina contraria (la tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa come prova certa della validità di una elezione è quindi solo un’opinione teologica). D’altro canto, sottolinea come questa opinione si fondi sul fatto che è impossibile che la Chiesa intera segua una falsa regola di fede aderendo ad un falso pontefice: ciò sarebbe in contraddizione con l’indefettibilità della Chiesa. Ora, nel nostro caso, tra coloro che riconoscono la legittimità di Paolo VI e Giovanni Paolo II, ve ne sono molti che non aderiscono alle novità del Vaticano II; essi, di fatto, non riconoscono Paolo VI e Giovanni Paolo II come regola della fede e quindi, sempre di fatto, non ne riconoscono la legittimità (cf pp. 108-111). Insomma, il fatto che molti cattolici, implicitamente o esplicitamente, non abbiano recepito il Vaticano II, toglie alla tesi dell’accettazione pacifica della Chiesa la sua forza dimostrativa quanto alla legittimità di chi il Concilio ha promulgato.

La santità dell’elezione

Se l’obiezione precedente è effettivamente importante, quella fondata sulla santità dell’elezione non lo è affatto; ma poiché molti fedeli me l’hanno citata, mi sembra opportuno rispondere con le parole stesse di Journet. Molte persone, infatti, credono a torto che sia lo Spirito Santo che garantisce l’elezione ispirando i cardinali, per cui l’eletto del Conclave sarebbe stato scelto direttamente da Dio. Journet ricorda che, quando si parla di santità dell’elezione papale, “non si vuol dire con queste parole che l’elezione del papa si compia sempre con una infallibile assistenza, poiché ci sono dei casi nei quali l’elezione è invalida, nei quali rimane dubbia, nei quali resta quindi in sospeso. Non si vuol neppure dire che sia scelto necessariamente il miglior soggetto. Si vuole solo dire che, se l’elezione è fatta validamente (il che, in sè, è sempre un bene) anche quando fosse il risultato di intrighi e di interventi spiacevoli (ma allora ciò che è peccato resterà peccato davanti a Dio), si è certi che lo Spirito Santo, il quale, al di là dei papi, veglia in modo speciale sulla sua Chiesa, utilizzando non solo il bene, ma anche il male che essi possono fare, non ha potuto volere o almeno permettere questa elezione che per dei fini spirituali la cui bontà si manifesterà a volte senza tardare nel corso della storia, oppure sarà conservata segreta fino alla rivelazione dell’ultimo giorno. Ma son questi misteri nei quali la fede sola può penetrare ” (pp. 978-979). Insomma, la divina Provvidenza veglia in maniera specialissima sulla Chiesa, ma non impedisce che a volte l’elezione papale possa essere nulla, dubbia, oppure, se valida, abbia per oggetto una persona meno degna di questa carica di un’altra. Negli ultimi conclavi quindi Dio ha potuto permettere, per motivi inscrutabili, che fossero eletti dei soggetti che non avevano oggettivamente la volontà abituale di procurare il bene ed il fine della Chiesa, e che pertanto, pur essendo gli eletti del Conclave (“papi” materialiter), hanno posto e pongono tuttora un ostacolo alla ricezione, da parte di Dio, dell’assistenza divina e dell’autorità pontificia (non sono “papi” formaliter) che, se non ci fosse quest’ostacolo sarebbe stata conferita all’eletto del conclave che accetta realmente l’elezione.

Note

1) La lettera Pro grege può essere richiesta al seguente indirizzo: Most Rev. Mark A. Pivarunas, Mater Dei Seminary, 7745 Military Avenue, Omaha, NE 68134-3356, U.S.A.
2) Peter Scott non fa altro che riprendere le due obiezioni già addotte da Mons. Lefebvre nel 1979: “la questione della visibilità della Chiesa è troppo necessaria alla sua esistenza perché Dio possa ometterla durante delle decadi. Il ragionamento di quanti affermano l’inesistenza del Papa mette la Chiesa in una situazione inestricabile. Chi ci dirà dov’è il futuro Papa? Come potrà essere designato, poiché non ci sono più cardinali?” (Fraternité Sacerdotale Saint Pie X, Position de Mgr Lefebvre sur la nouvelle messe et le pape, supplemento a Fideliter, 1980, p. 4).
3) Padre O’Really fu professore dell’Università cattolica di Dublino.
4) Mons. Pivarunas non dà i riferimenti della citazione di Journet. Si tratta dell’Excursus VIII, L’élection du pape dell’opera L’Eglise du Verbe Incarné, Vol. I La Hiérarchie apostolique, p. 976, Ed. Saint Augustin Saint Just-la-Pendue 1998. Il grassetto è di Mons. Pivarunas.
5) Pio IX, con la Costituzione apostolica Cum Romani Pontificibus del 4 dicembre 1869, avendo indetto il Concilio Vaticano I, si preoccupò di precisare le condizione dell’elezione pontificia, in caso di sua morte durante il Concilio. Sull’esempio di Giulio II (durante il quinto concilio lateransense) e di Paolo III e Pio IV (in occasione del concilio di Trento) stabilì che l’elezione era di spettanza esclusiva del Collegio dei Cardinali, con esplicita esclusione dei Padri Conciliari (Insegnamenti Pontifici, La Chiesa, n. 326). Questa prescrizione è stata ripresa da San Pio X (Vacante Sede Apostolica, n. 28) e da Pio XII (Vacantis Apostolicae Sedis, dell’otto dicembre 1945, n. 33). La prescrizione non è solo disciplinare, ma ha un fondamento nel rifiuto delle teorie conciliariste.
6) Spiega Journet: “Nel caso che le condizioni previste fossero divenute inapplicabili, il compito di determinarne di nuove spetterebbe alla Chiesa per devoluzione, prendendo questo termine, come nota Gaetano (Apologia de comparata auctoritate papæ et concilii, cap. XIII, n° 745), non in senso stretto (in senso stretto la devoluzione è in favore dell’autorità superiore in caso di incuria da parte dell’inferiore), ma in senso largo, per indicare ogni trasmissione, anche se fatta a un inferiore” (op.cit., pp. 975-976).
7) Tommaso de Vio, detto Gaetano dal luogo di nascita (Gaeta), visse dal 1468 al 1533. Religioso domenicano nel 1484 iniziò l’insegnamento nel 1493. Fu Maestro generale dell’ordine dal 1508 al 1518, partecipò al V Concilio del Laterano e fu nominato Cardinale nel 1517. Nel 1518 fu legato della Santa Sede per procedere contro Lutero, lavorando alla stesura della bolla di Leone X, Exurge Domine, contro l’eresiarca. Vescovo di Gaeta nel 1519 fu ancora legato in Ungheria dal 1523 al 1524. È sepolto a Roma nella chiesa di santa Maria Sopra Minerva. “Il Gaetano è celebre per i suoi classici commenti a tutta la Somma teologica di san Tommaso, ai quali rimane legato il suo nome e la sua fama più duratura… Particolarmente attaccato alla Sede Apostolica, il Gaetano ne difese con profondità e brio le prerogative nel celebre trattato De auctoritate Papae con relativa Apologia, che stroncò le velleità conciliaristiche di Pisa (1511) e preparò in anticipo la condanna dell’errore gallicano. (…) San Roberto Bellarmino lo definiva ‘uomo di sommo ingegno e di non minore pietà” (Enciclopedia Cattolica, voce De Vio).
8) “Il primo opuscolo, intitolato ‘De comparatione auctoritatis Papæ et Concilii; fu composto dal Cardinal Gaetano – che lo finì il 12 ottobre 1511 – nell’arco di due mesi. Occasione di questo opuscolo era il Concilio scismatico di Pisa, indetto in quei tempi da alcuni cardinali contro Papa Giulio II; per cui l’Autore si impegna a confutare le tesi cosiddette Gallicane, sostenute fin dal XV secolo in occasione del Concilio di Costanza; innanzitutto la (tesi) di Occam e Gerson, che afferma la superiorità del Concilio sul Papa. Contro (questa tesi), Gaetano dimostra (…) che il Papa, in quanto successore di Pietro, gode del primato, ovvero della piena e suprema potestà ecclesiastica, con tutte le prerogative che gli sono annesse. Il Re di Francia Luigi XII sottopose quest’Opera all’esame dell’Università di Parigi, che affidò la difesa [della propria posizione] al giovane e facondo autore Jacques Almain. Poiché questi compose l’opuscolo ‘De auctoritate Ecclesiæ, seu sacrorum Conciliorum eam repraesentantem, contra Thomam de Vio, Dominicanum’ (Parigi, Jean Granjon, 1512), Gaetano rispose con un altro opuscolo, ovvero l’‘Apologia de comparata auctoritate Papæ et Concilii’, portato a termine il 29 novembre 1512” (nostra traduzione dal latino dell’introduzione di Padre Pollet, o.p., alla riedizione dei due opuscoli del Gaetano, fatta a cura dell’Angelicum, a Roma, nel 1936).
9) “Examinata comparatione potestatis Papæ ad Apostolos ratione sui apostolatus, comparanda modo est Papæ potestas Ecclesiæ universalis seu Concilii universalis potestati, nunc quidem absolute, postmodum vero in eventibus et casibus, ut promisimus. Et quoniam opposita iuxta se posita magis elucescunt, afferam primo rationes primarias in quibus consistit vis, quibus probatur Papam subesse Ecclesiæ seu Concilii universalis iudicio. Et ne contingat sæpius Ecclesiam et Concilium iungere, pro eodem sumantur, quoniam non nisi sicut repraesentans et repraesentatum distinguuntur”.
10) Diciamo “imperfetto” perché, in assenza del Papa, un Concilio generale è appunto imperfetto (cf De comparatione, n° 231, parlando del Concilio di Costanza che si riunì per l’elezione di Martino V), in quanto privo del suo Capo, il quale è il solo a potere convocare, dirigere e confermare un Concilio ecumenico (can. 222; Gaetano, op. cit., cap. XVI). Ricordiamo che – secondo il Gaetano – è lo stesso Concilio generale imperfetto che ha il compito di deporre il Papa eretico (n° 230).
11) “I prelati che sono a capo su di un proprio territorio separato da ogni diocesi,, con clero e popolo, sono detti Abati o Prelati ‘nullius’, cioè di nessuna diocesi…” (can. 319). I Prelati o Abati nullius devono avere le stesse qualità richieste nel vescovo (can. 320§2) ed hanno lo stesso potere ordinario e gli stessi obblighi del vescovo residenziale (can. 323§1) del quale portano l’abito e le insegne liturgiche (can. 325) anche se fossero privi del carattere episcopale.
12) Gli altri Abati ed i superiori delle religioni clericali esenti pur non avendo giurisdizione su di un territorio hanno giurisdizione su delle persone (i propri sudditi) indipendentemente dal Vescovo diocesano. Sono quindi degli Ordinari, anche se non degli Ordinari di luogo (can. 198). Anche in questo caso il criterio per partecipare al Concilio è la giurisdizione e non l’ordine episcopale.
13) Giacché questa posizione rifiuta la successione materiale sulle sedi episcopali, ammessa invece dal sedevacantismo ‘formaliter’ ma non ‘materialiter’ di padre Guérard des Lauriers.
14) Ho già provato altrove (F. Ricossa, Le consacrazioni Episcopali, C.L.S. Verrua Savoia 1997) come la Chiesa insegni che il Vescovo non riceve la giurisdizione da Dio mediante la Consacrazione, ma solo mediante il Papa, anche se il Vaticano II insegna il contrario. Contro questa dottrina insegnata ripetutamente dal magistero ordinario non serve obiettare con esempi storici di elezioni (e consacrazioni) episcopali durante la sede vacante. Queste elezioni dimostrano solo la non illiceità – in caso di sede vacante ad esempio – di consacrazioni episcopali, ma non dimostrano che gli eletti godessero della giurisdizione episcopale, che ricevettero solo, con la conferma della loro elezione canonica, dal nuovo Papa. Ciò non toglie che essi potessero credere in buona fede di avere giurisdizione ancor prima della conferma papale, giacché la dottrina che noi difendiamo (secondo la quale la giurisdizione episcopale viene dal Papa e non dalla consacrazione) è stata precisata dal magistero in periodi successivi a questi fatti storici, mentre era ancora discussa al Concilio di Trento. Segnalo tra l’altro come la dottrina di Gaetano a questo proposito – anche in questo fedele discepolo di san Tommaso – è quella che abbiamo ricordato (cf n°267).
15) Journet conclude rinviando al Dictionnaire de théologie catholique, alla voce Election des papes, per “un esposizione storica delle diverse condizioni nelle quali i papi sono stati eletti”. Ne approfitto per notare quanto sulla questione che stiamo trattando (e non è l’unico caso) il DTC sia deludente. L’estensore della voce “elezione dei papi” infatti si limita ad una esposizione storica omettendo invece il ben più importante punto di vista teologico e dommatico: un punto di vista che ha tratto in inganno – per omissione – non pochi lettori e studiosi.
16) Camillo Card. Mazzella, De Religione et Ecclesia, Praelectiones Scolastico-Dogmaticae,Roma, 1880. Ringrazio Mons. Sanborn, che anni fa mi ha segnalato questa citazione (mentre la colpa della traduzione è tutta mia).
17) Cf San Pio X, ep. Ex quo nono 26/12/111910, DS. 3555, ove viene condannato l’errore opposto professato dagli scismatici orientali. Recentemente invece Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha negato che la Chiesa fosse una monarchia.
18) È stato il caso – tra gli altri – del “veggente” del Palmar de Troya, Clemente Dominguez, che sarebbe stato eletto Papa direttamente dal Cielo dopo la morte di Paolo VI.
19) L’editore Delacroix, ad esempio, ha pubblicato le “Visions de la Vénérable Elisabeth Canori Mora sur l’intervention de Saint Pierre et Saint Paul à la fin des temps” presentando il libretto come una conferma delle conclusioni del libro di don Paladino, L’Eglise eclipsée?, libro pubblicato dal medesimo editore, dove si accenna (p. 274) a queste e altre profezie.
20) Per completezza, riporto la risposta che Mons. Sanborn dà ai sedevacantisti che – implicitamente o esplicitamente – ritengono possibile invece la soluzione del Conclave: “D. Perché il sedevacantismo completo non è una soluzione?
R. Perché priva la Chiesa della possibilità di eleggere un successore legittimo di san Pietro. Esso distrugge fondamentalmente l’apostolicità della Chiesa.
I sedevacantisti completi cercano di risolvere il problema della successione apostolica in due modi. Il primo è il conclavismo. Essi sostengono che la Chiesa è una società che ha il diritto intrinseco di eleggere i propri capi. Ne consegue che il piccolo resto dei fedeli potrebbe riunirsi e leggere un Papa.
Dato e non concesso che una simile impresa possa essere portata a compimento essa solleva alcuni problemi. Primo: chi sarebbe legalmente designato per votare? Come sarebbero designati legalemente questi elettori? Secondo: in nome di qual principio i cattolici potrebbero essere obbligati a riconoscere come legittimo successore di san Pietro colui che vincerebbe una simile elezione? Di fatto il conclavismo non è altro che un elegante eufemismo per designare il regno dell’anarchia dove vige la legge del più forte. La Chiesa cattolica, non è anarchia, ma una società divinamente costituita, retta dalle sue proprie regole e da leggi proprie. In terzo luogo, ed è il punto più importante, non è lecito passare dal diritto naturale che hanno gli uomini a scegliersi dei capi, al diritto di leggere un Papa. La Chiesa non è un istituto naturale allo stesso titolo di una società temporale. I membri della Chiesa cattolica non hanno alcun diritto a designare il Romano Pontefice. È Cristo stesso che all’origine ha scelto san Pietro per essere il romano pontefice ed in seguito le modalità di designazione sono state fissate legalmente”. Mons. Donald J. Sanborn, Explanation of the Thesis of Bishop Guérard des Lauriers, 29/06/2002. Presso l’autore: Most Holy Trinity Seminary 2850 Parent Warren, Michigan 48092 USA bpsanborn@catholicrestoration.org.
21) Quanto abbiamo affermato non è in contrasto con quanto scritto da Mons. Guérard des Lauriers nella medesima intervista pubblicata sul n. 13 di Sodalitium: “in mancanza di M. [ovvero della persona morale – i Vescovi residenziali – abilitati a convocare un Concilio generale imperfetto ove si porrebbero le monizioni canoniche a Giovanni Paolo II] non esiste una soluzione ‘canonica’! Gesù solo rimetterà la Chiesa in ordine, nel e col Trionfo di Sua Madre. Sarà allora evidente per tutti che la salvezza sarà venuta dall’Alto” (p. 30). Questo intervento divino, infatti, non sarà contrario alla divina costituzione della Chiesa quale è stata stabilita da Gesù stesso. Un ritorno dei Vescovi e/o del “papa” materialiter alla professione pubblica della Fede sarebbe (sarà) d’altra parte un miracolo di ordine morale talmente straordinario da eguagliare la conversione di San Paolo. In quali circostanze ciò avverrà, lo ignoriamo.
22) Al proposito il lettore potrà leggere con profitto quanto scritto da Padre Goupil s.j. (L’Eglise, quinta ed., 1946, Laval, pp. 48-49) ed il commento che ne fa B. Lucien (La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise, Bruxelles, 1985, p. 103, n. 132). Vedi anche F. Ricossa, Don Paladino e la Tesi di Cassiciacum, Verrua Savoia, pp. 12-22).
23) B. Lucien, La situation actuelle de l’autorité dans l’Eglise. La Thèse de Cassiciacum, Bruxelles, 1985, capitolo X. D. Sanborn, De Papatu materiali, Verrua Savoia, 2001. La rivista Le sel de la terre contesta, nel suo numero 41, la dimostrazione data da don Sanborn. Ritorneremo sulla questione nel prossimo numero.
24) Lucien, op. cit., p. 107.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/lelezione-del-papa/

1 2 3 4 5 6 7 106