IL MONDO AD UN BIVIO: SOVRANISMO ECONOMICO O GLOBALIZZAZIONE?

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di Luigi Copertino

La svolta protezionista di Trump nello scenario economico mondiale ha provocato una ridda di polemiche il cui livello si sta dimostrando miserevole e talvolta miserabile. La discussione infatti – guidata dalla sinistra per l’incapacità della destra di impadronirsi della narrazione mediatica – si è focalizzata sulla diatriba “anti-sovranismo” vs “sovranismo” facendo scadere il dibattito su un piano di così basso spessore da non riuscire a dar conto di quale sia la vera posta filosofico-politica in gioco.

Sia l’auto-centrismo nazionale sia il liberoscambismo prima di essere dottrine economiche sono dottrine politiche fondate su diverse visioni filosofiche, non senza richiami teologici. Entrambe le dottrine colgono soltanto un lato della realtà nella complessità del suo darsi e, pertanto, se portate all’estremo rischiano di produrre effetti perniciosi. Se il nazionalismo economico portato all’eccesso rischia di rovesciarsi in autarchia assoluta alla lunga insostenibile – una cosa è però l’auto-centrismo, altra la pretesa di una autarchia solipsista; auto-centrico, ad esempio, e non autarchico, è l’approccio keynesiano ma anche quello della nazional-economia ordoliberale –, il liberoscambismo dogmatico sancito, a suo tempo, dal “Washington consensus”, per supportare la globalizzazione capitalistica, ha aperto la via per un ulteriore accentramento della ricchezza a favore dell’Occidente e al suo interno a favore delle classi ricche dedite alla finanza speculativa.

In una visione politica attenta all’antropologia tradizionale, e non negatrice della spiritualità costitutiva e strutturale dell’uomo, l’auto-centrismo, per il suo richiamo ad un ordine ontologico di ambiti dimensionali dell’esistenza umana, se non si chiude in una idolatria tribale, è più del liberoscambismo in linea con la concezione metafisica del mondo.

Il mercato non può sussistere senza essere inquadrato in un superiore contesto giuridico, politico, etico. Il dato storico ci dice che esso non è mai esistito in forma autonoma ovvero libera. Parlare di “libero mercato” è parlare di una chimera. Storicamente il mercato è sempre stato soggetto, secondo molteplici modalità, al primato del Politico, nelle sue varie forme epocali, ed è sempre stato incorporato in un contesto comunitario perché l’uomo è, per natura, chiamato a vivere in comunità con gli altri suoi simili. Qualsiasi pretesa individualistica e solipsista è contro natura.

È necessario che il mercato, quale componente dell’economia, pur nella giusta considerazione delle leggi a questa proprie, resti all’interno del suo ambito che, nella tripartizione tradizionale dumeziliana, è il terzo, dopo il Sacro e il Politico. Ciò significa che le leggi dell’economia, le quali regolano il mercato e che tuttavia sono dinamiche e non fissate ab aeterno, non possono darsi come indipendenti da quelle proprie delle superiori dimensioni spirituali, etiche, politiche e giuridiche nelle quali si svolge la vita umana e nelle quali l’uomo, essere multidimensionale, esprime sé stesso. “Il mercato dove possibile, lo Stato dove necessario”, per dirla con Giulio Tremonti.

La storia ci dice che l’economia di scambio, il mercato, è apparsa in fasi successive e tardive delle civiltà umane e quando è apparsa, pur modificando in parte le relazioni sociali all’interno dei gruppi umani e tra di essi, non si è mai affermata se non nel quadro ordinamentale ed etico-giuridico dipendente dall’ambito sovra-economico del Politico, a sua volta soggetto al Sacro. Possiamo riscontrare questa evidenza anche nella dinamica di sviluppo del mercato moderno. Esso si differenzia da quello antico perché strettamente connesso al modo di produzione capitalistico a tal punto da non essere più soltanto un sistema di scambio, come nell’età premoderna, ma un sistema, appunto, di produzione, basato sulla tecnica industriale, del quale lo scambio è soltanto una fase di processo. Il capitalismo, e quindi il mercato moderno, nasce all’interno dello Stato nazionale. Quest’ultimo è stato l’esito della razionalizzazione del mondo inaugurata dal razionalismo. Lo Stato nazionale per imporsi ha dovuto negare legittimità alle Autorità Universali premoderne, la Chiesa e l’Impero romano-cristiano, ma, dato che l’uomo è pur sempre homo religiosus, non ha potuto fare a meno di un fondamento religioso che si è costruito da sé attraverso la contraffazione/sostituzione della religione tradizionale a mezzo di religioni civili. Carl Schmitt ha parlato dello Stato moderno come del “primo agente della secolarizzazione”.

La storia del capitalismo, nel suo affermarsi e svilupparsi, è una storia dirigista

Muovendo dalle sue forme proto-capitaliste medioevali fino all’epoca della piena maturità coincisa con la Rivoluzione industriale settecentesca, il capitalismo ha assunto il volto che abbiamo conosciuto, almeno fino al XX secolo, all’interno della forma-Stato del Politico. Di conseguenza l’ambiente originario del capitalismo non è stato affatto il “laissez faire”, o comunque non solo esso, ma il dirigismo protezionista che nella storia dell’economia ha trovato diverse denominazioni: mercantilismo, colbertismo, bismarchismo, new deal, nazionalismo economico, americanismo. Insomma nell’economia capitalista, nell’economia moderna di mercato, lo Stato è una componente essenziale e imprescindibile, benché la sua presenza sia stata variamente modulata a seconda delle fasi storiche e delle scuole economiche prevalenti nei diversi periodi.

Il decollo economico degli Stati Uniti, che ha fatto di essi la più grande potenza nel XX secolo, è avvenuto mediante il dirigismo protezionista. Nell’Ottocento, non a caso, il colbertismo del XVII secolo assunse il nome di “sistema americano” e come tale fu importato, in polemica con il liberismo inglese di Adam Smith, nella Germania bismarchiana da Frederich List padre della scuola economica denominata “sistema di economia nazionale”. Frederich List, avendo soggiornato a lungo negli Stati Uniti d’America, ebbe modo di studiare le modalità dell’irruenta modernizzazione della giovane nazione scoprendo che alla sua fonte vi era il dirigismo protettivo, industriale-finanziario, di Alexander Hamilton. Il dirigismo hamiltoniano utilizzò la prima Banca centrale statunitense – fu suo merito convincere il governo americano a istituirla con mandato ventennale – per finanziare le industrie nascenti, le opere pubbliche e le infrastrutture, principalmente le ferrovie, necessarie, dopo l’acquisto della Louisiana dalla Francia, all’espansione verso ovest, che avvenne a danno dei nativi come degli spagnoli e dei messicani, ponendo così le basi per avviare la modernizzazione.

Hamilton era a capo del partito dei federalisti, che auspicavano un forte potere centrale. Egli trovò una forte opposizione da parte dei confederalisti che all’epoca erano denominati “democratico-repubblicani” (successivamente dalla loro scissione derivarono gli attuali partiti della politica bipolare statunitense). I confederalisti difendevano le prerogative dei singoli Stati ed erano capeggiati da Thomas Jefferson rappresentante di una linea “populista” e “ruralista”. I confederalisti di Jefferson avversavano il modello inglese della Banca centrale in quanto quella britannica, fondata nel 1694, era stato lo strumento della dominazione britannica sulle tredici colonie americane nonché la causa del loro indebitamento pubblico che le costrinse a soggiacere alla forte tassazione imposta dall’Inghilterra, principale motivo, poi, della Rivoluzione americana del 1795-96 che ebbe origine dalla rivolta antifiscale del 1773 ricordata come il “Boston Tea Party”. I Jeffersoniani sono stati gli esponenti di una linea politica anti-bancaria molto forte negli Stati Uniti. Gran parte delle idee in materia finanziaria di Ezra Pound derivano da questa eredità culturale statunitense. Tuttavia se avesse prevalso la linea jeffersoniana gli Stati Uniti non sarebbero mai diventati la grande potenza che sono oggi.

Il dirigismo hamiltoniano, invece, recuperava l’odiato strumento della Banca centrale per sottoporla al primato della sovranità nazionale – infatti la sua era una banca pubblica e non privata come quella inglese – onde farne un mezzo di sviluppo e modernizzazione anziché di speculazione a favore degli azionisti privati. Dopo l’esperimento di Hamilton, tuttavia, nel corso del XIX secolo gli Stati Uniti tornarono a respingere il modello central-bancario affidandosi al sistema privato delle banche pur conservando al governo il potere di emissione monetaria in difesa del quale, allorché si propose di introdurre il monometallismo aureo a copertura del dollaro anziché il precedente bimetallismo aureo-argenteo o di eliminare la banconota di Stato per far spazio a quella bancaria, irruppero sulla scena politica veri e propri movimenti popolari, come quello a favore dei “green backs” (biglietti verdi) coniati durante la guerra civile del 1861-65. La crisi del 1876, quella del 1893 e quella del 1912 misero in chiaro che lasciate a sé stesse le banche speculavano emettendo moneta in misura sovra-proporzionata rispetto ai depositi, provocando in caso di fallimenti bancari la corsa del pubblico agli sportelli per ritirare i propri risparmi. Ciò convinse gli stessi banchieri a chiedere al presidente Wilson la reintroduzione di una Banca centrale, l’attuale Federal Reserve, quale regolatrice dell’attività creditizia e quale supporto alle politiche economiche del governo intese sia alla stabilità dei prezzi sia al sostegno del più ampio possibile livello di occupazione. I liberisti, eredi della tradizione jeffersoniana, che nella forma “populista” sono una componente da sempre molto attiva nella storia statunitense e per i quali la moneta sarebbe esclusivamente una merce di scambio da sottrarre, in nome della libertà individuale o localistica di emissione, al potere di emissione e regolatorio dello Stato centrale, hanno sempre accusato il sistema central-bancario di essere causa dell’inflazione, ossia di essere strumento del complotto del governo e dei banchieri per frodare il popolo con quella tassa “occulta” che sarebbe appunto l’inflazione.

Il sistema di Hamilton, nei vent’anni nei quali la sua Banca nazionale pubblica fu operativa, funzionò molto bene almeno per gli Stati del nord della Federazione americana. Quelli del sud invece, nonostante l’originaria avversione dei democratico-repubblicani di Jefferson al modello finanziario inglese, scelsero di legarsi al libero scambio del cotone con l’Inghilterra. Il fatto era che gli Stati del sud orbitavano, per ragioni commerciali, nel sistema imperiale inglese all’interno del quale svolgevano il ruolo di fornitori di cotone a buon prezzo, possibile grazie alla manodopera schiavistica, in cambio dei prodotti manufatturieri inglesi. Questa fu la causa principale della guerra civile di secessione del 1861-65. Tutta la questione della polemica sulla schiavitù, pur importante, non era a tal punto dirimente da provocare un conflitto intestino come invece lo scontro tra due modelli di economia, quello dirigista–protezionista e quello liberoscambista.

Liberoscambismo e asimmetricità

La stessa Inghilterra, patria della Rivoluzione industriale e alfiera del liberismo, nella fase di avvio della sua modernizzazione ha praticato dirigismo e protezionismo, per difendere l’industria nascente. Ma, poi, forte della posizione dominante acquisita, quale prima nazione industrializzatasi, è passata quasi immediatamente al liberoscambismo. Il quale, pertanto, nel XIX secolo è stato lo strumento ideologico dell’imperialismo britannico – “Rule, Britannia” – facendo dello scambio asimmetrico il pilastro del sistema. Il liberoscambismo, per l’inevitabile diseguaglianza di condizioni tra i popoli del mondo, in qualsiasi sistema di mercato unificato favorisce l’asimmetria di forza e posizioni tra le sue componenti. Così era in quello inglese nell’Ottocento, così è oggi nella Ue, così è per l’odierna globalizzazione.

Nel sistema liberoscambista è imprescindibile la suddivisione del lavoro, con i rispettivi “vantaggi competitivi”, tra il centro e la periferia. Il primo in posizione di egemonia economica e la seconda subalterna. Alla periferia, infatti, è assegnato il ruolo di fornitrice di materie prime e di prodotti agricoli. Per il paradigma liberoscambista la periferia, poco o non industrializzata, ha il suo vantaggio competitivo nel settore primario. Il centro, invece, ovvero il Paese o i Paesi tecnologicamente più avanzati, ha il proprio vantaggio competitivo nella manifattura. Tale vantaggio sta, quindi, nel produrre manufatti da rivendere in periferia la quale li acquista con la liquidità ottenuta dal centro con la fornitura ad esso delle materie prime e dei beni agricoli. In tal modo il flusso monetario che dal centro va verso la periferia ritorna al centro dalla periferia. Il liberoscambismo, in altre parole, dietro la retorica della libertà di commercio, si risolve in uno scambio asimmetrico che, in barba alla presunta reciprocità dei rispettivi vantaggi competitivi, legittima l’egemonia del più forte e la sudditanza del più debole.

Qualsiasi tentativo di creare un apparato produttivo autonomo, in casa, da parte della periferia è bollato come una violazione anti-economica della libertà di commercio fondata sulla legge, presuntamente scientifica, dei reciproci vantaggi competitivi tra i membri del sistema internazionale di scambio senza frontiere. Chi nella periferia del sistema tentasse di intraprendere una via di autonomia economica – oggi diremmo tentasse di liberarsi dai vincoli esterni – diventerebbe ipso facto un criminale, un attentatore del “naturale” ordine economico internazionale. Analogamente al diritto internazionale umanitario transnazionale, l’attuale “ordine mondiale basato sulle regole”, nasconde, e giustifica “moralmente”, una realtà di rapporti di forza. Quella dei vantaggi competitivi, lungi dall’essere una legge naturale, è soltanto la giustificazione, paludata di presunta scientificità, dei rapporti di egemonia sussistenti nelle relazioni economiche internazionali.

Se ai tempi del vecchio impero inglese la divisione internazionale del lavoro era quella tra industria manufatturiera, riservata alla potenza egemone, e agricoltura, lasciata alla periferia subalterna, lo schema oggi, con la globalizzazione finanziaria avviata alla fine del XX secolo, è stato aggiornato. Ora ad essere spazio riservato alle potenze egemoni, quelle occidentali, è il terziario avanzato, in particolare la finanza e la tecnologia digitale, mentre l’industria manufatturiera è delegata ai Paesi in via di sviluppo a motivo del basso costo ivi praticato per la manodopera non specializzata necessaria alla produzione industriale di base. Ma, a distanza di trent’anni dai fasti globalisti, l’Occidente si è accorto di aver provocato in casa una disastrosa deindustrializzazione, con ripercussioni drammatiche sull’occupazione. Una, nel breve termine, irrecuperabile perdita di know how industriale e, insieme, la destabilizzazione dei sistemi di welfare con decrescita del grado di socializzazione del mercato in precedenza raggiunto. Ad aver tratto vantaggio dalla deindustrializzazione sono stati i ceti parassitari – novelle aristocrazie peggiori delle antiche le quali perlomeno svolgevano una funzione guerriera di difesa – che vivono, in luogo di quella terriera, della rendita finanziaria e borsistica a danno dell’economia reale.

Dirigismo e modernizzazione. Il “dirigismo liberista”

Il sistematizzatore sul piano teoretico della dottrina liberoscambista è stato David Ricardo. Egli considerò “ordine naturale” ciò che in realtà era soltanto l’esito di un processo storico che aveva assegnato all’Inghilterra, prima nazione industrializzata, un primato di efficienza economica tale da consentirle di esercitare il proprio vantaggio competitivo su tutti gli altri. Ma il resto del mondo non accettò l’“ordine naturale” né la legge dei vantaggi competitivi sicché il liberoscambismo, giustificazione teoretica dell’imperialismo inglese, fu ben presto contestato, come si è detto, da un lato dagli Stati Uniti – prima che anch’essi diventassero alfieri del liberoscambismo una volta assurti a potenza egemonica mondiale – e dall’altro lato dalla Germania guglielmina la quale invece seguì il sistema di modernizzazione di List e Hamilton. Tra le cause della prima guerra mondiale bisogna annoverare anche questo scontro di modelli economici. La Germania ottocentesca era una potenza emergente e la sua ascesa ricalcava le vie economiche che necessariamente qualsiasi nazione agli inizi della sua modernizzazione deve seguire, ossia liberarsi da vincoli esterni per attrezzarsi a produrre in proprio tutto ciò che le è possibile dotandosi di un apparato industriale. Che vuol dire modernizzarsi anziché restare, come accadeva agli Stati del sud della Federazione americana e alle colonie dell’impero inglese, nazioni arretrate e subalterne alla potenza dominante.

Nessuna nazione è transitata dall’economia agricolo-artigianale, premoderna, all’economia industriale attraverso il presunto spontaneismo del mercato. La modernizzazione è sempre stata attuata mediante politiche dirigiste e protezioniste. In ognuna delle successive fasi di modernizzazione. Non solo durante quella della prima rivoluzione industriale ma anche nella seconda, nella terza ed oggi nella quarta rivoluzione caratterizzata dalla cibernetica. Internet nasce come Arpanet nell’ambito dello sviluppo dei sistemi di comunicazione della difesa americana ossia nell’ambito statale per eccellenza. Anche la Cina ha seguito la strada inevitabile del dirigismo per raggiungere il suo grado attuale di sviluppo. Infatti se è vero che l’economia cinese è decollata allorché si è aperta al mondo, in particolare con il suo ingresso nel WTO, attirando gli investimenti esteri con il suo basso costo del lavoro, è altrettanto inoppugnabile che i leader cinesi hanno implementato, sull’eredità del monopartitismo maoista, un sistema dirigista di controllo e direzione della modernizzazione. Ad esempio imponendo ai capitali stranieri di entrare in join venture, sostenute dallo Stato, con la emergente imprenditoria cinese, in modo da acquisire il know how necessario ad introdurre l’economia capitalista ma sotto il controllo pubblico.

La Cina è diventata una grande potenza industriale attraverso politiche economiche dirette dall’alto che hanno contribuito in modo determinante a creare il mercato interno mentre la globalizzazione rendeva possibile la facile esportazione dei suoi prodotti manufatturieri verso un Occidente che, suicida, aveva intrapreso la strada della deindustrializzazione, nell’illusione, alimentata dalla follia “escatologica” della fine della storia proclamata da Francis Fukuyama, di poter vivere di rendita finanziaria, senza produzione industriale e con una economia specializzata in servizi tecno-digital-finanziari. Una prospettiva corrispondente alla visione del mondo del nuovo capitalismo finanziario volto a fare denaro dal denaro, incurante della desertificazione industriale e occupazionale che veniva a crearsi alla base della piramide resa così instabile dal vuoto sottostante alla sovrastruttura finanziaria che, alla lunga, ha alimentato la rivolta populista dei ceti medi e operai impoveriti. Una rivolta che si esprime nell’ascesa dei leader sovranisti i quali promettono politiche di difesa nazionale auto-centrica.

Esiste tuttavia anche un “dirigismo liberista”. Esso agisce a un livello più ampio con le stesse modalità con le quali, a suo tempo, lo Stato nazionale ha agito per dissolvere l’organicismo tradizionale onde favorire la modernizzazione all’interno delle sue frontiere. Come, infatti, lo Stato nazionale ha liquefatto i legami comunitari tradizionali per mettere di fronte, senza più corpi intermedi, lo Stato e l’individuo, oggi le organizzazioni transnazionali della globalizzazione dissolvono, o manipolano, lo Stato nazionale, che rappresenta nel globale un corpo intermedio, per mettere il singolo, o le comunità minori, in diretto contatto con il mercato mondiale quasi senza più alcuna mediazione statuale. Se la prima modernizzazione ha ricreato nuove forme di organicità, si pensi ai sindacati, oggi non sembra invece darsi, nella fase post-statuale dell’odierna globalizzazione, alcuna riproposizione di aggregazioni comunitarie se non nella esplosione violenta e facilmente dissipabile dei populismi (salvo che essi non assumano una struttura culturalmente più solida, ma in genere si tratta di fenomeni legati ad un leader e quindi suscettibili dei suoi umori e delle sue sorti).

Il “dirigismo liberista” praticato dalle organizzazioni transnazionali, propugnatrici del globalismo mercatista, si appoggia sulla cultura woke-green perché questa mistura di marxismo culturale ed ecologismo deindustrializzante è funzionale allo scopo della denazionalizzazione, destatualizzazione e, soprattutto, della finanziarizzazione dell’economia. Da un lato, in nome di un terzomondismo rousseviano che vede nei popoli extra-occidentali soltanto dei buoni selvaggi sempre per definizione vittime innocenti, l’intera storia euro-occidentale viene tacciata di “suprematismo” e dall’altro viene colpito come anti-ecologico – le icone artificiali alla Greta Thunberg servono a questo scopo – l’apparato industriale in modo da far accettare la sua delocalizzazione secondo lo schema liberoscambista aggiornato. Se il marxismo culturale (nel quale giunge a capolinea l’essenza libertario-individualista del pensiero di Marx) è diventato egemone negli Stati Uniti, l’ecologismo deindustrializzante è diventato la bandiera della tecnocrazia eurocratica di Bruxelles e sta provocando l’esodo della industria europea verso Cina e Stati Uniti. Non a caso questi ultimi, prima con Biden e ora con Trump, hanno introdotto provvedimenti intesi a favorire questo esodo. L’Occidente, e in esso l’Europa per prima (che poi Occidente nel senso inteso oggi, ossia una unica realtà a trazione americana, non è affatto), si va suicidando secondo una molteplice linea di eutanasia culturale, politica, sociale, economica.

Astrattezza del liberoscambismo

Quella sottesa al paradigma liberoscambista è una logica astratta, avulsa da ogni concretezza, che avrebbe un senso e potrebbe trovare un riscontro effettivo nella dinamica storica soltanto se la modernizzazione avesse preso le mosse congiuntamente e contemporaneamente in ogni parte del mondo ed avesse seguito un andamento costante dappertutto. Se così fosse stato lo scambio concorrenziale tra nazioni tutte del medesimo livello di sviluppo e di capacità produttiva sarebbe stato consequenziale e anche inevitabile onde superare lo scenario localistico che è chiaramente un limite al faustismo tecno-produttivo (denominato più cordialmente “crescita”), con la sua spinta all’arricchimento, insito nel capitalismo. Ci sia consentito annotare, incidentalmente, che in un’ottica religiosa, ovvero in una prospettiva che indica quale fine ultimo dell’uomo non quello della conquista del mondo ma del Cielo, un tale limite è giusto ed etico. Non così tuttavia nella prospettiva capitalistica e questo dovrebbe far molto riflettere sui modi e possibilità, sempre precarie, di convivenza tra lo “spirito del capitalismo” – per Amintore Fanfani, grande storico dell’economia, il capitalismo prima di essere un metodo di produzione è una “spirito” – e la spiritualità religiosa, cristiana in particolare.

Il problema è che l’astrattezza del paradigma liberoscambista cozza inevitabilmente con la realtà e con l’effettivo dato storico che parlano invece di non contemporaneità e di diseguaglianze nella dinamica della modernizzazione. Alla fine ci saranno sempre nazioni più forti di altre che finiranno per imporre lo schema “inglese” dello scambio asimmetrico tra centro e periferia. I percorsi storici hanno mostrato che, dopo l’avvio del decollo industriale, le nazioni le quali raggiungono un livello di solida potenza industriale abbandonano il protezionismo dirigista e sposano il liberoscambismo per imporre, con le buone o con le cattive, l’apertura dei mercati esteri alle proprie produzioni senza troppi corrispettivi e reciprocità, per il semplice fatto che la modernizzazione non è mai un fatto contestuale e contemporaneo. Fu, ad esempio, il caso del Giappone che, alla metà del XIX secolo, fu costretto manu militari da Stati Uniti, Inghilterra e Russia, ad aprire i propri porti al commercio estero. In tal caso, tuttavia, l’esito non fu di subordinazione in quanto l’evento provocò la fine del potere feudale degli shōgun e, con la cosiddetta Restaurazione Meiji, l’accentramento del potere nell’imperatore con l’inizio di una politica dirigista che, mentre importava dall’estero tecnologia e know how produttivo, favorì l’accumulazione interna del capitale e quindi la formazione di un capitalismo nazionale, mentre non migliorava affatto la sorte dei contadini trasformati in operai.

I tentativi messi in atto dalle organizzazioni transnazionali per appianare dislivelli e ritardi non raggiungono, o raggiungono in modo molto precario, l’obiettivo della reciprocità perché le asimmetrie corrispondono a differenziazioni, tra nazioni, legate a molteplici fattori, religiosi, culturali, storici, ma anche all’evidenza del fatto che come non esiste alcuna eguaglianza meccanica tra gli uomini così non esiste alcuna eguaglianza meccanica tra i popoli. L’Universalismo è legittimo sul piano spirituale e trascendente ma non su quello immanente. All’Uno trascendente corrisponde la molteplicità immanente e tentare di omologare in una artificiale unità orizzontale ciò che è molteplice è un forzare la natura delle cose con inevitabili rovesci e fallimenti. Resta quindi quale unica via realistica, per uno sviluppo autonomo e paritario di ciascuna nazione, quella di un ragionato ed equilibrato auto-centrismo che sappia, però, restare aperto allo scambio con l’estero laddove non fosse possibile produrre in proprio, o per le eccedenze della produzione interna, ma senza cadere in vincoli esterni o transnazionali.

L’idolatria del mercato e il peccato dimenticato

Il liberoscambismo altro non è che il liberismo applicato ai rapporti economici internazionali. Come il liberoscambismo anche il liberismo è caratterizzato da astrattezza e da una insanabile mancanza di aderenza al dato reale e alla storia. Questa mancanza è tornata di recente a far capolino nelle parole di Javier Milei, presidente dell’Argentina, in quel di Davos, in un discorso tenuto nella riunione annuale del Word Economic Forum, allorché egli ha negato la possibilità che il mercato fallisca

«Non ci sono fallimenti del mercato (…) – questo è il passaggio cruciale del suo discorso – poiché il mercato è un meccanismo di cooperazione sociale in cui i diritti di proprietà vengono scambiati volontariamente. Il presunto fallimento del mercato è una contraddizione in sé; l’unica cosa che genera questo intervento [pubblico] sono nuove distorsioni del sistema dei prezzi, che a loro volta ostacolano il calcolo economico, il risparmio e gli investimenti e quindi alla fine finisce per generare più povertà o un sudicio groviglio di regolamenti, (…) che uccidono la crescita economica. Se pensi che ci sia un fallimento del mercato, vai a controllare se non c’è di mezzo lo Stato, e se lo trovi non rifare l’analisi perché è lì lo sbaglio».

Il liberista, Milei lo dimostra, adora il mercato come il suo “dio infallibile” e odia lo Stato come un “satanasso”. Ma la realtà e la storia ci dicono che Autorità politica – in età moderna, lo Stato – e mercato non si danno mai separatamente e che il secondo non può sussistere senza la prima. Milei è stato, insieme a Giorgia Meloni, uno dei pochi leader stranieri invitati al rito di insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Sarebbe bello sapere cosa egli pensa della politica protezionista del nuovo Presidente americano dato che essa è esattamente una delle forme della da lui odiata presenza dello Stato nell’economia. Se tale presenza è ora reintrodotta da un Presidente americano sì sovranista ma di un sovranismo liberista, come quello al quale lo stesso Milei e la nostra Meloni guardano, non sarà forse perché il mercato, il mercato internazionale, senza quella presenza, garanzia per l’industria e l’occupazione nazionale, fallisce endogeneticamente, e non per induzione esogena della mano pubblica, nella promessa di reciproco arricchimento tra le nazioni?

Nel discorso di Milei il grado di astrazione è a tal punto esorbitante che egli propone una immagine idilliaca, armonica, ordinata del mercato quale ambito di pacifica cooperazione sociale nello scambio vantaggiosamente reciproco dei diritti di proprietà. Una visione idilliaca che esclude pedissequamente qualsiasi inferenza verticale e trascendente, tutto risolvendosi in un panorama esclusivamente orizzontale. Se, poi, nella realtà la proprietà è accentrata e non diffusa, per cui non tutti possono disporre del suo diritto e della sua sostanza, o se la ricchezza è maldistribuita proprio a causa della tendenza del capitalismo all’accumulazione senza redistribuzione o, ancora, se si palesa la tendenza a comprimere, in modo costante, i salari a vantaggio dei profitti con la conseguenza, secondo un periodico andamento ciclico, della contrazione della domanda e dell’innesco di dinamiche deflazioniste, tutto questo viene completamente ignorato e negato nella visione artificiale di Milei.

Abbiamo imparato che lo Stato non è infallibile perché fallibili sono gli uomini che gli danno vita e solo un approccio ideologico può ritenere lo Stato una deità. Analogamente, il liberismo, finisce per negare la realtà, insieme al dato fattuale della esperienza storica, perché come tutte le ideologie – anch’esso è una ideologia – dimentica che gli uomini, che nel mercato agiscono, non sono perfetti perché la natura umana è ferita dall’egocentrismo, in termini teologici si chiama “peccato originale”. Per questo neanche il mercato è infallibile. Quella ferita impedisce qualsiasi spontanea armonia sociale, qualsiasi spontanea cooperazione sociale. Sotto il profilo spirituale, l’armonia e la cooperazione sono state una realtà soltanto prima del peccato originale e possono ancora esserlo soltanto laddove interviene dall’Alto la Grazia a trasformare nel cuore l’uomo, risanandone la ferita che si porta dentro. Il mondo, nelle sue interrelazioni con l’essere umano, dipende dallo stato di salute spirituale dell’uomo. Esso sta o cade con la ricezione dall’Alto dello Spirito, che rende armonico il rapporto tra l’uomo e il creato e tra gli uomini, o con il suo rifiuto. La pretesa di costringere la realtà dell’uomo, delle relazioni tra gli uomini, esclusivamente nel chiuso e asfittico recinto del calcolo economico, ritenuto espressione di una razionalità assoluta, infallibile e autoreferenziale, è segno di una mentalità costruttivista che palesa un retroterra occulto di superbia auto-deificatoria.

Ritorno al reale

Alla fine di tutto un dato storico è inoppugnabile. Le classi lavoratrici, almeno in Europa e nell’Occidente, hanno migliorato le proprie sorti sociali e economiche all’interno della struttura politica dello Stato nazionale. L’astratto internazionalismo di Marx – quello per il quale i proletari di tutto il mondo avrebbero dovuto unirsi al di là delle appartenenze nazionali – non ha mai trovato realizzazione, neanche nell’Urss essendo stato il comunismo sovietico, nella linea di Stalin e contro quella di Trockij, piuttosto un nazional-bolscevismo (quella sovietica era per il regime comunista una “patria”). Se l’internazionalismo marxiano è rimasto un mero concetto è perché si è scontrato con la realtà antropologica degli stessi lavoratori che in quanto uomini sono innanzitutto esseri appartenenti ad una comunità natia o di elezione. L’internazionalismo è contrario alla natura umana la quale è caratterizzata, tra le altre cose, dall’essere essenzialmente “radicata” in una patria sia essa organizzata o meno in Stato nazionale. Se l’internazionalismo marxista è fallito, prima di nascere, lo stesso può dirsi anche del cosmopolitismo capitalista e liberale con la differenza, però, che quest’ultimo è fallito, nel momento stesso nel quale ha trovato una realizzazione pratica in quella che chiamiamo globalizzazione, per l’incapacità di mantenere le sue promesse di pacificazione del mondo nella generale prosperità. Va detto, in verità, che nel perseguimento di una dimensione mondiale il capitalismo ha dovuto trasformare la sua natura da patrimoniale a finanziaria. Perché fin tanto che è rimasto patrimoniale, ossia capitalismo reale e produttivo, esso non ha potuto slegarsi dalle appartenenze nazionali per “volatilizzarsi”, deterritorializzarsi, denazionalizzarsi come gli è stato invece possibile nella sua transizione finanziaria post-moderna. Il primo capitalismo, quello produttivo, nella fase storica dell’Occidente caratterizzata dal colonialismo, era strettamente nazionale ovvero era strettamente legato allo Stato, sia per via della natura reale della patrimonializzazione, refrattaria all’immaterialità dell’economia finanziaria, sia perché la conquista delle risorse e dei mercati seguiva la politica nazionalista del tempo più che le astrazioni liberoscambiste. Anzi, come visto, quelle astrazioni servivano a nascondere le politiche imperialiste delle potenze egemoni.

È tuttavia indubitabile che, alla lunga, lo Stato nazionale, onde non deflagrare a causa del conflitto distributivo tra le classi sociali, non è rimasto – non poteva rimanere – inerte sul piano sociale sicché all’interno della sua cornice sono stati gradualmente riconosciuti i diritti del lavoro imponendo, con le buone o con le cattive, al capitale tale riconoscimento. Con la globalizzazione, invece, i ceti medi e popolari hanno visto ridurre le proprie conquiste sociali. La causa principale di questo indietreggiare sta nell’essere venuto meno il tendenziale primato della domanda interna sulla quale si fondavano le economie nazionali. Il ruolo soltanto complementare del commercio internazionale, strettamente controllato attraverso forme di protezionismo variamente graduato, e i rigidi limiti statali ai movimenti di capitale imponevano, nonostante ogni riottosità, agli industriali di dare il giusto peso al livello del reddito dei lavoratori perché esso, in un quadro auto-centrico, era la componente principale della domanda necessaria all’offerta. Allorché, invece, con la liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale, è diventata primaria la domanda estera il cosiddetto “compromesso keynesiano”, che ha retto l’economia occidentale per trenta/quaranta anni nel dopoguerra, è venuto meno con sicuri vantaggi per il capitale, tornato così ad accumulare senza però anche redistribuire come in precedenza, e altrettanto sicuro detrimento per i lavoratori i quali non solo hanno visto indietreggiare, per via della concorrenza sfrenata imposta dalla globalizzazione dei mercati, i salari ma hanno perso anche la tendenziale stabilità del posto di lavoro prima goduta.

Con Trump, dunque, sembra riaprirsi una stagione di nuovo auto-centrismo, con un ritorno al protezionismo. In molti prevedono guerre commerciali, in particolare con la Cina, e gravi problemi per l’Europa. Certamente giocheranno un ruolo importante anche fattori geopolitici molto delicati in uno scenario mondiale caratterizzato da tensioni e guerre, più o meno latenti. Uno scenario, che oltretutto, per via della nuova strategia trumpiana verso la Russia, vede la frattura dell’unità occidentale con l’Europa che paga il prezzo della sua stupida subalternità liberale agli Stati Uniti, per la quale ha lasciato cadere, contro il suo interesse, il rapporto, politico, economico e energetico, reciprocamente vantaggioso con Mosca, obbedendo ciecamente al diktat di Washington, che mirava a richiamare il suo vassallo all’ordine, in occasione della guerra russo-ucraina. Ora che l’amministrazione Trump la snobba, mentre tratta degli affari di diretta competenza europea esclusivamente con la Russia, l’Europa si mostra al mondo intero in tutta la sua impotente nudità di verginella sedotta e abbandonata. Ma, tuttavia, per quanto riguarda, il bivio della scelta del modello economico che il mondo ha di fronte, si dovrebbe quantomeno guardare alla storia la quale ci dice che il protezionismo, se ben pensato e calibrato, non è affatto quel male paventato giacché potrebbe riportare l’economia in un quadro nazionale, costringere il capitale ad un nuovo patto sociale, restituire ai lavoratori e ai ceti medi maggior potere contrattuale. Tutto sta a vedere se, anziché abbandonarsi allo strillare delle prefiche globaliste, di quelle eurocratiche in particolare, le classi politiche dirigenti delle diverse nazioni comprenderanno la necessità di tornare al reale – compreso il capitalismo reale – quindi ad una politica che non astragga dalla dimensione comunitaria, ossia dalla nazione organizzata a Stato, e da qui ripartire per costruire un ordine mondiale multipolare tra nazioni reciprocamente autonome e al tempo stesso, almeno per quelle di eguale livello economico, reciprocamente cooperanti su un piano di parità. Ma attraverso accordi bilaterali o plurilaterali e senza organizzazioni transnazionali che comprimano le sovranità nazionali e democratiche.

 

Fonte: https://domus-europa.eu/2025/02/18/il-mondo-ad-un-bivio-sovranismo-economico-o-globalizzazione-di-luigi-copertino/

Perché la Cina è, in Realtà, il Miglior Amico degli Stati Uniti

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di Matteo Castagna
Il 21 ottobre 2024, nell’ambito di alcuni incontri sull’economia internazionale presso il Council on Foreign Relations, l’Amministratore Delegato di MCC Production e membro del CFR, Michelle Caruso-Cabrera ha intervistato il principale analista del Financial Times, l’ottantenne Martin Wolf.
Egli dichiara che l’elezione di Donald Trump del 5 Novembre 2024 farà prendere al mondo una direzione che non si sarebbe mai aspettato, nel corso della sua lunga carriera.
Gli USA del tycoon vogliono recedere dalla globalizzazione. Sul piano mondiale, The Donald vorrebbe porre fine a quel ruolo messianico di “gendarmi del mondo” che gli americani si sono dati, almeno a partire dal 1945. L’idea che il compito dell’America fosse quello di andare ovunque a importare il suo modello di democrazia, per rendere “un posto migliore” questo e quell’altro Stato, si è dimostrata fallimentare, producendo nel corso degli anni, più malcontento internazionale, contro la una certa sua smania “egemonico-coloniale”, che effettivi benefici.
Per questo motivo, Trump vorrebbe distruggere il modello di Occidente, finora conosciuto, in cui gli USA hanno un ruolo primario e protettivo degli altri alleati – sostiene Martin Wolf – a favore di una loro maggiore autonomia e sovranità, che consenta al nuovo Presidente ed al suo governo di concentrarsi su quell’”America First”, di cui si fa da tempo portavoce. “Dati il suo ruolo e la sua potenza, l’idea che l’America possa ritirarsi dal mondo non arride a nessuno. Persino ai cinesi, questa prospettiva crea problemi”. Su questo torneremo dopo.
Secondo Wolf, “i cinesi si stanno impegnando con zelo a rovinarsi da soli”, di fronte al fatto che la loro paranoia stia nel fatto che il reale obiettivo degli americani sia quello di distruggere la Cina e non di contenerla, mentre secondo il noto economista “dovremo, in un modo o nell’altro, convivere con la potenza cinese”.
“Dobbiamo cercare di cooperare in maniera pacifica con la Cina, quale superpotenza militare, al fine di garantire la nostra sicurezza nazionale”. Per far questo ed evitare che la competizione militare vada fuori controllo, sarà necessario uno sforzo imponente a livello politico-diplomatico, precisa Wolf.
Storicamente, egli è contrario ad implementare una politica industriale interna, come parrebbe voler fare Trump, in particolare su quella manifatturiera. “Il fatto è che in futuro – puntualizza Wolf – non ci sarà nessuno a lavorare in fabbrica: fra trent’anni faranno tutto le macchine e i robot. Dunque il tentativo di ricreare la vecchia classe degli operai è destinato a fallire”.
Perciò, la soluzione di Wolf sarebbe quella di investire nell’innovazione, “creando nuove industrie, e di punta, competitive a livello globale, che concorrano a rendere il mondo un posto migliore”. Sebbene egli ammetta che, per il momento, non vede qualcuno capace di realizzarlo, né in UE, né in USA. Ma auspica che gli USA riescano in fretta, perché la Ue è molto più indietro rispetto a loro in termini di PIL pro capite e totale, nonché la dinamica demografica è nettamente in favore degli Stati Uniti.
Investire nei settori tecnologici ed informatici è stata una carta vincente, sia per l’America, che per la Cina. L’Europa viene molto dopo e “sta affrontando una crisi economica molto, molto seria, con la diminuzione della produttività e della natalità, riducendo considerevolmente la sua competitività sui mercati globali”. Secondo Wolf, il rapporto Draghi sugli ultimi cinquant’anni, dimostra che l’Europa non è riuscita nell’intento di diventare una leader nelle tecnologie informatiche, soprattutto, attraverso il mercato unico europeo, che non ha funzionato.
Infine, l’economista del Financial Times, conclude con una battuta sulla Cina, che potenzialmente potrebbe rilanciare un modello economico prospero e vincente, mentre si limita e forse si limiterà alla vecchia politica industriale dirigista.
“Non credo che i leader cinesi abbiano intenzione di introdurre le innovazioni necessarie. Quindi il problema, risolvibile in teoria, resterà irrisolto. Ecco il senso di quanto ho detto prima: nel conflitto con la Cina, il migliore amico dell’America è, in realtà, la dirigenza cinese”.
Fonte: https://www.marcotosatti.com/2025/01/11/perche-la-cina-e-in-realta-il-miglior-amico-degli-stati-uniti-matteo-castagna/

Mercato del debito: zavorra per l’Africa

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Segnalazione Arianna Editrice

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi – 29/12/2024

Fonte: Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Da quando il suo debito è negoziato sui mercati internazionali, il problema per l’Africa si è fatto più critico. Alla fine del 2023, il 49% del debito africano era in mano di privati, cioè di fondi, di banche e di altri finanzieri internazionali. Si prevede che salirà al 54% entro la fine del 2024. Tra il 2015 e il 2022, per 49 dei 54 paesi africani i costi medi del servizio del debito sono aumentati dall’8,4% al 12,7% del pil. Secondo l’African Economic Outlook Report della Banca africana per lo sviluppo (AfDB), nel 2024 i paesi africani dovrebbero spendere circa 74 miliardi di dollari per il servizio del debito. Rispetto ai 17 miliardi del 2010. 40 dei 74 miliardi è dovuto a creditori privati.
Il vicepresidente e capo economista dell’AfDB, Prof. Kevin Urama, intervenendo il 30 novembre alla quinta sessione straordinaria del Comitato per la finanza e gli affari monetari dell’Unione africana, tenutosi ad Abuja, in Nigeria, ha affermato: “La mutevole struttura del debito verso i creditori privati comporta opportunità e sfide. Quando prendono a prestito sui mercati dei capitali internazionali, i paesi africani pagano interessi del 500% in più rispetto a quanto pagherebbero all’AfDB e alla Banca mondiale”. Si tenga presente che dal 2010 il debito pubblico dell’Africa è aumentato del 170%, in gran parte a causa dei problemi strutturali del sistema debitorio, dei recenti shock globali e delle sue note debolezze.
Una delle ragioni dell’alto costo è certamente la tendenza di utilizzare debiti a breve termine e, quindi, a interesse alti, per finanziare progetti di sviluppo a lungo termine. Lo chiede il mercato. Le implicazioni per la sostenibilità del debito nel medio e lungo periodo sono ovvie.  Come conseguenza, 20 paesi africani sono attualmente in difficoltà debitorie o ad alto rischio di esserlo, rispetto ai 13 del 2010.
Sempre secondo l’AfDB il rapporto debito pubblico/pil è mediamente cresciuto dal 54,5% del 2019 al 64% del 2020 per poi rimanere relativamente stabile.  Dal 2000 al 2021 23 paesi africani hanno cercato crediti sui mercati privati per un totale di 1.510 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza del debito pubblico verso l’estero è in dollari: nel 2022 circa il 70%, mentre quello in euro solo il 14,5%. Questa dipendenza dal dollaro è diventata nefasta quando la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse. Molti paesi coprono i deficit di bilancio non pagando, ma rifinanziando i debiti in scadenza, soprattutto verso i fornitori privati di merci e di servizi e verso i creditori istituzionali. Il pagamento degli interessi sul debito rappresenta, mediamente per l’Africa nell’ultimo decennio, il 12,7% del pil, mentre la spesa per la salute solo 1,8% e quella per l’istruzione il 3,6 %.
Nel suo Regional Economic Outlook per l’Africa sub sahariana di ottobre, anche il Fondo monetario internazionale ha dipinto un quadro preoccupante: “L’inflazione rimane a due cifre in quasi un terzo dei paesi. La capacità di servizio del debito è bassa e l’aumento degli oneri debitori sta erodendo le risorse disponibili per lo sviluppo. Le riserve valutarie sono spesso insufficienti.”. I paesi esportatori di materie prime e di petrolio sarebbero in maggiori difficoltà.  
Anche per tutte queste ragioni i leader africani chiedono riforme urgenti del sistema finanziario globale. Non vogliono essere le vittime delle speculazioni finanziarie e sulle commodity. Nello stesso tempo operano per un meccanismo di stabilità finanziaria regionale, per l’utilizzo delle monete locali nei commerci interafricani e, dove possibile, con il resto del mondo. In questo processo ci s’ispira alla Nuova Banca di sviluppo (Ndb) dei Brics.
Alla luce delle tensioni geopolitiche, dei rischi climatici e delle imprevedibili tendenze economiche globali, l’eccessiva dipendenza dell’Africa dai mercati esterni sta diventando sempre più problematica. L’AfDB enfatizza, perciò, la necessità di un sistema finanziario africano più solido e resiliente e di sforzi concertati per realizzare gli obiettivi d’integrazione economica a lungo termine del continente.
Molti paesi africani, tra cui la Nigeria, la più forte economia del continente, operano per stabilire istituzioni come l’African Monetary Institute e l’African Financing Stability Mechanism, sulla scia delle esperienze europee, che sono essenziali per raggiungere la convergenza macroeconomica, la resilienza finanziaria, l’indipendenza economica e l’autosufficienza del continente africano.
Queste problematiche economiche dei vari paesi africani non possono essere sottaciute o ignorate da chi – siano essi le amministrazioni americane, l’Ue e i vari paesi europei, a cominciare dall’Italia con il suo Piano Mattei – intende avere rapporti stabili con il continente. Si tratta in particolare di quei problemi finanziari strutturali globali che hanno ricadute nei paesi dell’Africa e del Sud del mondo. Sottovalutarli e non affrontarli vuol anche dire favorire un’incontrollata emigrazione di massa con i suoi effetti destabilizzanti.

 

Come sarà il 2024 dei mercati e dell’economia

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Segnalazione di Wall Street Italia

di Mariangela Tessa

Come sarà il 2024 sul fronte economico e geopolitico? Una risposta arriva da Visual Capitalist che, per il quinto anno di fila ha rappresentato in una infografica gli eventi attesi, le previsioni e i pronostici di analisti ed economisti, passando al setaccio oltre 700 analisi condotte da banche d’affari, società di consulenza, ma anche siti finanziari. Vediamo di seguito le principali previsioni per economia e mercati per il 2024.

Inflazione sempre in calo

Dopo il raffreddamento dei prezzi, che si è verificato in tutte le economie mondiali nel corso 2023, la maggior parte degli analisti si aspetta per quest’anno un proseguimento del trend verso i livelli target. Sebbene alcuni osservatori mettono in conto che l’ultimo tratto di questi obiettivi potrebbe essere il più difficile, pochi prevedono la possibilità che l‘inflazione torni a salire come nel 2022.

Tassi di interesse: iniziano i tagli

Con un’inflazione che dovrebbe essere in gran parte domata nel 2024, tutte le principali banche e istituzioni prevedono, entro la metà dell’anno, tagli dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve, della Banca Centrale Europea e della Banca d’Inghilterra.  Le previsioni degli analisti sull’entità del taglio dei tassi variano da tre a sei.

Mercati positivi, ma occhio alla diversificazione

In vista di un anno caratterizzato da politiche monetarie espansive, la maggior parte degli analisti ha formulato previsioni provvisoriamente positive sia per le azioni che per le obbligazioni. Il calo dei tassi dovrebbe far scendere anche i rendimenti obbligazionari, mentre le azioni dovrebbero continuare a beneficiare  della crescita dell’Intelligenza Artificiale.

La parola d’ordine per chi vuole investire è diversificazione del portafoglio. Quest’ultimo è un approccio chiave condiviso dalla maggior parte degli analisti per gli investimenti nel 2024, soprattutto in presenza di un clima geopolitico preoccupante.

Pil mondiale: si rallenta

Le prospettive di crescita in tutto il mondo non sono particolarmente brillanti. Per quanto riguarda il PIL mondiale, le stime oscillano tra il 2,5 e il 3%, leggermente inferiori alla media decennale (2013-2022) del 3,1%.

Anche per gli Stati Uniti si prevede un rallentamento della crescita: l’FMI stima un aumento del Pil dell’1,5% dal 2,4% del 2023. Peggio andrà in Europa: nel Vecchio Continente il consensus stima una crescita dello 0,9%.

Spostando lo sguardo all’Asia, molti esperti prevedono il sorpasso dell’India sulla Cina in termini di crescita del PIL reale, soprattutto se continuerà il trend di riduzione degli investimenti esteri visto a Pechino.

Geopolitica sempre più centrale per i mercati

Dopo che negli ultimi due anni la geopolitica è tornata in primo piano con l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra di Israele contro Hamas, gli esperti non si aspettano un miglioramento del quadro a livello mondiale.

Non a caso, molti analisti citano, quello geopolitico, come il rischio principale a cui prestare attenzione nel 2024. Motivo per il quale, come già anticipato, è richiesto, negli investimenti, un posizionamento agile e diversificato.

Le prospettive per le guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas sono altrettanto incerte: pochi o nessun esperto prevede una vera soluzione per entrambi i conflitti nel 2024, mentre la maggior parte cita come scenari più probabili un’ulteriore escalation e il coinvolgimento di altri Paesi.

Sul fronte politico, il 2024 si prospetta come un anno chiave per via delle elezioni. Oltre che negli Stati Uniti, il 2024 sarà un anno di consultazioni politiche in Russia, l’Ucraina, l’India, il Messico e molti altri Paesi.

Intelligenza artificiale: dopo boom, norme più stringenti

Uno sguardo infine all‘Intelligenza Artificiale. Dopo il boom del 2023, l’intelligenza artificiale dovrà affrontare un altro anno cruciale. Se da un lato, anticipano gli esperti, i progressi sul fronte tecnologico saranno inevitabili, dall’altro normative più rigide e controversie legali saranno sempre più centrali, come dimostra la causa intentata dal New York Times contro OpenAI.

Inoltre, il crescente potenziale di uso malevolo dell’IA in occasione delle numerose elezioni mondiali di quest’anno potrebbe stimolare le richieste di una maggiore e più stringente regolamentazione.

Lo sviluppo su larga scala delle infrastrutture russe

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La Russia continua a trarre le giuste conclusioni sia dalla propria storia che da un’esperienza globale di successo. Lo sviluppo fondamentale e il rinnovamento delle infrastrutture (fondamenta industriale e logistica, – un insieme di imprese, istituzioni, sistemi di gestione, comunicazioni e così via, che forniscono e servono l’attività economica della società) è diventato molte volte l’inizio delle più grandi trasformazioni economiche positive di tutti i tempi in tutto il mondo e in ogni momento. Se vuoi fare un grande salto economico, sviluppa uno dei principali ed enormi moltiplicatori economici: le infrastrutture.

Ecco alcuni esempi dei più grandi progetti infrastrutturali di tutto il mondo che hanno dato origine alla successiva crescita economica:

 Il Piano statale per lo sviluppo dell’elettrificazione dell’industria dell’energia elettrica nella Russia sovietica (GOERLO) creò le basi per il successivo “miracolo economico stalinista”;

 Dal 1933 al 1939, i lavori pubblici per costruire svincoli autostradali, superstrade e superstrade negli Stati Uniti permisero agli stati di evitare le peggiori conseguenze della “Grande Depressione” – fame diffusa e rivoluzione tra i disoccupati, che, grazie alla pre-depressione ” un’abile politica economica” è apparsa in abbondanza;

 La rete di autostrade ad alta velocità, un gran numero di centrali idroelettriche, linee ferroviarie e ponti ad alta velocità e di altro tipo della RPC sono diventati una delle pietre miliari più grandi per rendere il Regno di Mezzo o Regno di Mezzo una superpotenza economica mondiale, non solo un “fabbrica del mondo”.

Questi esempi sono solo una parte di una pratica globale sostenuta. Non per niente lo stesso potere delle legioni romane poggiava, tra le altre cose, sulla sviluppata rete di strade romane e sulla base del miracolo economico britannico, che costituì la base per la prima istituzione della Gran Bretagna come “fabbrica mondiale” ” e poi, come superpotenza del suo tempo, fu lo sviluppo logistico dei fiumi piccoli ma veloci e della ruota idraulica, e solo successivamente del carbone e del vapore. Le grandi trasformazioni economiche furono sempre guidate dai più grandi progetti infrastrutturali dell’epoca.

Ecco perché oggi la Russia, reimpostando la propria economia sui binari di un nuovo ciclo di industrializzazione su larga scala, pone grande enfasi sullo sviluppo di progetti infrastrutturali. Alla loro realizzazione serviranno sia il resto dell’economia sia la necessaria prosecuzione dello sviluppo del nostro vasto territorio.

Questa tendenza è confermata non solo dai sostanziali stanziamenti del bilancio federale e dai programmi separati del governo russo, ma anche dalle dichiarazioni del presidente e comandante supremo della Russia Vladimir Vladimirovich Putin. Il terzo giorno ha annunciato la prevista realizzazione delle fasi di tutti i progetti infrastrutturali in Russia e i trilioni di rubli che lo Stato stanzia per la trasformazione delle infrastrutture russe.

“Questa è probabilmente la cosa più importante: la stabilità del sistema finanziario ed economico e del settore reale dell’economia. Bene, oltre a questo, stiamo implementando tutti i nostri progetti precedentemente delineati. In termini di infrastrutture, capite, ragazzi , sono enormi (denaro), sono trilioni”, ha detto il Presidente durante un incontro con i partecipanti alla SWO.

Come ho già scritto nell’elenco delle principali opportunità per l’economia russa nel 2024 e oltre, lo sviluppo delle infrastrutture, della logistica, dell’edilizia abitativa e dei servizi pubblici è uno dei fattori chiave per la crescita futura sia della nostra economia per molti decenni a venire e la crescita della prosperità di tutti i russi senza eccezioni.

@Slavyangrad Canale Telegram

Microchip, eolico, solare: la Cina è già padrone assoluto

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di Matteo Milanesi

Sono passate pochissime settimane da quando, sulle colonne di questo sito, raccontavamo la crisi economica della Cina, che da luglio è entrata ufficialmente in deflazione. Le bisettrici dello stop sono essenzialmente tre: la questione immobiliare, il crollo delle esportazioni ed infine lo scarso livello dei consumi interni. Tre fattori che hanno inceppato l’economia di Pechino, la quale ha visto ridurre anche le aspettative della crescita del Pil di circa due punti percentuali e mezzo.

 

Il dominio della Cina

Ma è la transizione green che comunque permette a Xi Jinping di sorridere, dove la Cina sta conoscendo una crescita senza freni, in particolar modo nel settore del fotovoltaico. Tanto per dare qualche numero, tra le 10 top aziende mondiali del campo, ben 7 sono della Repubblica Popolare. Un monopolio che non riguarda solo le materie prime, ma come riportato dal Sole 24 Ore pure le componenti che aggirano intorno al fotovoltaico: silicio, pannello finito ed ogni anello della catena di produzione.

Ma il colosso non sembra volersi accontentare. Come riportato dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), la Cina nel 2022 ha quasi raddoppiato la capacità di produzione di silicio policristallino, un materiale utilizzato nei pannelli solari. Il tutto garantisce a Xi il 70 per cento dell’offerta mondiale, con stime di crescita che si aggirano fino al dominio del 90 per cento della produzione globale. Il dato si affianca al settore dei wafer, dove Pechino ha letteralmente monopolizzato l’intero ambito, arrivando a raggiungere punto del 97 per cento in termini di wafer utilizzati per i pannelli fotovoltaici.

Numeri che ricadono a cascata contro l’Europa e gli Stati Uniti, che nel percorso della transizione green si trovano ben più indietro rispetto al colosso cinese, reso ben più competitivo grazie ai suoi prezzi low cost, i quali agiscono come fossero una vera e propria spada di Damocle posta contro Ue e Usa.

 

Eolico e microchip

Eppure, le brutte notizie per l’Occidente non finiscono qui. Pure nel settore dell’eolico, trainato dai vertici di Bruxelles in un’ottica di sostenibilità ambientale, è sempre la Cina a minacciarci. Come riportato dall’inchiesta di Sissi Bellomo, sempre sulle colonne de Il Sole 24 Ore: “Il gigante asiatico si è mosso con decisione anche a valle della filiera, arrivando a produrre 1160 per cento delle turbine eoliche nel mondo”. Una politica che mette a rischio l’autosufficienza europea entro il 2030. Ed è da qui che il regime di Xi Jinping può contare sul monopolio dell’offerta di terre rare, seguita dall’esportazione di turbine low cost pure nel continente europeo, dove gli ordini sono crollati quasi del 50 per cento nel 2022. Male anche negli Stati Uniti dove, unitamente al Vecchio Continente, solo quest’estate sono saltati investimenti nell’eolico offshore per circa 33 miliardi di dollari, come calcolato dal Wall Street Journal.

Per approfondire:

A destare ulteriori preoccupazioni è poi il settore dei microchip, da cui si ricollega la questione di Taiwan. L’isola di Formosa, infatti, monopolizza il settore con la produzione del 65 per cento dei semiconduttori, percentuale che si alza oltre l’80 per cento se parliamo di quelli più avanzati. L’obiettivo di Xi Jinping, con l’invasione militare di Taiwan, sarebbe quello di mettere mano sulla tecnologia taiwanese, creando un connubio coi risultati record che Pechino sta ottenendo nel settore. L’aumento vertiginoso dei microchip cinese ha raggiunto il valore di 5 miliardi di dollari a giugno e luglio, il 70 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2021.

Uno sviluppo che alimenta tentazioni di protezionismo economico in Ue, non solo nel campo dei semiconduttori, ma pure nell’ambito dell’eolico e del fotovoltaico. Gli Stati Uniti già da tempo (prima con Trump alla Casa Bianca ed oggi con Biden) hanno optato per una politica di restrizioni e dazi verso Pechino. Sarà arrivato il momento anche per l’Europa?

 

Articolo completo: Microchip, eolico, solare: la Cina è già padrone assoluto (nicolaporro.it)

Batterie zinco aria: una nuova ricerca le indica come il futuro rispetto al litio

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di Giuseppina Perlasca

 

Il recente studio della Edith Cowan University sul progresso dei sistemi di batterie sostenibili suggerisce che le batterie zinco-aria siano un’alternativa migliore alle sostanze chimiche al litio. Il documento di ricerca che riporta la ricerca e i risultati è stato pubblicato sulla rivista EcoMat.

Il dottor Muhammad Rizwan Azhar della Edith Cowan University (ECU) ha guidato il progetto nel qaule si afferma che le batterie agli ioni di litio, le più diffuse attualmente, presentino troppi limiti legati al costo e alla disponibilità dei materiali rispetto alle alternative già disponibili

Spiega il ricercatore “Le batterie ricaricabili zinco-aria (ZAB) stanno diventando sempre più attraenti a causa del loro basso costo, rispetto dell’ambiente, elevata densità di energia teorica e sicurezza intrinseca. Con l’emergere sul mercato di veicoli a lungo raggio e aerei elettrici di prossima generazione, c’è una crescente necessità di sistemi di batterie più sicuri, più economici e ad alte prestazioni che possano superare le capacità delle batterie agli ioni di litio”.

Zinco-aria: come funziona questa batteria

Una batteria zinco-aria è composta da un elettrodo negativo di zinco e un elettrodo positivo di aria.

Finora il principale svantaggio di questi elettrodi è stata la potenza limitata, dovuta alle scarse prestazioni degli elettrodi ad aria e alla loro breve durata.

La svolta dell’ECU ha consentito agli ingegneri di utilizzare una combinazione di nuovi materiali, come carbonio, ferro  e minerali a base di cobalto, per riprogettare le batterie zinco-aria.

Il recente studio della Edith Cowan University sul progresso dei sistemi di batterie sostenibili suggerisce che le batterie zinco-aria siano un’alternativa migliore alle sostanze chimiche al litio. Il documento di ricerca che riporta la ricerca e i risultati è stato pubblicato sulla rivista EcoMat.

Il dottor Muhammad Rizwan Azhar della Edith Cowan University (ECU) ha guidato il progetto nel qaule si afferma che le batterie agli ioni di litio, le più diffuse attualmente, presentino troppi limiti legati al costo e alla disponibilità dei materiali rispetto alle alternative già disponibili

Spiega il ricercatore “Le batterie ricaricabili zinco-aria (ZAB) stanno diventando sempre più attraenti a causa del loro basso costo, rispetto dell’ambiente, elevata densità di energia teorica e sicurezza intrinseca. Con l’emergere sul mercato di veicoli a lungo raggio e aerei elettrici di prossima generazione, c’è una crescente necessità di sistemi di batterie più sicuri, più economici e ad alte prestazioni che possano superare le capacità delle batterie agli ioni di litio”.

Il dottor Azhar ha osservato: “Il nuovo design è stato così efficiente da sopprimere la resistenza interna delle batterie e la loro tensione era vicina alla tensione teorica, il che si è tradotto in un’elevata densità di potenza di picco e una stabilità di lunghissima durata. Oltre a rivoluzionare il settore dello stoccaggio dell’energia, questa svolta contribuisce in modo significativo alla costruzione di una società sostenibile, riducendo la nostra dipendenza dai combustibili fossili e mitigando gli impatti ambientali”.
«L’utilizzo di risorse naturali, come lo zinco proveniente dall’Australia e l’aria, migliora ulteriormente il rapporto costo-efficacia e la fattibilità di queste innovative batterie zinco-aria per il futuro», ha aggiunto il dott. Azhar.

Un accumulatore valido e affidabile

Il dottor Azhar ha affermato che, sebbene le risorse rinnovabili come l’energia solare, eolica e idroelettrica svolgano un ruolo fondamentale nel futuro dell’energia verde, non sono soluzioni completamente affidabili in quanto sono fonti di energia intermittenti.

“Grazie all’abbondanza di zinco disponibile in paesi come l’Australia e all’ubiquità dell’aria, questa diventa una soluzione di stoccaggio dell’energia altamente praticabile e affidabile”, ha spiegato il dott. Azhar. Nell’immagine: produttori mondiali di zinco

La riprogettazione delle batterie zinco-aria da parte dell’ECU avvicina l’Australia al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e dei traguardi stabiliti dall’Accordo di Parigi, stabilito alla fine del 2015 per sottolineare la necessità di risorse energetiche sostenibili per limitare il cambiamento climatico.

Ovviamente la produzione di batterie zinco-aria, dai costi frazionali rispetto a quelle al litio, spiazzerebbe queste ultime commercialmente. Una vera e propria rivoluzione nella mobilità elettrica che la potrebbe rendere conveniente. 

 

Articolo completo:

Dei veri disastri ambientali quasi nessuno parla

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EDITORIALE

di Gianpiero Bonfanti per https://www.informazionecattolica.it/2023/08/29/dei-veri-disastri-ambientali-quasi-nessuno-parla/

IL GOVERNO GIAPPONESE HA DATO IL VIA AL RILASCIO NELL’OCEANO GIAPPONESE DELL’ACQUA REFLUA RADIOATTIVA DELL’IMPIANTO NUCLEARE DI FUKUSHIMA SOTTOPOSTA A TRATTAMENTO

Giornalmente veniamo bombardati da messaggi assillanti che ci vogliono persuadere che siamo cattivi con la natura perché andiamo al lavoro con una vettura a benzina o a gasolio, oppure perché consumiamo troppa energia per riscaldarci o per cucinare.

Mentre ci raccontano che con la riduzione delle emissioni di CO2 risolveremmo ogni problema ambientale, dall’altra parte del mondo si combatte la vera lotta contro chi effettivamente sta causando disastri ecologici inimmaginabili.

È dei giorni scorsi infatti la notizia secondo la quale il governo giapponese ha dato il via al rilascio nell’Oceano Pacifico dell’acqua reflua radioattiva dell’impianto nucleare di Fukushima sottoposta a trattamento.

Ricordiamo che il disastro nucleare di Fukushima, avvenuto nel marzo del 2011 in seguito ad un terremoto con conseguente maremoto e tsunami, è ritenuto l’unico incidente, unitamente al disastro di Černobyl’ del 26 aprile 1986, ad essere stato classificato di livello 7 della scala INES (il livello di gravità massima degli incidenti nucleari).

Ancora oggi, a distanza di anni, il disastro mostra il suo aspetto distruttivo.

I test svolti sulle acque che verranno rilasciate nel tempo hanno mostrato concentrazioni di trizio – elemento radioattivo rimasto dopo il trattamento – inferiori allo standard di 1.500 becquerel per litro, che rappresenta il limite stabilito dalla società per il rilascio delle acque, e questo sversamento dovrebbe proseguire per i prossimi 30 anni fino ad esaurimento dell’acqua contaminata.

A tutto questo però i paesi dell’area non hanno reagito positivamente e molte proteste si sono accese.

Secondo AsiaNews “Pechino ha già bloccato l’importazione “totale” dei prodotti ittici provenienti dal Giappone. Una mossa che rischia di affossare le numerose attività legate alla ristorazione ispirata alla cucina nipponica da Hong Kong a Macao, fino alla Cina continentale. Tuttavia, vale qui ricordare che le stesse centrali nucleari cinesi rilasciano già da tempo acqua radioattiva e contaminata nei mari, senza – in questo caso – alcuna supervisione o controllo da parte delle agenzie internazionali e del settore, come sta avvenendo ora.”

Le operazioni del Giappone appaiono quindi ai più esperti come più “sicure” rispetto a quelle della Cina che dal 2020 hanno permesso di scaricare circa 143 trilioni di becquerel di trizio dalla centrale nucleare Qinshan III, nella provincia dello Zhejiang, secondo il quotidiano più diffuso al mondo Yomiuri Shimbun.

Anche a Seul in Corea del Sud le proteste si sono accese e la polizia ha arrestato alcuni manifestanti che cercavano di fare irruzione nella locale ambasciata nipponica mentre altre decine si erano riuniti davanti alla sede della TEPCO a Tokyo con cartelloni con scritte di protesta.

Ricordiamo che la Tokyo Electric Power Company (TEPCO) è l’impresa che operava sull’impianto di Fukushima al momento del disastro e che non avrebbe disposto misure di sicurezza adeguate al rischio sismico, non dotandosi di piani di contenimento danni né di adeguati piani di evacuazione. Di tutto ciò la TEPCO si assunse pubblicamente alcune responsabilità.

Anche la Corea del Nord ha preso una posizione perentoria contro questa azione del Giappone, ma il tutto sembra che non sia sufficiente per fermare la risolutezza nipponica.

Una questione da risolvere non proprio di poco conto, considerando anche che molto del cibo in scatola che troviamo nei nostri supermercati deriva proprio dalla pesca nell’Oceano Pacifico.

Ma di fronte allo scenario apocalittico di sversamenti di acque radioattive a mezzo di paesi poco inclini al rispetto ambientale, la propaganda diffusa nei nostri paesi continua ad essere quella delle case green, delle auto elettriche, dei pannelli fotovoltaici e delle pale eoliche.

Da notare che l’implementazione dei sistemi di cui sopra non farebbe altro che aumentare la produzione dei prodotti green fabbricati nei paesi asiatici e di conseguenza l’inquinamento in queste nazioni.

Le catastrofi ambientali causate da questi paesi sono di diversa natura, questa è una delle tante.

Invece di introdurre norme assurde e limitazioni paradossali, è necessario tentare di fermare queste condotte che sono da considerarsi dei veri e propri crimini contro l’umanità.

Soros si è arreso: addio all’Europa

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Il magnate cambia linea: “Stop ai finanziamenti per l’Ue”. Ecco quali saranno le mosse della sua fondazione internazionale

Ciao ciao Europa. È questo il messaggio lanciato dalla Open Society Foundations del magnate George Soros, che già a partire dal prossimo anno trasmetterà i finanziamenti fino ad oggi destinati al Vecchio Continente alla volta di altri Stati fuori dall’Ue. La ragione starebbe nel fatto che Bruxelles spende ormai da molto tempo denari a favore della tutela dei diritti umani, e che quindi l’azione della fondazione internazionale dovrebbe essere direzionata da altre parti.

Una motivazione, però, che ha sollevato più che dubbi anche tra le stesse Ong collaboratrici. Venerdì scorso, infatti, Soros ha inviato una lettera spiegando le motivazioni del proprio disimpegno, ma da qui si è scatenato un vero e proprio braccio di ferro con alcune associazioni. Tra queste, per esempio, incidono fortemente quelle ungheresi, secondo le quali la giustificazione addotta dal magnate sarebbe “un po’ contraddittoria”. E questo perché “il governo ungherese, ad esempio, non fa molto per le persone LGBTQ, anzi, in realtà è contro di loro. E per quanto riguarda la democrazia stessa, non solo in Ungheria, ma anche in altri Stati membri dell’Ue, non gode di ottima salute”.

Ma la vera svolta si è avuta qualche mese fa, quando al trono della OSF è arrivato il figlio Alex Soros, 37 anni, ora pronto a gestire il patrimonio da 25 miliardi di dollari del padre George. Fino a quel momento, come riportato sulle colonne del Domani, “i bilanci mostrano che nel 2016 erano indirizzati 143 milioni di dollari, nel 2017 oltre 154; nel 2019 ben 178, e 209 nel 2021”. Da giugno, invece, è arrivato il cambio di rotta.

Per approfondire:

La trasformazione è proprio legata all’erede nascente e studiante negli Usa, sempre più intenzionato a dirottare fondi ingenti verso le presidenziali 2024. Insomma, prima dell’Ue, conta più che mai la politica americana. Una scelta che per il cronista ungherese, Pál Dániel Rényi, comporterà licenziamenti massicci nel Paese governato da Orban. Tagli anche del 40 per cento della forza lavoro, che però alla famiglia Soros non sembrano più interessare.

Germania, allarme rosso

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Il governo tedesco conferma: “I dati non indicano ancora una ripresa”. Il caso dell’auto e i rischi per l’Italia

di Franco Lodige

La chiamavano la “locomotiva d’Europa”. La crescita era costante, le finanze dello Stato solide, la potenza politica inattaccabile. Era l’era di Angela Merkel, ormai finita da tempo. La guerra in Ucraina, i tentennamenti di Olaf Scholz e la chiusura del rapporto privilegiato col gas di Putin hanno trasformato la Germania. In peggio. Oggi l’economia tedesca affanna, la produzione industriale si è fermata, le vendite calano. A maggio è stata dichiarata la “recessione tecnica“. E anche il clima imprenditoriale generale è negativo. Segno che oggi Berlino non è più quella solida roccia che è stata nell’ultimo ventennio.

Allarme rosso in Germania

L’ultima notizia negativa è stata diffusa oggi dal ministero dell’Economia secondo cui non si intravede alcun miglioramento per l’economia tedesca. “Gli indicatori attuali non indicano ancora una ripresa economica sostenuta nei prossimi mesi”. Certo: i consumi privati hanno retto il colpo. Ma le “deboli condizioni esterne” rallentano la produzione e soprattutto le esportazioni, ormai al palo. I dati parlano chiaro: a giugno la produzione industriale è calata dell’1,3%, trainata verso il basso dal settore automobilistico e dalle costruzioni.

Il settore immobiliare fatica

I segnali sono sconfortanti. La società Project, che ha sede a Norimberga e investimenti per miliardi di euro in tutta la Germania, ha presentato istanza di insolvenza. Parliamo di qualcosa come 120 progetti di costruzione edile (pianificati o in costruzione) per 3,2 miliardi di euro, ma l’aumento dei costi di costruzione a seguito della guerra in Ucraina hanno dato il colpo finale. “Non è stato possibile trasferire questi aumenti di costo ai clienti”, ha fatto sapere la società, non l’unica in difficoltà in tutta la Germania: l’aumento dei tassi di interesse immobiliari e dei costi dei materiali hanno prodotto una raffica di insolvenze.

Germania, clima imprenditoriale negativo

Non che i professionisti se la passino meglio. Un sondaggio realizzato dall’Ifo tra i lavoratori autonomi registra un peggioramento drastico del clima imprenditoriale per i lavoratori autonomi tedeschi. L’indice elaborato dall’istituto è sceso a -16,4 punti a luglio dai -12,6 di giugno. “L’economia tedesca sta attraversando una fase di debolezza”, afferma Katrin Demmelhuber, ricercatrice dell’ifo. E anche “i lavoratori autonomi sono colpiti da questa situazione”. Senza contare che nei primi sei mesi del 2023 hanno cessato l’attività qualcosa come 50.600 medie imprese, con un aumento del 12,4% rispetto all’anno precedente. Il numero di insolvenze aziendali registrate è aumentato del 3,5% a maggio rispetto ad aprile e del 19% rispetto a maggio 2022.

La crisi tedesca

I motivi dietro la crisi tedesca sono numerosi. Negli ultimi anni la Germania aveva sviluppato un’economia decisamente rivolta verso Oriente: usava il gas della Russia e rivendeva beni a Mosca così come a Pechino. Nel primo caso i rapporti sono ai minimi termini a causa delle sanzioni. Nel secondo si sta realizzando un calo della fame cinese per il made in Germany. Soprattutto sul settore dell’auto, dove l’avanzata dell’elettrico sta dando un vantaggio competitivo alle aziende locali cinesi. Da gennaio a maggio del 2023, Volkswagen, Audi, Bmw e Mercedes hanno prodotto in Ue mezzo milione di vetture in meno rispetto al 2019. Un crollo del 20%. E se l’automotive tedesco tentenna, a rimetterci sono anche le aziende italiane.

Vero: se il Fmi alza le stime della crescita italiana e la pone al di sopra di quella tedesca un po’ di orgoglio nazionale è giustificato. Ma senza fuochi d’artificio. Come spiega Matteo Zoppas, direttore dell’Ice, la Germania è il nostro primo mercato e “rappresenta il riferimento per alcuni comparti primari come food, fashion e componentistica”. Se Berlino piange, insomma, Roma non può certo ridere.

Franco Lodige, 14 agosto 2023

Fonte: https://www.nicolaporro.it/germania-allarme-rosso/

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